N. 7 – 2008 – Tradizione Romana
Università di Genova
Occasio e ratio legis in Novella 108*
Questo
breve contributo, che nasce nell’ambito del lavoro di ricerca svolto
dall’equipe genovese nell’ambito del Programma
di Ricerca Prin-Cofin 2004, diretto in sede locale da Mariagrazia
Bianchini, non intende presentarsi allo stato attuale come il frutto di una
ricerca, che necessita di ulteriori approfondimenti, ma vuol solo proporre
qualche spunto di riflessione sulle tecniche legislative e, in particolare, sul
rapporto tra occasio e ratio legis nell’ambito della produzione
novellare di Giustiniano, con riferimento specifico alla Novella
1. – La Novella 108 viene emanata
il 1° febbraio 541 e indirizzata a B£ssJ tù megaloprepest£tJ kÒmhti tîn
kaqwsiwmšnwn domest…kwn ™pšconti tÕn tÒpon 'Iw£nnou toà ™ndoxot£tou ™p£rcou tîn
ƒerîn praitwr…wn, a Basso comes
domesticorum[1],
facente funzioni di prefetto del pretorio al posto di Giovanni, probabilmente
ancora in viaggio nella diocesi d’Oriente[2]. La
Novella, molto nota e analizzata nei suoi contenuti, intende dettare una nuova
disciplina in tema di fedecommesso de
residuo[3].
`Upoqšsewj ºkoÚsamen
perˆ diaq»khj ¢mfijbhtoumšnhj, ¿n kaˆ ˜rmhneàsai d…kaion ¹ghs£meqa kaˆ nÒmJ
perilabe‹n ¢kribe‹, toàto d¾ tÕ ¹m‹n e„wqÕj ™k tîn ™n ta‹j Øpoqšsesi kinoumšnwn
zht»sewn nÒmwn crhstîn lamb£nein ¢form£j[4].
Nell’incipit, ricorrendo alla consueta
enfasi, Giustiniano afferma che, prendendo le mosse da un caso sottoposto alla
sua attenzione, gli è parso giusto interpretare e dettare una disciplina
completa e rigorosa (nÒmoj ¢krib»j)[5].
Occorre in primo luogo sottolineare come si possa individuare in queste parole
un trait d’union tra le leges che annunciano e pubblicano le
varie parti della compilazione e la produzione novellare: la ricerca del rigore
e della precisione del dettato normativo, presente nelle costituzioni di mano
tribonianea accolte nel Codice[6],
ritorna come tensione al “perfezionamento” espressa nelle Novelle degli anni
535-541[7].
L’estensore
prosegue poi sottolineando come sia abitudine dell’imperatore per fare buone
leggi cogliere le occasioni dai casi che vengono dibattuti nei processi. Mi
preme fin d’ora far emergere come sia lo stesso imperatore, o meglio,
l’estensore Triboniano, cui senza dubbio si deve il presente provvedimento, ad
esplicitare, ritengo intenzionalmente, come cercherò di dimostrare, l’occasio legis, soffermandosi inoltre a
sottolineare l’usualità di questa prassi[8].
In relazione alla fattispecie concreta, sul fatto che
l’espressione Øpoqšsewj
ºkoÚsamen indichi che l’imperatore sia venuto a conoscenza di una vertenza
processuale non avanzerei grossi dubbi. Un riscontro della occorrenza del
termine nelle Novelle, attraverso il vocabolarium[9], e in
altre fonti coeve, ad esempio in Giovanni Lido[10],
conferma l’uso di ØpÒqesij nel
senso di caso concreto, o meglio, di vicenda processuale. In questo senso credo
che deponga inoltre il prosieguo del principium
della praefatio, laddove si dice: toàto d¾ tÕ ¹m‹n e„wqÕj ™k tîn
™n ta‹j Øpoqšsesi kinoumšnwn zht»sewn nÒmwn crhstîn lamb£nein ¢form£j[11], dove
evidentemente l’espressione ™n ta‹j Øpoqšsesi kinoumšnwn zht»sewn
indica questioni che vengono dibattute proprio nell’ambito di un processo.
Credo, infine, che sia decisiva per fugare ogni dubbio la circostanza, riferita
in epilogo, per cui la presente vicenda processuale, che ha occasionato la
pronuncia imperiale, vada decisa secondo la disciplina predisposta:
Kat¦ taàta to…nun œstw
to‹j pr£gmasi tom», aÙtù te toÚtwÄ‚ tù
parascomšnwÄ t¾n z»thsin kaˆ to‹j ¥lloij ¤pasin ™f' oŒj ºrtÁsqai sumba…nei t¦
qšmata, tîn mn diaqhkîn oÛtw
genomšnwn kaˆ tîn diaqemšnwn ‡swj teleuths£ntwn, oÜpw d toà toioÚtou cèran labÒntoj fideikomm…ssou,
¢ll' œti toà bebarhmšnou periÒntoj[12].
Altra
questione concerne invece il modo in cui la controversia è giunta
all’imperatore e se da questi venga decisa. In proposito, il testo della
costituzione non esplicita se si tratti di una supplicatio, di una consultazione del giudice[13], di preces di privati o, infine, di una
semplice notizia giunta, chissà per quale via, all’orecchio di Giustiniano. La
chiusa dell’epilogo, già ricordata, potrebbe far propendere per l’ipotesi che
si tratti di un dubbio interpretativo, che viene sollevato dal giudice davanti al quale si sta svolgendo il processo: si
prevede, infatti, che la causa i cui fatti sono stati sottoposti all’imperatore
e altre di contenuto analogo vadano decise allo stesso modo secondo la presente
disciplina[14].
Circostanza, quest’ultima, sulla base della quale ritengo si possa escludere
che sia successivamente intervenuta una pronuncia imperiale nel merito[15].
L’intervento dell’imperatore, pertanto, non risolve il caso concreto ma si pone
come interinale della decisione del giudice inferiore, limitandosi a indicare i
criteri, le direttive a cui il iudex dovrà attenersi nell’emanare la
sentenza[16].
La
costituzione prosegue, dunque, descrivendo in maniera piuttosto dettagliata la vicenda
che ha originato la pronuncia dell’imperatore[17].
Pa‹daj g£r tij
o„ke…ouj ™nsths£menoj klhronÒmouj, eta
kaˆ ¢ll»loij aÙtoÝj ™x ¢paid…aj ØpokatastÁsai boulÒmenoj ™kšleusen, e„ sumbÍ
tina tîn aÙtoà pa…dwn kaˆ klhronÒmwn mšllein ¥paida tÕn ¢nqrèpinon katalÚein
b…on, met¦ t¾n ™xa…resin tîn ™k toà nÒmou Ñfeilomšnwn aÙtù ™k tîn par' aÙtoà
katalimpanomšnwn aÙtù pragm£twn t¦ loip¦ p£nta pr£gmata kaˆ d…kaia, Ósa par'
aÙtù ™n kairù teleutÁj eØreqe…h, œrcesqai kaˆ ¢pokaq…stasqai tù ™x aÙtîn
periÒnti À to‹j aÙtoà pais…n, e‡ ge aÙtÕj teleut»seie, p£shj ¢rgoÚshj metaxÝ
aÙtîn di¦ t¾n e„rhmšnhn ¢pokat£stasin ¢sfale…aj te kaˆ ™ggÚhj. ™pˆ toÚtoij
aÙtoà teleut»santoj, kaˆ toà mn
˜nÕj tîn aÙtoà pa…dwn kaˆ klhronÒmwn pa‹daj œcontoj, toà d me…nantoj ¥paidoj, kwlÚei tÕn ¥paida
Ð toÝj pa‹daj œcwn kecrÁsqai to‹j pr£gmasin æj taàta ™lattoànta: Ð d ¢pokecrhmšnoj to‹j ∙»masi tÁj
diaq»khj, kaˆ Óti e‡ ti eØreqe…h ™n kairù teleutÁj par' aÙtù, toàto aÙtÕn
¢pokaqist©n ™kšleuse, kat¦ toàto boÚletai tÕ scÁma parrhs…an œcein crÁsqai to‹j
pr£gmasin æj ¨n boulhqe…h, mhdemi©j kwlÚsewj perˆ tÁj aÙtîn dioik»sewj
™pagomšnhj aÙtù[18].
Un
padre istituisce eredi i propri figli gravandoli di un fedecommesso in forza
del quale, se uno di essi muoia senza avere una discendenza, i beni superstiti
della propria quota dell’eredità paterna, detratta la legittima, vengano
restituiti al fratello superstite o ai di lui figli[19].
Deceduto il padre, i due fratelli, uno dei quali senza figli, si trovano a
discutere sulla portata della disposizione testamentaria paterna. Aspettandosi
la restituzione dei beni del padre, colui che ha figli proibisce al fratello di
usarne, temendone chiaramente la consumazione[20].
L’altro si oppone asserendo che la disposizione vada intesa nel senso che
l’obbligo di restituire ricorra solo qualora rimanga qualcosa alla sua morte (e‡
ti eØreqe…h ™n kairù teleutÁj par' aÙtù). Il legislatore disattende
entrambe le letture: da un lato, egli non concorda col primo, il quale ritiene
che il fratello debba conservare il patrimonio affinché, dopo la sua morte, gli
sia restituito; dall’altro lato, l’imperatore non ritiene condivisibile
l’interpretazione del secondo, il quale finisce per forzare la disposizione
testamentaria a tutto suo vantaggio (Ð d
¢pokecrhmšnoj to‹j ∙»masi tÁj diaq»khj)[21]. Pertanto,
Giustiniano stabilisce che l’erede, rimasto senza figli, possa disporre
liberamente dei ¾ del patrimonio[22]. Dopo
il decesso del fedecommissario, deve esser restituito solo quello che sia
eventualmente rimasto[23]. La
residua parte, detta anch’essa quarta Falcidia[24], è
invece riservata al fedecommissario, per quanto circostanze eccezionali
giustifichino l’alienazione anche di questo quarto da parte dell’erede[25].
Questi doveva quindi prestare idonea cautio,
con la quale si impegnava a restituire non meno di un quarto[26].
