N. 7 – 2008 – Tradizione
Romana
Università di Sassari
Tradizione e innovazione nella formazione
delle leggi nel Sacro Romano Impero
del XVIII secolo
Sommario: 1. Introduzione. –
2. Un diritto non
statalizzato, non legificato, non laico. – 3. La costituzione del S.R.I.
dopo la pace di Westfalia. – 4. I limiti al potere normativo
dell’Imperatore. – 5. La
Dieta dell’Impero. – 6. Convocazione ed apertura dei
lavori. – 7. Iniziativa
e modus procedendi. – 8. Conclusioni.
Nell’intento
di una comparazione non solo sincronica, ma anche diacronica di ordinamenti,
auspicata anche in questa sede, questo intervento si rivolge ad una istituzione
spesso elusa, soprattutto nella forma assunta alle soglie della età
contemporanea: il Sacro Romano Impero. Com’ è noto, si tratta di
una istituzione di lunga durata: più di mille anni corrono dalla sua
fondazione[1],
al suo scioglimento[2]. In questo millennio, pur
nell’evolversi della sua struttura, l’Impero, nonostante gli
attacchi esterni e la conflittualità interna, contribuì potentemente
al risollevarsi dell’Europa da area fortemente svantaggiata, rispetto
alle più affluenti aree bizantina e islamica, ad area (non solo
economicamente) avanzata. A tale scopo, fu determinante la sua particolare
costituzione, e, al suo interno, il rapporto del potere col diritto, rapporto
che fu sempre più condizionato da limiti e tecniche che possiamo
qualificare di natura costituzionale.
Richiamare il concetto di costituzione è certo
impegnativo: esso generalmente si lega ad un Ottocento tutto attraversato dalle
battaglie politiche tese appunto ad ottenere delle carte costituzionali. Ma
basta pensare alla Magna Charta inglese, alla Bolla d’Oro di re
Andrea II d’Ungheria, o alla stessa esperienza costituzionale polacca[3],
per rendersi conto del fatto che l’idea che prima di allora non si
conoscessero barriere costituzionali è una delle eredità
più erronee dell’Illuminismo, cioè di una visione
evoluzionista degli ordinamenti e della conseguente convinzione della
arretratezza quando non della barbarie dell’età precedente.
E’ peraltro vero che nel Medioevo, a causa di molteplici fattori, ebbe
vita un tipo di Stato - indicato come “Stato patrimoniale-feudale” -
sostanzialmente altro rispetto a quello al quale normalmente si pensa oggi in
Europa. Un tale Stato era molto “leggero”. Il suo governo si
identificava con la cura dei propri affari da parte del principe, mentre gli
istituti necessari al conseguimento dei fini sociali erano lasciati all’iniziativa
dei privati e delle loro associazioni, che vi tendevano con l’uso delle
loro proprie forze, senza peraltro esserne generalmente ostacolati dal principe[4].
In uno “Stato” siffatto, la funzione normativa non è
accentrata. Anzitutto perché non accentrate sono le singole parti del
patrimonio del Principe: spesso separate fra loro da enclaves appartenenti ad altri signori, esse mantengono e
pretendono sia rispettata la loro specificità[5].
Ma anche perché in questo “Stato”, che si presenta a lungo, più che come una unità politica
dotata di potere esclusivo su un territorio continuo e unitario, come una unione personale[6],
come un conglomerato di unità territoriali diverse[7], il diritto, considerato come un patrimonio -
della persona, della corporazione, del ceto, del territorio - è caratterizzato da un accentuato pluralismo, ordinato
secondo diversi livelli di organizzazione del potere, e gli ordinamenti di cui si sostanzia non sono unità chiuse, ma
ammettono continue eterointegrazioni, filtrate dalla dottrina[8]
e, quando essi si affermano, dai grandi tribunali[9].
Inoltre,
l’esperienza giuridica nel suo complesso è sorretta da uno stretto
collegamento con l’etica; cioè conosce uno jus cogens in senso tecnico, coincidente coi principi della
religione cristiana, e consistente in quello jus divinum cui nessun principe, nemmeno il Papa, può
derogare[10].
Da questo punto di vista, ha ragione Piero Bellini, si può affermare
che, prima che lo Stato diventi laico, esso (nella persona del suo principe)
non è veramente “sovrano” [11].
In
questo quadro, il diritto mantiene una apparente staticità, legato
com’è prevalentemente alla consuetudine, dal momento che il Principe – secondo una affermazione di Bracton,
che riecheggia nei verbali del processo a Carlo d’Inghilterra- non ha
soggetta a lui la legge, ma è egli stesso soggetto alla legge[12];
al che si accompagna la dinamicità di una interpretazione i cui
artefici restano per secoli i veri conditores
juris[13].
A loro si deve il maestoso
edificio dello Jus Comune; a loro la sua trasfigurazione in
quello Jus naturale, costruito come categoria universale cui tutti erano
soggetti[14].
Se il Principe si fa legislatore, ciò accade solo in vista della
migliore amministrazione del suo patrimonio, e all’interno della funzione
di giustizia, come strumento per eliminare le consuetudini inique e sostituirle
con norme ispirate al superiore principio dell’aequitas. Spesso, quindi, il rinnovamento giuridico assume la forma
di una “restitutio”, di
un ritorno al buon vecchio diritto operato dal sovrano apparentemente mosso
dalla compassione per i suoi sudditi[15].
Indicativi sono i “preamboli” che precedono il testo normativo, nei
quali il Principe si preoccupa di fornirne le motivazioni[16].
Anche
così, tuttavia, egli deve rispettare le modalità richieste dall’ordinamento
onde non attirarsi una legittima resistenza[17].
