ds_gen N. 8 – 2009 – Memorie//Africa-Romana

 

Copia di Foto AielloVincenzo Aiello

Università di Messina

 

I Vandali nel Mediterraneo e la cura del limes

 

 

(pubblicato in L’Africa romana. Ai confini dell’Impero: contatti, scambi conflitti. Atti del XV convegno di studio. Tozeur, 11-15 dicembre 2002, a cura di M. Khanoussi, P. Ruggeri, C. Vismara, Roma, Carocci editore, 2004, I, pp. 723-739)

 

 

Definire i modi attraverso i quali si è realizzato l’insediamento dei Vandali nell’Africa occidentale, individuare la loro «strategia mediterranea»[1], non è impresa agevole. Ancora grave è, per molti aspetti, l’eredità del pregiudizio antico nato dalla ostilità romana e cattolica verso un popolo di invasori ariani[2], amplificato poi dalla storiografica umanistica[3], per cui l’azione dei Vandali appare quasi esclusivamente qualificata come brigantaggio.

Infatti, nonostante che le ricerche degli ultimi cento anni, a partire dai lavori di L. Schmidt[4] e di C. Courtois[5] e grazie soprattutto alle campagne di scavo effettuate negli ultimi decenni a Cartagine e negli altri territori conquistati, abbiano decisamente mutato il quadro interpretativo di queste vicende, ancora oggi i rapporti dei Vandali con i territori esterni all’Africa, e soprattutto con l’Italia, appaiono sottovalutati[6].

[p. 724] Un contributo alla identificazione di quella ‘strategia’ credo possa venire dal tentativo di individuare in primo luogo l’esistenza di un limes vandalo, inteso ovviamente come sistema difensivo attuato a protezione di un territorio, e quindi i modi in cui è stato realizzato e salvaguardato.

Partiamo dal trattato del 442 d.C.[7]; esso giungeva dopo quello dell’11 febbraio del 435 d.C. - che aveva assegnato a Genserico, come federato, la Numidia, parte della Mauretania e della Proconsolare - e soprattutto dopo la ripresa della campagna di espansione che aveva portato alla conquista di Cartagine nell’ottobre del 339 d.C.[8]

Al di là delle diverse interpretazioni sul carattere istituzionale del nuovo insediamento[9], quel trattato del 442 d.C., come ha scritto Courtois[10], rappresenta in qualche modo la legittimazione della presenza vandala, che si realizza presumibilmente nella Numidia orientale, nella Proconsolare, nella Bizacena e nella Tripolitania occidentale[11].

Preoccupazione fondamentale dovette certamente essere la tutela dell’integrità territoriale[12]. Significativa per i Vandali era stata l’esperienza maturata nel corso della conquista dei territori africani, soprattutto il lungo assedio di Ippona, protrattosi per ben quattordici mesi[13].

[p. 725] Non fu certamente la sola. Narra Vittore di Vita che quando i Vandali incontravano una città fortificata, radunavano attorno alle mura una moltitudine di persone che venivano successivamente uccise, al fine di appestare, con il fetore dei loro corpi, gli assediati[14]. Al di là del patologico gusto del macabro presente in tutta l’opera di Vittore, traspare chiaramente la difficoltà dei Vandali, ma dei barbari in genere, a porre in atto funzionali tecniche ossidionali.

Proprio in virtù di un tale limite i Romani avevano potuto realizzare nelle terre di confine di un sistema di difesa in profondità[15], funzionale a spezzare e frammentare l’onda d’urto avversaria; tra III e IV secolo la realizzazione o il rifacimento di cinte murarie presso città di una qualche importanza, significava appunto costituire, in maniera forse non sempre del tutto consapevole, una linea di difesa in profondità[16]. Anche l’Africa ha conosciuto una simile strutturazione difensiva, con città fortificate e fortezze che non precludevano però il passaggio; presidiata da un esercito limitaneo di non grandi dimensioni, essa serviva più a regolare il passaggio alle popolazioni dell’interno che ad impedirlo[17].

Che fine abbia fatto questa linea difensiva durante il dominio vandalo non è facile a dire. Certo non è accettabile la notizia di generalizzate distruzioni di centri abitati e soprattutto delle mura che li circondavano, come riportato da Procopio, intenzionato a mettere in cattiva luce i Vandali e a dimostrare come le loro azioni fossero sempre improntate ad una pervicace volontà di distruzione[18] .

Tuttavia se da una parte ha trovato conferma l’abbattimento delle mura di Sullectum[19] e Hadrumetum[20] nella Proconsolare, e forse di Tipasa[21] in Numidia, dall’altro una cinta muraria rimase a [p. 726] Hippo Regius[22], a Cartagine[23] sulla costa e a Thamugadi[24] nell’interno ai piedi delle colline dell’Aurès occupate dai Mauri.

Un passo di Procopio è oltremodo interessante. In esso[25] si afferma che Genserico avrebbe, per precauzione, abbattuto le mura delle città dell’Africa, eccetto Cartagine, giustificando una tale scelta con lo scopo di non offrire al nemico, Romani o loro alleati che fossero, città fortificate che potessero diventare loro presidi. Ciò – continua Procopio – sembrava una saggia decisione al fine di garantire la sicurezza dei Vandali, ma si sarebbe risolta in una beffa – afferma lo storico – quando Belisario poté occupare facilmente quelle città senza mura.

In realtà, al di là del tentativo di deridere Genserico, e di fronte a precise testimonianze relative alla persistenza di numerose città fortificate, emerge, credo, una ben precisa strategia di Genserico, quella di tutelare il limes con il mantenimento di alcune città fortificate, probabilmente poche, che potevano essere efficacemente presidiate dalle sue truppe. Un tale impianto difensivo gli avrebbe permesso, con le forze a sua disposizione, di attuare una efficace difesa in profondità e al contempo, limitandone il numero, impediva al nemico di poterne utilizzare altre allo stesso scopo.

Parallela a questa esigenza dovette essere sentita anche quella di estendere questo limes sul mare. Decisiva fu certamente la conquista di Cartagine e la cattura della flotta soprattutto commerciale che in quel porto aveva base, come pure a Rusicade, Hippo Regius, Thabraca, Hippo Diarrhytus, Neapolis, Hadrumetum, tutte località presso le quali è attestata la presenza di flotte commerciali[26].

