Cap. I della monografia: Giorgia Zanon, Indicazioni di metodo giuridico dalla “Consultatio veteris
cuiusdam iurisconsulti”, Jovene
Editore, Napoli 2008, pp. 5-205.
Università di Padova
Storia
di un manoscritto ritrovato
Sommario: 1. S. Ivo: pastore di anime e
maestro di metodo. – 2. – Un viaggio alla ricerca di
antichi manoscritti. – 3. La
pubblicazione della Consultatio veteris
cuiusdam iurisconsulti.
La storia del manoscritto della cosiddetta Consultatio veteris cuiusdam iurisconsulti affonda le sue radici nel periodo dell’Alto Medioevo e appare strettamente legata alle vicende di un borgo francese, situato nella regione della Picardia, Beuvais[1]. Proprio a Beauvais, infatti, intorno al 1078 venne inviato, in qualità di prevosto o superiore della Collegiata di San Quintino[2], il grande scienziato del diritto canonico, Ivo, consacrato poi vescovo di Chartres[3] da papa Urbano II nel 1090[4].
Uomo tra i più istruiti ed eclettici del suo tempo[5], Ivo, nei circa dodici anni del suo soggiorno a Beauvais, si dedicò all’insegnamento della teologia, senza peraltro trascurare tutta una serie di ulteriori attività che vanno dalla riorganizzazione della biblioteca locale – che fu arricchita di circa trenta manoscritti dei quali, purtroppo, non conosciamo i titoli - alla redazione delle costituzioni del suo monastero che, in breve, divenne un vero e proprio modello di istituzione ecclesiastica. Anche prima della sua consacrazione a vescovo, Ivo ritenne fondamentale la sua missione pastorale e, proprio in questa prospettiva, egli riconobbe un valore particolare al ragionamento e all’interpretazione: in un’epoca di disordine e di decadenza della disciplina ecclesiastica e della stessa Chiesa di Roma[6], compito insostituibile del pastore era infatti per lui quello di verificare se l’applicazione del disposto normativo al caso concreto realizzasse realmente la ratio che aveva animato il dispositum stesso, oltre che la ratio generalis sottesa a tutto l’ordinamento della Chiesa, ossia la carità[7]. Come il medico, che è chiamato non solo a conoscere e prescrivere i medicamenti, ma anche a comprendere il paziente e la sua malattia - al fine di scegliere la terapia più idonea per ottenere la guarigione - così il pastore dovrà dunque calarsi profondamente nelle contingenze e nelle particolarità del caso concreto, nei cui confronti la norma astratta dovrà essere adattata e temperata[8]. Solo attraverso questo percorso - nell’ambito del quale viene riconosciuta efficacia vincolante agli exempla maiorum - la decisione finale potrà invero realizzare una composizione armonica dei molteplici interessi e valori in gioco, risultando effettivamente congrua rispetto al caso concreto[9].
Ma la permanenza nella colta cittadina francese si rivelò innegabilmente proficua anche per quanto attiene la produzione giuridica e letteraria del vescovo medievale, il quale, negli anni immediatamente successivi alla sua partenza da Beauvais, diede alle stampe le sue opere più note, ossia, oltre al Prologo[10], le Collezioni canoniche, tutte composte tra il 1090 e il 1095[11]. Con un’affermazione che rievoca le celebri parole di Giustiniano contenute nella costituzione Deo auctore[12], è lo stesso autore a chiarire come lo scopo di tali imponenti “magazzini di testi” sia quello di raccogliere in un solo corpo le regole ecclesiastiche provenienti dalle fonti più disparate, in modo da facilitarne la reperibilità da parte degli operatori del diritto[13].
Se il tentativo di perseguire una reductio ad unum del materiale normativo - dando nel contempo allo stesso una organizzazione razionale - ben si inquadra nella generale tendenza alla codificazione che si riscontra nella scienza canonistica medievale[14], da quest’ultima Ivo sembra invece discostarsi laddove, tramite un’attività ben più impegnativa del colligere, egli si sforza di intelligere le fonti precedentemente raccolte, ossia di formulare delle indicazioni metodiche che consentano di risolvere i conflitti tra quelle esistenti. Anziché tendere alla meccanica eliminazione dal sistema delle regole contraddittorie attraverso il principio cronologico o quello gerarchico - che pure egli ben conosceva - l’illustre vescovo preferisce invero cercare di comprendere la loro intima ratio attraverso una attenta opera di interpretazione[15]. Ed è proprio nell’intima convinzione di poter pervenire all’armonizzazione delle fonti attraverso una raffinata attività intellettuale – nell’ambito della quale viene data particolare importanza al criterio teleologico - che si coglie l’originalità del pensiero di Ivo, il quale viene giustamente considerato tra i fondatori del metodo nell’ambito del diritto canonico e, più in generale, del diritto occidentale.
Ma tornando ora alle Collezioni canoniche di Ivo, tra queste appare per noi particolarmente rilevante il Decretum[16], composto tra il 1091 e il 1094, nell’ambito del quale, attraverso una ripartizione in diciassette parti – a loro volta suddivise in 3760 capitoli dotati di rubriche indicative dell’argomento – risultano affrontate innumerevoli questioni attinenti tanto al diritto canonico che a quello civile e penale[17]. In diverse occasioni l’autore mostra di ritenere sufficiente, per la soluzione del caso, la mera riproduzione di un testo normativo, la cui fonte è spesso costituita dal diritto romano[18].
La circostanza, perfettamente congruente con il contesto giuridico, culturale e politico dell’epoca[19], risulta per noi di estremo interesse, giacché alla parte 16 (de officiis laicorum et causis eorumdem), cap.201 (de pactis), il giurista medievale cita, senza soluzione di continuità e senza alcuna indicazione della provenienza, tre frammenti che, indiscutibilmente, risultano corrispondere a due rescritti imperiali (rispettivamente a e b) e ad un passo delle Pauli Sententiae (c):
a) Pacta quae ab inviti contra leges constitutionesque fiunt, nullam vim habere indubitati est iuris. b) Item, pactum quod mala fide est factum, irritum esse debet. c) Privata conventio iuri publico nihil derogat.
Sul contenuto ed il valore dei passi si tornerà più avanti. Per ora basti rilevare come gli stessi non sembrano essere stati estrapolati dalla compilazione giustinianea – che pure doveva essere approfonditamente conosciuta ed ampiamente utilizzata da Ivo - ma, bensì, da altro luogo e, con ogni probabilità, proprio dall’operetta postclassica a noi nota come Consultatio veteris cuiusdam iurisconsulti, della quale, dunque, l’autore doveva essere in possesso.
