Economia e diritto in Roma antica
Cristiana
M.A. Rinolfi
Università
di Sassari
In materia segnaliamo: P. Cerami - A. Di Porto - A. Petrucci, Diritto
commerciale romano. Profilo storico, 2a ed., G. Giappichelli editore,
Torino 2004; D. Gaurier, Le
Droit maritime romain, Presses Universitaire de Rennes, Rennes 2004; F. Giménez Barriocanal, La
actividad económica en el Derecho Romano. Análisis Contable,
Dykinson, Madrid 2003; Credito e moneta nel mondo romano. Atti degli Incontri capresi di storia
dell’economia antica (Capri 12-14 ottobre 2000) [Pragmateiai.
Collana di studi e testi per la storia economica, sociale e amministrativa del
mondo antico 8], a cura di E. Lo Cascio, EDIPUGLIA, Bari 2003;
A. Wacke, Pecunia in arca
[Università degli Studi di Lecce. Dipartimento di Studi
Giuridici. Incontri di Storia ed Istituzioni del diritto romano], ARGO, Lecce 2002.
Il
testo di P.
Cerami - A. Di Porto - A. Petrucci è un corso di lezioni dedicato all’antica organizzazione
imprenditoriale romana. La Parte Prima, Introduzione
allo studio del diritto commerciale romano, si apre con il capitolo, Terminologia, oggetto e periodi storici del
diritto commerciale romano, di P. Cerami. Qui si sottolinea come la
dottrina abbia spesso considerato il diritto commerciale come una categoria
ontologica, che traeva le sue origini nel ius
mercatorum medievale. Una svolta di indirizzo si è registrata nella
letteratura romanistica degli ultimi decenni del XX sec., quando si è
giunti a dimostrare che l’esperienza in tale campo nel mondo antico non
può essere considerata «una sorta di preistoria del diritto
commerciale». L’A. sottolinea come la locuzione «diritto
commerciale romano» sia del tutto convenzionale, in quanto non può
essere intesa in modo unitario e sincronico, ma si deve far riferimento ai vari
momenta della lunga storia giuridica romana; tuttavia, nonostante
numerose critiche mosse in dottrina alla categoria, non si deve precludere il
suo utilizzo convenzionale. Il diritto commerciale romano ha come oggetto le
attività economiche esercitate per il mercato in generale, e ha come
scopo sia la descrizione delle relazioni tra l’assetto economico-sociale
e i dati giuridico-normativi nelle diverse fasi dell’esperienza giuridica
romana, sia la comparazione fra i vari momenta della storia giuridica
commerciale in Roma e l’esperienza attuale. Si procede quindi a offrire
un quadro del lessico giuridico in materia, specifico e variegato, che
andò a formarsi durante l’esperienza giuridica romana per la quale
si individuano tre momenta: il periodo preimprenditoriale (745-242
a.C.), dove si registra la completa assenza di schemi organizzativi
imprenditoriali; periodo imprenditoriale (242 a.C.-235 d.C.), nel corso del
quale si estesero le attività imprenditoriali e Roma divenne il centro
politico ed economico mondiale «di un sistema di scambi sempre più
globalizzato»; periodo postimprenditoriale (235-565 d.C.), caratterizzato
da una involuzione del sistema delle negotiationes. Fa seguito, sempre
di P. Cerami, il secondo capitolo, Negotiationes e negotiatores.
Tipologia dell’organizzazione imprenditoriale romana, dove si
analizzano i modelli giuridici dell’attività commerciale romana
che si affermarono durante il periodo imprenditoriale. In tale fase gli editti
dei pretori e, in minor misura, degli edili curuli costituirono la fonte
normativa in campo commerciale che portò a «una sorta di commercializzazione
del diritto privato romano», di cui sono esempio le clausole connesse
all’exercitio negotiationum e le actiones adiecticiae
qualitatis, che sanzionavano il dominus negotii per gli atti
compiuti dai propri preposti all’esercizio dell’impresa. La
giurisprudenza, tra il I sec. a.C. e il I sec. d.C., inoltre,
nell’interpretare i verba edicti,
elaborò delle categorie fondamentali in materia. Oltre a clausole
prettamente dirette all’impresa, nel sistema edittale si ritrovano
enunciati che l’interpretazione giurisprudenziale estese per la
risoluzione di questioni emergenti dalla prassi commerciale. Nel terzo
capitolo, Servus e libertus. Strumenti dell’imprenditore romano
(già in Imprenditorialità
e diritto nell’esperienza storica, a cura di M. Marrone, Palermo
1992, 231 ss.), di A. Di Porto si analizzano alcune delle innumerevoli
fonti archeologiche ed epigrafiche che testimoniano nell’organizzazione
imprenditoriale romana una massiccia presenza di liberti e di servi, questi
ultimi articolati in diverse categorie. Dall’excursus emerge come liberti e schiavi fossero fondamentali
strumenti del sistema imprenditoriale, inseriti, anche contemporaneamente, in
più attività imprenditoriali, individuali o collettive. Tra il II
sec. a.C. e il II sec. d.C. lo schiavo era dunque lo «strumento
generale» delle imprese dei Romani, caratteristica questa in cui
l’A. rinviene «forse l’originalità della
schiavitù romana». Attraverso l’utilizzo dello «schiavo-strumento»
l’imprenditore poteva intraprendere numerose attività, anche
disparate, in luoghi diversi, in quanto il servus operava «come
una sorta di strumento moltiplicatore del dominus-operatore
economico». Tale strumento permetteva inoltre una limitazione del rischio
imprenditoriale in presenza del peculio, producendo una disgiunzione tra la
proprietà dell’impresa e la sua conduzione. Il Di Porto sostiene
inoltre «che lo strumento-schiavo consente la circolazione
dell’impresa» in quanto si trasferiva l’impresa vendendo il servus-negotiator insieme al peculium. Si passa poi ad analizzare il
caso del «liberto-strumento», individuando «un complicato e
sottile rapporto di forza» tra lo schiavo, particolarmente capace nella
gestione dell’impresa, determinato a ottenere la propria manomissione, e
il suo dominus, interessato a far continuare l’impresa anche dopo
la concessione della libertà. Dall’analisi delle fonti giuridiche
si può dedurre l’esercizio diffuso di attività commerciali
da parte dei liberti, la frequente continuazione dell’impresa svolta in
condizione servile, e il considerevole contributo da parte del manomissore per
l’impresa del libertus: queste relazioni d’affari tra il
patrono e il liberto rendevano ancor più complesso il rapporto di
patronato.