Risulta,
dunque, alquanto evidente che l’indicazione dell’occasio che ha dato
luogo al provvedimento sia innanzitutto finalizzata non solo a introdurre la ratio
legis, che l’estensore riferisce subito a seguire, e, quindi, nell’ottica
di spiegare le motivazioni che sottendono alle novità introdotte dal
legislatore, ma si riveli funzionale alla transizione dal caso particolare alla
disciplina generale. In altri termini, Triboniano riferisce persone e fatti,
qui come altrove, in primo luogo al fine di raccordare il concreto al generale[27].
`Hme‹j to…nun labÒntej ™k toÚtou prÒfasin ò»qhmen crÁnai kaˆ t¾n
palai¦n ¢orist…an kaˆ t¾n ˜fexÁj di£krisin t¾n mn
Ðr…sai t¾n d kaqar¦n ™n ¢nqrèpoij
¢poqšsqai, kaˆ di¦ toàto nÒmJ tÕ pr©gma perilabe‹n, Ópwj ¨n m£qoien ¥nqrwpoi
t¾n p©san toà nÒmou t£xin, meq' Âj proj»kei t¦ toiaàta kaˆ manq£nein kaˆ
kr…nein. ‡smen to…nun Papinianù tù sofwt£tJ ∙hqšn
ti ™n tù iq' tîn aÙtoà quaestionwn,
œnqa ™pitršpei t¦j ™kpoi»seij ™pˆ toioÚtou qšmatoj, ™ke‹no mÒnon éjper
™xep…thdej ™n a„n…gmati projqeˆj tÕ thnikaàta de‹n kekwlàsqai t¦j ™kpoi»seij,
¹n…ka ™pˆ tù katalàsai tÕ fideŽkÒmmisson ™xep…thdej Ð toÚtJ bebarhmšnoj ™pˆ t¾n
™kpo…hsin Ãlqe. kaˆ Ð filÒsofoj ™n basileàsi M©rkoj, toioÚtou tinÕj Øpoteqšntoj
qšmatoj, ¢ndrÕj ¢gaqoà mesite…an doke‹n ™ne‹nai to‹j toioÚtoij ∙»masi
dietÚpwsen[28].
Dopo
aver riferito il caso, in praef. 2 il legislatore torna nuovamente a
ribadire che, traendo occasione dalla fattispecie riferita, intende dettare una
legge chiara per superare t¾n palai¦n ¢orist…an, l’antica incertezza, di modo
che tutti gli uomini possano apprendere t¾n p©san toà nÒmou t£xin,
attraverso la quale conviene interpretare e giudicare questi casi. Anche in
questo frangente ritornano due temi cari a Triboniano: da un lato, per quanto non
sia espressamente ricordata la saf»neia[29], emerge dal tenore del discorso
la ricerca di chiarezza quale valore cui la legge deve aspirare[30];
dall’altro, viene richiamata la t£xij, che rappresenta «una
delle maggiori aspirazioni del Triboniano delle Novelle»[31].
Si
legge inoltre che Ð PapinianÕj Ð sofètatoj[32],
Papiniano sapientissimo[33], nel
libro diciannovesimo delle Quaestiones
consentiva in quei casi le alienazioni. Stando alle parole della Novella, il
giurista sarebbe rimasto volutamente (™xep…tedej)[34] nell’oscurità
(™n a„n…gmati),
proibendo esclusivamente le alienazioni fraudolente. Triboniano, che in più di
un’occasione dichiara di detestare gli enigmi[35],
attribuisce dunque in questo frangente una scarsa chiarezza, addirittura
consapevole, a Papiniano, lo stesso giorno sottolineando in Novella 107 che per
gettar luce sulle situazioni oscure occorrevano non gli interpreti, bensì gli
indovini[36]. La
costituzione in esame prosegue poi ricordando come l’imperatore filosofo[37],
Marco Aurelio, dispose in un caso analogo doversi far ricorso all’arbitrium boni viri.
2. – L’identificazione del
richiamo con quanto riportato nel frammento accolto in D. 36.1.56(54) è fuori
dubbio[38]:
Titius rogatus
est, quod ex hereditate superfuisset, Maevio restituere. Quod medio tempore alienatum vel deminutum est, ita
quandoque peti non poterit, si non intervertendi fideicommissi gratia tale
aliquid factum probetur: verbis enim fideicommissi bonam fidem inesse constat. Divus autem Marcus cum de fideicommissaria
hereditate cognosceret, his verbis: ‘Quidquid ex hereditate mea superfuerit,
rogo restituas’ et viri boni arbitrium inesse credidit: iudicavit enim
erogationes, quae ex hereditate factae dicebantur, non ad solam fideicommissi
deminutionem pertinere, sed pro rata patrimonii, quod heres proprium habuit,
distribui oportere. Quod mihi videtur non tantum aequitatis ratione,
verum exemplo quoque motus fecisse.
Papiniano
ricorda una controversia, senza riportare il nome delle parti in causa, e afferma
che l’erede poteva alienare o diminuire i beni ereditari, senza che il
fedecommissario potesse reclamarli, purché non risultasse l’intento fraudolento
dell’erede: intervertendi fideicommissi
causa. A differenza del caso che darà origine all’intervento di
Giustiniano, qui Papiniano non precisa che il fedecommesso è sottoposto alla
condizione si sine liberis decesserit.
Il giurista informa poi che l’imperatore Marco Aurelio si era occupato di
un’ipotesi di collazione tra fratelli[39], caso
che risolve non tanto ispirandosi all’equità, afferma Papiniano, ma prendendo
spunto da una questione analoga, risolta col ricorso all’arbitrium boni viri.
Per
meglio comprendere la fattispecie concreta che ha presumibilmente dato origine
alla pronuncia di Marco Aurelio ricordata da Papiniano[40],
occorre richiamare un passo, accolto in D. 5.3.25.16, nel quale Ulpiano risolve
un problema affine mentre tratta della responsabilità di un possessore di buona
fede ex SC. Iuventiano[41].
Nam et divus
Marcus in causa Pythodori, qui rogatus erat quod sibi superfuisset ex
hereditate reddere, decrevit ea, quae alienata erant non minuendi fideicommissi
nec pretium in corpus patrimonii Pythodori redisse[42], et ex proprio Pythodori
patrimonio et ex hereditate decedere, non tantum ex hereditate. Et nunc igitur statuti sumptus utrum ex hereditate
decedent exemplo rescripti divi Marci an ex solo patrimonio, videndum erit: et
verius est, ut ex suo patrimonio decedant ea, quae et si non heres fuisset
erogasset.
Ulpiano
ricorda a titolo d’exemplum che Marco
Aurelio decise la causa di tale Pythodorus, erede fiduciario onerato di un
fedecommesso de residuo, precisando
che, se l’erede ha beni propri diversi da quelli lasciatigli, tutto ciò che
spende deve gravare in proporzione anche su questi. È altamente probabile che
il decretum riferito testualmente da
Papiniano in D. 36.1.56(54) sia lo stesso ricordato da Ulpiano assieme al caso
concreto che ha originato la pronuncia[43].
In
proposito, credo ci si possa porre la questione se Ulpiano sia venuto a conoscenza
della decisione di Marco Aurelio per tramite della lettura nell’opera di
Papiniano, se abbia ascoltato i verba
decreti direttamente dal maestro negli anni della sua formazione oppure,
ancora, abbia appreso il contenuto del decretum
quando ricopriva la carica di adsessor,
consultando autonomamente i semenstria,
gli archivi imperiali, come in altra occasione da lui stesso esplicitato[44].
Verso quest’ultima suggestiva ipotesi potrebbe spingere il rilievo che le
testimonianze relative ai semenstria
li riferiscono proprio al regno di Marco Aurelio[45].
Peraltro, senza appigli testuali, il tentativo di rispondere a questa domanda
non può andare oltre il semplice ed arbitrario azzardo[46].
È
stato notato, d’altro canto, come Ulpiano si riferisca alla decisione di Marco
Aurelio dicendo dapprima che l’imperatore decrevit
e parlando, subito a seguire, di exemplum rescripti divi Marci[47]. Escludendo che si tratti di una scorciatura della
commissione giustinianea, per cui, se così fosse, a distanza di poco Ulpiano
avrebbe fatto riferimento a due diverse decisioni di Marco Aurelio, credo che
si possa sostenere che il giurista abbia in questo caso usato il verbo rescribere
in maniera non rigorosa, come riscontrabile anche in altri frammenti raccolti
nel Digesto[48].
L’estensore
della Novella 108, dunque, richiama espressamente il frammento di Papiniano.
Questo precedente, in relazione al quale non si può escludere che avessero già
discusso le parti in causa, giungendo forse a sollecitare al tribunale
imperiale una pronuncia interpretativa circa la sua portata[49],
spinge a ritenere anche in questa occasione come l’applicazione nei tribunali
di Costantinopoli del materiale giurisprudenziale classico codificato nel
Digesto e nel Codice abbia dato luogo a non poche incertezze, se non anche a
fraintendimenti[50], cui
l’imperatore cerca di porre rimedio[51].
La
circostanza che tra i due passi oggi conosciuti tramite il Digesto, che
riportano la decisione di Marco Aurelio, si faccia riferimento a quello di Papiniano
credo sia facilmente attribuibile alla mano di Triboniano, il cui stile ricorre
peraltro in tutto il testo della costituzione[52]. Una
scelta, a mio avviso, volontaria, deliberata[53],
dettata non tanto da ragioni di ammirazione per il giurista, ma, in primo
luogo, dalla considerazione che il discorso di Ulpiano non affronta ex professo il problema del fedecommesso
de residuo, rispetto al quale si
intende legiferare. Inoltre, risulta abbastanza evidente come la citazione del
precedente legislativo, che non a caso riguarda Marco Aurelio, l’imperatore
maggiormente citato nella legislazione attribuibile a Triboniano estensore, non
solamente novellare, nell’ambito della quale è presente ben tre volte, si
sposti in secondo piano rispetto alla citazione del giurista[54]. Il
fine, che si appalesa dunque dallo stesso tenore della praefatio, non sembra quello di riferire la soluzione di Marco
Aurelio quanto, soprattutto, di ricordare l’opinione di Papiniano.