Una flotta fondamentalmente commerciale, che venne poi incrementata da nuove costruzioni come ricordato da Vittore di Vita, [p. 727] secondo il quale i vescovi cristiani esiliati in Corsica vennero costretti a tagliare i tronchi necessari alla costruzione di navi pubbliche (naves dominicae)[27]. Il possesso di quelle navi da trasporto significava, quindi, assicurarsi una mobilità che, in certo qual senso, compensava il non elevato numero di uomini in armi che Genserico aveva a sua disposizione.

Nel 440 d.C. Genserico allunga lo sguardo sulla Sicilia. Probabilmente l’attenzione dei Vandali per l’isola si era già manifestata negli anni precedenti. Prospero Tirone narra di azioni piratesche, con buona probabilità condotte dai Vandali, che, iniziate nel 437 d.C. e protrattesi per l’anno successivo, si erano indirizzate verso la Sicilia (multas insulas, sed praecipue Siciliam vastavere)[28].

Si tratta di un episodio molto importante; se veramente fu opera dei Vandali - e in verità non c’è motivo per pensare che altri ‘pirati’ potessero agire nel Mediterraneo occidentale in quel momento - si potrebbe pensare che in quella prima azione al di fuori delle coste africane, subito dopo il trattato del 435 d.C., lungo la rotta che portava in Italia, i Vandali non si siano limitati ad una semplice razzia, ma abbiano avuto l’occasione di valutare l’utilità di tenere la costa occidentale della Sicilia.

Nel corso di quella azione, infatti, potrebbero essersi resi conto delle potenzialità - soprattutto difensive a vantaggio dell’Africa - che la Sicilia e le isole circostanti offrivano: tenere le Egadi e Lilibeo significava proteggersi da qualsiasi attacco fosse venuto via mare, attacco che, come accadde, non poteva non avere la Sicilia come punto di appoggio. Una azione che dovette molto impressionare il governo di Roma: allorquando Valentiniano III, nel giugno del 440 d.C. emanò la Novella 9, con la quale avvertiva i propri sudditi del pericolo rappresentato dalle navi vandale[29], aveva probabilmente [p. 728] in mente i danni arrecati proprio dalla spedizione del 438 d.C.

A queste azioni seguì l’attacco portato nel giugno del 440 d.C. e protrattasi per alcuni mesi, probabilmente sino all’autunno[30]. Si trattò di una azione molto violenta, condotta con ostinazione da parte di chi, probabilmente, non era semplicemente interessato al saccheggio, ma si rendeva conto del valore strategico di quei territori; una azione che non interessò tutta la Sicilia[31], bensì la costa occidentale e precisamente le città di Lilibeo[32] prima e Palermo dopo.

L’assedio di Palermo, come testimonia Idazio - peraltro interessato ad evidenziare una motivazione religiosa come fondamento dell’azione vandala - fu lungo: Gaisericus Siciliam depraedatus Panormum diu obsedit[33]; una tale affermazione, pur tesa ad amplificare la resistenza degli assediati, indubbiamente dichiara l’interesse dei Vandali per la conquista di Palermo, come prima di Lilibeo, che non poteva certo dipendere dal furore religioso anticattolico, come Idazio e gli altri cronisti vogliono sottolineare, né tantomeno una operazione del genere poteva configurarsi come un atto di saccheggio.

C’è in Genserico, probabilmente, la consapevolezza del valore strategico di quei territori: controllare Lilibeo significava controllare un avamposto difensivo importante, collocata com’era la città, sulla rotta che congiungeva l’Africa con Puteoli e quindi Roma[34], quella rotta, ricordiamolo, lungo la quale il vescovo di Cartagine Quodvultdeus cacciato da Cartagine raggiunse Napoli prospera navigatione, nelle parole di Vittore di Vita[35]. Un’impresa, quella del [p. 729] 440 d.C., che non aveva ambizioni territoriali, come credeva Pace[36], ma che era probabilmente momento di elaborazione di un programma di difesa[37] e certamente di controllo della rotta che da Cartagine portava all’Italia.

A conferma dell’importanza strategica di quei luoghi, dai quali sarebbe potuto venire il pericolo per i Vandali, è il fatto che una forte armata fu inviata nel 441 d.C. da Teodosio II in Sicilia per rispondere alle richieste di aiuto di Valentiniano III, armata che tuttavia abbandonò ben presto l’isola richiamata dalla necessità di affrontare da una parte Attila che aveva invaso Tracia e Illirico[38] e dall’altra per fronteggiare la minaccia persiana[39].

Nella notizia di Prospero Tirone[40], già alla fine del 440 d.C. Genserico aveva lasciato la Sicilia ed era tornato a Cartagine per affrontare il pericolo rappresentato dal passaggio dalla Spagna in Africa del comes Sebastiano[41]. Prospero tuttavia si limita ad affermare che Gisiricus … celeriter Carthaginem redit: resta dunque incerto se i Vandali abbiano del tutto abbandonato Lilibeo e Palermo dopo essersi impegnati così a lungo (diu secondo Idazio)per conquistarle[42]. D’altra parte l’esercito romano resta in Sicilia poco, sino al 442 d.C.[43], un tempo tuttavia abbastanza lungo da poter far dire a Prospero che la permanenza di quelle truppe era stata per i Siciliani più dannosa che utile (Siciliae magis oneri quam Africae praesidio fuere)[44].

[p. 730] In realtà ci è ignota l’estensione dell’azione di Genserico; non sappiamo se oltre Lilibeo e Palermo vennero interessati altri centri dell’isola. È vero che Valentiniano III, secondo una costituzione lacunosa comunemente datata al 440/441 d.C., concesse in considerazione della barbarica vastitas la riduzione ad un 1/7 del canone tributario dovuto dai Siculi possessores, compresi quanti risiedevano nelle circumiectae insulae[45]; in realtà non sappiamo con certezza se le disposizioni di Valentiniano siano riferibili agli avvenimenti del 440 d.C. - concentrati nei luoghi - o se piuttosto siano da riferire alle azioni del 438 d.C.[46], allorquando, come notava Prospero, furono devastate dai pirati multae insulae fra le quali la Sicilia (e dobbiamo dunque pensare, data la non lunga durata dell’azione, alle isole del Canale di Sicilia, alle Egadi, alle Eolie e non alle altre grandi isole del Mediterraneo).

Torniamo al trattato del 442 d.C. Procopio ce ne ha conservato una clausola importante, che prevedeva il versamento annuale di tributi dall’Africa e l’invio del figlio di Genserico, Unerico, quale ostaggio a Roma[47]. Superata ogni perplessità sul fatto che queste clausole si riferiscano al trattato del 442 d.C. e non a quello del 435 d.C.[48], appare interessante l’ipotesi secondo cui Procopio definisce [p. 731] tributo (dasmo@v) quella che dovette essere probabilmente una sorta di garanzia dell’esportazione di grano verso Roma[49].