La
seconda parte, L’impresa bancaria:
attività, modelli organizzativi, funzionamento e cessazione, di A.
Petrucci, si avvia con il capitolo Banca,
attività bancarie ed interessi nascenti dalle stesse. La banca a
Roma, indicata con l’accezione tecnica mensa, era considerata come una tipologia di impresa. Secondo
l’A., si può parlare di un “diritto bancario”, in
quanto alla normativa ordinaria andò ad accostarsi una normativa
speciale, sia in campo sostanziale, sia sul piano processuale. Per quanto
riguarda le attività bancarie «tipiche» il Petrucci si
rifà alla definizione di conto bancario offerta da Labeone e Ulpiano (D.
2.13.6.3, Ulp. 4 ad ed.): dandi accipiendi, credendi debendi, obligandi
solvendi. Si procede quindi a una analisi delle attività svolte dai
banchieri sia di quelle che rientrano in questi tre gruppi e che venivano
annotate nel conto bancario, sia di altre attività in uso tra i diversi
operatori finanziari. Segue poi I modelli
organizzativi, schemi che
appaiono disparati nelle opere giurisprudenziali del principato. Il modello
più semplice è rappresentato dalla gestione personale e diretta
dell’impresa bancaria, una forma organizzativa che non dava origine a
problemi relativi agli acquisti, o di responsabilità verso terzi da
parte del banchiere. La banca poteva inoltre avere come schema organizzativo la
praepositio di un servus in qualità di institor; in tale caso, come emerge da
D. 14.3.5.3 (Ulp. 28 ad ed.), il dominus era obbligato in solidum nei limiti della preposizione
attraverso l’actio institoria per
gli atti compiuti dallo schiavo, proprio o altrui. Un altro modello
organizzativo era quello in cui si preponeva come institore un liberto: in
questo caso il regime del rischio rimaneva invariato qualora il libertus fosse
stato preposto prima della sua manomissione. Variava invece il regime dal lato
attivo, in quanto gli acquisti non si trasmettevano direttamente al preponente,
se non mediante contratto di locatio-conductio
o mandato. Un’altra forma organizzativa di mensa si incentrava
sulla sua gestione di un peculio gestito da un filium o da un servus. In
tale modello si profilavano complesse ipotesi e una diversità di regime
tra i filii e i servi, vista la
progressiva differenziazione delle due categorie. La questione degli utili qui
veniva regolata sulla base del rapporto potestativo, e il banchiere era
responsabile verso i terzi nei limiti del peculio o dell’azione de in rem verso. La forma di esercizio
collettivo presentava diversi modelli di gestione, nel caso si procedesse o
meno ad una preposizione institoria. In caso di praepositio di uno
schiavo institore comune, i soci erano responsabili verso i terzi in solido e
acquistavano sulla base delle quote di proprietà del servus communis. L’esercizio
dell’impresa poteva essere svolta anche da parte di un servus di una mensa peculiaris, dove
i soci acquistavano sulla base della proprietà del servo gestore ed
erano responsabili verso i terzi sempre limitatamente al peculium o
rispetto all’actio de in rem verso.
Il terzo capitolo, Aspetti giuridici del
funzionamento e della cessazione delle attività bancarie, pone in
evidenza gli interventi del pretore e l’interpretazione giurisprudenziale
mirati a contemperare la tutela della clientela con lo scopo di profitto dei
banchieri. A tal fine nel II secolo a.C. si emanò l’edictum de rationibus argentariis edendis, sulla base del quale il pretore poteva
decretare l’obbligo per gli argentarii di esibire in giudizio la
documentazione dei conti bancari del cliente. In caso di mancata ottemperanza
al decretum pretorio, secondo
l’A., il cliente poteva chiedere un risarcimento dei danni al banchiere
attraverso l’esperimento di un’actio
in factum di natura penale privata, avendo come criterio di
responsabilità il dolo, a cui venne accostata sul finire del I secolo
d.C. la colpa grave. Un altro istituto in cui si contemperano la protezione dei
clienti con l’esigenze di redditività delle banche è
l’agere cum compensatione, a
cui il banchiere era tenuto nell’esercizio dell’azione contro un
titolare di conto per evitare gli effetti della pluris petitio: in tal modo si garantiva una corretta conduzione
della documentazione contabile. Il banchiere, inoltre, era tenuto a
pubblicizzare le condizioni contrattuali e a trasmettere informazioni sui conti
dei clienti. Nel capitolo seguente, Banche
e negozi bancari nelle fonti giuridiche del tardo antico (fine del III –
metà del V secolo d.C.) ed in età giustinianea, si sottolinea
la necessità di una nuova indagine in materia. Dall’analisi delle
fonti giuridiche emerge come durante la tetrarchia fosse presente una certa
«vitalità delle attività bancarie», al contrario da
quanto sostenuto comunemente dalla letteratura. Si registra invece una crisi
delle banche durante il IV secolo, contrazione superata attraverso la loro
trasformazione in corporazioni, agli inizi del V secolo. In tale periodo,
però, oltre ai compiti pubblici sopravvissero le consuete
attività bancarie private di deposito e di credito. Sotto Giustiniano,
il quale procedette a numerosi interventi in materia, l’attività
bancaria fu molto estesa.
Del
medesimo A. è anche la terza parte dell’opera, Particolari aspetti giuridici
dell’organizzazione e delle attività delle imprese di navigazione
nel periodo imprenditoriale (242 a.C.-235 d.C.), che inizia con
l’illustrazione de Le
specificità nel regime giuridico dei modelli organizzativi.