In
questo senso depone sicuramente anche l’ulteriore richiamo che l’estensore
opera nel capitolo 1. È nuovamente Papiniano ad essere ricordato, non solo
riferendone in modo preciso il pensiero ma addirittura riportandone fedelmente
le parole: Óper Ð
PapinianÕj œlegen intervertendi
fideicommissi causa[55]. A
questo proposito, mi preme sottolineare come l’estensore, che in praef. 1 contesta la scelta di Papiniano
perché considerata volutamente oscura, fonte di incertezza, richiami in questo
frangente la soluzione proposta dal giurista severiano, che viene così parzialmente
recuperata, e per questa via conservata, come criterio cui ricorrere per
valutare se gli atti posti in essere dall’erede abbiano rispettato la quota che
la novella constitutio riserva al
fedecommissario.
Occorre
considerare che il problema che spinge a ricorrere all’imperatore si rivela di
particolare importanza dal momento che sorgeva nell’ambito della funzione
giurisdizionale e veniva a interessare i delicati rapporti fra il
legislatore/giudice e gli organi giudicanti[56]. In
quest’ottica, il vero senso del richiamo del precedente giurisprudenziale si
può cogliere a pieno se si rifletta sull’intento di Giustiniano legislatore: la
scelta di imporre autoritativamente un limite alla libera disponibilità
dell’onerato[57],
circoscritta ora alla quota che viene indicata come quarta Falcidia, rivela la
volontà di individuare con assoluta precisione un limite, onde evitare
incertezze nella prassi giudiziaria[58]. Si
tratta a ben vedere di una finalità di carattere pratico, processualistico:
l’imperatore intende ridurre al minimo la discrezionalità interpretativa del
giudice eventualmente investito della controversia[59], al
fine di evitare esiti di processi troppo diversi fra loro, se non addirittura
contrastanti e, per questa via, la frequenza del ricorso all’imperatore in
qualità di interpres legum. Si
ricordi altresì quanto affermato più sopra: il richiamo all’¢kr…beia, al
rigore delle costituzioni che ora vengono emanate, esprime la costante tensione
del legislatore di diminuire la litigiosità[60].
Si
consideri, tuttavia, che i criteri, che emergono dalla lettura dei frammenti di
Papiniano in D. 36.1.56(54) e di Ulpiano in D. 5.3.25.16, della buona fede,
intesa come dovere di lealtà e correttezza nell’utilizzazione del patrimonio
ereditario e, correlativamente, come mancanza di uno scopo fraudolento, e dell’arbitrium boni viri[61], nei
termini di valutazione equitativa sull’effettiva incidenza degli atti di
disposizione dell’erede[62], non
sono di per se stessi oscuri o indeterminati: l’incertezza nasce dal
convincimento che matura il giudice a seguito dell’attività istruttoria.
Situazione, questa, che Giustiniano intende circoscrivere attraverso
l’indicazione di un parametro certo, quello della quarta Falcidia. Questa
previsione, a mio avviso, ha in realtà profondamente alterato i contorni della
fattispecie: la fides come principio
ermeneutico, connaturato all’istituto, finisce per essere quasi del tutto
sacrificato sull’altare della certezza e viene ora in considerazione
esclusivamente per la parte riservata al fedecommissario, che l’erede è tenuto
a conservare. Sulla base di ciò, anche la cautio,
prevista proprio nella parte finale del passo di Papiniano in D. 36.1.56(54),
il cui oggetto era in precedenza il comportamento onesto e leale dell’onerato,
ormai inerisce esclusivamente la quarta parte dell’eredità che dev’essere, come
minimo, restituita[63].
Un’altra
particolarità del riferimento giurisprudenziale risiede nel fatto che avvenga
attraverso il richiamo del libro e dell’opera di Papiniano[64] e non
attraverso coordinate identificative del suo inserimento nei Digesta[65].
Innanzitutto, è legittimo chiedersi se Triboniano abbia riferito il pensiero di
Papiniano leggendone il frammento dal Digesto oppure traendolo direttamente
dall’opera del giurista. Tuttavia, non vi sono dati testuali che possano far
propendere per un’ipotesi piuttosto che per l’altra[66].
Qualche riflessione credo invece si debba fare circa il modo in cui il richiamo
viene proposto. Lanata sottolinea in proposito come appaia «singolare che anche
dopo la compilazione del Digesto Triboniano continui il suo raffinato e
aristocratico dialogo con gli “antichi”, nello stesso stile con cui lo aveva
condotto nelle costituzioni anteriori al 533, ossia come se quelle opere non
fossero mai entrate a far parte della grande raccolta in cui egli stesso aveva
avuto una parte protagonistica»[67]. La
circostanza appare tanto più unica se si pone mente al fatto che la riforma che
A mio
avviso, l’apparente contrasto potrebbe essere spiegato sulla base di una
considerazione. Il richiamo al precedente giurisprudenziale e, grazie a questo,
all’intervento di Marco Aurelio potrebbe essere inteso quale tramite per
esprimere la volontà di presentare l’innovazione portata dalla legge del 541
inquadrandola nel senso della continuità e non della innovazione rispetto alla
normativa precedente[68]. In
questi termini, l’intervento di Giustiniano in materia, che si è cercato di
dimostrare sia in realtà piuttosto determinante, sembrerebbe dunque volersi
porre complessivamente come avente natura interpretativa o, meglio, integrativa
e non propriamente creativa[69]. Di
ciò ritengo si possa trovare ulteriore conferma nel richiamo testuale, già
ricordato in precedenza, del pensiero di Papiniano, operato nel capitolo 1:
qui, nel riferire le stesse parole di Papiniano che ricorrono in D.
36.1.56(54), intervertendi fideicommissi
causa, nell’ottica della continuità viene recuperato il criterio per
valutare se le alienazioni fossero state legittime, in quanto non fossero state
poste in essere allo scopo di rendere impossibile la restituzione e, pertanto,
inefficace la disposizione testamentaria.
3. – Un’ulteriore
considerazione. Sono noti gli sforzi della dottrina amministrativista[70],
costituzionalistica nonché dei filosofi del diritto, già risalenti al
Crisafulli[71], al
Tarello[72] e ad
altri illustri studiosi[73], di
precisare e approfondire la struttura logico-sostanziale della motivazione
della legge, distinguendone la portata sostanziale e la visione prevalentemente
(o esclusivamente) formale[74]. Il
significato della motivazione è quello di costituire il ragionamento che sta
alla base della decisione legislativa, e, specificamente, del ragionamento
logico che sostiene la decisione legislativa[75]. Con
una estrema semplificazione, pur conscio dei rischi che comporta, si possono
distinguere i motivi (l’occasio legis)[76] dai
fini della legge (o “scopi” o “finalità” o “intenti” o anche “obiettivi”, la
cd. ratio legis)[77] e dai
mezzi, che legano i motivi ai fini[78]. Per
quanto riguarda i fini, questi si identificano con gli obiettivi che il
legislatore vuole perseguire: si tratta dalla situazione ideale verso cui la
legge tende. I fini sono strettamente legati con i motivi attraverso un
rapporto di causalità: si può affermare che ne costituiscono una proiezione nel
futuro ipotetico. Il fine è il superamento dell’esigenza, della necessità che
hanno occasionato l’intervento normativo: il mutamento della situazione di
fatto eretta a motivo e la sua conseguente trasformazione in una realtà
fattuale diversa[79].
Queste
formulazioni implicano una sovrapposizione semantica piuttosto evidente: il
motivo della legge è la situazione di fatto da cui prende le mosse l’intervento
legislativo; il fine, a sua volta, è la situazione di fatto cui il legislatore
desidera pervenire come effetto dell’atto legislativo. Pertanto, occorre
avvertire del fatto che non sempre è possibile distinguere agevolmente tra l’occasio e la ratio: occorre valutare nei singoli frangenti se emergano con
chiarezza nell’ambito del corredo motivazionale quelli che comunque rimangono
due momenti ontologicamente distinguibili del ragionamento del legislatore.
Ciò
premesso, sono consapevole dei rischi insiti nell’applicazione di categorie
interpretative moderne al fenomeno normativo di epoca romana. Del resto, non è
generalmente possibile rintracciare nei testi di legge di età repubblicana,
pervenuti per via epigrafica, riferimenti specifici all’occasio o agli scopi del provvedimento[80].
Quando le leges o altre fonti del
diritto (Senatoconsulti, editti magistratuali etc.) vengono commentate da
giuristi o riferite da storici[81], gli
studiosi moderni possono tentare di desumere da queste testimonianze elementi
utili per ricostruire quali fossero le situazioni concrete che potevano aver
condotto all’approvazione dell’atto normativo, quale fosse il contesto politico,
sociale, economico nel quale erano maturate le condizioni che avevano spinto il
“legislatore” ad intervenire. A partire poi dal principato, è possibile
rinvenire nelle costituzioni imperiali, pervenute al di fuori delle raccolte
postclassiche, che ne hanno sunteggiato il testo, un riferimento alle vicende e
alle motivazioni che avevano dato luogo all’intervento del legislatore[82].
È
peraltro evidente che, nei casi in cui ci si affidi alle riflessioni di
giuristi e, tanto più, di storici romani per ricostruire la ratio legis, occorra tenere presente che l’ottica nella quale gli
interpreti si muovevano poteva ben divergere da quella del legislatore, perché
evidentemente implicava una valutazione ex
post ed era spesso lontana nel tempo rispetto al momento in cui la norma
era stata concepita. La legislazione di Giustiniano appare invece tanto più
interessante se si pone mente proprio alla circostanza che è pervenuta, in
maniera più puntuale e in termini quantitativamente maggiori (per ovvie
ragioni) rispetto alla legislazione pregiustinianea, l’indicazione delle
situazioni che hanno spinto l’imperatore, «obsédé par la volonté de
perfectionner en permanence le système juridique»[83], a
intervenire, gli scopi che questi intende perseguire, riferendosi, in alcuni
casi, anche ai mezzi attraverso i quali conseguirli. Occorre certamente
distinguere tra le costituzioni giustinianee presenti nella repetita praelectio[84] e
quelle cui si fa riferimento, diretto o meno, nelle Institutiones[85], da
un lato, e la produzione novellare, dall’altro: infatti, è solo in quest’ultimo
caso che è più frequente rinvenire la ratio
espressa e anche l’occasio, il cui
riferimento, prevalentemente contenuto nella praefatio ed evidentemente considerato superfluo, era stato invece
espunto dal testo delle costituzioni raccolte nel Codice[86],
secondo le indicazioni date dalla Haec,
quae necessario, quindi dalla Cordi[87].
