Personae
e ager
Università
di Sassari
In
ralazione al rapporto tra gli status personali rispetto al territorio
segnaliamo: O. Licandro, Domicilium
habere. Persona e territorio nella disciplina del domicilio romano [Collectanea
Græco-Romana. Studi e strumenti per la ricerca storico-giuridica 6],
Giappichelli, Torino 2004; L. Gagliardi,
Mobilità e integrazione delle persone nei centri cittadini
romani. Aspetti giuridici. I. La classificazione degli incolae
[Università degli Studi di Milano. Facoltà di Giurisprudenza.
Pubblicazioni dell’Istituto di diritto romano 40], Giuffrè, Milano
2006; P. Rosafio, Studi sul
colonato [Documenti e studi. Collana del Dipartimento di Scienze
dell’antichità dell’Università di Bari. Sezione
storica 32], EDIPUGLIA, Bari 2002; L.
Capogrossi Colognesi, Cittadini e territorio. Consolidamento e
trasformazione nella ‘civitas Romana’, La Sapienza editrice,
Roma 2000; O. Sacchi, L’ager
Campanus antiquus. Fattori di trasformazione e profili di storia giuridica
del territorio dalla mesògeia arcaica alla centuriatio romana [Pubblicazioni
della Facoltà di Giurisprudenza della Seconda Università di
Napoli XXV], Jovene, Napoli 2004; Politica e partecipazione nelle
città dell’impero romano, F. Amarelli (a cura di) [Saggi di
storia antica 25], «L’Erma» di Bretschneider, Roma 2005.
Il
libro di O. Licandro si apre con
“Il domicilium negli studi romanistici. La necessità di
un’indagine”, dove si evidenzia una certa esiguità degli
studi, ed anche «una debolezza di analisi», che fanno sorgere
l’esigenza di una nuova ricerca che consideri il domicilio come elemento
personale senza «pregiudizio o tralatizia impostazione
dottrinaria». Nel secondo capitolo si rinvengono “Le origini del
domicilium” già nel sistema tributo, in cui si percepiva il
rapporto tra persona e il luogo di sua pertinenza, sebbene il domicilium
non si fosse ancora delineato come istituto specifico. In tale periodo la sede
dell’individuo era la domus - da cui domicilium -
strettamente connessa con la familia. In D. 50.16.203 (Alf. 7 dig.),
che riporta un responso intorno all’applicazione di un’esenzione fiscale
disposta dalla lex censoria, si offre una definizione di domus che
coincide con domicilium. Il concetto di domicilium è ben
presente nel passo, nonostante il termine non compaia: questa omissione
probabilmente era connessa ad un’ambiguità presente nella lex
censoria, che faceva sorgere la necessità dell’interpretazione
giurisprudenziale. Da numerose testimonianze emerge l’esistenza di un
ampio dibattito giurisprudenziale intorno al domicilium tra il I sec.
a.C. e il I sec. d.C. Il concetto nacque in piena età repubblicana, ed
era un istituto generale che prescindeva dall’origine e dalla
cittadinanza, in quanto esprimeva la pertinenza ad un luogo. Il concetto di domicilium
andava così ad inserirsi in quel fenomeno di ampia mobilità,
inserito in una Roma già imperialistica, derivato dalla vasta
colonizzazione, dalla creazione di province, migrazione di Latini, Italici e
peregrini. Nel capitolo seguente “Il domicilium nel lessico
giuridico normativo”, si evidenzia come nei testi giurisprudenziali
d’età classica si rinvenga spesso l’uso di domus in
luogo di domicilium, seguito dalla precisazione del significato di domus.
Questo dato ha ingenerato nella dottrina la convinzione che domicilium
non si fosse ancora consolidato come istituto, ma secondo l’A. questa
«ambiguità» terminologica era presente nei testi di legge e
nell’editto, che richiedevano l’interpretazione della
giurisprudenza. I prudentes con la loro riflessione tesero ad estendere
il concetto di domus fino alla nozione di domicilium, ma senza
definirlo e senza introdurre novità sostanziali rispetto al frammento di
Alfeno. Il quarto capitolo analizza “Gli elementi costitutivi del domicilium:
prudentes e principes”, e vi si delinea il panorama del
dibattito giurisprudenziale e dei numerosi interventi imperiali che permettono
di individuare i requisiti del domicilium. Sebbene sin
dall’età repubblicana l’habitatio, l’elemento
fattuale del dimorare nella domus in modo stabile, abbia ricoperto un
ruolo importante, è errato sostenere con la dottrina che si tratti
dell’unico elemento costitutivo del domicilium. Nel dibattito
giuridico tra la repubblica e il principato, infatti, non si richiedeva
l’habitatio, in quanto una parte maggioritaria dei giuristi
accettava il principio della pluralità di domicili, principio contestato
invece da Labeone. Nel periodo classico si richiese come elementi costitutivi
l’animus e il se instruere, come parte materiale che
comprendeva il negotiari; in tale epoca inoltre non si ammise il
domicilio doppio. La riflessione giurisprudenziale del principato in tema di domicilium
s’inseriva in un impero ormai vasto, in cui vi era la necessità di
stabilire i rapporti tra luogo e individuo; in tale contesto il domicilium
diviene un elemento per la posizione dell’individuo rispetto
all’autorità centrale, per questo non si ammise più il
domicilio plurimo, e forse quello doppio. L’esigenza di definire il ruolo
dei cittadini rispetto all’impero, a fini fiscali o dei munera,
venne ridefinito dalla normativa imperiale, che tuttavia non modificò il
concetto di domicilium risalente all’età repubblicana.
Dall’epoca adrianea si cercò di risolvere le numerose controversie
tra incolae e civitates per la sottoposizione ai munera,
quando si contestava il ius incolatus, l’origo e il domicilium.