L’impresa di navigazione, di solito qualificata dalle fonti giuridiche
come exercere navem, exercitio naves e transmarina negotiatio, si diffuse a causa dei suoi elevati redditi
e per la rapidità della sua attività. Intorno al II e III secolo
d.C. nelle opere giurisprudenziali appare già consolidata la disciplina
speciale dell’impresa di navigazione, in deroga al regime ordinario. Tale
impresa poteva essere condotta direttamente dall’exercitor (armatore), oppure attraverso la praepositio di un magister,
schiavo o libero, o anche nell’ambito di un peculio, sia in forma
individuale, sia in forma collettiva. Nel caso di preposizione di un magister navis in una impresa
individuale, si determinavano i poteri conferiti al gestore
nell’attività negoziale, e si delimitava la responsabilità
dell’exercitor sulla base
dell’actio exercitoria. Per
quanto riguarda un’impresa navale individuale condotta attraverso la
gestione di un figlio o di un servo all’interno di un peculio, si
derogava la regola sulla responsabilità dell’avente potestà
per le obbligazioni assunte nella gestione, in quanto la presenza della voluntas dell’armatore comportava
la sua responsabilità illimitata. Il secondo capitolo esamina i Tipi di attività contrattuali e di
responsabilità connesse all’esercizio di un’impresa di
navigazione. Da tre brani ulpianei conservati in D. 14.1.1.3, D. 14.1.1.7,
D. 14.1.1.8 si individuano le tipologie contrattuali legate all’esercizio
di tale attività: 1) la locatio-conductio,
utilizzata per la locazione dell’imbarcazione, per il trasporto di
passeggeri e di merci, per locare le prestazioni lavorative dei membri liberi
dell’equipaggio. Nella prassi si concludevano anche contratti di
locazione di difficile inquadramento da parte dei giuristi, i quali secondo il
Petrucci probabilmente contribuirono «alla rottura del principio della
tipicità ed all’affermazione della cognizione del prefetto
dell’annona». 2) La compravendita di merci o di strumenti e
dell’equipaggiamento per la navigazione. 3) Il mutuo connesso
all’esercizio dell’impresa di navigazione, oppure diretto alla
riparazione dell’imbarcazione. Si tratta di contratti con alcuni
specifici elementi, a cui si accostarono nuovi negozi come il receptum nautarum ed il foenus nauticum.
Nella
parte quarta, L’impresa agricola
nel periodo imprenditoriale (testo pressoché inalterato del
contributo dal titolo Impresa agricola ed
attività collegate nell’economia della «villa». Alcune
tendenze organizzative, in Sodalitas.
Studi in onore di A. Guarino 7, Napoli 1984, 3235 ss.), A. Di Porto
sostiene che per il periodo in esame i dati archeologici mostrano il rilevante
fenomeno della connessione tra l’impresa agricola e altre attività
funzionali alla commercializzazione. Questo fenomeno viene confermato da fonti
giuridiche che all’A. non «risulta siano state tenute, al riguardo,
nella considerazione che invece meritano». Si procede così
all’esame delle fonti giuridiche che mostrano la presenza durante il
periodo imprenditoriale di: 1) attività funzionali alla
commercializzazione dei prodotti del fondo, cioè la vendita, il
trasporto e la produzione di terracotta sia come produzione complementare
all’attività agricola, sia ai fini di mercato, per il trasporto e
la conservazione delle merci; 2) di attività di tipo speculativo non
funzionali all’agros colere, ma
che sono imputabili al dominus fundi,
e possono essere oggetto di un’unica preposizione, come il pecuniam faenerare (prestare danaro a
interesse) e il mercaturas redempturasque
facere (concludere attività commerciali e appalti). Secondo il Di
Porto nella prassi si saranno formati «fenomeni diversi, magari
“misti” o, in certo senso, “di mezzo”». Le fonti
giuridiche prese in esame consentono inoltre di identificare due forme
giuridico-organizzative dell’impresa agricola. L’attività poteva
essere incentrata sul vilicus (il
fattore), il quale poteva essere preposto al fructus percipere e anche a una modesta vendita della produzione;
oppure, in caso di sviluppata attività di mercato, il vilicus
poteva essere preposto alla sola conduzione agraria, mentre la
commercializzazione veniva attribuita ad altri: una figura simile all’institor,
un actor od un procurator. Nell’altro modello organizzativo
l’impresa agricola rientrava in un gruppo di vari rami di attività
economiche non omogenee oggetto di un’unica praepositio. Qui tutto
ruotava intorno alla figura del preposto indicato spesso genericamente dalle
fonti come quis praepositus, definito
dall’A. come «super-preposto», che si distingueva dal vilicus
e dall’institor, e poteva probabilmente avvalersi dei
sottoposti per la cura di determinate attività.
Nel
suo volume D. Gaurier riunisce
sei studi pubblicati nell’Annuaire de Droit Maritime et
Océanique della Faculté de Droit de Nantes, apparsi tra il
1997 e il 2003, qui notevolmente rielaborati. L’opera cerca di
tratteggiare un corpus del ius nauticum Romanum, anche se le fonti
non permettono di affermare che i Romani avessero coscienza
dell’esistenza di un’autonoma branca del diritto marittimo. Il
capitolo preliminare, Quelques notions de
base sur la procédure et les divisions du droit, rappresenta un sunto del sistema delle actiones, e delle classificazioni giurisprudenziali del ius.