Scelta dettata dalla volontà di raccogliere solo quantum ad legum soliditatem pertinet[88]. Dunque, nelle Novelle Giustiniano «s’exprime à la
première personne. Il explique, philosophe et se prononce; il motive ou
affirme, et tranche; en d’autres termes, il se dévoile»[89].
Pur
ritenendo, dunque, che le categorie di occasio
e ratio legis vadano usate con cautela,
verificandole caso per caso, soprattutto quando sia l’interprete moderno che
tenti di rintracciare le occasioni o gli scopi del legislatore, ritengo
tuttavia che possano essere applicate senza forzature al discorso che
Giustiniano fa nella praefatio di
Nov. 108, dal momento che emerge chiaramente come sia lo stesso legislatore a
farvi ricorso. Il motivo, che, come si è visto, viene esplicitato dal
legislatore stesso, è rappresentato dalla fattispecie concreta di cui
l’imperatore ha notizia e da cui la sua iniziativa prende le mosse. Per quanto
concerne il richiamo ai precedenti normativi, questi invece rientrano non tanto
nei motivi quanto nei fini, nella ratio
legis, essendo indirizzata l’opera del legislatore proprio nel senso del
superamento dell’oscurità volutamente presente nell’opinione di Papiniano e
della volontà di dettare una disciplina integrativa e, in ultima istanza,
esaustiva del fedecommesso de residuo.
Vorrei
fare ancora una breve considerazione sulla presunta volontaria oscurità di Papiniano.
Dal momento che Triboniano cita direttamente il giurista severiano mediante il
richiamo all’opera e l’indicazione precisa del libro, è legittimo domandarsi se
la mancanza di chiarezza a questi attribuita emergesse da un altro punto
dell’esposizione, a noi non pervenuto perché non riprodotto nel Digesto, che
rendeva complessivamente poco chiara la trattazione di Papiniano. Non mi sento
di propendere per quest’ultima ipotesi per un duplice ordine di motivi. Ritengo
infatti si possa sostenere con buona probabilità che, qualora vi avessero
ravvisato oscurità o, addirittura, ambiguità, i compilatori del Digesto
avrebbero agito operando direttamente sul testo, come da indicazioni di
Giustiniano, al fine di adeguare il frammento di Papiniano escerpito all’esigenza
di chiarezza e di certezza avvertita e perseguita dal legislatore. La sua
conservazione fa propendere invece per la considerazione che, ai tempi della
redazione delle Pandette, ancora non fosse in animo del legislatore una
modifica della disciplina del fedecommesso de
residuo come si era venuta a delineare tra Marco Aurelio e l’epoca
severiana. Una conferma anzi della volontà di conservare la soluzione
precedente deriva dall’inserimento nei Digesta
del frammento di Ulpiano già ricordato, che presenta una disciplina, come si è
visto, contenutisticamente in linea con la soluzione indicata da Papiniano,
alla cui opera rimandano peraltro gli altri passi in materia di fedecommesso de residuo[90].
Pertanto,
il riferimento all’oscurità, che, come si è visto in precedenza, non appartiene
a Papiniano, che sceglie come criteri ermeneutici la fides e l’arbitrium
boni viri, ma a lui viene attribuita dall’estensore, appalesa una scelta
cui Triboniano ricorre per sottolineare il contrasto tra l’ante e il post.
Il senso si chiarisce, ritengo, proprio nell’ottica di dar ragione del
cambiamento che si vuole porre in essere attraverso la novella constitutio: dalla voluta incertezza di Papiniano
all’altrettanto voluta certezza di Giustiniano legislatore. Pertanto, alla prospettazione
dell’occasio segue l’indicazione dei termini del cambiamento. In
quest’ottica, la citazione di Papiniano si inserisce nell’iter logico
del ragionamento del legislatore, che dalla rievocazione del caso concreto, l’occasio,
passa poi ad esplicitare la ratio (formale) della riforma.
Del
resto, mi fa propendere per questa tesi anche il fatto che a Marco Aurelio, che
per rescritto aveva scelto la soluzione dell’arbitrium boni viri, non viene
mosso alcun addebito di oscurità, per quanto, a ben vedere, il suo intervento
avesse costituito un momento essenziale nell’elaborazione della disciplina del
fedecommesso de residuo. Si ritorna a
quanto si diceva in precedenza: questa circostanza depone nel senso che
l’imperatore non vuole entrare in conflitto con la legislazione anteriore ma
intende invece presentare la riforma come necessaria precisazione, come messa a
punto della disciplina precedente.
Leggendo quindi le
indicazioni sotto traccia dell’estensore, credo emerga una discrepanza tra la
motivazione formale della legge e quella sostanziale[91]: il
legislatore afferma di voler superare l’incertezza rappresentata della
soluzione di Papiniano mentre, a ben vedere, il limite posto alla libera valutazione
del giudice ha introdotto un’importante innovazione contenutistica, circostanza
che il legislatore sembra voler minimizzare, se non proprio far passare sotto
silenzio.
Ritengo quindi che il
mancato riferimento alla circostanza che il frammento di Papiniano fosse
inserito nel Digesto sia attribuibile non tanto al fatto che la cancelleria non
abbia «alcun interesse a sottolineare che nella raccolta ufficiale degli iura
era rimasta una fonte che meritava un giudizio di biasimo per la sua oscurità»[92], quanto
alla volontà di giustificare l’introduzione di un limite alla discrezionalità
del giudice (motivazione sostanziale), che viene a modificare in maniera
sensibile la disciplina del fedecommesso de residuo, la cui portata
effettiva viene stemperata, anche per evitare contrasti di norme parimenti
vigenti (Digesto/novella constitutio),
sottilineandone, attraverso l’indicazione della motivazione formale, la
necessità al fine di ovviare all’oscurità di Papiniano[93].
Mi sia
consentito dire con un certo spirito visionario e romantico che deve essere
costato non poco a Triboniano, anche se solo su una singola questione, il
sacrificio della coerenza d’immagine del sapientissimo Papiniano.
Infine,
in un altro punto della Novella si riferisce la ratio che spinge il legislatore a prevedere un’eccezione alla
regola in base alla quale l’erede può disporre liberamente dei ¾ del patrimonio mentre
la residua parte è invece riservata al fedecommissario[94]:
E„ d kaˆ e„j a„cmalètwn lÚsin (taÚthn g¦r ™xairoàmšn
te kaˆ ¢nat…qemen tù qeù t¾n a„t…an), kaˆ toàto ¥deian aÙtÕn œcein poie‹n, kaˆ
™lattoàn kaˆ tÕ tštarton, toà tÁj eÙsebe…aj lÒgou p£ntwn ¹m‹n timiwtšrou
fainomšnou[95].
La quarta parte può essere dunque intaccata se vengano compiute
spese per il riscatto dei prigionieri[96],
attività che Giustiniano considera di significativo valore morale e sociale e,
perciò, particolarmente meritevole di tutela[97]. La ratio formale espressa della presente
disposizione si appalesa attraverso lo scarno richiamo all’eÙsšbeia,
senza che peraltro venga dedicato spazio all’approfondimento dei profili
sostanziali della motivazione.
* Relazione presentata al Convegno “La
scienza giuridica dopo la Compilazione. Novelle e interpreti” (Modena, 31
maggio - 1 giugno 2007). Gli atti sono stati pubblicati in Diritto @ Storia 6, 2007 (on line febbraio 2008) = http://www.dirittoestoria.it/6/Scienza_giuridica.htm.
[2] Lyd. de mag.
3.62 (ed. Schamp). Su questa circostanza, E. STEIN, Histoire du Bas-Empire, II: De la disparition de l'Empire d'Occident à
la mort de Justinien (476-565), Paris 1949 (rist. Amsterdam 1968), 481 n. 1.
[3] Da ultimo, L. DESANTI, Restitutionis post mortem onus. I fedecommessi da restituirsi dopo la morte dell’onerato,
Milano 2003, 173 ss. e ulteriore bibliografia ivi indicata. Sul fatto che i
giuristi non avessero raggiunto una rigorosa configurazione concettuale di
quest’istituto in epoca classica, si vedano le considerazioni svolte da M.
TALAMANCA, recensione a A. Murillo Villar, El
fideicomiso de residuo en [el] derecho romano, Salamanca
[4] Trad.
ed.: Causam audivimus de testamento in
controversiam vocatam, quam et interpretari et accurata complecti lege par esse
existimavimus: quae quidem nobis consuetudo est, ut ex quaestionibus quae in
causis moventur bonarum legum occasiones petamus.
[5] In generale,
sull’imperatore unico interprete del diritto si vedano i fondamentali studi di
G.G. ARCHI, Giustiniano legislatore, Bologna 1970, 11 ss.; ID., Interpretatio
iuris interpretatio legis interpretatio legum, in ZSS. 87, 1970,
1-49; ID., Il problema delle fonti del diritto nel sistema romano del IV e V
secolo, in Studi in onore di G. Grosso, 4, Torino 1971, 1-93. Si
vedano anche G. BASSANELLI SOMMARIVA, L’imperatore unico creatore ed
interprete delle leggi e l’autonomia del giudice nel diritto giustinianeo,
Milano 1983, 7 ss.; U. VINCENTI, Il
valore dei precedenti giudiziali nella compilazione giustinianea, Padova
1992, 7 ss. (e ulteriori contributi indicati in n. 2). Su Tanta 21, con
particolare riferimento a C. 1.14.12, da ultimo M. CAMPOLUNGHI, Tanta:
analisi di una costituzione programmatica, in SDHI. 71, 2005, 147
ss.
[6] Sulla
ricorrenza e l’uso di subtilius, subtilitas e voci correlate nella
produzione del Codice attribuibile alla mano di Triboniano si veda T. HONORÉ, Tribonian, London 1978, 90 n. 295; 92 n.
348; 105 n. 537; 97 n.
[7] Si
veda G. LANATA, Legislazione e natura
nelle Novelle giustinianee, Napoli 1984, 96 n. 137 e fonti ivi indicate.
Nelle leges emanate durante la
questura di Giunillo si riscontra invece un uso di ¢kr…beia in
termini prevalentemente negativi, intesa come «un eccesso di formalismo
pregiudizievole a una equilibrata gestione di realtà complicate» (così G.