E qui bisogna ricordare che mentre in Italia l’esasperazione delle lotte
fra opposte fazioni portava nei Comuni italiani al sorgere della Signoria, ove
al signore veniva conferito l'arbitrium[18],
cioè la facoltà di mutare, secondo quanto gli paresse
più opportuno, gli stessi fondamenti istituzionali del Comune, quasi
contemporaneamente nei territori d'oltralpe la feudalità evolveva verso
l'organizzazione cetuale, facendo giurare al signore territoriale le chartae libertatis, che sancivano
l’inviolabilità delle “libertà” dei Ceti e il
loro diritto ad essere consultati – secondo il principio quod omnes tangit ab omnibus adprobari debet[19]
– in molte questioni di governo, fra cui le modifiche
all’ordinamento vigente. Normalmente ciò avveniva nella dieta,
nella quale si riunivano i Ceti del territorio, e che veniva indetta dal principe territoriale. Secondo una parte
consistente della dottrina, originariamente quest’ultimo sarebbe stato
libero di convocare tale assemblea quando gli fosse parso più opportuno;
ma nel corso del tempo si sarebbe determinato sempre più chiaramente per
quali materie essa dovesse venire consultata, e cioè guerra, imposte
straordinarie, nuove leggi di ordine pubblico[20].
Se
questo quadro, con l’evolvere dello Stato patrimoniale-feudale in Stato
di polizia, vede un rafforzamento del potere del Principe nei territori
dell’Impero, nell’Impero come tale, al contrario, esso conosce una
accentuazione del potere dei Ceti.
L’Impero, infatti, è - dalla Pace di
Westfalia in poi - congelato in quella forma di ordinamento decentrata, che dal
suo retaggio medievale si è tradotta in un definitivo rafforzamento
della signoria territoriale delle sue parti. Nell’art. 8 del Trattato di
Osnabrück, (uno dei due trattati di cui si compone la Pace di Westfalia)
venne infatti riconosciuto lo jus
territoriale dei Ceti imperiali, i quali vedevano sancire non solo,
all’interno dell’Impero, il loro diritto di intervento in molte
questioni di vitale importanza, ma anche, nei rapporti con le potenze esterne
all’Impero, il diritto di stipulare trattati, in particolare trattati di
alleanza[21].
Questo
articolo, e la stessa partecipazione dei Ceti al Congresso di pace, furono
frutto di trattative complesse. Il diritto di alleanza traeva evidentemente le
sue radici da una età in cui, non conoscendosi un potere sovrano
complessivo, capace di imporsi sul territorio e sul popolo come l’odierno
potere statuale, un’alleanza compatibile con il mantenimento della
fedeltà nei confronti del signore feudale, non solo non costituiva una
violazione degli obblighi assunti verso quest’ultimo, ma era un elemento
funzionale alla dinamica del potere[22].
Ma ora questo diritto assume tutta un’altra valenza[23].
Alle obiezioni dell’Imperatore, che paragonava i Ceti dell’Impero a
quelli francesi, il re di Francia ribatteva essere questi propri sudditi,
quelli principi liberi e indipendenti.[24]
Dunque
l’Impero era adesso una monarchia, come sosteneva Reinkingk[25],
ovvero una aristocrazia come voleva von Chemnitz[26]?
Samuel Pufendorf negava entrambe le soluzioni: il Reich gli appariva come un corpo irregolare, persino mostruoso: non una monarchia limitata e nemmeno una
federazione di molti Stati, ma piuttosto qualcosa di intermedio tra le due[27].
A definire la sua complessità era evidentemente inadatto il
rigido schema delle categorie aristoteliche (monarchia, aristocrazia
democrazia), nelle quali si articolava la teoria dello Stato; e l’
evoluzione di quest’ultima doveva fronteggiare la nuova dottrina della
sovranità di Bodin e dei suoi seguaci. In quanto disegnava un potere
concepito come indivisibile, tale dottrina portava inevitabilmente alla
distorsione del concetto di potere su cui si basava l’ Impero[28].
Ecco perciò che, all’indomani di Westfalia, prendono vita
concezioni che sviluppano
l’analisi dei sistemi di Stati[29]
e, più tardi, la dottrina del Federalismo: l’Impero viene definito
come Status mixtus[30]
ovvero come Civitas composita[31]. Pütter parlerà di zusammengesetzten Staat, di respublica composita ex pluribus
respublicis specialibus[32].
Se parliamo di legislazione, o più
precisamente delle forme attraverso le quali si attua il rinnovamento del
diritto, nell’Impero, noi ne parliamo dunque a proposito di una forma di
potere composita, piuttosto lontana da quella assunta dallo Stato moderno, che
in Germania oltretutto, come si è ricordato, si evolve dal “dominium intermedium” o “Landeshoheit” del “Landesherr”
sul suo territorio[33],
non già dal dominio su tutto l’Impero dell’Imperatore.
Carattere
essenziale del Reich resta, sino alla
sua fine, il dualismo cetuale. La sovranità era spartita fra
l’Imperatore e i Ceti
dell'Impero. Essa tornava a farsi unica nella Dieta o Reichstag, che era una assemblea rappresentativa, composta dal Kayser e da tutti i Reichsstände, grazie alla quale potevano appunto essere
esercitati quegli jura maiestatica in
ordine ai quali, secondo le Leggi dell'Impero, l’Imperatore aveva bisogno
del consenso degli Stände, in
quella struttura bicefala della sovranità che è tipica degli
Stati per ceti[34].
La
Dieta è regolata da testi normativi aventi funzione di leggi
fondamentali (Reichsgrundgesetze, come vengono chiamate dalla dottrina
del tempo[35])
come la Bolla d'Oro promulgata dall’Imperatore Carlo IV, la Pace di
Westfalia o le capitolazioni elettorali, giurate dall’Imperatore
all’atto di assumere il potere. Nelle Capitolazioni di Giuseppe II, si
legge che l’Imperatore si impegna a
“governare secondo le leggi, tenere fermo saldo e
inviolabile quanto dalle precedenti diete venne stabilito e concluso e non
abolito da successive costituzioni e leggi del Reich o comunque sia
stato trovato buono e di conseguenza conclusivo dal Reichstag, come se
fosse, parola per parola, incorporato nelle stesse Capitolazioni, sotto nessun
pretesto, quale che possa essere, senza precedente consenso degli Elettori,
Principi e Stati dato nel Reichstag od in una ordinaria Deputazione
dello stesso, a questo venir meno, ma piuttosto convenientemente trattare la
cosa; parimenti le altre leggi e ordinanze del Reich , per quanto
ciò tuttavia non sia contrario al Reichsabschied di Augsburg del
1555 nonché alla Pace di Westfalia, opportunamente rinnovare e col
consenso degli Elettori, dei Principi e degli Stati rinnovare secondo lo
richiedono le circostanze del Reich, in nessun modo tuttavia senza il
precedente consenso di costoro, da esprimersi nel Reichstag, modificare
le leggi o farne di nuove nel Reich od imprendere a dare interpretazione
delle massime del governo del Reich o dei trattati di pace o permettere
che tali interpretazioni siano lasciate al Reichscammergericht o al Reichshofrath.”[36]
L’Imperatore
promette inoltre:
“di non promulgare in nessun modo o maniera Rescript,
Mandat oder Commission sia provvisorie che altrimenti contrarie alle Leggi
ed alle Ordinanze dell’Impero, così come attualmente esistenti o
come in futuro possano venire emanate col consiglio e con la collaborazione
degli Elettori dei Principi e degli Stati”[37].