In realtà Genserico, nella stipula di quel trattato, aveva agito probabilmente da una posizione di forza. Esso giungeva a tre anni di distanza dalla conquista di Cartagine e a due anni dall’attacco a Lilibeo e Palermo, dopo cioè che erano state dimostrate in concreto le potenzialità militari dei Vandali; dalla parte opposta Valentiniano, privo, in quel momento e in quel contesto, di forze militari sufficienti[50] non aveva potuto fare altro che emanare la Novella 9, nella quale dopo aver detto che Genserico hostis imperii aveva lasciato il porto di Cartagine con una flotta e dunque cunctis litoribus erano da attendersi excursus e depredationes, l’imperatore dichiara di non potervi far fronte se non affidandosi alle difese dei presidi locali, all’auspicio di un intervento di Aezio e al prossimo arrivo delle armate inviate da Teodosio II.

Una posizione di forza quella tenuta da Genserico quando stipulò con Valentiniano III il trattato del 442 d.C., che fu resa esplicita anche dalla promessa di legame matrimoniale tra Unerico e la piccola Eudocia, figlia di Valentiniano, presentata però da Procopio nei termini di cui si è detto, con Unerico ostaggio di Valentiniano, al fine di permettere all’Occidente di salvare la faccia, secondo la felice formulazione di Clover[51].

Certo la situazione a Roma e in Italia era grave. La perdita del grano della Proconsolare, solo in parte compensato da quello proveniente dalle altre province africane, dalla Sicilia e dalla Sardegna, doveva aver messo in grosse difficoltà l’economia della penisola. Già nella primavera dello stesso 440 d.C., quando il quadro della situazione africana appariva già compromesso, Valentiniano aveva abolito il divieto per i mercanti greci di stabilirsi a Roma, una misura che è apparsa motivata dalla volontà di assicurare l’approvvigionamento alimentare della città[52].

Risulta difficile stabilire in quale quantità e per quanto tempo [p. 732] Genserico abbia continuato a rifornire Roma, e soprattutto è difficile stabilire con esattezza cosa sia accaduto della proprietà romana nei territori soggetti ai Vandali.

Procopio, in un passo molto noto[53], narra che Genserico aveva ridotto in schiavitù tutti i Romani più in vista per autorità e ricchezza, attribuendo i loro beni ai suoi figli. Avrebbe anche tolto le terre agli altri Romani, terre vaste e fertili, e le avrebbe distribuite alla popolazione vandala, immuni da ogni contribuzione fiscale; lo storico ammette, tuttavia, che non tutte le terre vennero divise fra i Vandali: alcune (quelle meno produttive) rimasero ai rispettivi proprietari, anche se gravate da una pesante tassazione.

Tuttavia, se da alcuni è stata considera attendibile l’ampiezza di queste requisizioni, anche di recente ne è stata ridimensionata la portata[54], a fronte del fatto che molti proprietari rimasero in possesso delle loro terre, che, come dimostrato dalle <<Tablettes Albertini>>[55], conservarono il precedente regime giuridico romano. Per questo appare ipotizzabile che l’attività agricola nell’Africa vandala rimase per buona parte attiva, con una significativa produzione di grano ed orzo, e poi certamente di olio e vino[56].

L’indagine archeologica ha mostrato come la diffusione di ceramica fine da mensa realizzata in sigillata africana, ben testimoniata nel bacino del Mediterraneo, assieme a quella dei nuovi contenitori per il trasporto delle derrate, come le anfore cilindriche di grandi dimensioni, siano il segno di un dinamismo produttivo e di una intraprendenza commerciale che in piena età vandala contraddistingue i territori africani, che evidentemente sono in grado di avere un surplus di prodotti da destinare all’esportazione; una vitalità commerciale certamente inferiore a quella che si riscontra sino alla fine del IV e agli inizi del V secolo d.C. ma che continua ad apparire significativa[57].

[p. 753] La stessa politica monetaria africana - largamente basata sull’argento e sul bronzo, nell’ambito di una protetta circolazione interna, ma che raccoglie l’oro dai territori romani[58] - è indizio di una consistente politica di esportazione[59].

Una intensità di rapporti economici, e presumibilmente di forniture alimentari, che però subì una riduzione nella seconda metà del V secolo d.C., allorquando un incremento nel flusso di derrate alimentari, soprattutto olio, di provenienza micro-asiatica e siro-palestinese comincia ad essere significativamente attestato verso Roma[60].

Tutto questo naturalmente non significa che per Roma e per l’Italia nulla fosse cambiato. Non sappiamo in che termini Genserico abbia regolato questo flusso di merci e soprattutto di grano verso Roma e l’Italia. Certamente la situazione alimentare dovette divenire grave, come testimonia la Novella 33 emessa nel 451 d.C. da Valentiniano che descrive una Italia afflitta da obscaenissima fames[61], tenuto conto anche del fatto che dopo il 439 d.C. l’Italia fu raggiunta da un numero considerevole di esuli che andavano ad appesantire una situazione già difficile[62] .

Certamente una evoluzione nella politica di Genserico si ebbe nel 455 d.C. dopo la morte di Valentiniano III. La scomparsa dell’ultimo erede della dinastia teodosiana e l’assunzione del potere da parte del senatore Petronio Massimo, capo dell’opposizione a Valentiniano, era ragione più che sufficiente per far comprendere a Genserico che si era rotto il fragile accordo fra Romani d’occidente e Vandali[63].

[p. 734] L’azione compiuta da Genserico il 2 giugno 455 d.C. con il saccheggio di Roma e il sequestro dell’imperatrice Edossia assieme alle figlie Eudocia e Placidia[64] - una azione drammatica, che peraltro ricevette non grande attenzione dai cronisti costantinopolitani[65] - non dovette, presumibilmente, perseguire soltanto un fine economico[66], quanto piuttosto quello di effettuare una dimostrazione di potenza, nei modi in cui Genserico era nelle condizioni di fare.

Interessante è infatti la notazione che possiamo leggere in Prospero, secondo il quale ad essere portati via da Roma furono migliaia di prigionieri, selezionando però quique aut aetate aut arte placuerunt, e dunque operando una accurata scelta[67].