LANATA, Legislazione e natura nelle
Novelle giustinianee, 96 e n. 138).
[10] Lyd. de mag. 2.15 (ed. Schamp), su cui si
veda diffusamente J. CAIMI, Burocrazia e diritto nel De magistratibus di Giovanni Lido, Milano 1984, 292 ss. e 342-343; cfr. l’uso
di Øpoqšsij con un
significato differente in Lyd. de mag.
1.40 (edd. Dubuisson-Schamp) e 3.20 (ed. Schamp). Sulla ricorrenza di questo termine
nei documenti della prassi si veda sv. Øpoqšsij in F. PREISIGKE, Wörterbuch, II (spec. sub 1 e 3) e in Suppl.
[11] Trad. ed.: …quae
quidem nobis consuetudo est, ut ex quaestionibus quae in causis moventur
bonarum legum occasiones petamus.
[12] Trad. ed.: Secundum
haec igitur causis decisio fiat, tam ipsi illi quae quaestionem praebuit quam
ceteris omnibus in quibus res pendere ahduc contingat, testamentis ita
confectis et testatoribus forte defunctis, necdum vero loco dato eiusmodi
fideicommisso, sed eo qui oneratus est adhuc superstite.
[13] Sulla consultatio ante sententiam, in
particolare sulle diverse posizioni della dottrina circa la portata di Nov. 125
del 543, da ultimo F. PERGAMI, Amministrazione
della giustizia e interventi imperiali nel sistema processuale della tarda
antichità, Milano 2007, praecipue
79 ss. Sul fatto che la Nov. 125 riguardasse l’interpretazione de facto,
ossia la «soluzione di dubbi concernenti l’esame della res che è oggetto
della controversia giudiziaria» si veda S. PULIATTI, Officium iudicis e
certezza del diritto in età giustinianea, in Legislazione, cultura
giuridica, prassi dell’impero d’oriente in età giustinianea tra passato e
futuro, Milano 2000, 55 s. Si vedano anche le considerazioni di F. SITZIA, Norme
imperiali e interpretazioni della prassi, in Il diritto fra scoperta e
creazione. Giudici e giuristi nella storia della giustizia civile, Atti
del Convegno Internazionale della Società di storia del diritto, Napoli
2003, 319 s. n. 71.
[14] Nov.
108 ep. (supra in n. 12). In termini
generali, sulla circostanza che l’imperatore non giudicasse della controversia
portata alla sua attenzione ma rinviasse al giudice naturale affinché
pronunciasse la sentenza, soprattutto alla luce di quanto dispone C. 7.62.34 di
Giustino (di datazione incerta; a. 520-524 prop.
Kr.), F. PERGAMI, Amministrazione della
giustizia e interventi imperiali, 79 ss.
[15] Il
riferimento, contenuto nella chiusa di Nov.
[16] Il che
risulterebbe in linea con quanto disposto da C. 7.62.34, su cui F. PERGAMI, Amministrazione della giustizia e interventi
imperiali, 83 ss. (cfr. ID., L’appello nella legislazione del tardo
impero, Milano 2000, 217).
[17] Un
succinto ricordo del caso concreto che ha originato il provvedimento imperiale
è conservato anche per il tramite delle prime parole della costituzione in Ep.
Athan. 9.9 (hg. Simon-Troianos, 284 ss.) e Ep. Theod. 108.
[18] Trad.
ed.: Quidem enim liberis suis heredibus
institutis cum deinde eos in casu non existentium liberorum sibi invicem
substituere vellet, iussit, si quem ex liberis et heredibus suis sine liberis
del vita humana decessurum esse contingat, sublatis iis quae secundum legem ei
debentur ex rebus ab ipso ei relictis reliquas omnes res et iura, quaecumque
apud eum tempore mortis reperta sint, transire et restitui ei qui ex illis
superstes futurus sit vel liberis eius, siquidem ipse defunctus sit, omni cautione
et fideiussione propter restitutionem modo dictam inter eos cessante. His ita
gestis cum mortuus sit et unus quidem ex liberis et heredibus eius liberos
habeat, alter vero sine liberis manserit, prohibet is qui liberos habet eum qui
liberis caret rebus uti, quippe qui eas deminuat; at ille abusus verbis
testamenti et quod, si quid tempore mortis apud ipsum repertum sit, hoc tantum
ipsum restituere pater iusserit, secundum istam rationem licentiam se habere
arbitratur quo modo velit rebus utendi, cum nullum impedimentum de
administratione earum sibi inferatur.
[19] In
epoca classica il fedecommesso de residuo non esisterebbe se non nella
forma del cd. de eo quod supererit, mentre il fedecommesso si quid supererit sarebbe stato introdotto proprio da Nov. 108; si veda diffusamente A. MURILLO
VILLAR, Aproximacion al origen del
fideicomiso ‘de eo quod supererit’,
in BIDR. 31-32, 1989-1990, 121 ss.
[20]
Analoghi problemi interpretativi legati a restituzioni fedecommissarie avevano
dato luogo a procedimenti giudiziari che erano poi giunti all’attenzione del
legislatore, probabilmente nella forma di consultationes
di giudici, come denuncerebbero le parole, che evocano la clausola ‘dubium est’, in Nov. 39 praef.
del 536: ”Ismen g¦r æj kaˆ prèhn ™stasi£zeto t¦
perˆ tîn ¢pokatast£sewn. In proposito, L. DESANTI, Restitutionis post mortem onus, 174
ss.
[22]
Verosimilmente solo attraverso atti inter
vivos e non mortis causa. In
questo senso L. DESANTI, Restitutionis post mortem onus, 183 s., contra A. MURILLO VILLAR, El fideicomiso de residuo en derecho romano,
Salamanca 1989, 76 s. (e così anche G. COPPOLA, recensione a A. Murillo Villar,
El fideicomiso de residuo en derecho
romano, Valladolid [Salamanca]
[23] In
Nov. 108.2 si prevede che il fedecommissario possa ricorrere ad actio in rem
o ipoteche contro gli acquirenti dei beni ereditari. Cfr. Athan. 9.9.2 (hg.
Simon-Troianos) e Iul. ep. nov. 101(102).363. Da queste fonti risulta
che l’actio in rem e quella hypothecaria potevano essere esperite
dal fedecommissario per recuperare le cose ereditarie da qualsiasi acquirente.
Si veda, nel dettaglio, F. GORIA, Azioni reali per la restituzione della
dote in età giustinianea: profili processuali e sostanziali, in Diritto
e processo nell'esperienza romana. Atti del Seminario torinese in memoria di
Giuseppe Provera, Napoli 1994, 245 ss.
[24] Sulla
denominazione di quarta Falcidia e
sulla sua evoluzione nel tempo, tanto da finire per ricomprendere anche la
quota di eredità riservata al fedecommissario, si veda L. DESANTI,
Restitutionis post mortem onus, 179 n. 216.
[25] La
legge distingue implicitamente tra spese ingiustificate, certamente da
reintegrare, e spese giustificate. Queste ultime sono quelle per costituzione
di dote o donazione nuziale, come previsto in Nov. 39.1 del 536, e di quelle
sostenute per il riscatto dei prigionieri, di cui si fa menzione in Nov. 108.
Infine, può essere alienato anche il quarto riservato nel caso in cui il
fedecommissario non abbia mezzi di sussistenza, come previsto da Nov. 108.2.
Sul punto cfr. Ep. Iul. 101 e Enantiofane a B. 23.3.3 su cui diffusamente in L.
DESANTI, Restitutionis post mortem onus, 183 s. A. MURILLO VILLAR, El fideicomiso de residuo en derecho romano,
87 individua nelle quattro situazioni che possono giustificare l’alienazione
anche della quarta riservata al fedecommissario l’origine del fedecommesso si quid supererit (espressione che, peraltro, non figura mai nelle fonti). In
proposito, si vedano le considerazioni critiche di L. DESANTI, Restitutionis
post mortem onus, 185 ss.
[26] Sotto
il regime precedente, così come previsto nella parte finale del frammento di
Papiniano in D. 36.1.56(54), l’oggetto della cautio consisteva nell’attenersi ai criteri della buona fede e
dell’arbitrium boni viri nel
diminuire il patrimonio, impegnandosi pertanto a restituire la parte indefinita
che poteva esser rivendicata. Si veda L. DESANTI, Restitutionis post mortem
onus, 152 s. Cfr. A. MURILLO VILLAR, El
fideicomiso de residuo en derecho romano, 77 s., il quale non appare aver
compreso a pieno la portata della cautio
prevista da Nov. 108 rispetto a quella di epoca classica.
[27] Si
vedano in questo senso le considerazioni di M. BIANCHINI, Osservazioni sul
testo delle Novelle giustinianee. A proposito di Nov.
[28] Trad.
ed.: Nos igitur hinc occasione petita
existimavimus et veterem ambiguitatem et distinctionem deinceps secutam alteram
definiendam alteram integram hominibus reponendam esse, et propterea lege rem
comprehendendam, ut homines omnes legis ordinem intelligant, secundum quem haec
talia et discere et iudicare deceat. Atque novimus a Papiniano viro
prudentissimo dictum esse aliquid in libro decimo nono quaestionum, ubi
alienationes in eiusmodi casu permittit, hoc solum tamquam de industria in
aenigmate adiciens, tum demum debere alienationes prohibitas esse, ubi
intervertendi fideicommissi gratia de industria is qui eo oneratus est ad
alienationem venit. Et philosophus inter imperatores Marcus eiusmodi quodam
casu proposito viri boni arbitrium inesse videri in talibus verbis praecepit.
[29] Il
binomio saf»neia/as£feia
ricorre in Nov. 107 pr. e 1, promulgata lo stesso giorno di Nov. 108; si veda
H. HUNGER, Prooimion. Elemente
der byzantinischen Kaiseridee in den Arengen der Urkunden, Wien 1964, Register,
sv. saf»neia e sv. as£feia.
[30] Per
tutte, Omnen 2 e altre fonti in T.
HONORÉ, Tribonian, 90 n. 291;
sull’uso di saf»j nelle Novelle, G. LANATA, Legislazione
e natura nelle Novelle giustinianee, 94 n. 131.