Era
evidente, quindi, che non solo l’Imperatore era obbligato
all’osservanza delle Reichsgesetze, ma che si impegnava a
modificarle solo col consenso dei Ceti. Di più: vi è una riserva
di interpretazione autentica – tipica di quelli che oggi chiamiamo organi
costituzionali - a favore della Dieta, perché l’Imperatore non
può impartire ai sommi tribunali dell’Impero istruzioni contrarie
alle leggi dell’Impero, restando l’interpretazione autentica delle Reichsgesetze
e dei trattati di pace affidata all’organo che le ha rispettivamente
fatte e concluse, cioè la Dieta. Il Kemmerich ci informa con precisione
circa le differenti competenze dell’Imperatore e dei Ceti
dell’Impero. Erano competenza del primo: “1) capita legum ferendarum vel motu proprio, vel ad instantiam proponere;
2) placita ordinum de ferendis legibus decreta sua vel confirmare vel
infirmare; confirmata atque adeo per mutum consensum constituta, iussione sua
per modum legis, addita etiam poena sancire; 4) sancita ita leges sigillo
Imperatorio nominisque subscriptione munire: Denique 5) suo nomine suisque
auspiciis easdem solenni ritu promulgare.” Erano competenza dei
secondi, cioè dei Ceti dell’Impero: “Imperatore de ferenda lege submisse admonere; 2) de capitibus a Caesare
propositis per omnes tres Curias deliberare et communicatis sententiis communem
Conclusum formare; 3) idem per delegatos ad Caesarem referre; 4) formulam legis
sue Recessus ex Concluso Statuum et Decreto Caesaris conceptam et praelectam
examinare ac pro re nata mutare; Denique: 5) appensis nonnullorum Deputatorum
scilicet sigillis ac subscriptis omnium nominibus, de consensu et acceptatione
publice contestare[38].
Il
diritto di partecipazione attiva alla Dieta (con voto che poteva essere virile,
plurimo o curiato) aveva dei connotati patrimoniali e personali a un tempo: era
infatti connesso al possesso di un feudo dell’Impero e al rapporto
diretto con l’Imperatore. Ma sono proprio questi connotati che fanno
della Dieta dell’Impero del XVIII secolo l’areopago d’Europa,
l’istituzione rappresentativa della sua unità: è infatti in
funzione dei feudi posseduti all’interno dell’Impero che vi
partecipano, cioè vi hanno seggio e voto - nella loro qualità di Reichstände-: il re di Polonia, come elettore sassone; il re di Danimarca per
via delle contee di Oldenburg e Delmenhorst; il re di Inghilterra come elettore
del Braunschweig-Lueneburg Hannover; il re di Svezia per via dei ducati di
Bremen e dei principati di Pommern e di Vehrden; il re di Sardegna, quale duca
di Savoja; inoltre potevano assistervi anche altre potenze estere come la
Francia, mandandovi i loro ambasciatori[39].
I
Principi Elettori si erano riservato il privilegio che l'Imperatore dovesse
consigliarsi con loro circa la data di convocazione della Dieta, la quale
doveva tenersi entro i confini del Reich[40].
Quanto alla sua durata, essa venne via via aumentando col tempo, anche per
l'incalzare degli avvenimenti politici che coinvolgevano l’Impero e i
suoi territori: il continuo stato di guerra con la Porta,
l’ostilità della Francia, la necessaria creazione di un esercito
permanente, i disordini religiosi. Infine, il Reichstag di Regenspurg, convocato da Leopoldo I nel 1662 allo
scopo di ottenere sussidi finanziari ed aiuti militari contro i Turchi, non
venne più sciolto e, per quanto giuridicamente
prendesse termine tante volte quante volte un Imperatore venne meno (per
via del principio che non si poteva chiamare Reichstag quella Versammlung
che fosse priva dell'Imperatore, di fatto
continuò le sue sedute ininterrottamente sino alla fine dell'Impero[41].
La convocazione avveniva mediante una patente stampata, la quale,
in forma di lettera uguale per tutti gli Stände
indicava, oltre alla data ed il luogo di
convocazione, i principali puncta
deliberandi. Già una norma della Bolla d'Oro – confermata
dalle Capitolazioni Elettorali – sanciva l’obligo tanto
dell'Imperatore quanto degli Stände
di comparire alle sedute della Dieta. Col tempo era però invalsa la
prassi di inviare al Reichstag dei
rappresentanti, sebbene il costo del mantenimento di un rappresentante stabile
al Reichstag fosse molto oneroso,
soprattutto per gli Stände meno
importanti[42].
I rappresentanti si dovevano legittimare presso il Principe Elettore di
Magonza, cui competeva il Direttorio del Reichstag.
Tale carica comportava anche la gestione di un archivio, con annesso
protocollo: quanto l'Imperatore, gli Stände,
o altri intendevano sottoporre al Reichstag,
doveva infatti essere presentato al Direttorio per essere proposto a mezzo
suo.