Genserico non si fermò a questo: diede inizio ad una serie di azioni a lungo raggio lungo quattro diverse direttive: occupazione dei territori africani che erano rimasti soggetti a Roma, attacco alla Sardegna, alla Corsica, alle Baleari, ad Ibiza, attacco alla Sicilia meridionale sino allo stretto di Messina e all’Italia meridionale[68], attacco all’Illirico, al Peloponneso, al resto della Grecia[69]; un’attività che appare sostanzialmente confermata anche da un passo di Vittore di Vita[70]. Si tratta, ovviamente, di azioni che ebbero luogo in tempi diversi, con esiti diversi[71] e che non portarono certamente ad ampie conquiste territoriali. La Sardegna e la Corsica, cadute nell’influenza vandala qualche tempo dopo il 455 d.C., non conobbero probabilmente una vera e propria occupazione, essendosi i [p. 735] Vandali limitati al controllo di alcune zone costiere[72]; lo stesso può dirsi per le Baleari[73].

Per la Sicilia appare, come notato da Wilson[74], un quadro contrastante. Se esistono tracce significative di distruzioni databili all’età vandala come a Lilibeo e ad Agrigento, lo stesso non può dirsi per altri centri costieri, dove le conseguenze di questi attacchi furono certamente di portata minore[75]. In ogni caso appare difficile, anche per la Sicilia, ipotizzare un controllo vandalo esteso sulla totalità dell’isola, controllo che invece si sarebbe limitato ad alcune località sulla costa occidentale[76].

Al di là di questo, emerge, a mio parere, un dato interessante. [p. 736] Le direttrici lungo le quali si muovono le azioni vandale dopo il 455, al di là dell’espansione nei territori africani, sono sostanzialmente due.

Una è la direttrice Sardegna, Corsica, Baleari, che occupa punti strategici su alcune rotte del mediterraneo occidentale: una era quella che dalla Spagna (Cadice, Nova Carthago) attraverso le Baleari raggiungeva le Bocche di Bonifacio e poi la Sardegna e da qui l’Africa, lungo la quale transitarono, in età vandala, molte merci dirette in Spagna che diviene, ad opinione della Panella, una delle mete privilegiate del surplus produttivo delle regioni nord-africane [77]; e ancora una che congiungeva l’Africa con Ostia passando per Cagliari; e ancora una che partendo da Narbona e da Arelate raggiungeva la Corsica, sia attraverso le Bocche di Bonifacio che da nord, e da qui si poteva collegare sia con quella diretta verso Roma che con quella verso l’Africa[78].

L’altra direttrice delle azioni vandale è rappresentata da Sicilia, Italia meridionale, Illirico, Peloponneso, Grecia; una direttrice che segue perfettamente la rotta segnalata dall’Itinerarium Maritimum, che mette in comunicazione l’Africa con la provincia di Achaia attraverso la Sicilia, toccando Maritima, Lilibeo, Agrigento, Capo Pachino, Siracusa, Catania, Tauromenio, Messana, e quindi, sulla Calabria ionica, Reggio, Capo Zephyrio, Crotone, Leuca, Hydrunto e poi, attraversato l’Adriatico l’isola di Sason e Buthrotum in Epiro e infine Naupacto all’ingresso del Golfo di Corinto e che poteva poi collegarsi con quella che partendo dalla costa siro-palestinese raggiungeva Rodi[79]; una espansione verso Oriente che isolava ancor più Roma e l’Occidente[80].

Al centro di queste due direttrici è la Sicilia occidentale, dalla quale era possibile raggiungere Roma direttamente oppure costeggiando la costa tirrenica[81].

[p. 437] Certo, le azioni vandale si muovevano lungo quelle che erano le rotte note, che erano anche, però, le direttrici lungo le quali le merci africane continuano a muoversi lungo tutto il V e VI secolo d.C.[82]. Appare possibile, quindi, ipotizzare che le azioni di Genserico, che agli occhi dei Romani non potevano che apparire come razzie e saccheggi - perché anche questo dovettero essere - rispondessero nello stesso tempo ad altre esigenze, certamente quella di costituire un limes marittimo e forse, contemporaneamente, quella di garantire il controllo delle rotte commerciali.

Si trattava di una linea difensiva in profondità nel Mediterraneo, che vedeva come fulcro la Sicilia, il luogo dal quale i Vandali si aspettavano i pericoli maggiori, come in realtà accadde: sia nel 441 d.C. con l’armata inviata da Teodosio II[83], che nel 468 d.C. con la sfortunata spedizione di Basilisco che dopo la sconfitta di Capo Bon si ritirò in Sicilia[84], che infine con l’impresa di Belisario nel 533 d.C.[85]. Controllare la Sicilia significava certamente proteggere l’Africa, come - nella testimonianza di Procopio - avrebbero ricordato gli ambasciatori goti a Belisario nel corso della guerra in Italia, allorquando sostengono di essere disposti a cedere la Sicilia perché sapevano che senza di essa non sarebbe possibile proteggere l’Africa[86].

Controllare quelle rotte, costituire lì un limes marittimo significava certo realizzare una politica di blocco economico dell’Italia e delle province che dal Mediterraneo traevano linfa vitale[87]; ma forse c’era anche l’intento di controllare quei mercati imponendo le proprie merci, che, ricordiamolo, continuano a percorrere quelle rotte.

Come osservava Giunta, Genserico - che come molti capi barbari rifuggì da miraggi imperialistici a favore di una politica concreta, [p. 738] attuata però, aggiungo, in modo spregiudicato - non mirava alla conquista dell’impero, bensì ad impedire che Roma potesse riprendere possesso dei territori africani[88]. Era sostanzialmente una politica di difesa, messa in atto però da un numero limitato di uomini (in 80.000 circa di cui 15.000 in armi era giunti in Africa nel 429 d.C., anche se nel corso degli anni ci dovette essere un incremento demografico anche se non sappiamo esattamente di quale entità[89]) che operavano in un contesto ostile, con mezzi certamente inadeguati.

Proprio lo strumento principale per un controllo delle coste e dei mari, una consistente flotta da guerra, forse non è mai stata nelle disponibilità dei Vandali, che peraltro ben difficilmente in poco tempo avrebbero potuto acquisire le tecniche proprie della guerra sul mare. Quella che ebbero a disposizione fu una flotta composta da navi commerciali, in buona sostanza quella presente nei porti africani[90]. La controprova, come è stato notato[91], è nel fatto che nel 468 d.C. la flotta di Basilisco sia stata affrontata non con navi da guerra, bensì piccole lance infiammate.