[31] Così
G. LANATA, Legislazione e natura nelle
Novelle giustinianee, 95 (si vedano anche i principali passaggi delle
Novelle in cui compare il riferimento alla t£xij
elencati in n. 133).
[32] Sulla
ricorrenza e sul sull’impiego di sofÒj nel
lessico delle Novelle si veda G. LANATA, Legislazione
e natura nelle Novelle giustinianee, 34 n. 44. Papiniano viene richiamato,
ma in termini generici, anche in Nov. 4.1 del 535, su cui si veda R. BONINI, Il Manuale Novellarum del Van der Wal (con alcune considerazioni
sui rapporti fra Novelle e Digesto), in AG.
171, 1966 = in Contributi di diritto
giustinianeo (1966-1976), Bologna 1990, (in appendice con num. autonoma),
34 ss. Da ultimo, E. FRANCIOSI, Qui ante nos fuerunt legislatores. I richiami ai giurisprudenti e ai
predecessori nella legislazione novellare giustinianea, in Minima
Epigraphica et Papyrologica
IX, 2006, 380 s. Sulla
precisa identificazione del passo di Papiniano richiamato in Nov. 4.1,
diffusamente F. BRIGUGLIO, ‘Fideiussoribus succurri solet’, Milano 1999,
180 ss. e ulteriore bibliografia richiamata in n.
[33] Papiniano viene ossequiosamente indicato
come homo excelsi ingenii in I. 2.23.7 (su cui infra in n. 64). Analoghe espressioni laudative riferite al
giurista severiano ricorrevano già nelle costituzioni del 529-530 e nelle leges
programmatiche, mentre nella legislazione del 531 Papiniano veniva richiamato
senza epiteti (un dettagliato elenco in G. LUCHETTI, Nuove ricerche sulle
Istituzioni di Giustiniano, Milano 2004, 119 n. 63).
[34] Si
veda sv. ™xep…tedej in LIIV Nov.
Gr. 3, 1047; cfr. sv. ex studio in
LIIV Nov. L. 9, 4068 sub 2)a). Lo stesso avverbio viene ripetuto poco
più avanti in Nov. 108.1 ma riferito, in questo frangente, al fatto che il
fedecommissario consumi volutamente per non restituire (quel che Papiniano
indicava con l’espressione, richiamata letteralmente, intervertendi fideicommissi causa).
[35] Si
vedano, ad esempio, Deo auctore 13 e
ulteriori fonti citate in T. HONORÉ, Tribonian,
89 n. 258. Sull’atteggiamento di Triboniano in questa occasione, già G. LANATA,
Legislazione e natura nelle Novelle
giustinianee, 95.
[36] Nov.
107 praef.: TaÚthj ™pilabÒmenoi tÁj ¢de…aj
¥nqrwpoi e„j tosaÚthn ¢s£feian ™xÁlqon, éjte m£ntewn m©llon À ˜rmhnšwn taàta
projde‹sqai (trad. ed.: Hanc licentiam
amplexi homines in tantam obscuritatem egressi sunt, ut res vatibus potius quam
interpretibus indigeat).
[37] Marco
Aurelio viene ricordato come l’imperatore filosofo anche in Nov. 22.19 (Ð filosofètatoj M©rkoj) e Nov. 60.1 pr. (M©rkoj Ð filosofètatoj tîn
aÙtokratÒrwn). Su questa circostanza, per tutti, W. WALDSTEIN, Ius naturale im nachklassischen römischen
Recht und bei Justinian, in ZSS.
111, 1994, 56 e n. 232.
[38] Così
già SCHÖLL-KROLL, ad hanc legem. Si
veda anche R. BONINI, Il Manuale
Novellarum del Van der Wal, 21 ss. (cfr. N. VAN DER WAL,
Manuale Novellarum Justiniani. Aperçu systématique du contenu des Novelles
de Justinien, 2a ed., Groninigue 1998, 187, il quale ritiene che Nov. 108,
che espressamente richiama solo il pensiero di Papiniano, accolto in D. 36.1.56(54),
menzioni espressamente anche il frammento di Ulpiano in D. 5.3.25.16). Da
ultimo, E. FRANCIOSI, Qui ante nos fuerunt legislatores, 381.
[39] Il
caso era quello di un figlio emancipato tenuto alla collazione coi fratelli,
che riceveva però a parte quello che aveva acquistato in castris. Secondo l’imperatore, le spese sostenute dovevano
gravare non solo sul patrimonio soggetto a collazione ma sull’intera massa,
comprensiva anche dei bona castrenses (L.
DESANTI, Restitutionis post mortem onus, 148 n. 122).
[41] Su
questa differente prospettiva del discorso di Ulpiano, in breve M. TALAMANCA,
recensione a A. Murillo Villar, El
fideicomiso de residuo en [el] derecho romano, 646.
[42] ‘Probata’ adde Mo. in ed. maior I,
191, n. 5; nec … redisse] ‘causa, si nec … redisset’ correxit Kr. in ed. minor 1, 2115, n. 15.
[43] La
costituzione di Marco Aurelio verrebbe ugualmente richiamata in D. 32.39 pr.
(Scaev. 20 dig.): “in simili specie et imperator noster divus
Marcus hoc constituit”. D. 5.3.25 e D. 32.39 e 83 (Mod. 10 resp.) vengono indicati, unitamente a D.
28.8.7 (Paul. 38 ad ed., di
quest’ultimo non è ben chiaro il motivo del rinvio), dall’annotazione contenuta
nel manoscritto Marciano dopo l’inscriptio
di Nov. 108.
[44] D.
29.2.12 (Ulp. 11 ad ed.): … Et est in semenstribus Vibiis Soteri et
Victorino rescriptum..., cfr. I. 1.25.1 e ulteriori fonti citate, da
ultimo, da J. CORIAT, Le prince
législateur. La technique législative des Sévères et les méthodes de
création du droit impérial à la fin du Principat, Rome 1997, 631 s.
[45] J.
CORIAT, Le prince législateur, 631 s.
aggiunge in proposito che la redazione dei semenstria
(“codex, in quo legislationes in sex menses prolatae in unum redigebantur”, Gl. Taur. ad I. 1.25.1), per quanto riferiti dalle fonti a disposizione
proprio alla cancelleria Marco Aurelio, costituiva una prassi che venne
mantenuta anche in seguito. Da ultimo, in breve, M. VARVARO, Note sugli
archivi imperiali nell’età del principato, in AUPA 51, 2006 (http://www.unipa.it/dipstdir/pub/annali/2006/Varvaro%20-%20Note%20sugli....pdf,
31 s. e ulteriore bibliografia indicata in n. 133).
[46] T.
HONORÈ, Ulpian. Pioneer of Human Rights,
2a ed., Oxford 2002, 154, pur tralasciando il riferimento al frammento in D.
5.3.25.16, sostiene recisamente che quando Ulpiano cita il testo di una
costituzione imperiale ne ha consultato direttamente il testo.
[48] Si
vedano in proposito, da ultimo, le considerazioni di Mariagrazia Bianchini,
Giuliano Crifò, Federico M. D’Ippolito, curatori di Materiali per un Corpus iudiciorum, Torino 2002, XI.
[50] Si
vedano gli esempi portati da N. VAN DER WAL, La codification de Justinien et la pratique contemporaine, in Labeo 10, 1964, 220 ss. il quale peraltro
non ricorda nemmeno succintamente il caso esposto in Nov. 108.
[51]
«Attraverso l’utilizzazione di una tecnica di produzione normativa che presenta
ancora alcune delle caratteristiche dei modelli legislativi del Principato,
Giustiniano, in quanto conditor ed
insieme interpres legum, tenta di
recuperare quindi, almeno in parte, al nuovo sistema la flessibilità e la
capacità di modellare il diritto sul caso concreto, che caratterizzavano il
sistema classico» (F. SITZIA, Norme imperiali e interpretazioni della prassi,
313).
[52] In
questo senso già G. LANATA, Legislazione
e natura nelle Novelle giustinianee, 45 e n. 81. Sullo stile di Triboniano di richiamare soluzioni della
giurisprudenza, a volte anche in contrasto fra loro, nelle costituzioni accolte
nel Codice, si veda T. HONORÉ, Tribonian,
77-80.
[53] Il
fatto che il passo sia stato richiamato dagli avvocati delle parti in causa,
che certamente avevano dibattuto della portata della disciplina classica in
tema di fedecommesso de residuo,
probabilmente discutendo i principi espressi nel frammento di Papiniano, e
forse anche di Ulpiano, credo si possa facilmente desumere dalla diegesi ma,
comunque, la circostanza né aggiunge né toglie alcunché rispetto all’ottica
adottata. La prospettiva, infatti, vuole essere quella della ricerca del
percorso logico argomentativo del legislatore quale emerge dall’andamento
narrativo della Novella, che presenta un ragionamento tutto imperniato sul
passo di Papiniano, il cui frammento viene citato con le coordinate precise del
libro e dell’opera.
[54] Sui
richiami alla legislazione precedente e alla giurisprudenza, presenti nelle
Novelle (scarsa attenzione alle Novelle in M. MASSEI, Le citazioni della
giurisprudenza classica nella legislazione imperiale, in Scritti di
diritto romano in onore di C. Ferrini, Milano 1946, 460 n. 4, nella quale
non viene ricordato il richiamo di Papiniano in Nov. 108), si veda la prima
delle tavole (“Table des lois mentionnées dans les Novelles”) in N. VAN
DER WAL, Manuale Novellarum Justiniani2, 149-153. Sul concetto di “loi
mentionnée” e, soprattutto, sul valore e sulle modalità di utilizzo dei
precedenti richiamati, si vedano gli spunti e le riflessioni in R. BONINI, Il Manuale Novellarum del Van der Wal, 4 ss. Da ultimo, E.
FRANCIOSI, Qui ante nos fuerunt legislatores, 377 ss. e ulteriori
contributi ivi richiamati.
[55] Sul
significato dell’espressione intervertendi
fideicommissi causa, L. DESANTI, Restitutionis post mortem onus, 147.
[56] Su
queste problematiche, si veda G. BASSANELLI SOMMARIVA, L’imperatore unico
creatore ed interprete delle leggi e l’autonomia del giudice nel diritto
giustinianeo, passim.