Il rilievo risulta difficilmente contestabile in relazione al frammento di Paolo contenuto nel Decretum (sub c) - del quale non si conoscono testimonianze ulteriori rispetto all’opera del canonista medievale[20] e alla Consultatio stessa (4.3) – ma appare altamente probabile anche per le costituzioni imperiali riportate da Ivo di Chartres. Sebbene infatti queste ultime risultino inserite nel Codice Giustiniano (rispettivamente a C.2.3.6 e 2.3.8), non può negarsi che la quasi totale coincidenza della lezione di cui al Decretum con quella tramandataci dalla Consultatio costituisca un indizio significativo dell’impiego da parte di Ivo di questa specifica opera[21].
Iniziando dal primo provvedimento (sub a), esso compare – nella identica forma sintetizzata e generalizzata che si legge nel Decretum - in Cons.1.8: Imp. Alexander A. Dionysio. Ad locum: Pactum, quod mala fide factum est, irritum esse et cetera (PP. II id. Sept. Alexandro Aug. Cons.). La Consultatio, peraltro, riporta la medesima costituzione, in termini questa volta completi e perfettamente corrispondenti alla lezione del Codice (C.2.3.8), anche in Cons.9.11: cum posteaquam adversarius matris tuae victus esset, matrem tuam circumvenerit, ut pacisceretur nulla se controversiam de servis moturam, id pactum mala fide factum irritum est: et cum ex ea conventione cum matre tua agi coeperit, iudex eam liberabit, quia de re iudicata pacisci nemo potest (PP. pridie id. Sept. Alexandro A. cons.).
Appare a questo punto abbastanza plausibile pensare che il vescovo medievale fosse effettivamente in possesso della Consultatio e, in particolare, che egli abbia ritenuto sufficiente inserire nel suo Decretum - anziché il testo originale e completo del provvedimento di Alessandro Severo (pure contenuto nell’operetta medievale) - la mera massima giuridica che l’antico giureconsulto doveva aver a sua volta da quello estrapolato[22].
Analoga valutazione può farsi in relazione al secondo provvedimento citato nel Decretum (sub b), il quale è riportato in Cons. 1.7, in termini assolutamente identici: Item alia ex corpore et libro supra dicto. Imp. Antoninus A. Iuliae Basiliae. Pacta, quae ab inviti contra leges constitutionesque fiunt, nullam vim habere indubitati iuris est et cet. (PP. V kal. Aug. Antonino A. VI et Albino conss). All’interno del Codice Giustinianeo, d’altra parte, la costituzione compare in una versione parzialmente differente (C.2.3.6): Pacta quae contra leges constitutionesque vel contra bonos mores fiunt, nullam vim habere indubitati iuris est (PP.V. Aug. Antonino A. IIII et Balbino conss.[23])
Ora, la
diversità tra la lezione contenuta nella Consultatio (e nel Decretum)
e quella tramandataci dal Codice consiste, com’è evidente, da un
lato nella presenza delle parole ab
invitis, e, dall’altro, nell’assenza dell’espressione contra bonos mores. Al riguardo
un’autorevole dottrina[24]
ha ipotizzato che l’anonimo autore della Consultatio sia intervenuto sul testo originale della costituzione
al fine di rendere il precetto normativo più congruo possibile al caso
di cui egli si stava occupando, quello, cioè, di un patto concluso senza
l’effettivo consenso di una parte. La tesi è certamente credibile[25],
anche se non è possibile escludere che le modifiche in questione siano
opera dello stesso Giustiniano, il quale, nel suo progetto di razionalizzazione
e generalizzazione, avrebbe
eliminato dal rescritto imperiale l’inciso ab invitis - correttamente ritenuto una inutile specificazione
della causa dell’illiceità del patto, a ciò bastando la
generica violazione del dettato legislativo - aggiungendo invece, per ragioni
di completezza sistematica, la ulteriore ipotesi della nullità dei patti
contrari ai boni mores .
D’altra parte non è nemmeno da escludere che le suddette
divergenze possano ricollegarsi alla stessa “trasmissione” del
testo, come potrebbe ammettersi ritenendo che
Sulla questione della funzione della Consultatio si tornerà tra breve. Per ora basti rilevare come l’atteggiamento estremamente “libero” del suo autore (o del suo “ispiratore”), che non esita ad intervenire, anche in modo massiccio sui testi normativi in vigore, sembrerebbe dimostrare non solo una buona padronanza delle fonti, ma anche la capacità di muoversi disinvoltamente tra le stesse, di stralciarle e di adattarle al caso specifico preso in considerazione.
Soprattutto nell’ambito di un contesto di tipo “legale”, come era certamente quello del IV secolo e come, effettivamente, esso risulta testimoniato nell’operetta in questione, tanta discrezionalità può in altri termini spiegarsi solo pensando ad una funzione didattica, e non certo ad un uso pratico o addirittura giudiziario della stessa.
In conclusione,
lasciando per ora da parte il problema della natura della nostra operetta e
tornando ad occuparci della storia del relativo manoscritto, sembra potersi
affermare che la corrispondenza di tutti e tre i frammenti contenuti nel Decretum con
Come si vedrà nel prossimo paragrafo, esistono d’altra parte ulteriori elementi che ci consentono di attribuire a tale circostanza un elevato grado di attendibilità.
Dai tempi di Ivo di Chartres è necessario aspettare quasi cinque secoli prima di incontrare nuovamente notizie circa la nostra operetta, cinque secoli di silenzio per i quali è difficile ipotizzare qualsiasi congettura circa la sua conoscenza e il suo uso, salvo quella di supporre che da allora essa sia rimasta nascosta, o comunque ignorata, all’interno di qualche biblioteca, pubblica o privata, della città di Beauvais.
Proprio a Beauvais, infatti, nel 1536, nacque Antoine Loisel, celebre studioso delle Coutumes e giurista tra i più insigni della sua epoca[27], al quale – secondo le parole del Cuiacio che ne fu maestro – si deve il ritrovamento del manoscritto della Consultatio veteris cuiusdam iurisconsulti[28]. Sebbene le circostanze della preziosa scoperta restino a tutt’oggi misteriose, sembra comunque possibile suggerire al riguardo un’ipotesi abbastanza plausibile ripercorrendo, forse con un po’ di fantasia, quell’invisibile filo conduttore che, come già accennato, incrocia più volte la cittadina di Beauvais.