Il ius maritimum appare una branca
del diritto privato che traeva fondamento dal ius gentium, anche se nessun giurisperito ha mai elaborato un
manuale di diritto marittimo, e l’esposizione della materia si
basò sempre sul metodo casistico. Tra le fonti del diritto marittimo, il
testo più antico è la lex
Rhodia de iactu, ricordata in D. 14.2.2, che regola il lancio delle merci
per alleggerire la nave in caso di pericolo. Le questioni inerenti alla
navigazione vennero trattate in modo occasionale e frammentario dai pretori; fu
solo a partire dal Codice Teodosiano che si ebbe una maggiore regolamentazione
in tale campo. L’A., a fronte della frammentarietà delle fonti in
materia, ha voluto alterare la natura casistica del diritto romano cercando di
ordinare il ius maritimum Romanorum,
pur senza mutarne il contenuto. Sulla base di fonti giuridiche di cui si offre
la traduzione, nei vari capitoli si considerano diversi argomenti. In La navire en tant qu’objet de
propriété, si tratta dei soggetti che possono essere
proprietari di imbarcazioni, dei modi di acquisto della proprietà di una
nave, del problema se essa fosse un bene indivisibile, e se fosse intaccata dai
debiti del dominus. In De la
conduite du navire, si analizzano le fonti intorno alla figura del magister
navis, il preposto, o colui che ha assunto in modo effettivo la gestione
della nave. Nel capitolo seguente, De l’exploitation du navire, si
espone come i Romani non sentirono la necessità di denominare dei
contratti specifici, ma inclusero le differenti modalità contrattuali
del trasporto marittimo nel quadro generale della locatio-conductio. Si
procede alla distinzione tra le obbligazioni a carico degli operatori marittimi
(gestore, capitano, proprietario) e quelle di coloro che contrattano con questi
(passeggeri o noleggiatori). Per quanto riguarda il primo tipo di obbligazioni,
vi si annoverano il contratto di trasporto di merci o di passeggeri, che
essendo un contratto di buona fede comportava la non imputabilità
dell’operatore marittimo per la mancata effettuazione della rotta in caso
di malattia o di avaria della nave. Qui l’operatore marittimo era
oggettivamente responsabile per i beni trasportati in quanto sussisteva un
dovere generale di custodia, salvo i casi di forza maggiore. Per quanto
riguarda il secondo tipo di obbligazioni, si ricorda che l’unica
obbligazione era quella di pagare il canone del nolo. Nel capitolo quarto si illustra
La responsabilité de l’opérateur maritime:
l’action exercitoire. L’azione
exercitoria venne creata in favore di coloro che negoziavano con i
preposti dell’armatore, i quali, infatti, oltre al preposto potevano
perseguire l’armatore nell’ambito della praepositio. Il
capitolo quinto propone la traduzione e il commento di alcuni testi riguardanti
La lex Rhodia de iactu ou le système des avaries communes.
Si trattava di parte di un’ampia normativa probabilmente di tipo
consuetudinario, che venne recepita dai Romani, in quanto essi si interessarono
allo spazio marittimo solo in occasione dei contrasti con Cartagine. La
normativa conservata nel Digesto trattava di casi in cui, per sfuggire a un
comune pericolo, venivano gettate in mare delle merci, oppure si tagliavano o
si abbandonavano le sartie. La valutazione delle merci gettate avveniva sulla
base del prezzo di acquisto, mentre per i beni salvati si faceva riferimento al
prezzo di vendita, cioè al profitto realmente ottenuto. Il locatore che
aveva consegnato le merci sacrificate aveva l’actio ex locato contro
il conductor, il trasportatore, il quale a sua volta agiva contro i
proprietari le cui merci si erano salvate per chiamarli a partecipare
proporzionalmente al danno collettivo. Nel caso la nave fosse stata locata
nella sua interezza da mercanti, i quali avevano ammesso anche merci altrui,
erano i locatari a possedere una azione diretta ex conducto contro
coloro che avevano salvato le proprie merci. Segue Le prêt à la
grosse, ou argent trajectice, ou fœnus nauticum (intérêt
nautique), capitolo che si occupa dei crediti accordati all’armatore
per l’acquisto di merci. Si trattava di un contratto che non poteva
essere concluso tacitamente, ma solo in modo espresso attraverso una stipulatio,
a cui si poteva apporre una clausola penale che imponeva una percentuale
giornaliera di ritardo nel pagamento. I rischi che incombevano sul creditore
erano legati alle sorti dell’impresa, poiché solo se la nave
arrivava in porto il credito diveniva esigibile insieme agli interessi. Questi
originariamente erano illimitati in ragione del rischio elevato, e furono
contenuti al tasso legale da Giustiniano con C. 4.32.26.1, ma è provato
che questa interdizione non sempre venne osservata. Nel settimo capitolo il
Gaurier si pone il quesito se Les romains ont-ils connu le contrat
d’assurances?, alla quale risponde negativamente, in quanto a Roma,
per limitare i rischi del trasporto marittimo, si ricorreva all’utilizzo
della pecunia traiecticia. Il capitolo successivo illustra Les
quelques dispositions du droit maritime romain public, che riguardano in
particolare il mare e i litorali marini, questi ultimi intesi come le zone che
possono essere coperte dalle maree più alte. Questi spazi non potevano
essere oggetto di proprietà, e vi erano delle limitazioni alle
costruzioni private, al fine di non impedire la libera navigazione. Il volume
si chiude con la traduzione della legge Rodia insieme al commentario di Jacques
Cujas a cui l’A. aggiunge delle esplicazioni complementari.
L’indagine
multidisciplinare di Giménez Barriocanal
si occupa dell’economia contabile connessa con lo studio delle
istituzioni giuridiche romane, materia che viene introdotta nel primo capitolo,
Presentación. Lo scopo
dell’analisi è quello di descrivere i fattori delle concrete
operazioni poste in essere nel sistema di circolazione economica romana,
aspetti questi negletti dalla letteratura dedicata alla storia economica di
Roma antica. L’A. pone in evidenza i limiti e la portata dell’opera:
vista la disparata casistica presente nelle fonti giuridiche intorno alle
operazioni che avevano rilevanza giuridica, il Giménez Barriocanal ha
proceduto, a suo dire, a un notevole sforzo di sintesi nella scelta delle
operazioni da analizzare. La selezione è avvenuta sulla base di due
criteri: l’affrontare i settori basilari per l’economia, e il
selezionare le operazioni più particolari, oppure quelle che hanno avuto
riflessi in altre operazioni posteriori od attuali. Un’altra limitazione
dell’indagine, sempre secondo l’A., deriva dalla scelta del sistema
di raccolta delle operazioni, e dalla loro distribuzione nel testo, che non
segue una «clasificación clásica y rigurosa ségun el
Derecho Romano», ma procede in un ordine tale da permettere una comparazione
con la realtà odierna. Il terzo limite riguarda il modo con cui si sono
analizzate le varie operazioni economiche per uniformare al massimo
l’analisi delle singole operazioni attraverso una sistematica
semplificata che offra un quadro globale, anche se non esaustivo.