[57] Si
noti che la prospettiva adottata in questo frangente non è quella del melius
invenire, richiamata in altri luoghi. Sulla ricorrenza nelle Novelle
dell’espressione melius invenire, già in Cordi
[59] L.
LANTELLA, Dall’interpretatio iuris
all’interpretazione della legge, in Nozione
formazione e interpretazione del diritto dall’età romana alle esperienze
moderne. Ricerche dedicate al prof. Filippo Gallo, Napoli 1997, III, 583
ss.
[61] Si
tratta di due criteri ben definiti, che certamente lasciavano un buon margine
di discrezionalità al giudice nella valutazione delle circostanze che avevano
portato il fedecommissario a usare dei beni ereditari. Non me la sentirei in
proposito di parlare di «genericità del testo normativo del Digesto», come
afferma F. SITZIA, Norme imperiali e interpretazioni della prassi, 299
n. 38.
[62] È
stato notato come il criterio dell’arbitrium
boni viri rientri già nel fedecommesso e sia postulato dalla buona fede. In
tal senso, significativa appare l’affermazione di Paolo in D. 19.2.24 pr.: “nam fides bona exigit, ut arbitrium tale
praestetur, quale viro bono convenit”. Per quanto concerne il rapporto tra
buona fede e arbitrium boni viri, L.
DESANTI, Restitutionis post mortem onus, 147 ss. Cfr. A. MURILLO VILLAR, El fideicomiso de residuo en derecho romano, 64, su cui si vedano i
rilievi mossi da M. TALAMANCA, recensione a A. Murillo Villar, El fideicomiso de residuo en [el]
derecho romano, 645. Sui dubbi classicità del rinvio all’arbitrium boni viri da parte della critica interpolazionistica, per
tutti L. DESANTI, Restitutionis post mortem onus, 149 s. n. 129 e ulteriore
bibliografia ivi indicata.
[64]
Papiniano è il giurista che viene richiamato maggiormente nelle Institutiones. La sua menzione figura complessivamente
sette volte nei primi due libri. In particolare, in I. 1.25.2 si afferma di
aver aderito all’opinione espressa da Papiniano nel libro quinto dei Responsa. La fonte di questo passo
parrebbe essere le Istituzioni di Marciano, che forse già contenevano il
richiamo al libro e all’opera di Papiniano (in questo senso, da ultimo, G. LUCHETTI, Nuove ricerche sulle
Istituzioni di Giustiniano, 236 s. e ulteriore bibliografia indicata in n.
248). La citazione attraverso le coordinate precise dell’opera, come si
riscontra in Nov. 108, non è frequente neppure nelle Istituzioni: si tratta di
soli altri due casi, oltre a quello di Papiniano riferito in I. 1.25.2.
In I. 4.3.1 viene citato testualmente un passaggio di Marciano in suis institutionibus, conservato
peraltro in D. 32.65.4 (da cui risulta che il passo proviene dal libro settimo
delle Istituzioni). Gaius noster in
interpretazione legis duodecim tabularum viene richiamato in I. 4.18.5:
anche in questo caso il frammento, riferito in maniera integrale, viene
conservato in D. 50.16.233.2, che informa trattarsi di un testo proveniente dal
primo libro del commento alle XII Tavole. In questi ultimi due casi, a
differenza di quanto avviene in I. 1.25.2, il richiamo all’opinione del
giurista e all’opera sembra sia da attribuire direttamente ai compilatori (G. LUCHETTI, Nuove ricerche sulle
Istituzioni di Giustiniano, 120).
[65] In
Nov. 87 praef. viene seguito
l’opposto metodo di citazione con richiamo diretto al Digesto: ... kaq£per 'IoulianÕj Ð sofètatoj ™nomoqšthse, toàto Óper ¹me‹j ™n
tù lq' bibl…J tîn ¹metšrwn digšstwn ™gr£yamen (trad. ed.: …quemadmodum
Iulianus vir sapientissimus statuit, id quod nos in trigesimo nono libro
digestorum nostrorum perscripsimus; si tratta di D. 39.6.13.1, Iul. 43 dig.; si veda R. BONINI, Il Manuale
Novellarum del Van der Wal, 30 ss.
Sul senso di questo rinvio si veda anche, da ultimo, E. FRANCIOSI, Qui ante nos
fuerunt legislatores, 380).
[66]
Diversamente F. CASAVOLA, Giuristi romani
nella cultura bizantina tra classicità e cristianesimo, in Studi tardoantichi, Messina 1986, 233 =
in Sententia Legum tra mondo antico e
moderno, I. Diritto romano,
Napoli 2000, 225, il quale indica il confronto
tra la praefatio e il capo primo
della Novella 108 come «la prova che dopo il 534 la stessa cancelleria
imperiale si inibisse la lettura diretta dei giuristi romani e usasse come
testo l’antologia del Digesto». Senza offrire argomentazioni a supporto della
propria affermazione, l’autore asserisce conclusivamente che: «le parole di PapinianÕj Ð sofètatoj ‘intervertendi fideicommissi causa’ e la citazione di un decreto di
Marco Aurelio Ð
filÒsofoj ™n basileàsi sono lette nel testo del Digesto».
[68] Uno
spunto in questo senso già in G. LANATA, Legislazione
e natura nelle Novelle giustinianee, 86 s. n. 101, la quale enumera la Nov.
108 tra quelle che «si presentano espressamente come interpretative di leggi
precedenti».
[69] In
proposito, si veda G. CRIFÒ, Rapporti
tutelari nelle Novelle Giustinianee, Napoli 1965, 168 s. La connotazione
marcatamente generalizzante delle sue conclusioni viene sottolineata da R.
BONINI, Il Manuale Novellarum del Van der Wal, 5 n. 6. Sul tentativo
di distinguere nell’ambito del potere normativo imperiale il momento
nomopoietico e quello interpretativo, si veda M. VALENTINO, Il precedente
giudiziale: esigenze di certezza e problema sistematico, in Labeo
64, 1998, 295 s. (su cui si vedano i rilievi di F. SITZIA, Norme imperiali e
interpretazioni della prassi, 307 s. n. 57).
[70] Da
ultimo, A. ROMANO-TASSONE, Motivazione
dei provvedimenti amministrativi e sindacato di legittimità, Milano 1987;
A. SAITTA, Logica e retorica nella
motivazione delle decisioni della Corte costituzionale, Milano 1996; R.
SCARCIGLIA, La motivazione dell’atto
amministrativo. Profili ricostruttivi e analisi comparatistica, Milano
1999; AA.VV., La motivazione del
provvedimento amministrativo. Raccolta di dottrina, giurisprudenza e
legislazione, Padova 2002.
[73] Di
recente, N. LUPO, Verso una motivazione
delle leggi? A proposito del primo rinvio di Ciampi, in Quad. cost. 2001, 362 ss.; ID., Alla ricerca della motivazione delle leggi:
le relazioni ai progetti di legge in Parlamento, in AA.VV., Osservatorio sulle fonti 2000, (a cura
di U. De Siervo) Torino 2001, 77 ss.
[74]
Ringrazio sentitamente il dott. Silvio Boccalatte, il quale si occupa da tempo
della motivazione della legge nel diritto vigente e la cui monografia in tema
uscirà a breve, per le indicazioni e i chiarimenti che mi ha voluto gentilmente
fornire in più occasioni. Ça va sans dire che le imprecisioni
riscontrabili in questa parte del mio contributo sono addebitabili
esclusivamente allo scrivente.
[75] V.
CRISAFULLI, Sulla motivazione degli atti
legislativi, 415 s. il quale definisce la motivazione come «l’enunciazione
esplicita o implicita, contestuale o non, dei motivi che precedettero e
determinarono l’emanazione di un atto giuridico», precisando che «scopo
essenziale della motivazione è di render palese nel mondo esterno un momento di
per sé meramente interno del processo formativo del volere, qual è quello
costituito dal complesso dei motivi, prossimi e remoti, che determinarono in
concreto una certa data volizione».
[76] V.
CRISAFULLI, Sulla motivazione degli atti legislativi,
420, il quale presenta i motivi come «rappresentazioni psichiche particolari
che preparano e precedono la determinazione volitiva». Cfr. C. M. IACCARINO, Studi sulla motivazione (con speciale
riguardo agli atti amministrativi), Roma 1933, 36 s.; ID., sv. Motivazione degli atti amministrativi,
in NNDI. 10, 958 ss. il quale
individua lo scopo essenziale della motivazione nella volontà di manifestare
all’esterno un momento di per sé meramente interno del processo formativo del
volere. Pertanto, distingue tra motivi e causa, che si connota in modo
oggettivo ed è insita nella forma data all’atto.
[77] M. S.
GIANNINI, sv. Motivazione dell’atto
amministrativo, in ED. 27, 260-
[78] Nello
specifico, il mezzo per perseguire un fine verso il quale si orienta
l’intenzione del legislatore coincide nell’atto legislativo con i meccanismi
normativi stabiliti nell’articolato della legge, cioè, in fondo, con il
contenuto della legge stessa; si veda G. ZAGREBELSKY, Manuale di diritto costituzionale, 72.
[79] Gli
obiettivi si pongono su due livelli differenti: su un piano stanno gli
obiettivi strumentali immediati e, sull’altro, gli scopi politici finali. Lo
scopo politico finale è, propriamente, il fine della legge, cioè la situazione
ideale che il legislatore si rappresenta in connessione con il motivo. In
dottrina quest’ultima nozione viene appunto indicata con l’espressione “ratio legis”.
[80] Si vedano le fonti citate in G. RIES, Prolog und Epilog in Gesetzen des Altertums,
München 1983, 127 ss.
[81] G. RIES, Prolog
und Epilog in Gesetzen des Altertums, 127 ss. (e ivi
per ulteriore bibliografia).
[82] Mi
riferisco in primo luogo alle costituzioni pervenute per via epigrafica, su cui
G. RIES, Prolog und Epilog in Gesetzen
des Altertums, 166 ss. (interessante l’analisi delle motivazioni riportate
nell’edictum de pretiis di
Diocleziano, 186 ss.). Sui richiami all’humanitas
come motivazione formale nel Codice Teodosiano si veda R. M. HONIG, Humanitas
und Rhetorik in spätrömischen Kaisergesetzen. Studien zur Gesinnungsgrundlage
des Dominats, Göttingen 1960, 70 ss.