Nel periodo postclassico il fenomeno dell’elusione dei munera si
aggravò, e tale problema fu avvertito anche da Giustiniano; questo
spiegherebbe la presenza notevole nel Digesto di materiale e giurisprudenziale
e imperiale in materia di domicilio. Nel capitolo quinto si evidenzia “La
rilevanza del domicilium nel diritto privato e pubblico”, in
quanto istituto dai numerosi profili giuridici; in particolare il domicilium
era il criterio per l’individuazione del giudice competente, era locus
solutionis nelle successioni ereditarie e nelle obbligazioni ex
stipulatu, era criterio per l’excusatio tutelae; il domicilio
attribuiva inoltre lo status di provincialis. L’ultimo
capitolo, “L’inviolabilità del domicilium”,
evidenzia il consistente numero di brani conservati nel Digesto che mostrano la
particolare tutela concessa all’individuo nell’ambito della propria
domus. La domus, infatti, era considerata come luogo da tutelare
da ogni forma di intrusione da parte di terzi, per garantire la sfera personale
privata. Nell’esperienza arcaica dove vi era «quel forte intreccio
tra religio e forme istituzionali e istituti giuridici», la domus
aveva una valenza sacrale e laica, concezione che si rinviene ancora in
Cicerone (de dom. 109) e in Gaio (D. 2.4.18). Il giurista antoniniano
nel commentare le XII Tavole sosteneva l’illegittimità dell’in
ius vocatio posta in essere nella domus, concetto questo che ha
attinenza con il principio della inviolabilità del domicilio, frutto di
interpretazione giurisprudenziale del testo decemvirale. Durante la repubblica
la tutela dell’inviolabilità della domus era inserita
nell’ambito dell’iniuria, a cui veniva ricondotta la
fattispecie dell’introire in alienam domum che si
configurava come una sorta di violazione di domicilio, fattispecie confermata
nel periodo classico. Con la lex Cornelia de iniuriis si perseguì
la violazione del domicilio posta in essere con violenza con la nuova ipotesi
dell’introire cum vi in aliena domo. D. 47.10.5 pr.-5 attesta che
vi fu un vivace dibattito intorno ai requisiti del domicilio in relazione alla
legge sillana. Emerge quindi la diffusa percezione della tutela
dell’inviolabilità domestica, ma questa protezione decadeva nel
caso vi fosse un interesse superiore, come l’esigenza repressiva dei crimina.
Nell’Introduzione
del suo lavoro L. Gagliardi
sottolinea che l’espansione dell’impero romano comportò
difficili problemi d’integrazione e di convivenza, causati da grandi
migrazioni di popolazioni. Nell’ambito della sua politica
d’espansione Roma controllò il territorio mediante la creazione di
nuovi centri urbani, in cui gli indigeni privi di cittadinanza, definiti incolae,
potevano essere autorizzati a risiedere. Nel primo capitolo s’illustra
“La definizione di incola”, termine che per la sua
derivazione tal verbo colere appare strettamente connesso alla terra,
per cui l’incola era l’abitante del territorio che
coltivava; in seguito il vocabolo andò anche a designare un abitante di
un centro urbano. In fine, il termine acquisì un’accezione
politica, indicante gli abitanti indigeni liberi che risiedevano nel territorio
conquistato da Roma, e che perciò si distinguevano dai cives.
Nell’età medio-repubblicana il vocabolo assunse una connotazione
tecnico-giuridica, in quanto indicò i peregrini indigeni inseriti
all’interno dei distretti politico-amministrativi all’atto della
conquista romana. Solitamente gli incolae erano presenti nelle colonie
latine fondate dal 338 a.C. all’inizio del II sec. a.C., e nelle colonie
romane fino alla constitutio Antoniniana, mentre, salvo rare eccezioni,
non si registrano nelle coloniae Latinarum di fondazione receziore e nei
municipia. Dall’esame delle fonti s’individuano due
tipologie di incolae: gli “indigeni” e i
“trasferiti”. La prima categoria era la più risalente, ed
indicava i peregrini stanziati prima della conquista romana e riconosciuti incolae.
Gli incolae “trasferiti”, invece, erano coloro che, cives
Romani o peregrini, fissavano un nuovo domicilium in una colonia o
in un municipio rispetto al proprio luogo di origo, e che ottenevano lo status
di incolae stabilendo il domicilium entro l’oppidum,
oppure entro il distretto amministrativo (ma in questo caso dovevano avere
anche il praedium all’interno di quel territorio). Nella sfera
locale la disciplina giuridica degli incolae era in sostanza unitaria,
indipendentemente dalla cittadinanza. Numerose fonti epigrafiche, di cui si
offre un nutrito catalogo, attestano che gli incolae erano distinti dai
coloni e dai municipes. In Italia, come emerge dalle iscrizioni, gli incolae
venivano ritenuti parte del corpo civico cittadino, in quanto grazie alla
concessione della cittadinanza romana agli Italici del I sec. a.C. vi era una
loro elevata integrazione; nei territori extraitalici, specialmente in Africa e
in Spagna, gli incolae erano solitamente considerati estranei alla
composizione cittadina, a causa della scarsa integrazione. Il secondo capitolo
analizza le varie fonti, epigrafiche e letterarie su “Gli incolae indigeni”.