Un limes mediterraneo che venne realizzato e protetto in forme forse non ortodosse. Procopio racconta che, dopo la morte di Valentiniano III, ogni anno i Vandali con l’aiuto di altre popolazioni africane dell’interno (definite genericamente Mauri), all’inizio della primavera facevano incursioni in Sicilia e in Italia, da alcune città prendendo schiavi tutti gli abitanti, altre radendole al suolo, e saccheggiando in ogni dove[92].

Ciò che appare singolare è la sistematicità delle azioni (ogni anno) e il periodo (la primavera) in cui si svolgono. Certo, ciò è [p. 739] da porre in relazione alla opportunità di una agevole navigazione offerta dalla buona stagione[93]; tuttavia se tali azione miravano esclusivamente al saccheggio, si svolgevano nel periodo sbagliato perché l’oggetto delle spoliazioni, presumibilmente prodotti agricoli, in primavera erano lungi dall’essere disponibili.

Tali azioni potevano invece avere lo scopo di disturbare le produzioni, di danneggiare le coltivazioni, in maniera tale da tenere sotto un giogo durissimo le popolazioni italiche e Roma, ma soprattutto la Sicilia, rendendo indisponibili parti consistenti di quelle risorse alimentari che sarebbero state necessarie a mantenere un esercito che dall’isola avrebbe dovuto prendere le mosse per attaccare l’Africa.

Che questi saccheggi avessero una funzione ‘politica’ traspare da una notizia di Prisco[94], secondo il quale nel 461 d.C. Genserico intensificò il saccheggio dell’Italia e della Sicilia allo scopo di sostenere al seggio imperiale Olibrio, sposo di Placidia, sua ospite in Africa[95].

Un limes marittimo che aveva la Sicilia come punto nodale, ma che comprendeva Sardegna, Corsica e Baleari. Una linea di confine di fondamentale importanza se, quando nel 533 d.C. le armate di Belisario si avvicinavano al territorio vandalo, Gelimero distolse un esercito guidato dal fratello Tzazon al fine di recuperare la Sardegna in mano all’usurpatore Godas, ritenendo dunque l’isola fondamentale per la difesa dello stato vandalo[96].

Nel 477 d.C. moriva Genserico; moriva colui che non fu certamente «il pirata descritto dai cronisti bizantini»[97] bensì il capo barbaro con decisione e in maniera spregiudicata, coerente e continua[98], riuscì a creare, con gli strumenti a propria disposizione, uno Stato autonomo in Africa e a controllare tutto il Mediterraneo occidentale, un mare che prima i Goti e poi i Germani non senza ragione potevano chiamare in antico tedesco Wentilseo, Mare Vandalo[99].

 

 



 

[1] La definizione è in M. Mazza, I Vandali, la Sicilia e il Mediterraneo nella Tarda Antichità, in Ruolo mediterraneo della Sicilia nella tarda antichità. Atti del IX Congresso internazionale di studi sulla Sicilia antica, Palermo 9-13 aprile 1997, «Kokalos» 43-44, 1997-98, pp. 107-38, spec. p. 114.

 

[2] Cfr., fra gli ultimi, le osservazioni di P. Delogu, Un bilancio delle ’invasioni’, in Le invasioni barbariche nel meridione dell’impero: visigoti, vandali, ostrogoti. Atti del Convegno svoltosi alla Casa delle Culture di Cosenza, 24-26 luglio 1998, Soveria Mannelli (CZ) 2001, pp. 377-88.

 

[3] Cfr. le osservazioni di C. Bourgeois, Les Vandales, le vandalisme et l’Afrique, «AntAfr» 16, 1980, pp. 213-28 e Mazza, I Vandali cit., pp. 118-20.

 

[4] L. Schmidt, Geschichte der Wandalen, München 19422; Histoire des Vandales, Paris 1953.

 

[5] Chr. Courtois, Les Vandales et l’Afrique, Paris 1955.

 

[6] C. Azzara, L’Italia dei barbari, Bologna 2002, spec. p.37, dove ai vandali di Genserico sono dedicate appena sette righe, nelle quali si pone l’accento esclusivamente sull’attività piratesca che partiva da diverse basi del Mediterraneo.

 

 

[7] In generale cfr. F. Ausbüttel, Die Verträge zwischen den Vandalen und Römern, «RomBarb» 11, 1992, pp. 1-20.

 

[8] Cfr. Courtois, Les Vandales, cit., pp. 171-85. Si vedano anche le osservazioni di E. Stein, Histoire du Bas-Empire, par J.-R. Palanque, Paris 1959, I, pp. 319-25. Sul valore simbolico della conquista di Cartagine cfr., fra gli ultimi, N. Duval, Les systèmes de datation dans l’Est de l’Afrique du Nord à la fin de l’Antiquité et à l’époque byzantine, «Ktema» 18, 1993, pp.189-211.

 

[9] Non è mia intenzione discutere in questa sede un problema molto dibattuto, che vede, da una parte, quanti ritengono che i Vandali abbiano costituito uno stato del tutto autonomo e quanti, invece, li considerano semplici foederati alla stregua della altre popolazioni barbariche insediatesi sul territorio romano. Per un aggiornato esame del problema cfr. Y. Modéran, L’établissement territorial des Vandales en Afrique, «AntTar» 10, 2002, 87-122.

 

[10] Courtois, Les Vandales, cit., p. 173.

 

[11] Sulla precarietà delle nostre informazioni a proposito dei reali confini del regno vandalo cfr. Y. Modéran, Les frontières mouvantes du royaume vandale, in Frontières de l’Afrique du Nord antique, Paris 1999, pp. 241-63.

 

[12] Cfr. H.-J. Diesner, Grenzen und Grenzverteidigung des Vandalenreiches, in Studi in onore di E. Volterra, 3, Milano 1971, pp. 481-90.

 

[13] Possid. Vita Aug. 28,12. Cfr. Courtois, Les Vandales, cit. , p. 163.

 

[14] Vict. Vit., 1,9.

 

[15] Sulla definizione cfr. E. N. Luttwak, La grande strategia dell’impero romano, tr. it. Milano 1986, pp. 171 ss.

 

[16] E. Gabba, Le strategie militari, le frontiere imperiali, in Storia di Roma, 4, Torino 1989, pp. 487-513, spcec. pp. 509-10.

 

[17] C. Daniels, Le Frontiere. Africa, in J. Wacher (a cura di), Il mondo di Roma imperiale, Roma-Bari 1989, pp. 147-295, spec. p. 295.