Il Reichstag apriva le
sue sedute con la solenne lettura della Proposition,
la cui formulazione era competenza dell’Imperatore. La lettura aveva
luogo nella grande sala del Rathaus, nella
quale era eretto un trono ove sedeva l'Imperatore – o il Principalcommissarius
dello stesso - circondato dai suoi Ministri. Il nesso feudale che legava il
Kayser e i Reichstände, stabiliva il rango di questi ultimi, e tale rango
a sua volta si rifletteva nella disposizione dei seggi e nella espressione dei
voti[43].
A destra ed a sinistra dell’Imperatore stavano i Principi Elettori,
mentre lungo i due lati della sala si trovavano due lunghi banchi, all'uno dei
quali sedevano i Principi ecclesiastici, ed all'altro quelli laici. In fondo
alla sala vi era un cancello, avanti al quale si trovavano i deputati delle
Città: una disposizione adatta al fronteggiarsi di interessi concreti
più che allo sviluppo di “correnti” o di partiti.
Connessi
al Direttorio erano gli uffici della dettatura e della notificazione degli atti, considerati di tanto rilievo da
venire ricordati nelle Capitolazioni Elettorali. Qualunque questione si volesse
sottoporre alla Assemblea (la qual cosa poteva avvenire su proposta del Kayser stesso con un Hof- oder Commissionsdecret, di un
qualsiasi Stand, o anche di un
privato), veniva inviato per iscritto al Reichsdirectorium
il quale convocava i Legationscancellisten
per la Dictatur, ovvero per il
ritiro dei fogli stampati in cui era esposta la materia che si voleva
discutere. Successivamente, il Reichs-Directorialgesandte
raccomandava ai presenti di chiedere istruzioni ai loro principi (Instructionseinholung), al qual fine,
su sua proposta, veniva preso un accordo intorno al termine da concedersi.
Trascorso tale termine, la Cancelleria del Direttorio preparava l'avviso di
convocazione. Questo consisteva in un biglietto ove era indicato l'elenco delle
questioni sottoposte alla discussione (Berathschlagung).
Chiuso e suggellato, dopo aver seguito l’iter
dovuto[44],
esso veniva notificato a mezzo di due
Cancellisten, uno di confessione cattolica e l'altro di confessione
riformata. Dopo averlo scritto tante volte quante erano le persone cui andava
notificato, questi portavano l'avviso di comparizione ai rappresentanti degli
Stati presenti alla Dieta e cioè rispettivamente, il primo a quelli
cattolici ed il secondo a quelli riformati, facendo in modo che pervenisse agli
interessati almeno il giorno prima della seduta. Secondo le Capitolazioni, in
questo modo si potevano portare in discussione anche memoriali diretti contro
la Casa Imperiale, sempre che concepiti nelle forme dovute. Nei casi più
delicati l'Elettore di Magonza poteva chiamare a consiglio gli altri Elettori.
A questo punto, i lavori del Reichstag
si compivano mediante consultazioni fra ed entro i tre Collegi nei quali esso si divideva e che, a tal fine,
avevano a propria disposizione una sala del Rathaus
di Regenspurg ciascuno.
I tre Collegi erano i seguenti:
1) il Collegio
dei Principi Elettori presieduto dall'Elettore di Magonza, il quale dirige
anche il particolare Direttorio di tale Collegio;
2) il Collegio
dei Principi, diretto alternativamente iuxta
materias dal rappresentante di Casa d'Austria e da quello dell'Arcivescovo
di Salisburgo In esso si alternano nel voto i Principi ecclesiastici e quelli
laici, ciascuno con un voto virile, nonché i Prelati ed i Conti
dell'Impero, rispettivamente con due e con quattro voti curiati;
3)
il Collegio delle Città Imperiali diretto dal rappresentante di quella
Città nella quale si tiene la Dieta[45].
Per quanto nessuna legge disponesse in via esplicita riguardo
alle votazioni, si desumeva tuttavia dai vari Reichs-Abschiede che di regola fosse richiesta la maggioranza dei
voti. Convenzionalmente si riteneva sufficiente la maggioranza relativa[46].
Faceva
espressa eccezione l'Instrumentum Pacis
Osnabrugensis, il quale, all'art. V, § 52, distingueva chiaramente tre
ambiti nei quali le barriere costituzionali erano particolarmente rigide, e queste
si davano:
1) in causis religionis: la
guerra dei trent’anni aveva provato profondamente la Germania e
l’Europa tutta; si era ben
determinati a non permettere che le divisioni confessionali impedissero ancora
il pacifico svolgimento della vita sociale[47];
2) in negotiis ubi Status
tamquam unum corpus considerari nequeunt: evidentemente si tratta dei
casi contrari a quelli nei quali essi tamquam
unum corpus considerari debent, e
cioè nelle negoziazioni di pace e di guerra, nonchè nelle
ipotesi di cui all'art. VIII, § 2 (privilegi degli Elettori);
3) ubi in duas partes eunt
et ire possunt.
B) che
sia i Cattolici sia i Protestanti godevano dello ius eundi in partes, e
potevano esercitarlo non solo negli
affari religiosi, ma anche in tutti gli altri, persino entro ognuno dei tre
Collegi. Ne conseguiva che le materie poste all'ordine del giorno non venivano
in ognuno dei tre Collegi discusse secondo l'ordinaria procedura che si usava
nelle votazioni in pleno Collegio, cioè
in Assemblea plenaria, bensì nelle ordinarie conferenze di ogni parte.
Quando ognuna di queste era pervenuta a formulare il suo Conclusum, si cercava di trovare un accordo tra i due Conclusa, per il che i Presidenti delle
due parti (per esempio nel Collegio dei Principi: Salzburg e Magdeburg) dopo
avere letto in Pleno Collegio i rispettivi
Conclusa e dopo averli fatti mettere ad protocollum iniziavano, le trattative
fra di loro. Si trattava di una forma di veto ante litteram,
perché se l'accordo non si raggiungeva la questione rimaneva sospesa.
Ognuno
dei tre Collegi, dopo avere esaminata e discussa la questione all’ordine
del giorno, procedeva alla votazione. Qualora fosse raggiunta l’
unanimità o la maggioranza dei voti, il Collegium emetteva su di essa il suo Conclusum.