Dall’opera
di un suo discendente – il canonico di Notre Dame de Paris, Claude Joly[29]
– si apprende che Antoine Loisel, attorno al 1560, intraprese un viaggio
attraverso
In effetti il silenzio mantenuto sia da Loisel sia dal Cuiacio a proposito delle circostanze del ritrovamento dell’operetta ha suscitato perplessità tra gli studiosi, tanto più che i giuristi di quell’epoca erano soliti trarre preziosi indizi per datare gli antichi manoscritti proprio dalle notizie relative alla loro provenienza. Al riguardo sembra comunque condivisibile l’opinione del Volterra, secondo il quale tanto mistero si spiegherebbe pensando che il manoscritto in questione sarebbe stato oggetto di un “salvataggio” tanto provvidenziale quanto spregiudicato.
Che il Loisel – come del resto molti suoi contemporanei – non fosse alieno dal recuperare testi antichi, sottraendoli al disordine e all’oblio cui erano destinati, attraverso operazioni non del tutto regolari è invero confermato dalle accuse mosse dopo il 1664 ai suoi eredi (tra i quali lo stesso Claude Joly) dai monaci di Beauvais, i quali reclamavano come propri diversi manoscritti presenti nella raccolta privata di quella famiglia[32]. E del resto, nelle reiterate denunce circa il degrado della biblioteca della cattedrale – da cui derivava il pessimo stato di conservazione dei volumi in essa conservati - che si leggono nell’opera dello stesso Loisel, può forse cogliersi una sorta di giustificazione relativamente a tale operato alquanto disinvolto.
Quel che in ogni caso appare certo è che Antoine Loisel, come di consueto[33], non mancò di trasmettere il misterioso manoscritto – o quanto meno di comunicargliene il contenuto - al suo maestro, il Cuiacio[34], il quale si occupò della relativa pubblicazione. Da quel momento in poi, il manoscritto della Consultatio sembra essere nuovamente scomparso.
Le indagini svolte al riguardo dal Volterra[35] - che ha ricostruito in maniera estremamente precisa e dettagliata le vicende della biblioteca del Loisel dopo la sua morte – sembrano portare ancora una volta alla cittadina di Beauvais ove, secondo l’illustre romanista, l’antico manoscritto sarebbe ancora custodito. La ricerca del testo, peraltro, si è forzatamente arenata di fronte alla porta, a quel tempo chiusa al pubblico, della biblioteca dei marchesi Rosambo nell’ambito della quale risultano essere confluiti diversi volumi già di proprietà del Loisel e da questi donati all’amico e condiscepolo Pierre Pithou[36]. Oggi la biblioteca della famiglia Le Pellettier – Rosambo non esiste più e i testi in essa contenuti risultano purtroppo dispersi all’interno di innumerevoli collezioni tanto pubbliche che private.
Come si
è accennato, essendo allo stato scomparso qualsiasi manoscritto della Consultatio, il suo contenuto ci
è noto soltanto attraverso la pubblicazione che ne fece il Cuiacio[37]
per la prima volta nel 1577 – premettendola alle sue Consultazioni legali[38]
– e, successivamente, nel
Tra le
edizioni postume dell’opera del Cuiacio, accanto a quella del 1595,
merita di essere ricordata quella ginevrina del 1609 (risalente cioè a
circa 19 anni dopo la sua morte) della quale è stato recentemente
acquistato un esemplare
dall’Università San Pablo CEU di Madrid[39]:
in essa
Già
negli anni 1562 – 1563,
peraltro, il maestro francese doveva essere a conoscenza non solo della
recentissima scoperta del suo allievo, Loisel, ma altresì –
seppure in modo sommario ed incompleto – del contenuto del testo, dato
che, nel
La distanza più che decennale che intercorre tra la scoperta del testo e la sua edizione ha indotto una parte della dottrina a ritenere che in un primo momento né il Loisel né il Cuiacio avessero intenzione di pubblicare l’intero manoscritto, al quale, analogamente a quanto ritenuto dalla scienza giuridica moderna, avrebbero riconosciuto il valore piuttosto limitato di “contenitore” di testi romani altrimenti sconosciuti[42]. In effetti, l’atteggiamento del Cuiacio che, pur servendosi della Consultatio quale fonte di cognizione per ricostruire il contenuto dei Codici Gregoriano ed Ermogeniano, e per completare il Teodosiano (in alcuni casi muovendosi anche in modo un po’ arbitrario), non include la stessa nella sua raccolta di fonti pregiustinianee del 1566, potrebbe suscitare l’impressione che il grande umanista non considerasse la nostra operetta come un unicum meritevole di autonoma pubblicazione.
D’altra parte, la “gradualità”, più che il “ritardo”, del Cuiacio nella pubblicazione del manoscritto potrebbe anche spiegarsi pensando che inizialmente il Loisel, occupato nel leggere e decifrare il documento, avesse comunque consentito al suo maestro di prendere visione del testo, ciò che avrebbe consentito a quest’ultimo di ricavarne una prima impressione non completa né esaustiva. Solo successivamente, il Loisel avrebbe reso partecipe dei risultati della sua attività di interpretazione e di ricostruzione (nella quale, come già si è detto, egli risultava particolarmente competente) il Cuiacio, che poté finalmente pensare a dare una organica e completa pubblicazione al manoscritto.
In questa
direzione depone uno scritto dello stesso Antoine Loisel, risalente più
o meno al 1600 (quindi a circa un decennio dopo la morte del Cuiacio), laddove
egli, lamentando come in epoca cristiana l’interesse verso la
giurisprudenza fosse grandemente scemato a vantaggio dello studio della
teologia, ricorda due sole pieces
che, in quel momento, gli apparivano ancora impregnate dello spirito dei primi
grandi giuristi:
Con specifico riferimento a quest’ultima, e dopo aver precisato che si tratta della medesima opera a suo tempo consegnata al Cuiacio - e da lui pubblicata – il Loisel afferma di essere ancora in possesso dell’originale authentique[43]. Lo stesso Cuiacio, d’altra parte, in due differenti luoghi, dà conferma di aver ricevuto dal suo allievo il testo della Consultatio.
Queste testimonianze sono state interpretate diversamente dalla dottrina: se un tempo, infatti, risultava prevalente l’idea secondo cui il manoscritto originale dell’operetta sarebbe sempre rimasto presso Antoine Loisel, il quale si sarebbe limitato a trasmettere al suo maestro una semplice copia dello stesso, il Volterra ha invece ritenuto maggiormente verosimile pensare che il Loisel avesse effettivamente donato il manoscritto della Consultatio al Cuiacio e che, solo in seguito alla morte di quest’ultimo, il documento sarebbe rientrato in proprietà del suo scopritore.