In particolare le opere dei gromatici offrono «illuminanti
informazioni» per ricostruire il contesto politico dove
s’inserivano gli incolae. In queste fonti appare che
all’atto di fondazione gli indigeni chiamati genericamente incolae,
cioè abitanti auctotoni, qualora non fossero stati espulsi, oppure
integrati nella cittadinanza, venivano autorizzati a risiedere nell’oppidum,
sia inseriti nella propria autonoma organizzazione politica, sia soggetti alla
giurisdizione dei magistrati della civitas romana. In senso giuridico,
tuttavia, gli incolae erano solamente gli indigeni che al momento della
fondazione della città romana avevano ottenuto il ius incolatus
rispetto agli altri peregrini, si valevano di un regime fiscale simile a quello
dei cives, e almeno nel principato godevano di commoda e del
diritto di voto. L’ultimo capitolo analizza la disciplina de “Gli
incolae trasferiti”, «tipologia di incolae di
importanza maggiore per la storia del diritto romano», la sola ad essere
stata «uniformemente diffusa in tutto l’impero dopo la constitutio
Antoniniana». Per una parte della dottrina gli abitanti della
campagna non erano incolae in senso giuridico, sulla base della lettura
di C. 10.40(39).3, e di altri testi; ma per l’A. secondo il diritto
classico erano considerati entrambi incolae: l’unica differenza
tra coloro che risiedevano nell’oppidum, e coloro che avevano
fissato il domicilium nel territorium, era che questi ultimi
dovevano possedere un praedium. Tuttavia esistevano delle differenze
«in chiave pragmatica» in quanto coloro che abitavano
all’interno della città partecipavano maggiormente alla vita
cittadina rispetto a coloro che abitavano le zone periferiche. Ciò
comporto in età successiva che gli incolae domiciliati
nell’oppidum fossero soggetti a maggiori honores. Il tema
del domicilium, che era strettamente collegato alla categoria degli incolae,
interessò particolarmente giuristi e imperatori. Secondo il diritto
classico i cittadini romani sui iuris avevano libertà di
trasferire il proprio domicilio, tuttavia, per evitare «trasferimenti
attuati su larga scala» si cercò di rendere questo principio
«compatibile con le esigenze economiche delle città»,
imponendo a chi cambiava residenza di essere soggetto ai munera sia
della città di origo, sia nella città dove diveniva incola.
La qualifica di incola non avveniva in maniera automatica con il
trasferimento del domicilio: l’incolato veniva concesso dagli organi
municipali, o su richiesta del trasferito oppure d’ufficio, in
quest’ultimo caso da parte di una città interessata ad ottenere i munera
di incolae che erano più elevati di quelli degli habitatores.
Il
volume di P. Rosafio, dove
confluiscono in parte lavori già pubblicati, si apre con la prima parte,
Le locazioni agrarie nella tarda repubblica e nel principato. Nel primo
capitolo, “Alcuni aspetti del lavoro agricolo in Italia”, si
ritrae il complesso panorama della forze lavoro agricolo impiegate nella
penisola italica durante la tarda repubblica. Ancora prima della fine delle
guerre puniche, per la coltivazione dei campi furono utilizzati clienti,
schiavi, braccianti salariati, e piccoli locatari. In “Il precarium
e l’inizio della locazione agraria”, s’indaga sulla
principale forza di lavoro agricolo, la clientela, utilizzata per lo
sfruttamento dell’ager publicus, che veniva attribuito in modo
precario dai gentili. Durante le guerre puniche i piccoli proprietari e i
clienti abbandonarono le campagne per prestare servizio militare, così
furono sostituiti nel lavoro agricolo dagli schiavi; essi dalla fine del II
sec. a.C., se non vennero arruolati nel nuovo esercito professionista voluto da
Mario, si trasformarono in locatari terrieri. Nel capitolo seguente, “Schiavi,
coloni e il sistema della villa”, si sostiene che il fenomeno della
locazione agraria fu complementare alla produzione agricola a conduzione
servile, in quanto gli affittuari integravano, con prestazioni lavorative
temporanee, l’organizzazione produttiva della villa. Il quarto
capitolo mostra “L’organizzazione del lavoro agricolo in Plinio
il Giovane”, le cui epistole rappresentano la fonte più
importante sulla locazione agraria, in quanto riportano esempi
d’applicazione pratica derivata da diretta esperienza. La ep. 3.19
testimonia l’applicazione pratica rigorosa dei termini della locatio
conductio, che conferma che le norme giurisprudenziali venivano applicate
nella prassi; nella stessa epistola si rinviene la necessità di una
modifica dei contratti di locazione, in seguito alle numerose lamentele dei
suoi affittuari. In ep. 9.37, Plinio annuncia la sua intenzione di
trasformare i contratti quinquennali di locazione in colonia parziaria, per cui
il proprietario, che aveva diritto ad un canone fisso pari alla metà
della produzione agricola, «si trovava maggiormente coinvolto nella
gestione dell’azienda». Plinio, che probabilmente mutuò
questa pratica da qualche uso provinciale, prova «come la trasformazione
dell’agricoltura italica vada inserita in un processo più graduale
e complesso di quanto normalmente prefigurato». Nel capitolo successivo,
“Coloni e clienti: analogie e differenza”, si constata come
a cavallo tra il II ed il III sec. d.C. nelle fonti giuridiche si rinvengono
accostate la figura del precarista e dell’affittuario. In particolare in
D. 41.2.10 (Ulp. 69 ad edict.) si espongono le differenze tra i due
istituti: nella locatio conductio il rapporto tra i contraenti si
fondava «sulla capacità contrattuale» del locatario e
«quando tale capacità veniva meno, questi poteva poi continuare a
godere del bene trasformandosi in precarista». Al contrario,
«qualora il precarista si sentisse abbastanza sicuro di poter affrontare
i termini del contratto di locazione, rinunciava alla sua condizione per
trasformarsi in affittuario». Nel Digesto colonus indicava il
locatario di un fondo agricolo, mentre nelle testimonianze del tardo antico si
descrive come servo della terra (C. 2.52.1). Secondo Salviano (De gub.
5.38-44) i clienti erano coloro che, oberati dai tributi, chiedevano protezione
ai grandi proprietari dietro cessione dei loro beni, beni che i clienti stessi
continuavano ad utilizzare. I loro figli, privati delle terre, divenivano
coloni dei grandi proprietari, come anche i contadini, per paura dei Barbari.