Dopo di ciò ognuno dei due primi Collegi - quello degli
Elettori e quello dei Principi - rimetteva all'altro - che sedeva nella sala
vicina - il suo Conclusum
perchè fosse oggetto di esame. Se i due Conclusa concordavano, allora si aveva il Conclusum duorum; se erano diversi, allora ogni deliberato veniva
rimandato al Collegio che l'aveva emesso unicamente alle osservazioni
dell'altro ed a furia di proporre, correggere ed emendare mediante i vani
rinvii - il che tecnicamente dicevasi re-und
co-referiren - si cercava di arrivare ad una deliberazione comune. Non
appena raggiunta tale deliberazione, essa veniva trasmessa al Collegio delle
Città Imperiali. Teoricamente anche queste avrebbero dovuto partecipare
alla Re-und Correlation, dal momento
che la Pace di Westfalia aveva riconosciuto loro un votum decisivum, ma a ciò si opposero sistematicamente gli
Elettori ed i Principi, i quali si appellavano ad una consuetudine
costituzionale che si sarebbe affermata in tal senso, pur se poi di fatto
tendevano a tener conto del conclusum delle
città.
I Vota Collegiorum non
sono obbligatori per il Kayser: in
quanto Vota consultativa, egli
può anche non far seguire ad essi la propria approvazione.
Perciò, se il Kayser, con un Ratifícationscommissionsdecret conferma il parere
dell'Impero, ovvero il Conclusum commune
duorum Collegiorum, allora si ha la
Decisione dell'Impero o Reichsschluss, che
viene inserito poi al termine della Dieta nel Recesso dell'Impero o Reichsabschied. Se viceversa
l'Imperatore non approva il Parere dell'Impero od i Conclusa duorum Collegiorum,
egli può rimandare la
questione di nuovo ai Collegi perchè la riesaminino un'altra volta.
Poteva peraltro darsi anche il caso che Imperatore e Ceti conferissero a una
deputazione l’incarico di regolare una certa materia – ad esempio
di rilievo monetario o giudiziario: si aveva allora il Recessum
Deputationis.
Dunque
i Recessus imperii – che avevano forza di legge per tutto
l’Impero - potevano riguardare le materie più diverse,
configurandosi come norme di jus civile. Ma poiché nello stesso
tempo essi derivavano da un accordo fra l’Imperatore da una parte e gli
Stati dell’Impero dall’altra, poteva accadere non di rado che essi
si configurassero a loro volta come delle leggi fondamentali. D’altro
canto, per via del complesso procedimento che portava alla loro formazione, nonchè
per la sovranità territoriale raggiunta dagli Stände
dell’Impero, le Reichsgesetze
possono essere riguardate come dei trattati multilaterali. Esse però
avevano la caratteristica di essere obbligatorie anche per lo Stato non
consenziente. Peraltro, si aveva talvolta cura di apporre ai Reichsabschiede
una clausola, con la quale il Kaiser e gli Stände promettevano
pattiziamente di voler mantenere fermo e inviolabile ciò che era stato
deciso. Il che voleva dire che vi si dovevano conformare sia il R.K.G. sia il
R.H.R. Da ciò risulta evidente la obbligatorietà delle leggi
dell’Impero anche all’interno dei singoli Länder, cui
poteva fare eccezione solo una particolare Freiheit di potervi derogare.
Così nelle materie di Polizei, viene data licenza agli Stände
di deviare dalla norma generale quando l’interesse del Paese lo esige[48].
Uno
sguardo al Sacro Romano Impero della Nazione tedesca, in effetti, consente di
riflettere su problematiche attuali alla luce dell'esperienza della storia
giuridica e costituzionale. Non solo per il fatto che proprio la costituzione
del S. R. I. ha ispirato la Staatsphilosophie
di J. Althusius e che questa a sua volta è stata ripresa da J.J.
Rousseau[49],
ma anche perchè dal suo patrimonio intellettuale, attraverso la
mediazione degli ultimi cultori di questa scienza, come Karl Friedrich
Häberlin, si può dire sia fiorita in Germania la scienza del
diritto pubblico del XIX secolo. Nella sua ultima lezione modenese, Emilio
Bussi indicò il percorso che porta dai risultati dei giuristi del XVII e
nel XVIII secolo, agli sviluppi della successiva scienza del diritto pubblico
tedesco, sviluppi che si collegano ai nomi di Paul Laband, Georg Meyer e Rudolf
Gneiss, nel percorso di una tradizione che si può dire conduca nel XX
secolo alla Reine Rechtslehre di Hans Kelsen.
Strutture
come quella del Sacro Romano Impero non sono affatto consegnate unicamente ad
un passato remoto, ma anzi ci offrono strumenti concettuali suscettibili di
aiutarci a vincere la vischiosità del concetto ottocentesco di Stato,
vischiosità che rende faticosa una limpida definizione di poteri
articolati come ad esempio l'Unione europea, la quale, proprio come il Sacro
Romano Impero, è stata fatta oggetto di definizioni diverse (quale
formazione di tipo federale, come Unione di Stati sui generis, o quale unità nella molteplicità) [50].
Non
sorprende, dunque, come il rinvio al Sacro Romano Impero si riaffacci alla
mente degli studiosi delle forme di Stato. Non solo quindi presso storici del
diritto come Emilio Bussi che si può dire ne sia stato,
all’indomani della tragedia della seconda guerra mondiale, il
“riscopritore”[51],
ma anche presso pubblicisti come Cassese che, in
uno studio pubblicato sul volume dei “Quaderni fiorentini” dedicato
all’Europa[52],
ha suggerito di avviare una analisi storica comparativa, tesa a porre in
rapporto tra di loro le diverse esperienze che hanno in comune d’essere
caratterizzate da ordinamenti compositi, e principalmente le istituzioni
europee e quelle del Sacro Romano Impero.
Le procedure adottate per venire a capo dei singoli problemi,
come quelle volte a superare lo scoglio dell’appartenenza a confessioni
diverse o il calcolo e il peso relativo dei voti, proietta la Dieta
dell’Impero verso i nostri giorni, ed i problemi che possono sorgere
quante volte sul medesimo territorio si trovino a convivere posizioni
irriducibili per differenza di etnia, di convinzioni politiche, o di fedi
religiose, e suggerisce utili spunti di riflessione per soluzioni ancora
attuali sia entro sia fuori l’Unione Europea, in un uso del potere che
sempre più si allontana da quello proprio dello Stato liberale.