[84] La ratio si incontra con
maggiore frequenza nelle costituzioni del 534, inserite nella repetita Praelectio a ridosso della sua pubblicazione; si veda
ad es. C. 6.51.1 pr. e 1: Et nomen et materiam caducorum ex bellis
ortam et auctam civilibus, quae in se populus Romanus movebat, necessarium
duximus, patres conscripti, in pacificis nostri imperii temporibus ab orbe
Romano recludere, ut, quod belli calamitas introduxit, hoc pacis lenitas sopiret.
1. Et quemadmodum in multis capitulis lex Papia
ab anterioribus principibus emendata fuit et per desuetudinem abolita, ita et a
nobis circa caducorum observationem invidiosum suum amittat vigorem, qui et
ipsis prudentissimis viris displicuit, multas invenientibus vias, per quas
caducum ne fieret (sulla quale, brevemente, M. TALAMANCA, recensione
a A. Murillo Villar, El fideicomiso de
residuo en [el] derecho romano, 647). È possibile pensare che si tratti di praefationes, o parti di
queste, che non sono state espunte perché è mancato il lavoro finale di
raccordo e revisione della compilazione, ma è anche possibile che si tratti di
una scelta voluta dal momento che erano queste le leggi meno conosciute perché
più recenti, erano quelle che avevano circolato di meno e, pertanto, è
possibile ancora non avessero trovato applicazione nella prassi forense.
Conseguentemente, conservare la ratio poteva significare esplicitare la portata
delle ultime riforme introdotte, dando uno strumento utile, quale la
motivazione della legge, ai giudici e alle parti per poter interpretare le
norme secondo la volontà del legislatore. Non si dimentichi inoltre che si
tratta di costituzioni poste a chiusura dei titoli: la circostanza di
conservare maggiori indicazioni può forse essere spiegata anche pensando che
queste leggi venissero usate anche in chiave interpretativa rispetto alle
disposizioni contenute in quelle che le precedevano.
[85] Si veda a titolo meramente esemplificativo I.
2.14 pr. in tema di istituzione d’erede del proprio schiavo sine libertate.
Viene qui riferita la riforma introdotta da una decisio del 531,
conservata in C. 6.27.5, che, dopo aver ricordato in termini estremamente
generici il caso concreto che aveva originato la pronuncia imperiale (5 pr.: Quidam,
cum testamentum conderet, duobus heredibus scriptis unum quidem ex parte
instituit…), indicava la ratio formale nell’humanitas e nel favor
libertatis (5.1b: quare non hoc et in hereditate et humanius et favore
libertatis inducimus) e la ratio sostanziale nell’adeguamento della
normativa vigente alla voluntas testatorum (5.1a: quia semper
vestigia voluntatis sequimur testatorum). Nel passo istituzionale vengono
presentati i precedenti giurisprudenziali da cui aveva preso le mosse
l’intervento imperiale e viene richiamata l’opinione di Atilicinio, cui si
sarebbe uniformata la decisio imperiale. A questo proposito, in
relazione alla ratio, il testo istituzionale afferma che quod non per
innovationem induximus, sed quoniam et aequius erat et Atilicino placuisse
Paulus suis libris quos tam ad Masurium Sabinum quam ad Plautium scripsit
refert. I commissari indicano l’aequitas quale criterio che avrebbe
ispirato la legislazione giustinianea in materia. L’humanitas viene
invece citata in altro luogo del testo istituzionale, I. 1.6.2, nel quale viene
ugualmente ricordata la riforma introdotta nova humanitatis ratione attraverso
la costituzione in C. 6.27.5 (si veda G. LUCHETTI, Nuove ricerche sulle
Istituzioni di Giustiniano, 107 ss., il quale sottolinea come la ratio
della riforma, che ha portato il legislatore a discostarsi dall’opinione
dominante e che appare più sfumata nel testo della legge accolta nel Codice,
venga ampiamente documentata proprio nel testo istituzionale). La prospettiva è
differente in I. 2.23.7. La riforma in tema di restituzioni fedecommissarie non
viene infatti introdotta tramite una costituzione ma si realizza, come risulta
da questo passo delle Istituzioni e da Tanta 6a, mediante interventi dei
compilatori del Digesto e del Codice, che sostituiscono la menzione del SC.
Trebelliano con quella del SC. Pegasiano. In proposito, i commissari delle Institutiones
richiamano Papiniano, homo excelsi ingenii, il quale aveva ritenuto
capziose le stipulazioni derivanti dal SC. Pegasiano (cfr. Nov. 1.1.1 del 535.
Diffusamente in G. LUCHETTI, Nuove ricerche sulle Istituzioni di Giustiniano,
113 ss. e ulteriore bibliografia indicata in nn. 56 ss.). A queste parole segue
l’indicazione della ratio formale: nobis in legibus magis simplicitas
quam difficultas placet. Come risulta evidente, in questo frangente la
citazione di Papiniano, pur rientrando nel ‘corredo motivazionale’, indica
semplicemente un precedente dottrinale e non ha rilevanza sul piano della
comunicazione della motivazione sostanziale.
[86] Come
già in Imperatoriam 5 (cfr. Summa 1), anche in Cordi 3 si
ricorre alla metafora buio/luce: …et tam imperfectas replere quam nocte
obscuritatis obductas nova eliminationis luce retegere… Sul significato di eliminatio,
si veda M. CAMPOLUNGHI, Potere imperiale e giurisprudenza in Pomponio e in
Giustiniano, 2. 2, 462 ss.
[87] Haec 2: Quibus specialiter permisimus resecantis tam supervacuis, quantum ad legum
soliditatem pertinet, praefactionibus quam similibus et contrariis… Summa 1: tollendis
quidem tam praefationibus nullum suffragium sanctioni conferentibus quam
contrariis constitutionibus…; cfr. Cordi 2 e 3. L’espunzione delle prefazioni riguardava evidentemente
tutte quelle costituzioni che non venivano desunte dai codici precedenti,
quindi, in particolare, le novelle post teodosiane e le costituzioni di
Giustiniano stesso. A proposito delle istruzioni date dall’imperatore per la repetita praelectio, stante
l’improbabilità della soppressione di una costituzione programmatica, occorre
pensare che l’incarico di redigere un nuovo codice «non fosse altro che un
ampliamento, un adattamento alla nuova situazione, dei criteri, delle
disposizioni dettate dalla Haec…» (M.
BIANCHINI, Appunti su Giustiniano e la
sua compilazione, Torino 1983, 58). Cfr. da ultimo, A. M. GIOMARO, Il Codex
repetitae praelectionis, Roma 2001, 51 ss., la quale sottolinea come
l’attività dei compilatori del Codex
repetitae praelectionis ha come scopo «in definitiva quello di adattare il
codice ad similitudinem nostrarum
institutionum et digestorum». M. CAMPOLUNGHI, Potere imperiale e
giurisprudenza in Pomponio e in Giustiniano, 2. 1, 74 e n. 26, la quale
afferma che «è l’idea di codex unico ad essere antitetica alle praefationes».
Da ultimo, nulla specificamente dice sull’espunzione delle praefationes
A. CENDERELLI, I giuristi di Giustiniano,
in http://www.ledonline.it/rivistadirittoromano/allegati/dirittoromano04cenderelli.pdf,
3 s.
[88] Haec 2 (supra in nota
precedente), su cui di recente M. CAMPOLUNGHI, Potere imperiale e
giurisprudenza in Pomponio e in Giustiniano, 2. 2, 483.
[89] L’immagine,
che trovo molto bella e particolarmente efficace, è di H. JONES, Justiniani Novellae
ou l’autoportrait d’un législateur,
155-156.
[90] Sulla
rilevanza assunta dal pensiero di Papiniano in questa materia, si veda L.
DESANTI, Restitutionis post mortem onus, 157 s.
[91] La
motivazione formale consiste nell’enunciazione in forma linguistica delle
ragioni che hanno spinto il legislatore a dettare il provvedimento normativo.
Si tratta di un atto comunicativo che coincide, generalmente, con la
motivazione sostanziale. Tuttavia, ciò può non esser vero: l’indicazione della
motivazione è pur sempre un atto di scienza e, soprattutto, un atto di volontà.
Pertanto, il legislatore potrebbe decidere di esprimere la motivazione
sostanziale, ma potrebbe anche tranquillamente scegliere in maniera differente,
magari perché ritiene più opportuno elaborare una motivazione propagandistica,
ad esempio con finalità demagogiche. L’interprete è quindi chiamato, senza
sconfinare in analisi psicologiche, ad operare un attento esame per valutare se
il fine sostanziale corrisponda allo scopo formalmente denunciato nella legge.
[93]
Diversamente, F. SITZIA, Norme imperiali e interpretazioni della prassi,
310, sostiene che l’innovazione introdotta da Nov. 108 venga presentata «non
come il frutto di una nuova norma introdotta dal legislatore ma come una
doverosa messa a fuoco di un limite, nella sostanza già presente, anche se
formulato in termini troppo generici».
[95] Nov.
108.1. Trad. ed.: Sin etiam captivorum
redemptionis causa (hanc enim causam excipimus et deo dicamus), hoc quoque
liceat ei facere, atque etiam quartam minuere, cum pietatis ratio omnibus rebus
pretiosior nobis videatur.
[96] A.
MURILLO VILLAR, El fideicomiso de residuo
en derecho romano, 85 intende le parole di Nov. 108.1 nel senso che
l’imperatore avrebbe consentito che la quarta parte venga intaccata in ragione
delle spese per il riscatto dei prigionieri e per altre spese compiute pietatis ratione. Peraltro, il testo
della costituzione non giustifica questa interpretazione (L. DESANTI,
Restitutionis post mortem onus, 181 n. 223).
[97]
Analoga disposizione è contenuta in Nov. 123.37 del 546: le clausole ‘si sine liberis decesserit’ e ‘si sine nuptiis decesserit’ si hanno per
non apposte nel caso in cui gli onerati abbiano scelto di abbracciare la vita
religiosa, i quali non sono tenuti perciò alla restituzione, salvo il caso in
cui questa fosse stata disposta per il riscatto dei prigionieri (su cui L.
DESANTI, Restitutionis post mortem onus, 111 s. e 224). In questo frangente,
però, il legislatore non palesa la ratio
della disposizione.