Un’ulteriore difficoltà deriva dal fatto che le diverse operazioni
sorsero nelle varie epoche della storia di Roma, per questo in alcuni casi si
è cercato di indicare il periodo preciso in cui le operazioni economiche
ebbero origine. Inoltre, il sistema di circolazione economica descritto
è dedotto dall’unione delle singole operazioni analizzate, insieme
ai dati emergenti dalla storia economica, ma ciò non permette di
conoscere come si generava la relativa attività economica. Il capitolo
secondo offre alcune Notas sobre
sociedad, economía y derecho en Roma, per cui si mostra in modo
schematico il quadro economico, politico e sociale in cui si sviluppò il
diritto romano, al fine di illustrare il sistema romano di circolazione
economica nelle varie epoche. Segue poi La
contabilidad en Roma, dove si evidenzia la complessità delle
operazioni economiche. Secondo il Giménez Barriocanal, risulta difficile
esprimere una valutazione oggettiva in materia, in quanto le numerose opere
dedicate ai documenti contabili hanno dato giudizi «que se acercaban poco
a la realidad de los contenidos que expresaban». Una delle questioni
discusse in dottrina è la conoscenza o meno della partita doppia a Roma.
L’A., dopo un excursus sulle teorie principali in materia, sottolinea
la carenza di dati certi intorno alla contabilità a Roma, ma rinviene
come eccezione la normativa che regolava il sistema contabile per le imprese
bancarie. Nel capitolo quarto, La
metodología del análisis de operaciones, si illustrano in
modo sintetico gli strumenti base e la metodologia per l’analisi
economica, al fine di mostrare il funzionamento del sistema di circolazione
economica romana. Il criterio utilizzato per la classificazione delle
operazioni che implicavano una circolazione economica si articola nella
descrizione analitica delle operazioni, nella delineazione delle sfere
giuridiche di controllo del valore economico che intervengono nelle operazioni,
nell’applicazione di un modello contabile sia macroeconomico, per la
descrizione dei movimenti, sia microeconomico, per ottenere informazioni sul
singolo soggetto. Sulla base di questa sistematica, nei capitoli seguenti,
attraverso l’utilizzo di schemi e di grafici, si procede
all’analisi dei Modos originarios
de adquisición de la propiedad (cap. V), dove le operazioni
contemplate non sono di carattere economico in senso stretto; La compraventa y otros modos derivados de
adquisición de la propiedad (cap. VI), incentrato sulla
compravendita a partire da quelli che per il Giménez Barriocanal sono i
suoi precedenti: permuta, mancipatio e
in iure cessio; Las servidumbres reales y personales (cap. VII), che mostra le
varianti nella circolazione economica dovute alla costituzione, trasmissione ed
estinzione delle servitutes; La enfiteusis y la superficie (cap. VIII),
istituti che appaiono «como instituciones a caballo entre la compraventa
y el arrendamiento». Fanno
seguito altri capitoli in cui la materia delle obbligazioni è posta in
rapporto con la circolazione economica: El
préstamo (cap. IX), Las garantías reales sobre
obligaciones (cap. X), Garantías
personales sobre obligaciones (cap. XI), Transmisíon de obligaciones (cap. XII), Extinción de obligaciones (cap. XIII), Otros contratos consensuales (cap. XIV), Los contratos innominados y los cuasicontratos (cap. XV).
Dopo quindi aver preso in esame tutte le operazioni economiche compiute
nell’impero romano, nell’ultimo capitolo, La evolución del sistema de la circulación
económica en Roma, si procede a una diagnosi della circolazione
economica romana che porta alla individuazione della «ley de evolución natural de las
operaciones económicas»: nel sistema romano si registra una
trasformazione delle operazioni tese a snellire la circolazione economica in un
sistema dinamico. La circolazione dapprima ha riguardato la trasmissione della
proprietà dei beni materiali attraverso i modi di acquisto originari
della proprietà, a questi in seguito si aggiunsero le operazioni di
interscambio quali la permuta, e poi la mancipatio. Con il tempo la
circolazione riguardò valori economici nuovi, caratterizzati
dall’intangibilità, come beni e servizi ai quali si
attribuì un valore economico. Quando il danaro divenne il modo di
pagamento, insieme al rapporto credito-debito, modo di differimento del
pagamento, nacque la circolazione finanziaria incentrata principalmente nella
figura del prestito, all’inizio, probabilmente, mutuo di beni e poi di
denaro. Alla figura del mutuo con il tempo si accostarono gli interessi, allo
stesso modo l’enfiteusi e la locazione produssero un rendimento per il dominus,
in tale maniera si produsse un aumento dell’attività creditizia.
Il settore bancario andò ad espandersi, così i negozi bancari
aumentarono e il prestito assunse numerose varianti.