Nel tardo impero, infatti, vi fu un rovesciamento del rapporto tra clienti e
coloni rispetto a quello originario tra precaristi e affittuari. La Parte
seconda, Il colonato nel Codice Teodosiano, si apre con il capitolo
“Coloni imperiali e coloni privati nella legislazione del quarto
secolo”. Qui si critica la teoria sociale propugnata da N. D. Fustel
de Coulanges per cui il colonato sarebbe formato lentamente senza interventi
legislativi, e la teoria di J.-M. Carrié sulla natura fiscale del
colonato, per cui la legislazione tardo antica ha impedito che i coloni si
sottraessero al pagamento dei tributi legandoli al fondo. Si tratta di due
ipotesi che secondo l’A. impostano la questione in maniera troppo
schematica, poiché si deve in realtà prendere in considerazione
sia le modifiche della condizione giuridica dei coloni che lavoravano nelle
proprietà imperiali, sia di quelli impiegati nei terreni privati. Nel
capitolo successivo si analizza “Lo ius colonatus nelle terre
imperiali”. Dalle fonti epigrafiche provenienti dall’Africa
risulta che i conductores erano i facoltosi locatari delle terre
imperiali, mentre i coloni erano i coltivatori di queste terre, tenuti a versare
un canone in natura e alle volte a prestare delle operae. Nelle
testimonianze giuridiche dell’età classica conductor e colonus
erano usati come sinonimi, mentre tra il II e il III sec. iniziò a
prospettarsi la distinzione che apparve più netta nel tardo antico. Il
Codice giustinianeo riservò ai coloni delle terre imperiali la rubrica De
agricolis et mancipiis dominicis vel fiscalibus sive rei privatae (C.
11.68). Qui essi appaiono come una categoria di bassa estrazione esentata dai munera,
ma esclusa dagli honores delle civitates. La normativa era
finalizzata a rendere i coloni indipendenti dalle civitates, per
instaurare un rapporto esclusivo con l’amministrazione imperiale, in modo
da non distogliere i contadini dal loro lavoro nelle terre imperiali. La
trasmissione ereditaria della condizione di colono emerge in C. 11.68.1, dove
Costantino accostò a colonus l’aggettivo originalis,
per indicare quei coloni che ereditavano dal padre la loro condizione.
Numerosi curiali, invocando il ius colonatus, chiesero di essere
esentati dai munera cittadini, e per arginare tale fenomeno nel 342
Costanzo e Costante fissarono dei
limiti per l’esenzione dei munera (CTh. 12.1.33). In “Coloni
e capitatio” si analizza il colonato impiegato nelle terre di
privati. Con una costituzione del 332 (CTh. 5.17.1) Costantino prese duri
provvedimenti per limitare il fenomeno diffuso della fuga dei coloni. Questa
costituzione impose ai proprietari che nascondevano i coloni fuggiaschi di
restituirli all’origo dove erano registrati, e di rimborsare la
somma della capitatio (tributo introdotto da Diocleziano, che computava
anche i coloni che lavoravano le terre) che il proprietario del fondo
abbandonato aveva versato durante l’assenza. Nell’ultimo capitolo
“Nexus tributarius e ius originarium” il Rosafio esamina il
processo che, per motivi fiscali, introdusse l’applicazione del ius
colonatus ai coloni che erano impiegati nelle terre dei privati,
affinché si rispettasse l’obbligo di versare la capitatio.
Lo statuto coloniario per i coloni privati venne sancito da Valentiniano e
Valente, che estesero la disciplina giuridica dei coloni delle terre imperiali
anche ai coloni privati di alcune province; questo ius colonatus con il
tempo si estese in tutto l’impero.
L’opera,
in parte non del tutto inedita, di L.
Capogrossi Colognesi, si apre con “La formazione della
città-stato come momento di separazione e di coagulo del tessuto sociale”,
che individua nella genesi della comunità politica laziale il fenomeno
del sinecismo (apertura delle comunità ad una intensa circolazione di
individui e clan gentilizi). Il fenomeno riguardò anche Roma, derivata
dalla fusione di unità minori su basi parentali. I fattori di coagulo di
queste ‘fusioni’ delle comunità laziali si rinvengono sia
nella comunanza culturale e religiosa, in particolare nelle leghe religiose,
sia nei conflitti bellici, in quanto i nemici sconfitti venivano assorbiti
nella compagine politica del vincitore: è questo il caso degli Albani
assimilati dai Romani di Tullo Ostilio. A Roma questo sistema di circolazione
si concluse durante la monarchia etrusca, in quanto con la costituzione
centuriata si realizzò un rafforzamento dell’unità della civitas
che provocò un forte esclusivismo, fenomeno che impediva ai nemici vinti
e ai clan gentilizi stranieri di divenire cittadini. Con la completa
definizione del civis si delineò compiutamente anche la
fisionomia dello straniero, e se in passato quest’ultimo era tutelato
dalla religione e dal diritto, con la formazione di una forte identità
cittadina il problema della tutela del peregrinus venne risolto dalla
città stessa. Per la tutela dello straniero Roma utilizzò due
criteri: innanzitutto, la parziale assimilazione al cittadino romano, a
garanzia dei rapporti privati, che si otteneva attraverso la concessione del ius
commercii, regime originariamente a condizione di reciprocità
formatosi nei rapporti con popolazioni dalle analoghe radici culturali, e del ius
conubii. Il secondo meccanismo alternativo consistette nella creazione del ius
gentium, poiché risultava problematico estendere il sistema del commercium
a stranieri estranei alla cultura e tradizione latina. Il secondo capitolo
s’incentra su “I Latini”, in quanto la Lega Latina
rappresenta il caso più risalente di attribuzione reciproca del commercium
e del conubium. Quando Roma affermò la sua supremazia e sciolse
la Lega, i confini della civitas furono superati. Così, nella
seconda metà del IV sec. a.C. in Italia si applicò su vasta scala
un sistema basato sulla politica dell’assorbimento, attraverso la
fondazione di colonie latine, l’attribuzione della civitas optimo iure,
e la concessione della civitas sine suffragio. L’assimilazione
delle comunità straniere si differenziava dal passato poiché
venne meno l’antica condizione di reciprocità. Il capitolo
seguente, “Alle origini dello ‘ius gentium’”,
illustra la tutela degli stranieri ottenuta senza meccanismi
d’assimilazione, finalizzata alla protezione di un numero crescente di
commercianti di differente provenienza. Per i rapporti di scambio con stranieri
si crearono così dei nuovi istituti, fondati sulla fides dei
contraenti piuttosto che sulla forma negoziale. Se il ius commercii era
un “sistema chiuso” applicato a determinati soggetti in seguito ad
impegni internazionali, il ius gentium è un “sistema
aperto” a stranieri e Romani. Nel capitolo quarto, “Il diritto
romano e le città italiche sino alla guerra sociale e oltre”,
l’A. rimarca «una certa disattenzione» da parte della
dottrina per il sistema privatistico adottato dalle colonie latine, vista l’inesistenza
di un “diritto privato latino”. I Latini coloniari avevano il commercium,
il conubium, e probabilmente anche il ius migrandi con i Romani,
ma non si conosce il regime intercorso tra i cittadini della colonia. Prima del
90-98 a.C. (estensione della cittadinanza agli Italici) in modo episodico i
Latini coloniari mutuavano dal diritto privato romano singoli istituti, o
blocchi di norme che i Latini definivano con la formula fundus fieri.