[1] Quando
il Papa Leone III incoronò in S. Pietro il potente re dei Franchi Carlo
quale imperatore di un rinnovato Impero (occidentale ma potenzialmente universale)
sacro e romano.
[2] Ad
opera dell’imperatore Francesco II, indotto a ciò dal timore del
Bonaparte. Secondo taluni storici (vedi per tutti S. H. STEINBERG, Deutsche Geschichte, Baden –Baden
1954, p. 228), esso sarebbe venuto meno unbeweint,
sang- und klanglos. Ma i contemporanei furono viceversa consapevoli del
vuoto che si era creato, e dal quale in effetti scaturirono molte delle
tragedie che successivamente hanno travagliato l’Europa. Vedi E. Bussi,
Lo studio del Sacro Romano Impero della
nazione tedesca come esigenza della scienza storica, in Esperienze e prospettive, Modena 1976,
p. 401; lo stesso studio è stato pubblicato in lingua tedesca: Das Recht des Heiligen Römischen
Reiches Deutscher Nation als Forschungsvorhaben der modernen Geschichtswissenschaft,
in Der Staat, Zeitschrift für
Staatslehre öffentliches Recht und Verfassungsgeschichte, 16 band
1977, Heft 4.
[3] Su cui
vedi J. WaWrzynIak, La Polonia
e le sue costituzioni dal 1791 ad oggi. Le radici istituzionali della svolta
polacca, Rimini, 1992, p. 32 e ss.
[5] non perchè con questo vogliano
difendere una qualche “identità nazionale”, ma perchè
con ciò trovano miglior difesa le singole situazioni giuridiche. Vedi L.
BUSSI, Fra unione personale a Stato sopranazionale, contributo alla storia
della formazione dell’Impero d’Austria, Milano 2003, p. 232.
Sul pluralismo delle prime forme di Stato, G. Chittolini, A. Molho, P. Schiera (a cura di), Origini dello Stato. Processi di formazione
statale fra medioevo ed età moderna, Il Mulino, Bologna, 1994.
[6] L.
BUSSI, Fra unione personale e Stato
sovranazionale, cit, p.
230. J.A. Maravall, Stato moderno e mentalità sociale,
tr. it., Bologna, 1991, I, pp.135-136.
[7] Un cosmo o intrico di strutture per G. Tabacco, Sperimentazioni del potere nell’alto Medioevo, Einaudi,
Torino, 1993, pp. 41 e 8; un aggregato
eterogeneo di territori (con riferimento al ducato di Savoia nel Rinascimento)
per A. Barbero, Il ducato di Savoia, Amministrazione e corte
di uno Stato franco-italiano (1416-1536), Laterza, Roma-Bari, 2002, p. 6; un mosaico di ordinamenti (così il
principato dei Medici) per L. Mannori,
Il sovrano tutore – Pluralismo
istituzionale e accentramento amministrativo nel principato dei Medici (secc.
XVI – XVIII), Giuffrè, Milano, 1994, p. 21.
[8] Di “pluralismo del diritto”,
“coralità di apporti” ha parlato P. Grossi, L’ordine giuridico medievale, Roma-Bari, 1995, spec. pp. 47,
52 e 55.
[9] Gorla
rilevava come la storia comparata ci presenti una gamma di attività che
con gradi intermedi corrono fra gli estremi di una interpretazione impotente e
di una interpretazione onnipotente, la quale ultima si coprirebbe o
maschererebbe però sempre di tecniche o espedienti vari per poter dire
che si è semplicemente “trovato ciò che è
diritto”. Vedi G. GORLA, voce Giurisprudenza,
in Enciclopedia del diritto, XIX,
1970, p.493. Tra gli elementi che giocherebbero nella dialettica, quello
più interessante è dall’a. visto nella posizione del
tribunale rispetto alla legge e alla dottrina. Non solo: sarebbe necessario
tenere conto della maggiore o minore autorità riconosciuta per varie
ragioni dai tribunali alla legge e della loro tendenza a modificarla o farne
una interpretazione libera; senza tralasciare anche il rapporto fra tribunali e
dottrina, cioè i contrasti e le lotte fra dottori e tribunali per la
supremazia fra giurisprudenza dottorale e giurisprudenza dei tribunali, lotta e
contrasti che avrebbero portato in varie occasioni i tribunali a rafforzare
l’autorità dei propri precedenti. Vedi G. GORLA, I grandi tribunali italiani fra i sec. XVI e
XIX: un capitolo incompiuto della storia politico-giuridica d’Italia in
Quaderni del Foro italiano, 1969;
IDEM Il valore del precedente giudiziale
e la “autorità” dei dottori in Italia (e altrove) fra i
secoli XVIII e XX, in Quaderni del
foro italiano, 1969-1970; IDEM, Jura
naturalia sunt immutabilia. I limiti al potere del «Principe» nella
dottrina e nella giurisprudenza forense fra i secoli XVI e XVIII, , in Diritto e potere nella storia europea: atti
in onore di B. Paradisi: quarto congresso internazionale della Società
italiana di Storia del Diritto, Firenze 1982. Sul sorgere dei grandi
tribunali vedi M. ASCHERI, Introduzione
storica al diritto moderno e contemporaneo. Lezioni e documenti, Torino
2007, p. 129 e ss.
[10] Lo
Ertel osserva come “convenga a un buon Cristiano e coscienti giuristi
affermare questa opinione, che non sia da prestare obbedienza all’ordine
del Principe che vada contro il diritto divino, ovvero contro il diritto
naturale, o contro il diritto delle genti, o che porti con sé
l’attuazione di un illecito” .