L’opera
collettanea curata da Lo Cascio
viene introdotta dallo stesso curatore, il quale prende in esame la moderna
letteratura in materia di economia romana della prima età imperiale, che
sostiene uno scarso ricorso al credito rispetto a un elevato reddito
pro-capite, situazione che appare come un paradosso. Per risolvere
l’aporia, secondo l’A., si dovrebbero rivedere le stime della
popolazione e del PNL, e identificare degli specifici modi di trasferimento
delle risorse che non rientrano nella moderna idea di credito. Inoltre, il Lo
Cascio si chiede se si possa procedere a una diversa valutazione del ruolo del
credito a Roma, tendenza propria della letteratura più recente, che si
pone contro la visione, propugnata in particolare da M.I. Finley (The Ancient Economy, 2a ed.,
Berkeley-Los Angeles 1985), secondo cui nel mondo antico il credito fu
principalmente al consumo, mentre il credito per l’investimento
produttivo era irrilevante. L’A. precisa che l’idea della presenza
nell’economia imperiale romana di un alto prodotto pro capite, di una
notevole quantità di moneta circolante e di un consistente ricorso del
credito, non è accettata da tutti gli autori dei contributi del volume;
comune invece è il convincimento della esigenza di superare rigidi
archetipi che comportino interpretazioni fuorvianti delle fonti. Il primo
articolo è di E.E. Cohen, Progressive
taxation and the fostering of maritime trade in classical Athens, dove si
considera il rapporto tra il finanziamento del commercio marittimo e le
politiche fiscali nell’Atene classica. Secondo l’A., nel sec. IV
a.C. la «tax law» incoraggiò la crescita di una
«clandestine economy», un tipo di economia che fornì il
capitale per il commercio marittimo, che a sua volta creò nuova
ricchezza per la città. Segue Il
‘mercato comune’ nel IV sec. a.C. Il credito e la “lex
Silia”, di V. Giuffrè, il quale sostiene che fin dal IV secolo
a.C. a Roma si erano sviluppate delle reti commerciali a cui si accompagnarono
nuovi istituti giuridici, come la societas
ceterorum, «la prima sperimentazione civilistica della società
iuris gentium». I cambiamenti
economici del periodo comportarono la coniazione di monete bronzee, attestata,
ad esempio, dalla lex Manlia de vicesima
manumissionum del 357 a.C., che istituiva una imposizione inverosimilmente
versata in aes rude o signatum. In tale epoca, la Lega latina
si dissolse in seguito alla «‘globalizzazione’ del mercato
nell’area italica», fenomeno che comportò per Roma, per
interessi commerciali, l’assimilazione del peregrino al cittadino, oppure
l’emanazione di nuove norme regolanti le relazioni tra stranieri e cives. Sulla base della prima soluzione,
si riconobbe ai peregrini il ius
commercii, che legittimava a compiere alcuni negozi di ius civile. Tuttavia, sorgevano dei problemi per quanto attiene al
credito: dal ius commercii pare fosse
esclusa la sponsio-stipulatio,
istituto che a quei tempi dava valore giuridico al prestito di consumo, inoltre
tra Romani e stranieri non si sarebbe potuto ricorrere al nexum, in quanto risultava difficile assoggettare il debitore fino
alla satisfactio. A tal fine venne
emanata la lex Silia, secondo
l’A. della seconda metà del IV sec. a.C., che introdusse la legis
actio per condictionem per i mutui di danaro, estesa ai mutui di certa res dalla lex Calpurnia. La norma rispondeva all’esigenza politica di
poter pretendere in sede giudiziaria il denaro dato in prestito con una
semplice datio, visto che in tal caso
appariva di difficile ammissibilità l’esperimento della legis actio sacramento in personam. La
legge si estese anche ai peregrini, per permettere a Roma «di partecipare
al ‘mercato comune’ del credito nell’area italica del IV
secolo a.C.». Il contributo successivo è di K. Verboven, 54-44 BCE: Financial or monetary crisis?,
il quale sostiene la necessità di un’analisi più
dettagliata per determinare se, come è sostenuto dalla communis opinio, la crisi del 49 a.C.
fosse dovuta alla mancanza di denaro in circolazione, e alla successiva
deflazione, in conseguenza dei numerosi accaparramenti monetari compiuti
durante la marcia di Cesare verso Roma. Ma dall’analisi delle fonti,
l’A. deduce che il saccheggio effettuato da Cesare delle riserve auree
delle Gallie certamente risollevò, se pur vi era stata, la contrazione
della massa monetaria degli anni 50, nonostante manchino per questo arco di
tempo dei dati certi. Appare da rigettare, comunque, la tesi che in tale
periodo il regime cesariano dovette affrontare una crisi deflazionistica,
causata da una insufficiente quantità di denaro. è probabile, invece, che fosse presente una fase di
stagflazione. Di seguito, G. Camodeca, Il
credito negli archivi campani: il caso di Puteoli e di Herculaneum,
descrive una documentazione che si mostra, specie per gli archivi ercolanesi,
ancora intricata. Dall’analisi delle tabulae
appaiono in età giulio-claudia due diverse situazioni economiche per
Puteoli e per Ercolano. L’archivio puteolano dei Sulpicii, banchieri di
professione, mostra una realtà legata a grandi traffici commerciali,
dove liberti e schiavi svolgevano un ruolo importante negli affari.
L’archivio conserva numerosi documenti, in particolare chirografi, che
testimoniano una prassi diffusa di intermediazione creditizia
dell’impresa di questi argentarii per finanziare attività
commerciali e artigiane, anche se per l’A. i prestiti al consumo
rappresentavano la maggioranza, mentre sono del tutto assenti contratti di
prestito marittimo. Nelle tavolette di Ercolano, invece, appaiono centrali gli
atti legati alla proprietà fondiaria, mentre risultano irrilevanti le
operazioni finanziarie, compiute occasionalmente da soggetti che non svolgevano
la professione di banchiere; da ciò emerge dunque come la vita economica
di Ercolano si basasse sull’agricoltura. In L’organizzazione delle imprese bancarie alla luce della
giurisprudenza romana del Principato, A. Petrucci ricostruisce i modelli
utilizzati nell’esercizio, individuale o collettivo, di un’impresa
bancaria sulla base delle fonti giuridiche. Si evidenzia come i giuristi
dell’età del principato forniscano un ampio quadro di schemi organizzativi
attraverso una analisi delle concrete problematiche relative alla
responsabilità del banchiere, alla sua sottoposizione alla iurisdictio del pretore, al rischio
dell’impresa, all’esecuzione di disposizioni testamentarie, alla
validità di patti con terzi in caso di esercizio collettivo
dell’impresa bancaria fondato sulla societas.