Queste colonie, anche per il periodo successivo al 338, erano formalmente
libere di adottare sistemi giuridici privatistici differenti dal diritto
romano. Nelle singole colonie il diritto privato mancava d’elaborazione
scientifica a causa dell’arretratezza dei sistemi giuridici locali, e per
questo il ius civile romano divenne il modello di riferimento. In
progresso di tempo, la concessione della cittadinanza romana impose
l’estinzione del diritto civile locale attraverso la delibera di fundus
fieri con cui la comunità recepiva completamente il sistema
giuridico romano. In “Alcuni problemi di storia romana arcaica:
‘ager publicus’, ‘gentes’ e clienti” si
sostiene che fino al V sec. a.C. l’ager gentilizio, a cui si
riferiscono le fonti, corrispondeva all’ager publicus. Un demanio
di terre pubbliche, con la fisionomia dell’ager publicus, comparve
a Roma solo al momento del contrasto tra gli ordini. L’antico rapporto
tra gentes e ager publicus non s’identificava con la possessio,
istituto che si sviluppò dal 367, in quanto l’appropriazione
gentilizia sulla terra esulava dagli schemi proprietari. Il rafforzarsi della
comunità civica affievolì la signoria delle organizzazioni
gentilizie, per cui l’ager sfruttato dalle gentes si
considerò territorio della civitas e perciò
‘posseduto’ ingiustificatamente. Già gli antichi considerarono
in termini di possesso (per distinguere nettamente dalla proprietà
individuale e per evidenziare il carattere fattuale) le terre gentilizie, in
un’ottica ormai plebea. La plebe, esclusa in origine dallo sfruttamento,
lottò per imporre con l’ager publicus un rapporto di
carattere individuale basato sulla figura dei patres familias. I plebei
non chiedevano in possesso lotti di ager publicus, ma che questo fosse
diviso ed assegnato in proprietà quiritaria, e che quindi mutasse regime
giuridico. La lex de modo agrorum del 367 a.C., la seconda delle leggi Liciniae
Sextiae, ridusse per i singoli la capacità di possedere ager
publicus, con limiti ampliati in caso di figli in potestate, e
quindi apriva indirettamente allo sfruttamento della plebe. Il richiamo della
norma ai figli mostra come il possesso dell’ager publicus
spettasse alle familiae, senza più la presenza delle gentes.
È verosimile che già prima del 367 in maniera graduale
l’organizzazione gentilizia avesse ripartito il terreno comunitario tra i
nuclei familiari; anche i clienti legati prima all’intero gruppo
gentilizio svilupparono i rapporti con i singoli patres. Nel capitolo
sesto “La città e la sua terra” si sostiene che
Romolo nel distribuire il primitivo ager Romanus applicò il
sistema ternario, della divisione in 30 curie e in 3 tribù della
popolazione. Così attribuì in proprietà privata una prima
parte del territorio della civitas, in forma di proprietà
individuale assegnata ai singoli membri delle gentes (heredium),
destinò all’uso comune una seconda parte, mentre lasciò la
terza parte come pertinenza del rex e dei templi. Dalla metà del
XIX secolo la letteratura si è soffermata sul problema della
preesistenza di una proprietà fondiaria individuale rispetto ad una
forma collettiva. Tuttavia, ai primordi della civitas
l’agricoltura stanziale si formò gradualmente con la costituzione
di piccoli terreni, che andavano ad integrare le altre attività
economiche. In dottrina vi è la tendenza ad identificare l’ager
Romanus come la somma delle tribù territoriali, tuttavia il sistema
degli heredia non si riduceva ad una circoscrizione urbana. Nel V sec.
l’ager Romanus era costituito sia dai lotti attribuiti in
proprietà individuale ai membri delle gentes che corrispondevano
alle prime 16 tribù rustiche, sia da terre pubbliche esterne al sistema
tribale, cioè il terreno comune delle gentes, regolate dai mores
gentilizi, e le aree di recente conquista. Integrava la proprietà
individuale l’ager compascuus, sfruttato solo dai titolari
del ius pascendi, coloro che con le loro proprietà fondiarie
costituivano un pagus, comprensorio rurale, dove si accorpavano in modo
organico le proprietà individuali dei membri delle gentes e il
terreno comunitario. L’antico sistema paganico venne superato nel IV sec.
a.C. dal modello delle tribù territoriali, legato agli schemi del dominium
ex iure Quiritium. Per quanto riguarda la destinazione delle terre di
recente conquista, nel corso del V secolo vi fu un nesso tra
l’espansionismo territoriale romano e il riacutizzarsi della lotta tra
gli ordini, caratterizzata dalla pretesa plebea sulle nuove conquiste, a fronte
del suo crescente impegno militare. Il modello proprietario rivendicato dalla
plebe si affermò con la rilevante distribuzione del territorio veiente,
per il quale si creerà una nuova unità fondiaria basata su septem
iugera. Nel capitolo “‘Ager publicus’ e ‘ager
gentilicius’ nella riflessione storiografica moderna”, si offre
un quadro della dottrina, dalla storiografia dell’ottocento sino ad oggi,
intorno al rapporto tra terra coltivabile e gentes nel periodo arcaico.