 

[18] Proc., Vand., 1,5; 15; 21.

 

[19] Proc. , Vand., 1, 16

 

[20] Proc., Aed. 6, 5, 3; 6, 6, 2.

 

[21] Così riteneva P.-M. Duval , Cherchel et Tipasa. Recherches sur deux villes fortes de l’Afrique romaine, Paris 1946, p. 66. Di parere diverso Courtois, Les Vandales, cit., p. 177 nota 9.

 

[22] Proc., Vand., 2, 4; Cfr. Courtois, Les Vandales, cit., p. 311 nota 3.

 

[23] Proc., Vand., 1,5; 15; 21. Cfr. Courtois, Les Vandales, cit., p. 311 nota 2.

 

[24] Proc., , Vand., 13, secondo cui le fortificazioni della città, ancora in piedi al momento dello stanziamento dei Vandali, sarebbe state distrutte dai Mauri, probabilmente dopo i dissidi scoppiati con i successori di Genserico.

 

[25][25] Proc., Vand., 1, 5.

 

 

[26] L. De Salvo, Economia privata e pubblici servizi nell’impero romano. I corpora naviculariorum, Messina 1992, 421-28. Sul porto di Hippo Regius cfr. K. Mansouri, Réflexions sur les activités portuaires d’Hippo Regius (Hippone-Annaba) pendant l’Antiquité, in L’Africa romana XIV, pp. 509-24. Cfr. B. Sirks, Food for Rome, Amsterdam 1991, spec. pp. 178-80.

 

[27] Vict. Vit., 3,20. Cfr. Courtois, Les Vandales, cit., p. 203 nota 4. Sul legname dell’isola particolarmente utilizzato per le costruzioni navali cfr. R. Zucca, La Corsica romana, Oristano 1996, p. 169.

 

[28] Prosp. Chron. 1330 (a. 437); 1032 (a. 438). Cfr. F. Giunta, Genserico e la Sicilia, «Kokalos» 2, 1956, pp. 104-41, spec. pp. 121-2.

 

[29] Giunta, Genserico, cit., pp. 122-3, «la confessione più esplicita di un imperatore consapevole della propria debolezza». Su questo cfr. F. Elia, Valentiniano III, Catania 1999, pp. 76-82. Nello stesso anno furono emanate altre disposizioni tutte tese a fronteggiare il pericolo rappresentato dai Vandali: Nov. 4 (24 gennaio), 5 (3 marzo), 6 (20 marzo); anche la ricostruzione delle mura di Napoli (CIL X, 1485) sembra rientrare fra queste iniziative (cfr. Elia, Valentiniano, cit., p. 22).

 

 

[30] Giunta, Genserico, cit., pp. 123-4, riteneva che l’azione si fosse svolta immediatamente dopo l’emanazione di Nov. 9 di Valentiniano III del 24 giugno 440 d.C. - nella quale vengono avvisati i sudditi del pericolo rappresentato dalle navi vandale che hanno lasciato il porto di Cartagine - per concludersi nell’autunno dello stesso 440 d.C. Per una durata più lunga propendeva B. Pace, Arte e civiltà della Sicilia antica, IV, Roma-Città di Castello 1949, pp. 86-96, per il quale l’azione avrebbe avuto inizio nell’inverno fra il 439 d.C. e il 440 d.C. per concludersi dopo circa un anno. Cfr. Mazza, I Vandali, cit., pp. 122-4.

 

[31] Così Giunta, Genserico, cit., p. 124, con discussione delle diverse ipotesi.

 

[32] Leo M. ep. 3, 1.

 

[33] Hyd. Chron. 120 (a. 440).

 

[34] De Salvo, Economia privata, cit., p. 38. Cfr. da ultimo A. Mosca, Aspetti della rotta Roma-Cartagine, in L’Africa romana XIV, pp. 481-90.

 

[35] Vict. Vit. 1, 15.

 

[36] Pace, Arte e civiltà, cit., p. 93.

 

[37] Così Giunta, Genserico, cit., p. 112.

 

[38] Su un presunto accordo fra Genserico e Attila cfr. F.M. Clover, Geiseric and Attila, «Historia» 21, 1973, pp. 104-17. Su questo cfr. Mazza, I Vandali, cit. p. 124 e E. Caliri, Il cubiculario Lauricio e la gestione dei praedia nella Sicilia di V secolo, Messina 2001, p.11.

 

[39] Giunta, Genserico, cit., pp. 126-7; Mazza , I Vandali, cit., pp. 123-4.

 

[40] Prosp., Chron. 1342 (a. 440).

 

[41] Su questo cfr. Stein, Histoire, cit., I, p. 322; Giunta, Genserico, cit., p. 126. In realtà, come sosteneva Courtois, Les Vandales, cit., p. 191 nota 4, la vera ragione era il timore di attacco portato dalla flotta romana che proveniva da Costantinopoli.

 

[42] Courtois, Les Vandales, cit., p. 191 nota 4, sostiene un abbandono totale dell’isola da parte dai Vandali per l’arrivo della flotta inviata da Teodosio, sulla base della Nov. Valent. 1, 2, sulla cui datazione, tuttavia, cfr. infra p. 730.

 

[43] Stein, Histoire, cit., I, p. 325.

 

[44] Prosp. Chron. 1344 (a. 441). È probabile che il fiscus barbaricus di cui si parla nel Papiro Marino 73 del 444/445 d.C. (G. Marini, I papiri diplomatici, Roma 1805), non più pagato in quel momento, sia da riferire non ad una tassa corrisposta ai Vandali (Pace, Arte e civiltà, cit., p. 94) e neppure ad una prestazione in natura offerta a Genserico per non attaccare più la Sicilia (Giunta, Genserico, cit., p. 127), ma una tassa pagata per il sostentamento dell’esercito presente in Sicilia nel 441/442 d.C. composto forse da federati barbari (Courtois, Les Vandales, cit., p. 192 nota 10). Cfr. anche E. Caliri, Il cubiculario Lauricio, cit., pp.116-7.

 

[45] Nov. Valent. 1, 2. A proposito della estensione della disposizione, Courtois, Les Vandales, cit., p. 191 nota 2 la ritiene estesa a tutta l’isola (cfr. Mazza, I Vandali, cit., p. 124); di parere opposto L. Cracco Ruggini, La Sicilia tra Roma e Bisanzio, in Storia della Sicilia, 3 (1980), p. 75 nota 89 che ne limita l’azione alle città della Sicilia sud-occidentale.