[11] Il
diritto canonico, ricondotto nella sfera della legge divina, svolgeva a parere
di questo Autore la funzione di canone ermeneutico ordinato alla stessa comprensione
delle leggi secolari (che potevano alla sua luce venire corrette o dichiarate
nulle perchè contrarie allo jus
divinum) con una potenziale supplenza generale del vescovo di Roma - e
in genere delle autorità ecclesiastiche - in caso di defectus o negligentia dell'autorità politica. Vedi P. BELLINI, Respublica sub Deo. Il primato del Sacro
nella esperienza giuridica dell'Europa preumanistica, Firenze, 1985, p.
123.
[12]
“Ipse autem rex non debet esse sub homine sed sub Deo et sub lege,
quia lex facit regem” H. de BRACTON, De legibus et consuetudinibus
Angliae, ed. T. Twiss, Londres,
Oxford, Cambridge, Edinbourg, Dublin 1878-1883; G. WALTER, La
rivoluzione inglese, Novara 1972, pp.192-221. Ė la dottrina italiana a
stabilire una relazione armonica fra il principio della soggezione del re alla
legge e l’opposto principio del princeps legibus solutus. Sul
punto vedi E. CORTESE, Il problema della sovranità nel pensiero
giuridico medioevale, Roma, 1966, p. 139.
[15] O. Brunner, Land und
Herrschaft, Grundfragen der territorialen Verfassungsgeschichte
Österreichs in Mittelalter, Wien
19655, p. 138.
[16] Che un Principe non dovesse dare ordini senza palesarne
le cause e le ragioni veniva sostenuto da J.H. von JUSTI, Kurzer
systematischer Grundriss aller oekonomischen und Cameralwissenschaften, in Gesammelte
Politiche und Finanzschriften, Kopenhagen und Leipzig 1761, p.
[17] G.
CASSANDRO voce Resistenza (diritto di‑)
in Novissimo Digesto Italiano,3a
ed., Torino 1968, vol. XV.
[18] Sul
significato dell'arbitrium vedi G.
CASSANDRO, voce Signoria in Novissimo Digesto Italiano, vol. XVII,
pag. 328; G. Chittolini (a cura
di), La crisi degli ordinamenti comunali
e le origini dello Stato nel Rinascimento, Il Mulino, Bologna, 1979.
[19] Per
uno studio approfondito su tale massima vedi Y. CONGAR , Quod omnes tangit ab omnibus tractari et approbari debet, in Révue historique de droit
français et étranger, 35, 1958, pagg.210-259; G. POST A Romano-Canonical Maxim Quod omnes
tangit in Bracton and in early
Parliaments, in Studies in Medieval
Legal Thought: Public Law and the State, 1100-1322, Princeton 1964, pp.
163-238.
[20] Del conclusum della dieta veniva redatto un
recesso o Landtagsabschied, che -
successivamente pubblicato e confermato dal signore territoriale, assumeva
valore di legge. Era la Dieta, quindi, che poteva modificare il diritto vigente
in forza dell’accordo del signore territoriale e degli Stände. Tali modifiche, quando
venivano definitivamente approvate dal Landesherr,
erano da lui promulgate e dette Landbrauch
e concorrevano, insieme alle consuetudini feudali, alle capitolazioni del Landesherr ed agli Statuti provinciali,
a formare l'ordinamento giuridico del Land.
Su ciò H. WIESFLECKER, Die Entwicklung der Landständischen
Verfassung in der österreichischen Ländern von den Anfängen bis
auf Maximilian I, in AA. VV., Die
Entwicklung der Verfassung Österreichs vom Mittelalter bis zur Gegenwart,
Wien 1970, p. 17.
[21] E. W. Böckenförde,
Die Westfälische Frieden und das
Bündnisrecht des Reichsstände in Der Staat VIII (1969) pp. 449‑478.
[22] La
stessa attivazione del diritto di resistenza – istituto che come Brunner
ha dimostrato è fondamentale per comprendere le istituzioni medievali -
presupponeva l’esercizio del diritto di alleanza. Sulla componente
religiosa di tale istituto vedi O. BRUNNER, Land
und Herrschaft, cit., p. 150.
[23] Dalla
relazione presentata dall’ambasciatore Grimani al Senato di Venezia noi
sappiamo che fin dai primi abbozzi del congresso di Colonia: "haveva il Re
Cristianissimo richiesti all'imperatore i passaporti per gli Olandesi, Svedesi
e principi protestanti d'Allemagna confederati con la Francia. I primi due,
come di principi liberi et indipendenti dall'Impero così facilmente
conceduti, quanto costantemente negati poi gli altri, come di sudditi Vassalli
a punto caduti, per quella loro confederazione con principe estero e nemico,
stante le costituzioni dell'Imperio nel crimine di Maestà lesa”
Cfr. Relazione dell'Amb. Grimani
delle cose presenti di Germania sotto il 22 Gennaio
[24] La Francia e la Svezia contestavano all’Imperatore
lo jus belli ac pacis per tutto
l’Impero Salvius to Langerman,
Minden, 16 September
[25] Così volevano D. REINKINGK, Tractatus de regimine saeculare et
ecclesiastico, Gissae 1619, II, cap. I, e D. ARUMAEUS, Discursus academici de jure publico, I,I,7.
[26]I n tal
senso B.P. von Chemnitz (HIPPOLITUS A
LAPIDE), Dissertatio de ratione
status in Imperio nostro Romano-Germanico, Freistadii 1647, conclusio primae partis. Il libro,
conosciuto già dal 1640, ebbe una grande influenza sulle argomentazioni
francesi al Congresso di pace di Westfalia.
[27] S. DE MONZAMBANO (S. von Pufendorf), De Statu Imperii Germanici, in Klassiker der Politik, 3, trad. e
introd. H. Bresslau, Berlin 1922, cap. VI, § 8. Su ciò H. Schilling,
Corti e alleanze. La Germania dal 1648 al
1763, tr. it., Bologna, 1999, p. 109.
[28] Vedi
E. BUSSI, Scienza giuridica tedesca e
italiana nel XVII secolo, in Esperienze
e prospettive. Saggi di storia politica e giuridica, Modena, 1976, p. 224.
La pericolosità delle dottrine di Bodin per una struttura come il S.R.I.