La concezione che lega l’ager publicus al possesso, propria
della letteratura passata, è stata rifiutata dal dibattito attuale,
specie in area tedesca, che procede ad una maggiore storicizzazione. Tuttavia,
il Capogrossi Colognesi sottolinea «l’obiettiva difficoltà
ed oscurità delle fonti antiche e la difficoltà di ogni
ricostruzione dei moderni, e conseguentemente il carattere ipotetico di tutte
le ricostruzioni avanzate: in primo luogo la mia». L’ultimo
capitolo “I ‘mores gentium’ e la formazione delle
strutture cittadine” analizza secondo una prospettiva storica le
tradizioni gentilizie e le strutture dell’arcaica civitas. In
età storica sopravvissero tradizioni gentilizie preciviche che
collegavano la civitas ad antiche tradizioni, legate a mores
ancestrali dei pagi e delle gentes. Quando gli antichi pagi si
unificarono nella civitas, il loro comune patrimonio culturale
andò a comporre quello della civitas. I riti ed i culti comuni ad
alcuni pagi andarono a costituire la struttura della religione della Roma
arcaica; al contrario i sacra gentilizi, peculiari a ciascun clan,
non si fusero nel comune patrimonio civico. Le pratiche e le regole normative
dei pagi e del sistema gentilizio non sopravvissero al sinecismo cittadino, se
non in via di fatto, perdendo la connotazione giuridica.
La
ricerca di O. Sacchi
s’incentra sulle vicende giuridiche e istituzionali di Capua, dalla sua
fondazione al 211 a.C., anno della sua deditio. Nel primo capitolo,
“I limiti geografici dell’ager Campanus antiquus”, che
riporta in parte materiale già pubblicato, si mostrano le delimitazioni
spaziali dell’ager Campanus, il cui significato si modificò
con il tempo. Infatti, se per Polibio (3.91) ager Campanus indicava la
zona di pertinenza esclusiva della città di Capua, in età
augustea le fonti designano in questo modo parte della Campania. Il capitolo
seguente, “Un’ipotesi sul nome di Volturnum/Capua e la
formazione dell’ethnos campano fino alla conquista romana”,
affronta innanzitutto la questione della fondazione dell’antica Capua.
L’A. concorda con l’ipotesi per cui Capua Vetere sarebbe stata
fondata dagli Etruschi alla fine del IX sec. a.C., anche se è del parere
«che la ricerca archeologica possa fare ancora molto per migliorare le
nostre conoscenze in questo campo». Intorno alla denominazione della
dodecapoli, il Sacchi accetta la tradizione che indica Volturnum come il
più antico nome di Capua, indicazione avvalorata sia dalla teoria per
cui la denominazione Volturnum sarebbe un patronimico sostantivato e
corrisponda al gentilizio etrusco Velθurna, sia dall’ipotesi
che collega al nome un vento di scirocco. L’A. si occupa poi della
formazione dell’ethnos campano, avvenuta nel V sec. a.C., un
secolo dopo una profonda crisi economica e sociale, forse di portata generale.
Il territorio venne riorganizzato sulla base dell’integrazione tra
Campani originari, gli Etruschi e i Sanniti. Nel terzo capitolo si analizza
“La romanizzazione dell’ager Campanus
dall’annessione dell’ager Falernus alla forma agri
di Lentulo”, romanizzazione che si affermò nell’arco
di tempo che va dal 340 a.C. (confisca dell’ager Falernus, situato
nella Campania settentrionale) al 59 a.C. (deduzione di una colonia cesariana).