 

[46] La datazione al 440/441 d.C. della Novella considerata posteriore a Nov. Valent. 9 del giugno 440 d.C., è stata proposta sulla base della datazione al 440 d.C. della spedizione di Genserico in Sicilia fornita da Prospero (P.M. Meyer, Leges Novellae ad Theodosianum pertinentes, Berlin 1905, p. 74; cfr. O. Seeck, Regesten der Kaiser und Päpste, Stuttgart 1919, p. 370). Tuttavia se è vero che l’attacco del 440 d.C. è stato preceduto da quello del 438 d.C., che interessò la Sicilia e tutte le altre isole, credo sia possibile ipotizzare che la costituzione si riferisca alle vicende del 438 d.C. e dunque sia da datarsi al 439 d.C.; in effetti il prefetto al pretorio Massimo cui è indirizzata la Novella ricoprì la carica dal 439 d.C. al 441 d.C. (cfr. PLRE II, pp. 749-51).

 

 

[47] Procop., Vand., 1,4

 

[48] Così O. Seeck, Geschichte des Untergangs des antike Welt, 6, Stuttgart 1920, pp. 120 ss; 420 ss.; STEIN, Histoire, cit., I, p. 578 nota 49*; Courtois, Les Vandales, cit., p. 173 nota 10; cfr. F. M. Clover, Flavius Merobaudes, Philadelphia 1971, p. 53. Di parere diverso era Giunta, Genserico, cit., p. 127 nota 94.

 

[49] L’ipotesi è in SCHMIDT , Geschichte, cit., p. 171. Cfr. anche K. Hannestad, L’évolution des Ressources agricoles de l’Italie du 4ème au 6ème siècles de notre ère, København 1962, p. 100. Cfr. Clover, Flavius Merobaudes, cit., p. 53.

 

[50] Su questo cfr. Elia, Valentiniano, cit., pp. 74-84.

 

[51] Clover, Flavius Merobaudes, cit., p. 53 e note.

 

[52] Nov. Valent., 5, 1 (3.3.440). Su questo cfr. Hannestad, L’evolution, cit., p. 100; Elia, Valentiniano, cit., pp. 172-3.

 

[53] Procop., Vand., 1, 5.

 

[54] Cfr. Modéran, L’établissement, cit., con discussione delle tesi precedenti.

 

[55] Chr. Courtois et al., Tablettes Albertini. Actes privés de l’époque vandale (fin de Ve siècle), Paris s.d. [1952]. Cfr. F. Vitrone, Aspetti controversi e dati economico-sociali nelle tavolette Albertini, «Romabarb» 13, 1994-95, pp. 235-58.

 

[56] Courtois, Les Vandales, cit., pp. 316-24.

 

[57] C. Panella, Le merci: produzioni, itinerari e destini, in A. Giardina, (a. cura di), Società romana e impero tardoantico, Roma – Bari 1986, 3, pp. 431-59 e pp. 843-5, spec. pp.446-54; S. Tortorella, La sigillata africana in Italia nel VI e nel VII se. d.C.: problemi di cronologia e distribuzione, in A. Saguì (a cura di), La ceramica in Italia: VI-VII secolo, Firenze 1998, pp. 41-69 con ampia bibliografia precedente. Cfr. anche Hannestad, L’évolution, cit., p. 100-1.

 

[58] Cfr. D. Castrizio, Per una rilettura del sistema monetale vandalo (note preliminari), in L’Africa romana XV, pp. 741-55.

 

[59] Cfr. C. Morrison, Caratteristiche ed uso della moneta protovandalica e vandalica, in Le invasioni barbariche, cit., pp. 151-80.

 

 

[60] F. Pacetti, S. Sfrecola, Ceramiche africane di VI secolo provenienti da una domus tardoantica del Celio. Sintesi storica e indagine mineralogica, in L’Africa romana VI, pp. 486-503.

 

[61] Nov. Valent., 33 (31.1.451). Cfr. L. Cracco Ruggini, Economia e società nell’«Italia annonaria», Milano 1961, rist. Bari 1995, p.175; Elia, Valentiniano, cit., p. 151. Sulla situazione dell’Italia cfr. E. Caliri, “Praedia pistoria” e “possessoresafricani in età vandalica: a proposito di Valentiniano III, Nov. 34, in L’Africa romana XV, pp. 1693-1710.

 

[62] Vict. Vit. 1, 15. Su questo cfr. Courtois, Les vandales, cit., pp. 281-3.

 

[63] Cfr. Stein, Histoire, cit., I, pp. 361-2.

 

[64] Cfr. Stein, Histoire, cit., I, p. 366.

 

[65] V, Von Falkenhausen, I barbari in Italia nella storiografia bizantina, in G. Pugliese Carratelli (a cura di), Magistra barbaritas. I barbari in Italia, Milano 1984, pp. 301-16, spec. p. 304.

 

[66] Così Giunta, Genserico, cit., p. 131.

 

[67] Prosp. Chron. 1375 (a. 455).

 

[68] Vict. Vit., 1,14.

 

[69] Proc., Vand., 1, 5

 

[70] Vict. Vit., 1, 51, a conclusione della drammatica descrizione delle sofferenze subite dalla chiesa ortodossa da parte di Genserico, elenca i luoghi sottoposti alla violenza delle sue orde, e cioè Hispania, Italia, Dalmatia, Campania, Calabria, Apulia, Sicilia, Sardinia, Britia, Lucania, Epirus, Ellada.

 

[71] Non mi soffermo in questa sede sui tentativi romani, prima con Ricimero, magister militum paresentalis di Avito, poi con Maggioriano e quindi con il generale Basilisco, di opporsi a questa forte espansione, su cui cfr. Stein, Histoire, cit., I, pp. 358-91; Courtois, Les Vandales, cit., pp. 198-205.

 

[72] Sulla Sardegna cfr. Courtois, Les Vandales, cit., pp. 187-90 e più recentemente G. Lilliu, Presenze barbariche in Sardegna dalla conquista dei vandali, in Magistra barbaritas, cit., pp. 559-70; A. Mastino, La Sardegna cristiana in età tardo antica, in La Sardegna paleocristiana. Atti del Convegno nazionale di studi, Cagliari 10-12 ottobre 1996, Cagliari 1999, pp. 263-307, spec. pp. 293-300; G. Artizzu, La Sardegna e la politica religiosa dei re vandali, «SS» 30, 1992-93, pp. 495-512. Sulla Corsica cfr. Courtois , Les Vandales, cit., p. 186; Ph. Pergola, L’administration vandale (455-534), in F. Pomponi (éd.), Le mémorial des Corses, Ajaccio 1981, I, pp. 226-34; Zucca, La Corsica, cit., pp. 120-1; 173.