è ben avvertita dalla dottrina tedesca: vedi A.W. ERTEL, Neu
eröffnete Schau-Bühne, cit, p.36.
[29] “Duplici regimine Imperium nostrum administrari animadvertimus. Nam
&communi aliqua rep. Imp. Universum regitur; & singulae regiones ex
quibus componitur, proprio quosdam principes, vel magistratus, judicia &
consilia, atqua adeo peculiarem quandam superiori illi subjunctam Rempubl.
habent”: L. HUGO, De Statu
regionum Germaniae, Gissae, 1689, Propositi
Explicatio.
[32] J.S.
PÜTTER, Beyträge zum Teutschen
Staats- und Fürstenrechte, Göttingen 1777, II, p. 17; cfr. E. Bussi, Il diritto pubblico dal Sacro Romano Impero alla fine del XVIII secolo,
vol. I, II ed., Giuffrè, Milano, 1970, p. 187.
[33]
Così E. Bussi, Il diritto pubblico, I, p. 79 e 188;
vedi anche R.L. van Caenegem, An historical introduction to western
constitutional law, Cambridge Univ. Press, 1995, pp. 63 ss.; D. Willoweit, The Holy Roman Empire as a Legal System, in A. Padoa-Schioppa
(ed.), Legislation and Justice, p.
123; A. Randelzhofer, Völkerrechtliche Aspekte des Heiligen Römischen Reiches nach
1648, Berlin, 1967.
[34]
RACHFAHL, Zur österreichische
Verwaltungsgeschichte, in Schmollers
Jahrbuch für Gesetzgebung, Verwaltung und Volkswirtschaft, 23 (1899),
pag. 1111 e segg. ; per una critica delle posizioni del Rachfahl vedi O.
BRUNNER, Storia costituzionale del
Medioevo, in Per una nuova storia
costituzionale e sociale, cit., p. 17.
[35] Vedi
J.S.PÜTTER, Elementa juris publici germanici, Goettingae, 1760, p.
194, con un elenco delle diverse fonti di cognizione al tempo disponibili .
[36] Citato
da E. BUSSI, Il diritto pubblico del Sacro Romano Impero alla fine del XVIII
secolo, Milano 1959, II, p. 86.
[38] D.H.
KEMMERICH, Introductio ad jus publicum
Imperii Romano Germanici, Francofurti et Lipsiae 1744, p. 1048.
[39] E, BUSSI, Das
Recht des Heiligen Römischen Reiches Deutscher Nation als
Forschungsvorhaben der modernen Geschichtswissenschaft, in Der Staat, Zeitschrift fuer Staatslehre
oeffentliches Recht und Verfassungsgeschichte, 16 (1977), p. 534; IDEM, Il
Diritto pubblico, cit., II, p. 451.
[40] Se
questa norma potè essere rispettata, decadde invece quella secondo la
quale Norimberga dovesse essere la sede quanto meno della prima Dieta di ogni
Imperatore. Dai tempi della Riforma infatti dovette venire scelta una
Città ove sia i Cattolici sia i Protestanti potessero liberamente e
comodamente professare il loro culto e a tal fine le Città di Regenspurg
e di Augspurg furono quelle ove più di frequente si tennero le Diete,
anche perchè avevano buone comunicazioni con Vienna, ove risiedeva
l'Imperatore, da che questi era di Casa d'Austria. E. BUSSI, , Il Diritto pubblico, cit., II, p. 451.
[41] R. FREIIN VON OER, Der
Immerwährende Reichstag und die höchsten Reichsgerichte, in Parliaments, Estates and Representation, 17
(1997), p. 75 e ss
[43] A. SHIBUTANI, Die
Sessionordnung und die Verfassungsstruktur in den frühneuzeitlichen
deutschen Reic hstagen: die Stellung des Reichserbmarschalls, in Parliaments Estates and Representation, 19,
1999, p. 105.
[44] Esso
veniva recapitato all'ufficio dell'Arcimaresciallo e da questi rispedito
all’ufficio del Maresciallo Ereditario il quale, in forza dei suoi poteri
e per via dei suoi compiti doveva provvedere alla notificazione. Su ciò
vedi E. BUSSI, Il diritto publico, cit.,
p. 22 e ss.
[45] B. STOLLBERG- RILINGER, Zeremoniell als politisches Verfahren. Rangordnung und Rangstreit als
Strukturmerkmale des frühneuzeitlichen Reichstages, in Zeitschrift
für Historische Forschung, 19, 1997, p. 91-132.
[46] Vedi
E. BUSSI, Il Diritto pubblico, cit.,II, p. 3 e ss.; contra M. ASCHERI,Introduzione
storica, cit., p. 124.
[47] Per
quanto tale aspetto sia stato determinante sulla stessa evoluzione dello Stato
moderno vedi R.KOSELLECK, Critica
illuminista e crisi della società borghese, Bologna 1972, p. 85; L.
BUSSI, Fra unione personale e Stato
sovranazionale, cit., .p. 493.
[48] E.
BUSSI, Il diritto pubblico, cit., Milano 1959, II, p. 88.
[49] Questo
debito concettuale è stato rilevato da F. BERBER, Das Staatsideal im Wendel der Weltgeschichte, Muenchen 1973, pp.
287, 368, e ricordato da E. BUSSI, Lo
studio del Sacro Romano Impero come esperienza della scienza storica, in Esperienze e prospettive, saggi di storia
politica e giuridica, Modena 1976, p. 410.
[50] Vedi
R. HOKE, Intorno al Sacro Romano Impero
nel Settecento, in Le carte e la
storia, anno VII, 1/2001, p. 35 e ss
( lo studio compare anche come Pensieri
intorno alle ricerche di Emilio Bussi sul Sacro Romano Impero nel Settecento, in
www.dirittoestoria.it, 2005).
[52] S. Cassese, Che tipo di potere pubblico e’ l’Unione Europea? , in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, 2002/1 (31), p. 141 e ss; vedi anche A. Osiander, Sovereignty, International Relations and the Westphalian Myth, in International Organization, 2001, n. 2,
spring, spec. pp. 269 ss., dove osserva che l’Impero era “a system of collective restraint”
(p. 279).