In un periodo precedente alla deditio, la limitatio della zona
avvenne con l’antico sistema di strigatio et scamnatio, probabilmente
sulla base di misurazioni preesistenti, mentre solo successivamente si
procedette alla centuriatio. Le fonti ricordano un riassetto
territoriale dell’ager Campanus nel 173 a.C. da parte dal console
Lucio Postumio Albino, e nel 165 dal pretore P. Cornelio Lentulo, il quale su
ordine del senato vi acquistò con danaro pubblico delle terre. In
dottrina si avanzano dubbi sulla veridicità di questi due episodi, che
per il Sacchi non devono essere intesi tra loro contrastanti: probabilmente
Postumio procedette ad una ricognizione, mentre Lentulo effettuò la
prima centuriazione del territorio, e fece redarre nel 162 la forma agri
che resterà immutata sino all’epoca sillana. Nel quarto capitolo,
“Il passaggio dalla nozione augurale di ‘ager’ alla
categoria di ‘ager publicus populi Romani’”, si
mostrano le trasformazioni della concezione romana dello spazio. In Varrone (de
ling. Lat. 5.33) si descrive l’antica nozione giuridico-religiosa
dello spazio secondo la teoria augurale dei genera agrorum (ager
Romanus, ager Gabinus, ager peregrinus, ager hosticus,
ager incertus), che offre dei concetti importanti per comprendere la
natura giuridica degli spazi conquistati. Questi concetti saranno ancora vivi
durante l’età della deditio, anche se questa fu
un’epoca di passaggio che vide l’introduzione del sistema di
ripartizione del territorio in tribù, che comportava una nozione dello
spazio di tipo geografico. La forma agri redatta da Lentulo
«segnerà comunque il momento molto significativo del passaggio da
una cultura del paesaggio interpretata giuridicamente in chiave augurale, ad
una cultura ‘laica’ basata sulla organizzazione del territorio
conquistato secondo gli schemi della centuriazione». Questa nuova
concezione laica degli spazi iniziò a mutare dalla guerra annibalica che
vedrà l’apparire del nuovo concetto di terra Italia
concepita come unità territoriale rispetto al territorio extra
Italiae; si tratta dell’espressione di un nuovo pensiero politico:
l’«autoconsapevolezza nella classe dirigente romana di aver
acquistato ormai una dimensione imperialistica». La concezione dello
spazio sarà quindi legata ad una nuova visione politica che modificherà
la stessa idea dell’ager publicus: se prima si considerava
come “terra dell’esercito”, cioè territorio
conquistato come preda bellica, dalla fine del II sec. a.C. si concepì
come ‘terra della res publica’, e la nuova nozione
giuridica, ager publicus populi Romani, appare nei documenti
epigrafici. Nell’ultimo capitolo, “Il senatus consultum del
211 a.C. Elementi per una qualificazione giuridica dell’ager
Campanus”, si procede all’indagine intorno alla natura giuridica
del territorio campano dopo la deditio. Dall’analisi della
testimonianza di Livio (26.16.7 e 26.33-34) appare come l’azione del
senato nel 211 sia stata mossa da motivi contingenti, non secondo una politica
consapevole: «l’ager Campanus sarebbe stato
grossolanamente gestito per reperire facilmente denaro liquido mediante i
meccanismi delle assegnazioni di lotti di terreno con imposizione di
decima». Il senatoconsulto del 211 non trasformò l’ager
Campanus in ager publicus, ma in publicatus, cioè
confiscato; solo con Lentulo avvenne la trasformazione in ager publicus
populi Romani. Le ragioni che fanno sostenere la non trasformazione in ager
publicus sono diverse. Innanzitutto nel 208 il console Crispino per
procedere alla dictio dictatoris in agro campano compì una fictio
dell’ager Romanus, e ciò dimostrerebbe che secondo la
riflessione augurale il territorio campano non era considerato ager Romanus.
Inoltre, il fatto che il senato ordinò a Lentulo di acquistare porzioni
di terre capuane dimostra che il terreno non era ancora considerato patrimonio
della res publica. Nonostante la deditio fosse formalmente un
atto rigoroso, «nessuno potè disporre veramente dell’ager
Campanus»; del resto si registrano stretti rapporti tra
l’oligarchia campana e membri della nobilitas romana, questi
ultimi con notevoli interessi in Campania. Nelle osservazioni conclusive
“Un’ipotesi sulla natura giuridica dell’ager Campanus
in seguito al provvedimento del 211 a.C.”, si analizza la deditio
in rapporto all’ager occupatorius, che nel periodo indicava
l’intero territorio preso al nemico.
L’opera
collettanea curata dall’Amarelli analizza le realtà urbane
rispetto all’autorità centrale. Nella Prefazione di A.
Giardina e A. Schiavone si sottolinea come la materia in esame si presti ad
essere oggetto di riflessioni interdisciplinari. Nell’assetto politico-costituzionale
dato al loro impero, i Romani tennero conto delle multiformi realtà
provinciali, con cui confrontarsi. La Parte prima dell’opera si apre con
il contributo di F. Amarelli, che analizza “Il conventus come
forma di partecipazione alle attività giudiziarie nelle città del
mondo provinciale romano”. Nella pratica, nell’esercizio della
loro funzione giurisdizionale, ogni anno i proconsoli visitavano buona parte
del territorio provinciale per rendere giustizia. Così tali
appuntamenti, chiamati conventus, che in senso tecnico indicavano
«le adunanze dei provinciali», acquisirono «il carattere di
vere e proprie assemblee giudiziarie». Le date ed i luoghi delle adunanze
giudiziarie venivano indicate dal proconsole nel proprio editto, ma la scelta
della città era prerogativa imperiale, in quanto era ritenuto un
privilegio, poiché l’elevato numero di presenze in occasione dei conventus
favoriva le attività commerciali. Le città prescelte svolsero
«il ruolo di tramite tra il governo romano e le comunità locali»,
dando luogo ad un processo d’istituzionalizzazione che portò
all’articolazione del territorio in diocesi. Così il conventus
perse l’originario significato legato all’attività
giudiziaria, e si riferì alla ripartizione territoriale della provincia.
Data la trasparenza e la pubblicità dei conventus, durante
l’esercizio della giurisdizione vi fu una crescente partecipazione delle
popolazioni amministrate, trasformando queste adunanze in uno «strumento
di informazione e di controllo da parte della collettività
sull’opera dei magistrati provinciali». La pratica conventuale
venne cancellata del tutto da Diocleziano, e per questo non se ne fa menzione
nell’opera giustinianea.
Segue
poi “Forme di partecipazione politica cittadina e contatti con il
potere imperiale” di P. Porena, dove si analizzano i momenti
d’aggregazione popolare non politici, che rappresentarono un momento
importante nelle città dell’impero, poiché infondevano il
senso d’identità civica e «scandivano le fasi più
delicate della dialettica tra la comunità e il governo imperiale».