 

[73] Cfr. Courtois , Les Vandales, cit., pp. 185-6, R. Zucca, Insulae Baliares. Le isole Baleari sotto il dominio romano, Roma 1998, pp.113-5.

 

[74] R.J.A. Wilson, Sicily under the Roman Empire, Warminster 1990, pp. 331 ss. Sulla Sicilia vandalica, oltre alle pagine di A. Holm, Storia della Sicilia nell’antichità, tr. it. , 3, Torino 1901, pp. 505 ss., cfr. Giunta, Genserico, cit.; B. Saitta, La Sicilia tra incursioni vandaliche e dominazione ostrogotica, «QC» 19, 1989, pp. 363-417, spec. pp. 365-79; Mazza, I Vandali, cit.; F.M. Clover, A game of bluff: the fate of Sicily after 476, «Historia» 48, 1999, pp. 234-44.

 

[75] Un abbandono dei centri urbani sulla costa o comunque in pianura e in collina, segno di una insicurezza delle zone aperte, avviene solo nel X secolo, dopo la conquista normanna, con l’accentramento della popolazione in grossi centri fortificati posti in montagna, naturalmente difendibili. Cfr. A. Molinari, Il popolamento rurale in Sicilia, in La storia dell’alto medioevo italiano (VI-X secolo) alla luce dell’archeologia. Atti del convegno, Siena 2-6 dicembre 1992, Firenze 1994, pp. 361-77

 

[76] Giunta, Genserico, cit., p. 104-15 con ampia presentazione delle diverse opinioni e pp. 117, 120-1, dove nega per la Sicilia un effettivo possesso da parte dei Vandali, propendendo per una qualche forma di controllo. Vittore di Vita (1,14) afferma che Genserico avrebbe concesso (concessit) a Odoacre la Sicilia tributario iure, tuttavia aliquam tamen sibi reservans partem, una affermazione non del tutto chiara, dalla quale emerge però la riserva di una porzione di territorio, presumibilmente, appunto, i centri della costa occidentale. Sicuramente con Trasamundo (496-523 d.C.) Lilibeo è sotto il controllo dei Vandali (Proc., Vand., 1, 8; 1, 14 dove si afferma che Belisario teme una azione dei Vandali anche sull’isola). Su questo cfr. Courtois, Les Vandales, cit., pp. 266-7.

 

 

[77] Cfr. C. Panella, Le anfore tardoantiche: centri di produzione e mercati preferenziali, in Società romana e impero tardoantico, cit., pp. 251-84, spec. pp. 261-2. Procopio (Vand., 1, 24) narra che nell’immediatezza dell’ingresso a Cartagine delle truppe di Belisario, una nave mercantile era partita per la Spagna.

 

[78] Cfr. De Salvo, Economia privata, cit., p. 38;. G. VOLPE, Relitti e rotte commerciali nel Mediterraneo tardoantico, in L’Africa Romana XIV, pp. 239-50.

 

[79] It. Mar., 487,5-493,3; cfr. G. Uggeri, Relazioni tra Nord Africa e Sicilia in età vandalica, in L’Africa romana XII, pp. 1457-67, secondo il quale la redazione, o forse un rifacimento, dell’Itinerarium Maritimum potrebbe essere collocata fra il 450 e il 530, in piena età vandalica.

 

[80] Sulla portata di questa iniziativa cfr. Mazza, I Vandali, cit., pp.119-21.

 

[81] Volpe, Relitti e rotte commerciali, cit.

 

[82] Courtois, Les Vandales, cit., pp. 208-9, appariva scettico sulla possibilità di identificare i luoghi delle incursioni vandale come scali marittimi; egli tuttavia partiva dall’idea di un blocco delle esportazioni africane e dunque sull’assenza di una attività commerciale. Tuttavia una testimonianza di Procopio appare significativa. Questi racconta di aver incontrato a Siracusa un concittadino che commerciava con Cartagine (Vand., 1, 14).

 

 

[83] Vedi supra p. 729.

 

[84] courtois, Les Vandales, cit., pp. 201-3. Cfr. Mazza, I Vandali, cit., pp. 127 ss.

 

[85] Sull’impresa cfr. Stein, Histoire, cit., II, pp. 311-8.

 

[86] Proc., Goth., 2, 6.

 

[87] Mazza, I Vandali, cit., p. 116.

 

[88] Giunta, Genserico, cit., p. 112. Cfr. Cracco Ruggini, La Sicilia, cit., pp. 17 e 76 nota 90; per la Corsica inserita in questo sistema difensivo cfr. Zucca, Insulae, cit., p. 114.

 

[89] Stein, Histoire, cit., I, p. 320; Courtois, Les Vandales, cit., p. 216 ss. pensava ad una cifra più alta.

 

[90] Courtois, Les Vandales, cit., p. 207; M. Reddé, Mare nostrum, Rome 1986, pp. 648-50.

 

[91] Courtois, Les Vandales, cit., pp. 206-9; P.M. Giunteschi Conti, Barbari e navi nel Mediterraneo, in A. Zironi (a cura di), Wentilseo: i germani sulle sponde del Mare Nostrum. Atti del convegno di Padova 13-15 ottobre 1999, Padova 2001, pp. 7-23, spec. pp. 16-7.

 

[92] Proc., Vand., 1, 5. Cfr. Prisc., Frg. 30. Sul passo Mazza, I Vandali, cit., pp.119-21 che considera l’episodio esemplificativo della tattica della ‘guerra di corsa’ messa in atto da Genserico.

 

[93] Sul concetto di mare clausum nel periodo dall’11 novembre al 10 marzo cfr. E. De Saint-Denis, Mare clausum , «REL» 25, 1947, pp. 196-214; J. Rougé, La navigation hivernale sous l’empire romain, «REA» 54, 1952, pp. 316-25.

 

[94] Prisc. Frg. 29.

 

[95] Stein, Histoire, cit., I, pp. 380-2.

 

[96] Proc., Vand., 1,10-11. Sull’episodio cfr. i testi citati supra alla nota 72.

 

[97] Giunta, Genserico, cit., p. 118.

 

[98] Il giudizio è in Mazza, I Vandali, cit. p. 114.

 

[99] N. Francovich Onesti, I Vandali, Roma 2000, p. 58.