In seguito, A. Tchernia procede a Remarques
sur la crise de 33, in riferimento al principio economico enunciato da Adam
Smith per cui in una società agricola il prezzo della proprietà
fondiaria è in connessione con i tassi di interesse. In The emperor and the financial deficits of
the aerarium in early Roman Empire,
R. Wolters riflette sui gesti di liberalità finanziari da parte di
Augusto e di Nerone a sostegno dell’aerarium,
atti derivati dall’evergetismo greco e dalla liberalitas romana. Si trattò di uno strumento atto a
garantire in modo più efficace la solvibilità finanziaria delle
casse pubbliche, colpite dalla guerra civile, dalle riforme augustee del
sistema di coniazione e dalla divisione delle province tra imperiali e
senatorie. Nel contributo Roman coin
circulation and the cities of Vesuvius, di R.P. Ducan-Jones, si analizzano
i dati dei reperti monetari di Pompei, Ercolano e Stabia, particolarmente
importanti per comprendere la circolazione monetaria romana, in quanto si
tratta di monete d’uso corrente rinvenute fra le ceneri
dell’eruzione vesuviana del 79 d.C. Segue A golden age. Death, money supply and social succession in the Roman
Empire di W. Jongman, dedicato alla questione, discussa dalla recente
letteratura, della fornitura di moneta e del suo uso. Secondo l’A., non
sempre il volume degli scambi è indice della situazione
dell’economia, infatti, a Roma gran parte della produzione e del consumo
ebbe luogo senza l’uso di denaro, e ciò nonostante la sua economia
non fu né particolarmente primitiva, né inefficiente o
irrazionale. Ciò si verificò in quanto quella romana fu una
economia agraria che rifletteva l’importanza del patrimonio ereditario in
una società in cui per le classi elevate vi era l’incertezza della
successione a fronte di un’elevata mortalità e di un’alta
natalità. D. Rathbone si occupa de The
financing of maritime commerce in the Roman empire, I-II AD, e tenta di
ricostruire sia l’entità e la natura degli scambi marittimi nell’età
principato, la cui ampiezza fu senza precedenti, sia un quadro del
finanziamento del commercio marittimo, del quale la letteratura moderna si
è scarsamente occupata. Durante il principato, oltre a mercanti che
utilizzavano le proprie risorse per l’impresa di navigazione in piccola
scala, per le principali rotte commerciali si formarono società per una
serie di attività finanziarie e commerciali. Vi fu anche una rete di
banche che effettuavano pagamenti tramite «paper transactions»,
liberando lo scambio dal vincolo della cessione di moneta. In Free coinage e scarsezza di moneta D. Foraboschi
riporta una affermazione di M.H. Crawford, «free coinage did not exist at
Rome» su cui l’A. riflette, fino a estendere la questione al mondo
greco e all’età romana tardo antica. Qui si sostiene che la
carenza monetaria e di metallo, insieme a un credito limitato, comportò
il ricorso alla coniazione parallela rispetto alla emissione pubblica, in
particolare da parte di alcune città. J.-J. Aubert, Monetary policy and Gresham’s Law in the late third century A.D.,
sostiene che agli inizi IV secolo la politica monetaria era senza dubbio
considerata come un sofisticato ed efficace strumento di governo. In tale
periodo per l’A. vi furono le condizioni adeguate per porre in essere la
legge di Gresham, secondo cui «bad money drives out good». Il
contributo di J.-M. Carrié, Solidus et
crédit: qu’est-ce que l’or a pu changer?, esamina la
crisi monetaria degli anni 270-360, che vide una grande inflazione nominale
accompagnata sia dalla scomparsa dei «métiers traditionnels de
l’argent», per via della sfiducia nel credito, sia dalla rovina di
istituzioni collettive e associative che videro defalcati i loro patrimoni
mobiliari. Secondo l’A., in seguito, durante il tardo antico, si sviluppò
un forte ricorso al prestito al consumo dovuto non alla coniazione del solidus, ma a una sovrabbondanza di coni
«de mauvaise monnaie» tra il III e IV sec. d.C. Le Conclusions spettano a J. Andreau, il
quale, dopo aver sottolineato la varietà di tematiche e di opinioni
presenti nel volume, procede a qualche breve annotazione sui singoli
contributi.
Il
lavoro del Wacke, dedicato alla
custodia del danaro in Roma, riproduce la lezione che l’A. ha tenuto per
gli studenti della Facoltà di Giurisprudenza
dell’Università degli Studi di Lecce, frutto dei «proficui
rapporti» tra la Rechtswissenschaftliche
Fakultät, l’Institut für römisches Recht
dell’Universität zu
Köln e la Facoltà di Giurisprudenza e il Dipartimento di
Studi Giuridici dell’Ateneo salentino. Il primo argomento trattato
riguarda Il rischio per pagamenti in denaro e la custodia “in
arca” quale misura di sicurezza, dove il Wacke sottolinea i rilevanti
rischi, presenti in età antica e medievale, per i pagamenti in contante
sia durante la custodia del danaro, sia durante il suo trasporto. In epoca
romana i rischi legati al trasporto di denaro venivano limitati attraverso il
deposito in custodia, enunciato da espressioni contenenti il termine arca: “pecuniam in arcam
reponere”, “in arca habere” o “pecunia in
arca esse”. Il vocabolo (derivato da arcere), che in senso lato indica diversi contenitori (cassa,
cesta, scrigno, e anche sarcofago), in tali locuzioni designa una cassetta,
normalmente collocata nell’atrium
dell’abitazione, in cui si custodivano le monete e gli oggetti più
preziosi. L’uso di custodire i preziosi in tale cassetta si ricava da D. 1.15.3.2 (Paul. l.
s. de off. praef. vigil.), dove si riporta un rescritto del 145 d.C. di
Antonino Pio, in materia di crimen effracturae, reato che
comprendeva lo scasso di forzieri in edifici privati o in depositi pubblici (horrea).