Secondo l’A. sarebbe riduttivo riunire queste forme partecipative sotto
una medesima categoria, tuttavia, poiché appare difficoltoso effettuare
un esame di tutte le manifestazioni, si è proceduto ad una selezione, privilegiando
i momenti in cui affiora meglio il rapporto tra cittadini, classe dirigente
locale e governo romano, dal I al VI sec. d.C., tenendo conto della scarsa
chiarezza delle fonti e della pluralità delle entità locali. La
prima forma di partecipazione cittadina presa in esame sono gli adventus
solenni, in occasione delle visite alle città da parte del princeps e
dei governatori. L’adventus dell’imperatore era considerato
un evento importante, visti gli scarsi contatti tra il principe e i propri
sudditi, ed era regolato da un preciso cerimoniale che richiedeva notevoli
sforzi organizzativi da parte della città ospitante. L’avvenimento
«dall’intenso profilo ideologico ed emotivo» registrava una
corale partecipazione della comunità cittadina. L’altra solenne
forma di adventus, del governatore provinciale che rappresentava
l’autorità romana, era più frequente, tuttavia comportava
ugualmente una partecipazione emotiva dei cittadini, e rappresentava un mezzo
per il controllo del consenso della periferia rispetto
all’autorità centrale. Segue poi l’analisi del tipo di
partecipazione collettiva provocata dalla diffusione di notizie e comunicazioni
ufficiali provenienti dalla corte imperiale. Esisteva inoltre una nutrita
presenza di pubblico durante i processi e le esecuzioni capitali nelle
città dell’impero posti in essere dall’autorità
romana, o dalle autorità cittadine.
A. La
Rocca studia il “Diritto di iniziativa e potere popolare nelle
assemblee cittadine greche”. Il dominio romano in Oriente produsse la
progressiva concentrazione della giurisdizione criminale nei governatori
romani. Non si trattò di un processo lineare, in quanto vi fu una forte
dialettica tra il governo centrale e quello locale. Roma, nel sottrarre i
grandi processi politici alle assemblee cittadine, privò «le
città democratiche dell’unico dispositivo capace di garantirne il
funzionamento, paralizzandone l’intera macchina istituzionale». In
questo modo le aristocrazie locali sottratte al giudizio del popolo acquisirono
maggiore forza. Nelle città libere vi fu il medesimo effetto in seguito
alla concessione della cittadinanza romana, grazie alla quale gli aristocratici
si sottraevano al giudizio delle giurie popolari. I consigli cittadini,
altresì, si trasformarono in organismi stabili sull’esempio del senatus
romano, composti dagli esponenti dell’aristocrazia. Queste
trasformazioni ebbero un forte impatto istituzionale producendo delle modifiche
in senso oligarchico. In età imperiale, inoltre, sempre in questa
prospettiva si diffuse l’attribuzione della funzione di presidenza del
consiglio e dell’assemblea popolare, ad un collegio magistratuale,
ricoperto ordinariamente da esponenti aristocratici. Sulla base della
documentazione epigrafica, a partire dal XIX sec. una tradizione dottrinaria ha
ipotizzato una forte riduzione dell’iniziativa popolare nelle
città elleniche. Ai decreti epigrafici classici, dove si distingueva la
presidenza dall’autore della mozione, si aggiunsero due nuovi modelli,
uno che designava come autore della mozione un magistrato o un collegio
magistratuale, il secondo che indicava anche il cittadino che aveva inoltrato
la proposta. Tuttavia, l’A. rileva che le fonti letterarie, come
Plutarco, descrivono l’assemblea popolare come un organo decisionale, e
quindi percepiscono come attivi i poteri del popolo. I decreti epigrafici
rimanderebbero, infatti, al fenomeno sociale del «crescente
protagonismo» da parte dell’oligarchia nelle iniziative dei decreti
di deliberazione popolare. In età imperiale, le città greche,
dunque, sarebbero state più oligarchiche sotto il profilo sociale, ma al
contempo democratiche sotto il profilo giuridico: «La decadenza del
potere di iniziativa popolare non è determinata dal predominio del
consiglio sull’assemblea, ma dal predominio di un’oligarchia su
entrambi. Essa non è il prodotto di una rivoluzione giuridica risalente
alla conquista romana ma di un’evoluzione sociale ellenistica che
condurrà, a partire dal III secolo d.C., al tramonto della città
antica».
La
Parte seconda contiene il contributo di V. Marotta, “Conflitti
politici cittadini e governo provinciale”, in cui si sottolinea che
Roma impose raramente il proprio modello cittadino nelle aree greche, motivo
per cui le città dell’Oriente ellenico sopravvissero per secoli.
Sotto il dominio romano le costituzioni di queste città si trasformarono
sensibilmente, in quanto dopo la riorganizzazione di Pompeo finalizzata a
limitare le forme democratiche per favorire persone d’elevato rango
sociale, le competenze delle assemblee popolari si trasferirono ai consigli
costituiti dagli aristocratici locali. Fu con la riforma dioclezianea che le
istituzioni cittadine si omologarono e vennero meno le assemblee locali. Sul
piano politico si rinviene nei ceti dirigenti romani un giudizio ambivalente
sulla democrazia greca: da un lato essi erano consapevoli della
necessità di rispettare una certa autonomia delle città elleniche
proprio per le loro peculiarità, dall’altro lato provavano una
certa ostilità per le forme costituzionali delle poleis,
considerate inferiori al modello timocratico romano. Le numerose fonti
epigrafiche mostrano il rapporto tra le autonomie locali dell’Oriente
ellenizzato e il potere romano. Il sistema provinciale si basava sulla
collaborazione di ciascuna città, che, «in un reticolato sostanzialmente
uniforme, ‘lavora’ per il potere romano, garantendo l’ordine
pubblico, riscuotendo le imposte, provvedendo alla manutenzione delle strade,
offrendo salari a medici e insegnanti». Il controllo da parte romana
avveniva mediante l’esercizio della giurisdizione. La cancelleria ed i
giuristi equiparavano sul piano degli effetti processuali le deliberazioni
politiche, consiliari o assembleari, delle città, alle sentenze
giudiziarie che potevano essere sottoposte ad appello. Quindi per l’idea
romana il contrasto politico cittadino venne inserito in una logica di
«amministrazione giustiziale».