Sebbene l’opinione dell’illustre romanista permetta di superare l’impasse secondo cui attualmente sarebbero dispersi, non uno, ma addirittura due manoscritti (quello originale ritrovato dal Loisel, e la copia utilizzata dal Cuiacio), a me sembra che entrambe le opinioni contengano un nucleo di verità. Sempre restando sul piano delle mere congetture, infatti, è anche possibile immaginare che il Cuiacio ebbe effettivamente a disposizione il manoscritto della Consultatio, ma soltanto per un certo periodo di tempo. Ciò significa, in altri termini, che il Loisel – al termine della sua attività di interpretazione – avrebbe semplicemente prestato al suo maestro il testo originale dell’operetta il quale, in un momento imprecisato, forse successivo alla morte del Cuiacio stesso, gli sarebbe stato restituito[44].
In assenza di qualsiasi riscontro, non è nemmeno possibile escludere che il Cuiacio, prima di provvedere all’edizione del documento[45], ne avesse curato personalmente una trascrizione: in questo senso, oltre alla “progressività” che, come si è già rilevato, contraddistingue la pubblicazione dell’operetta, sembra deporre la circostanza per cui le costituzioni imperiali contenute nella Consultatio, e fatte oggetto di una prima incompleta pubblicazione nel 1566, risultano caratterizzate da diverse discordanze testuali (tutte diligentemente segnalate dal Krueger) rispetto all’edizione del 1577, quasi a conferma che il Cuiacio, in un primo momento, non fu in condizione di dedicarsi ad una accurata analisi del testo, proprio perché impegnato nella sua trascrizione.
[1]
L’attuale comune di Beauvais, collocato nel Dipartimento dell’Oise,
a circa un’ora d’auto da Parigi, vanta una storia alquanto
interessante e suggestiva. Già conosciuta all’epoca dei romani con
il nome di Caesaromagnus, la
cittadina prese la sua attuale denominazione dalla tribù belga dei
Bellovaci di cui fu la capitale (Bellovacum).
Divenne una contea nel IX secolo e in seguito fu ceduta ai vescovi della
città che, nel XII secolo, assunsero al rango di pari del reame. Il
vescovo di Beauvais partecipava all’incoronazione del re indossando il
manto reale e, con il vescovo di Langres, era incaricato di accompagnare il
nuovo sovrano dal trono per presentarlo al pubblico. Nel corso della
“lotta per le investiture”, la città divenne celebre per il
noto affaire che la vide
protagonista: la consacrazione di
Stefano di Garlande quale vescovo di Beauvais, avvenuta nel 1100, aggiunse
invero difficoltà al già acceso conflitto che contrapponeva
Filippo I al papato a causa delle relazioni illecite che il re intratteneva con
Bertrada di Monfort. Ciò nonostante, nel 1104, al sovrano venne tolta la
scomunica che gli era stata inflitta da papa Urbano II e la questione fu
abilmente risolta grazie all’intervento di Ivo di Chartres. Nel 1346
Beauvais dovette difendersi dagli inglesi, che l’assediarono nuovamente
nel 1433. Nel
[2] Il monastero di San Quintino accoglieva chierici regolari - nuova forma di vita comune del clero, introdotta dal Concilio romano del 1059, su proposta di Ildebrando di Soana, il futuro papa Gregorio VII – i quali conducevano una vita estremamente rigorosa, scandita dalle regole del dormitorio e del refettorio comune; spiritualmente vicini ai monaci, essi non conservavano beni personali e, di fatto, praticavano il celibato, la povertà e la vita in comune. Al riguardo, ampiamente, S. VIOLI, Il prologo di Ivo di Chartres. Paradigmi e prospettive per la teologia e l’interpretazione del diritto canonico, Lugano, 2006, 43, 91 ss., che chiarisce come, in piena riforma gregoriana, l’obiettivo politico di tale nuova forma di aggregazione del clero fosse quello di sottrarre i chierici all’autorità dei signori laici per porli sotto il controllo dei vescovi. Nonostante la vicinanza dal punto di vista spirituale con i monaci - che traevano la loro identità dalla professione di obbedienza e dalla scelta di una vita singulare - i chierici regolari (quanto meno nella prospettiva di Ivo di Chartres, su cui, infra ) si caratterizzavano per il tratto pastorale, ossia per la capacità di guidare anime. In generale, sulla storia degli ordini monastici e religiosi nell’Alto Medioevo, M. PACAUT, Monaci e religiosi nel Medioevo (trad. it. di J. Catalano), Bologna, 1989. Questa vocazione pastorale non cessò mai di connotare la vita e la personalità del grande canonista il quale, neppure dopo la sua consacrazione a vescovo, si sentì come un monaco strappato al chiostro.
[3]
Già nel 1020 furono avviati i lavori di costruzione della prima
cattedrale di Chartres, a seguito del tremendo incendio che aveva distrutto la
più antica chiesa locale. L’edificio, originariamente romanico, fu
nuovamente colpito da incendi nel 1134 e nel 1194 e a seguito dell’ultima
ristrutturazione assunse la forma gotica che tuttora lo contraddistingue. Una
singolare esposizione circa le origini spirituali della cattedrale e la sua
struttura architettonica è stata recentemente proposta da F. DELIZIA, La cattedrale di Chartres. Un dialogo tra
cielo e terra, Torino, 2005. Già dall’anno mille, la cittadina di Chartres era sede di una
famosa scuola neoplatonica tra i cui esponenti merita senz’altro di
essere ricordato il vescovo Fulberto, morto nel 1028. Nel XII secolo
[4] Nato intorno al 1040 nella regione di Beauvais, Ivo apprese i primi rudimenti dell’istruzione presso la scuola di una chiesa locale. Egli studiò successivamente nel monastero di Bec, dove ebbe come maestro di teologia Lanfranco di Pavia - noto per aver efficacemente contribuito alla diffusione dello ius civile in terra inglese - e come condiscepolo Sant’Anselmo, entrambi i quali destinati a ricoprire la carica di arcivescovi di Canterbury. A Parigi, infine, Ivo si dedicò all’approfondimento delle lettere e della filosofia. Le relazioni politiche del canonista, dopo la sua consacrazione a vescovo, non furono facili: inizialmente favorito da Filippo I, a causa della denuncia del divorzio del re e della sua nuova unione con Bertrada di Monfort, egli perse successivamente l’appoggio del sovrano. A seguito della riconciliazione con il re – al quale, come già accennato, fu revocata la scomunica grazie alle pressanti richieste di Ivo – il suo episcopato proseguì con maggiore serenità. Egli, tuttavia, non smise mai di occuparsi assiduamente non solo dei problemi della sua diocesi, ma altresì delle gravi questioni politico – religiose del suo tempo. In particolare, le sue idee – fondate sulla distinzione tra spirituale e temporale, e quindi sulla previsione di una “duplice investitura” - furono alla base del concordato di Worms del 23 settembre 1132. Morì intorno al 1115 venerato come un santo. Al riguardo, cfr. J.GAUDEMET, s.v. Yves de Chartres, in Dizionario enciclopedico del Medioevo, III, Roma, 1999, 2087 s. Sulle scuole cattedrali dei grandi centri europei, quali Chartres, Reims, Parigi, Orleans, veri e propri luoghi di incontro di intellettuali di tutta Europa, recentemente, E. GRANT, Le origini medievali della scienza moderna. Il contesto religioso, istituzionale e intellettuale, Torino, 2001, 32 ss. Sulla stretta connessione tra sapere laico e religioso in età medievale, ampiamente J. VERGER, Les gens de savoir dans l’Europe de la fin du Moyen Age, Parigi, 1997, 109 ss.