L’A. tratta poi de Le dimensioni di un’“arca”, misure che potevano essere anche
considerevoli, come si evince, ad es., da D. 48.13.12.1 (Marcian. 1 iud.
publ.), in cui si riporta una decisione di Severo e Caracalla in
riferimento al tentativo di furto compiuto da un giovane di estrazione
senatoria, il quale aveva depositato presso un tempio un’arca che
nascondeva il complice pronto a sottrarre gli oggetti preziosi dell’aedes
sacra. Il passo testimonia la prassi dell’argomento trattato in La
custodia di un’“arca” sigillata in un tempio o a cura di
privati. Era usuale, difatti, che durante il trasporto di danaro questo
venisse messo al sicuro presso un tempio, un horreum, o presso privati, come un albergatore. Gli stessi
cambiavalute, al di fuori degli orari di lavoro, custodivano il loro denaro
all’interno dei templi del Foro. Segue “Pecunia in arca”
riscossa e da versare, dove si tratta del “danaro in cassa”,
cioè del danaro liquido che poteva essere conservato nella propria arca,
depositato presso un argentarius,
mutuato ad un terzo, oppure trasferito al proprio creditore. Nell’arca
domestica il danaro non era completamente al sicuro, mentre offriva maggiore
sicurezza l’adempimento di un proprio debito, in quanto in tal modo il
rischio della perdita del denaro si trasferiva al ricevente. La scarsa
sicurezza dell’arca è testimoniata da D. 3.5.12 (Paul. 9 ad ed.) che descrive il caso di un
creditore che assunse la negotiorum
gestio dell’eredità del debitore deceduto. Il gestor procedette alla alienazione dei
beni ereditari e conservò il ricavato in un’arca (probabilmente nella casa del de cuius). In seguito la
somma andò perduta senza colpa del gestore, e sorse quindi la questione
della legittimazione del gestor a
richiedere la restituzione del proprio credito. Secondo il parere di Giuliano
il rischio del perimento fortuito del ricavato della vendita era in capo al gestor, a meno che non esistesse una iusta causa seponendi, che comportava la
necessità di avere del danaro in cassa allo scopo di evitare possibili
detrimenti dell’hereditas, come
l’adempiere ad una obbligazione ad interessi. Sempre in tema di
liquidità il Wacke analizza D. 32.64 (Afric. 6 quaest.) dove si domanda se il legato di kalendarium (registro contabile) poteva ricomprendere le somme che
il de cuius aveva percepito dai suoi
debitori dopo la confezione del testamento. Per Africano bisognava considerare
la voluntas del testatore intorno
alla destinatio della somma
incassata, e cioè se la pecunia
numerata fosse destinata ad essere reinvestita a titolo di mutuo e quindi
inserita nelle obbligazioni elencate nel kalendarium,
oppure utilizzata per una differente operazione, come l’acquisto di un
fondo. Diverso, invece, è il caso di D. 32.34.1 (Scaev. 16 dig.), che riguarda il tentativo da
parte di un erede ex quota di
incrementare in modo arbitrario i crediti oggetto di legatum per praeceptionem, Scevola sostiene che il legato era
limitato ai crediti esistenti al momento della redazione del testamentum, in quanto rispetto alla
vicenda del passo di Africano, qui non era il testatore ad amministrare
direttamente la pecunia registrata nel kalendarium, ma lo stesso beneficiario. In La “pecunia in arca” come
“certum corpus nummorum”, l’A. sottolinea che, sulla base
dell’insieme delle fonti giuridiche, qualora il denaro contenuto in
un’arca fosse oggetto di un’obbligazione, questa era differente da
una obbligazione pecuniaria ordinaria. Infatti, in quest’ultima vigeva il
principio per cui il debitore rispondeva del tantundem fino all’adempimento. Al contrario una determinata
quantità di monete conservate in un’arca componeva un certum
corpus nummorum. Si trattava quindi di un’obbligazione di specie, o
per lo meno un’obbligazione di scorte, e in questo caso il fortuito
perimento del denaro liberava il debitore. Si descrive più avanti Il pignoramento di denaro presso terzi e la
responsabilità da parte dei soci per l’“arca communis”. Da D. 42.1.15.11-12 (Ulp. 3 de off. proc.) si evince che oggetto
della pignoris capio poteva essere
sia la pecunia data in deposito
presso terzi da parte dello stesso debitore esecutato (ad es. presso un
banchiere) o di un terzo in suo favore, sia il denaro depositato in un’arca destinato all’acquisto di un
fondo per il pupillo. La conservazione di somme in un’arca rappresentava
una prassi normale «laddove si profilasse una vantaggiosa occasione di
acquisto». In quest’ultima ipotesi, secondo il Wacke, il pignoramento
del denaro appare «una misura favorevole», in quanto provocava
danni inferiori rispetto alla vendita forzosa di un fondo già in
proprietà del pupillo: per questo motivo non era richiesta alcuna
autorizzazione pretoria in modo analogo a quanto previsto dall’oratio Severi del 195 d.C. per
l’alienazione di terreni del minore. In relazione alla societas, D. 17.2.82 (Papin. 3 resp.)
mostra come la responsabilità solidale dei soci per i debiti contratti
da un altro socius non si applicava
quando per alcune obbligazioni la pecunia
veniva depositata nell’arca
communis. Secondo l’A., questo responsum
papinianeo non si può spiegare in relazione al fatto che il socio
aveva contratto l’obbligazione in qualità di rappresentante della societas, ponendosi in aperto contrasto
con F. Serrao (Sulla rilevanza esterna
del rapporto di società in diritto romano, in Studi in onore di E. Volterra, V, Milano 1971, 743 ss.). Offre
quindi una spiegazione di tipo processuale: «Il debitore in realtà
è proprietario solo parziale del denaro da lui versato nella cassa
comune: il socius divide con lui la
responsabilità per debiti, laddove la contabilità del denaro
derivante dall’attività sociale sia comune».