[5] Per ricostruire la cultura e la personalità di Ivo si dimostrano particolarmente importanti le citazioni contenute nelle sue opere e, soprattutto, nel suo epistolario. In effetti, l’esame attento dei suoi scritti denota una profonda erudizione ecclesiastica in materia biblica, canonica e teologica, ma altresì un’ampia conoscenza delle fonti profane, tra le quali gli autori latini (Lucanio, Virgilio, Terenzio, Sallustio, Aulo Gellio, Plinio il Vecchio, Orazio e Cicerone) e, naturalmente, del diritto romano.
[6] Come recentemente evidenziato dal VIOLI, Il Prologo, cit., 229 ss., dopo mille anni di storia la condizione della disciplina ecclesiastica doveva indubbiamente apparire ingovernabile. La caoticità e la contraddittorietà delle norme, che si erano accumulate alla rinfusa, portava ad una cronica assenza di certezza del diritto cui si univa la perdita di ogni autorità dei precetti. L’oblio del diritto, d’altra parte, aveva come conseguenza il decadimento della stessa Chiesa, nell’ambito della quale, come affermato da Ivo (Prologo, 1) “chi vuole osa ciò che vuole, ciò che osa fa, ciò che fa rimane impunito”.
[7] Più in particolare, sulla concezione di Ivo dello ius humanum che, in contrapposizione a quello divinum, necessario e immutabile, sarebbe caratterizzato da un’elasticità tale da consentirgli di adeguarsi a tutte le differenti circostanze in cui l’uomo, “pellegrino sulla terra” può trovarsi, tanto da giustificare la disapplicazione della norma generale ogniqualvolta lo richiedano le peculiarità del caso concreto (relaxatio legis), recentemente, P. GROSSI, L’Europa del diritto, Roma – Bari, 2007, 35 ss.
[8] L’analogia tra medico e interprete compare più volte nell’epistolario di Ivo (tra le altre, Ep., 123,135; 162,167; 203,208; 225,230; 234,237: al riguardo, VIOLI, Il Prologo, cit., 152). E, d’altra parte, la relazione che intercorre dal punto di vista metodologico tra medicina e diritto ha una storia ben più antica: come rilevato da G. FEDERSPIL e U. VINCENTI nella Presentazione al volume Diritto e clinica. Per l’analisi della decisione del caso. Atti del Seminario Internazionale di Studio, Padova, 27-28 gennaio 1999, Padova, 2000, XII, infatti, queste due discipline sono accomunate da una “duplice polarizzazione … da un lato, vi è l’orientazione verso proposizioni molto generali, vale a dire le leggi, dall’altro, la tensione è diretta verso le affermazioni singolari, i casi individuali. Per questo giuristi e medici possono proseguire nel loro confronto e considerare, comparandola, la struttura dei rispettivi ragionamenti e, particolarmente, delle argomentazioni adoperate”.
[9] Da questo punto di vista, l’interprete non
è dunque mero esecutore della norma, ma creatore di norme adeguate al
caso concreto, pronunciate sulla base di decisioni analoghe rese in precedenza
dai pastori che l’hanno preceduto, attingibili attraverso
[10]
Si tratta di un’opera fondamentale per la tradizione canonista
occidentale nella quale Ivo, oltre a fornire indicazioni circa il contenuto e
le finalità delle sue Collezioni (delle quali costituisce una sorta di
prefazione, pur essendoci stata trasmessa anche come trattato autonomo), mira a
suggerire un metodo per sanare le contraddizione tra le diverse norme del diritto
canonico. Al riguardo, diffusamente,
P. FOURNIER, Un tournant de
l’histoire du droit (1060-1140), in Nouvelle Revue Historique de Droit Francais et Etranger, 41, 1917,
158 ss.; VIOLI, Il Prologo cit., 187
ss.
[11]
Oltre al Decretum, le collezioni
canoniche attribuite a Ivo sono rappresentate dalla Tripartita - che contiene 2320 capitoli suddivisi, come dice il
nome, in tre parti - e dalla Panormia,
una sorta di manuale sistematico di diritto canonico destinato alla prassi.
Quest’ultima, che costituisce un’abbreviazione in otto libri del Decretum conobbe un’enorme diffusione nel
Medioevo, tanto in Francia, quanto in Inghilterra, Renania e persino nei Paesi
Scandinavi e, insieme alle precedenti Collezioni, fu ampiamente utilizzata per
la composizione del Decreto di Graziano e quindi, indirettamente, per la
formazione del Corpus Iuris Canonici.
Sul contenuto specifico delle collezioni di Ivo, B.E. FERME, Introduzione alla storia del diritto
canonico, I, Il diritto antico fino
al decretum di Graziano, Roma, 1998, 184 ss.; sul loro significato
giuridico e la loro diffusione, J. GAUDEMET, Storia del diritto canonico. Ecclesia et civitas, Milano, 1998, 445
ss. Oltre alle Collezioni, di Ivo si conservano ventitrè sermoni, che
trattano di questioni dogmatiche e di liturgia, e un epistolario, composto di
circa trecento lettere le quali, come si è detto, appaiono di importanza
capitale per ricostruire la personalità e la cultura dell’autore.
Tra queste sembrano emblematiche le risposte con le quali Ivo, interpellato in
qualità di vescovo sui più delicati problemi giuridici e canonici
del suo tempo, dimostra estrema imparzialità e senso della misura. Al riguardo, L. CHEVAILLER, s.v. Yves de Chartres, in Dictionnaire
de Droit canonique (sous la direction de R. NAZ), 7, Parigi, 1965, 1640 ss., 2078 s.
[13] Prologo, 1: Exceptiones ecclesiasticarum regularum … nonnullo labore in uno corpore adunare curavi ut qui scripta illa ex quibus ista excepta sunt ad manum habere non poterit hinc saltem accipiat quod ad commodum cause sue valere perspexerit (edizione e traduzione italiana di VIOLI, Il prologo, cit., 368).
[14] Sul progressivo lavoro di consolidazione e armonizzazione delle regole del diritto canonico che, allo scadere del primo millennio, apparivano caratterizzate da uno stato di grande confusione e incertezza, per tutti, GROSSI, L’Europa, cit., 34.
[15]
Come affermato da Ivo (Prologo, 2) i conflitti tra norme non
discendono dalla loro oggettiva contraddittorietà, ma bensì
dall’incapacità del lettore di pervenire ad una piena comprensione
delle stesse. Nell’ottica del vescovo di Chartres, naturalmente, la
comprensione – interpretazione della norma non può prescindere
dalla ricerca della veritas in senso
cristiano, alla quale tutta la disciplina ecclesiatica è per sua natura
ispirata; a ciò tuttavia non si oppone l’impiego di altri criteri
ermeneutici attraverso i quali si giunga comunque a perseguire il fine
superiore della concordia. Come
è stato recentemente
chiarito da VIOLI, Il Prologo, cit.,
[16] Nella composizione di tale opera sistematica Ivo si ispirò al più antico Decretum di Burcardo di Worms (compilato tra il 1008 e il 1012), dal quale risultano desunti gran parte dei testi. Altro materiale è rappresentato dalla stessa Tripartita (nelle sue prime due parti), da una collezione ignota dalla quale Ivo trasse varie decretali e testi di diritto romano giustinianeo, e infine dalle decretali della Pseudo-Isidoriana. Numerosi sono i passi dei Padri della Chiesa e degli scrittori ecclesiastici, sempre ricavati dalle predette collezione oltre che dai florilegi patristici utilizzati anche dai riformatori gregoriani. Al riguardo, FERME, Introduzione, cit., 186.
[17] Com’è si è accennato, supra alla nota 9, il significato giuridico dell’opera di Ivo è sostanzialmente simile a quello rivestito dalle opiniones degli antichi giuristi romani e, successivamente, dagli scritti dei grandi doctores medievali: pur formalmente privo di forza cogente, esso acquistava valore normativo proprio per la sua auctoritas, secondo quanto ancora stabilito dal canone 19 del Codice canonico attuale che, quantomeno nelle ipotesi di silenzio della legge e della consuetudine, conferisce forza nomopoietica all’opinione comune e costante dei giuristi. In tal modo, le soluzioni indicate dall’illustre vescovo influenzavano grandemente la pratica dei tribunali ecclesiastici del suo tempo, anche in relazione a questioni propriamente “laiche”. Queste ultime, infatti, tanto in ambito civile che penale, potevano essere attratte nell’orbita del foro della Chiesa sia per la particolare qualità della persona coinvolta (ratione personae), sia per il reale o preteso collegamento con la sfera religiosa. Tale situazione – che, a fronte delle concorrenti pretese dei tribunali secolari, era spesso causa di conflitti anche accesi – trova un esempio significativo nella materia dei patti i quali, regolati pressoché completamente attraverso il diritto romano, venivano rivendicati dalla giurisdizione ecclesiastica ratione peccati. Diffusamente, sull’organizzazione, la competenza, la procedura dei tribunali ecclesiastici in epoca medievale, GAUDEMET, Storia cit., 587 ss. (con bibliografia a p.585 s.)
[18]
Fondamentale fu l’apporto del diritto romano per la formazione del
diritto canonico; da un lato
infatti il diritto secolare appariva tanto più necessario in
un’epoca in cui il diritto proprio della società ecclesiastica non
era ancora pienamente sviluppato, dall’altro lato,
[19] Ampiamente, sulle ragioni storiche, politiche e culturali che determinarono tale forma di “recezione” delle fonti romane (sempre che apparissero “in armonia” con i canoni) nelle collezioni dei secoli IX e X, F. CALASSO, Medioevo del diritto, 1. Le fonti, Milano, 1954, 230 ss.
[20] Il corrispondente passo si trova in Cons.4.3 (Paulus sentent. lib.I, tit. de pact. et conventionibus vel
transactionibus): functio dotis pacto
mutari non potest, quia privata conventio iuri publico nihil derogat. E’
qui piuttosto evidente come lo stesso Ivo sia intervenuto sul passo,
estrapolando dal testo il principio giuridico al fine di attribuire allo stesso
valore generale.
[21] In realtà, Ivo, nel suo Decretum, non manca di correggere la forma della costituzione stessa adattandola al contesto in cui viene collocata. Così egli, oltre a premettere al principio giuridico l’avverbio item, sostituisce l’espressione et cetera con il verbo debet. Meno verosimile pare la tesi secondo la quale il vescovo avrebbe tratto i testi normativi da altra opera andata poi dispersa. Al riguardo, cfr. Ph. HUSCHKE, Praefatio a Consultatio veteris cuiusdam iurisconsulti, in Jurisprudentiae anteiustinianae reliquae, Lipsia, 1886, 485 ss.; P.F. GIRARD – F. SENN, Textes de droit roman, I, Parigi, 1923, 605 ss.; G. SCHERILLO, s.v. Consultatio veteris cuiusdam iurisconsulti, in NNDI, IV, Torino, 359 s. La circostanza, anche se indimostrabile, potrebbe trovare in effetti un appiglio nelle ricerche di FOURNIER, Un tournant, cit., 152, secondo il quale il vescovo medievale, soprattutto per quanto attiene ai testi di diritto romano, avrebbe attinto ampiamente da una raccolta simile alla Britannica che non ci è pervenuta.
[22] Premettendo alla massima l’inciso ad locum, egli invero sembra manifestare esplicitamente la sua operazione di estrazione dal testo originale del punto giuridico ritenuto opportuno.
[23] La differenza nella datazione e nell’indicazione del console Albino anziché Balbino, di cui a Cons.1.7, è stata comunemente attribuita ad un errore dello stesso Cuiacio.
[24] Al riguardo, diffusamente, C.A. CANNATA, La cosiddetta “Consultatio veteris cuiusdam iurisconsulti”, in Il diritto tra scoperta e creazione. Giudici e giuristi nella storia della giustizia civile. Atti del Convegno Internazionale della Società Italiana di Storia del Diritto, Napoli 18-20 ottobre 2001 (a cura di M.G. di Renzo Villata), Napoli, 2003, 235 ss.
[25] Effettivamente, come notato dal CANNATA, La cosiddetta “Consultatio”, cit., 237 nt.59, l’anonimo autore della nostra operetta mostra di aver operato quanto meno un ulteriore “falso” all’interno di una fonte giuridica. Si tratta, in particolare, della costituzione in tema di donazioni emanata da Costantino (C.Th.8.12.1) e riportata in Cons.9.13. Diversamente da questo A., peraltro, riterrei che proprio le suddette alterazioni provino come i testi raccolti nella Consultatio non fossero destinati alla recitatio in giudizio, ma piuttosto ad essere compresi e memorizzati nel loro significato da parte degli studenti.
[26] In tal senso, come si dirà, depone anche il breve scolio contenuto alla fine di Cons.5.7, ove si legge Hic require, qualiter actionis editio pulsato fiat, il quale sembrerebbe avvalorare la tesi della redazione – o quanto meno della “considerazione” – del testo da parte di uno o più uditori. Contra il CANNATA, La cosiddetta “Consultatio”, cit., 240 ss., che si dimostra perplesso sul valore “didattico” della Consultatio, evidenziando come lo scolio, e le ulteriori modifiche alle fonti che si rinvengono nell’operetta (o nel testo, espressione giustamente preferita dall’A. per alludere alla Consultatio stessa), provino soltanto che questa fu effettivamente utilizzata in ambito didattico, ma non che sia sorta effettivamente con questo scopo.
[27] Membro di una delle famiglie più importanti di
Beauvais, Antoine Loisel nacque nel
[28]
La più antica notizia relativa alla scoperta dell’operetta
è data dal Cuiacio nel libro 7, capitolo 26, delle sue Observationes (pubblicate nel 1564). In
tale luogo, l’umanista afferma
di aver ricevuto, l’anno precedente, da Antonius Loisellus Bellovacus una antiquissimi cuiusdam Iurisconsulti Consultatio, la cui
particolarità viene fin da subito colta nel modo di argomentare le
soluzioni dei casi attraverso la testuale riproduzione delle fonti giuridiche
ritenute pertinenti: … in qua
consultationis singulis capitibus reddito responso, non, ut fit, consultor ad
auctores transmittitur, sed ipsa auctorum verba proponuntur ex Codice
Gregoriano, Hermogeniano, Theodosiano et ex Pauli sententiis, quibus suum
Iurisconsultus ille responsum comprobat atque confirmat. Qui mos et in iudiciis
olim servari solebat. Successivamente,
nel 1577, nella lettera con cui il Cuiacio dedicava al suo allievo Jacques de
[29]
Gli Opuscules di Claude Joly,
pubblicati nel 1652, costituiscono una sorta di biografia di Antoine Loisel,
basata sulle Mémoires di
quest’ultimo, oltre che su notizie provenienti da altri illustri suoi
contemporanei (tra i quali M.M. Baptiste
du Mesnil, Advocat General du Roy; M. Pierre Pithou, Sieur de Savoye, Advocat
en
[30] E’ infatti proprio lo stesso Loisel, in uno studio storico – erudito della propria regione (Mémoires de Beauvais) a descrivere accuratamente la biblioteca della cattedrale. Sebbene non sia possibile sapere con certezza se questa fosse in quel momento l’unica biblioteca cittadina, è comunque assai probabile che essa fosse la più fornita, probabilmente anche per aver accolto gran parte del materiale proveniente dalle meno importanti biblioteche religiose locali, tra le quali quella del monastero di San Quintino ove era stato priore Ivo molti secoli prima.
[31] E. VOLTERRA, Il manoscritto della Consultatio veteris cuiusdam iurisconsulti e il suo scopritore Antonio Loisel, in Acta congressus iuridici internationalis, 2, Roma, 1935, 401 ss. (ora in Scritti Giuridici, 4. Le fonti, Napoli, 1993, 273 ss.). L’A., nel ripercorrere accuratamente il viaggio di Loisel, non sembra peraltro rilevare come la reiterata menzione della località di Beauvais rappresenti qualcosa in più di una “coincidenza” nella ricostruzione della storia del manoscritto della Consultatio.
[32] A questo proposito, diffusamente, VOLTERRA, Il manoscritto, cit., 20 (e, in particolare, le note 24 e 25). Alla morte di Antoine Loisel, avvenuta nel 1617, la sua biblioteca passò dapprima al nipote, quindi a Claude Joly e da lui, nel 1680, al Capitolo di Notre Dame de Paris, per poi andare al re Luigi XV, nella Bibliothèque du Roi e, infine, alla Bibliothèque Nationale. Anche l’ipotesi che il manoscritto della Consultatio fosse parte della biblioteca del Cuiacio – e poi trasmessa a causa di morte alla di lui figlia, Susanna – pure considerata dagli studiosi, non ha trovato alcun riscontro.
[33] E’ documentato che Antoine Loisel donò al Cuiacio quanto meno le Novelle di Maiorano (al riguardo cfr. Claude Joly, Opuscules cit., 17), oltre che un manoscritto del codice Gregoriano (cfr. quanto affermato dal Cuiacio nelle sue Observationes et emendationes del 1556, lib.2, cap.13).
[34] La circostanza, oltre che testimoniata dal medesimo Cuiacio (supra alla nota), è riferita ancora una volta da Claude Joly nei suoi Opuscules, cit., 17, nonché dallo stesso Loisel, nello scritto Pasquier ou dialogue des advocats du Parlement de Paris (il quale, certamente successivo al 1600, viene sempre riportato da Joly negli Opuscules).
[36]
E’ ancora dagli Opuscules di
Claude Joly che apprendiamo della profonda amicizia che legava Antoine Loisel e
Pierre Pithou (1539-1592), entrambi allievi del Cuiacio a Bourges, e poi a
Valenza. Fondamentale ai fini dell’edizione di antichi manoscritti fu la
loro attenta attività di lettura e di correzione dei testi, tra i quali
[37] La passione per la ricerca e l’edizione critica di manoscritti della giurisprudenza romana, estranei al Corpus Iuris Civilis, costituisce un tratto peculiare dell’umanesimo letterario e giuridico. Già agli inizi del XVI secolo, peraltro, come evidenziato da A. CAVANNA, Storia del diritto moderno in Europa.1. Le fonti e il pensiero giuridico, Milano, 1982, 175 ss. “i vari spunti critici nei confronti della tradizionale metodologia giuridica e le varie manifestazioni dell’aspirazione a storicizzare il diritto romano passano dalle mani dei filologi eruditi a quelle dei giuristi di professione”, i quali giungono a trasformare quella prima critica testuale, ancora generica e rudimentale, in una vera e propria tecnica storico – giuridica, che si sviluppa attraverso una metodologia consapevole ed autonoma. In questo contesto si colloca l’opera di Jacques Cujas, detto Cuiacio, il quale rappresenta senza dubbio un protagonista di primo piano “nella storia generale del pensiero e della civiltà” (così, V. PIANO MORTARI, Cinquecento giuridico francese. Profili generali, Napoli, 1990, 358). Nato a Tolosa nel 1520 o 1522, il Cuiacio, dopo gli studi di giurisprudenza nella sua città natale, si presentò nel 1554 al concorso per la cattedra di diritto romano presso quell’Università, ma gli fu preferito un seguace di Bartolo, il Forcadel. Egli lasciò allora Tolosa per insegnare dapprima a Cohors, poi a Valenza, Torino e infine a Bourges, considerata la sede del suo magistero, a seguito della chiamata di Michel de l’Hospital, cancelliere del regno di Francia che aveva studiato giurisprudenza presso l’Università di Padova. A causa del contrasto con Francois Duarin - del quale il Cuiacio disapprovava il metodo d’insegnamento, oltre che le convinzioni in merito al diritto romano (convinzioni poi riprese dall’erede spirituale di Duarin, Ugo Donello) - il Maestro si trasferì a Parigi nel 1576 e successivamente a Valenza, insieme al suo discepolo Loisel. Invitato dal Papa Gregorio XIII a trasferirsi a Roma nel 1594, egli preferì invece tornare nella sua scuola di Bourges ove morì nel 1590. Sulla scia di Andrea Alciato, il Cuiacio intraprese uno studio critico e filologico del diritto romano, ricercando nel Corpus Iuris giustinianeo il diritto originale di Roma e tentando di ricostruire le dottrine romanistiche secondo i loro diversi periodi di formazione. La fama del Cuiacio è generalmente ricondotta alla sua ingente produzione scientifica, oltre che alla sua intensissima attività di edizione e di critica di fonti, spesso accompagnate da observationes, interpretationes, emendationes. Al pari dei suoi contemporanei, egli riteneva infatti che la finalità culturale del giurista fosse quella di conoscere, attraverso un uso raffinato della filologia e della storiografia, l’esperienza propria della scienza giuridica sulla base delle fonti su cui essa era stata elaborata. Le sue opere complete sono state pubblicate a Parigi dal celebre giurista provenzale C.A. Fabrot nel 1658; ristampate poi a Venezia nel 1758 e a Prato nel 1834. Su tutto ciò, ampiamente, V. PIANO MORTARI, La scienza giuridica del secolo XVI. Aspetti della scuola culta, Catania, 1966, 76 ss.
[38]
Più precisamente,
[39] L’Opera quae de iure fecit et edi volvit
è stata in particolare individuata nel 1998 presso una nota libreria
antiquaria parigina: essa, secondo
le parole di J.M. BLANCH NOUGUES, El
dictamen de un antiguo jurisconsulto (Consultatio veteris cuiusdam
iurisconsulti). En defensa de la mujer casada, Madrid, 1999, 13 s., si distingue da altre edizioni
più famose per l’impiego di caratteri tipografici ancora piuttosto
involuti, oltre che per l’assenza di tutti quegli apparati esplicativi,
di quelle traduzioni (soprattutto dei termini greci correntemente usati dal
Cuiacio nella sua attività), di quegli indici che altrove frequentemente
si incontrano. Da tutto ciò sembrerebbe potersi cogliere il tentativo di
rispettare fedelmente il pensiero dell’Umanista, quasi come si trattasse
di una mera riproduzione a mezzo della stampa del manoscritto originale:
“como si la obra, récien
salida de la pluma de su autor, se diese a conocer al publico”. Per
quanto riguarda, più specificamente,
[40] Le principali edizioni moderne dell’operetta sono rappresentate da a) A. SCHULTING, in Iurisprudentia vetus ante-Justinianea (editio nova), Lipsia, 1737, 812 ss.; b) E. PUGGE’, in Corpus juris antejustiniani I, Bonn, 1831, 389 ss. (rist. Aalen, 1987, 392 ss.) ; c) Ph. HUSCHKE, in Iurisprudentiae anteiustinianae quae supersunt, Lipsia 1886, 835 ss., rivista e rielaborata dal KUEBLER in E. SECKEL – B. KUEBLER, in Iurisprudentiae Anteiustinianae reliquias, II,2, 6 ed., Lipsia, 1927, 485 ss. (rist. 1988, 189 ss.); d) P. KRUEGER, in Collectio librorum iuris anteiustiniani, III, Berlino 1890, 201 ss. (rist. Hildsheim, 2001, 199 ss.); e) G. BAVIERA, in Fontes iuris romani anteiustiniani II, Firenze, 1968, 593 ss. (considerata generalmente come meno attendibile e completa rispetto alla precedente); f) GIRARD – SENN in Textes, cit., 621 ss.; a queste si aggiunge la recente (ma non sempre affidabile) edizione (e traduzione) della Consultatio di BLANCH NOUGUES, El dictamen, cit., 56 ss. Si segnalano, infine, le traduzioni dell’operetta in olandese (J.E.SPRUIT – K.E.M. BONGENAAR, Fragmenta Vaticana, Collatio, Consultatio, Scholia Sinaitica, Probus, Zutphen, 1987, 191 ss.) e, ancora, in spagnolo (A. VARGAS VALENCIA, Consulta de un jurisconsulto antiguo, Ciudad del Mexico, 1991, 1 ss.).
[41] Come già accennato, nel libro 7 delle Observationes et emendationes (pubblicato, per la prima volta, a Lione nel 1564, all’interno del terzo volume della seconda edizione delle sue opere), cap.5, a proposito dell’actio calumniae Cuiacio riporta un breve riferimento ad una costituzione di Diocleziano e Massimiano che ci risulta tramandata solo dalla Consultatio (Cons. 6.13). Il testo non è riprodotto esattamente né è citata la fonte del provvedimento, indizi che sembrerebbero suggerire che Cuiacio fosse semplicemente stato informato, in modo incompleto, dal suo allievo del contenuto dell’opera che quest’ultimo andava decifrando. Nella medesima opera, libro 7, cap.26, dal titolo Pauli sententiae quaedam, il Cuiacio dà per la prima volta notizia della scoperta di Loisel, spiegando che l’opera gli era stata inviata quale esempio delle Consultationes che intendeva pubblicare, ne evidenziava la suddivisione interna in capita (in ciò riferendosi, con ogni probabilità, all’espressa numerazione delle questioni affontate in essa contenuta), spiegava come nelle risposte l’ignoto giureconsulto riproducesse il testo delle fonti normative, nonché commentava e riproduceva alcune sentenze di Paolo sino a quel momento inedite. Nel successivo cap.27, sotto il titolo de pluris petitione, accanto a P.S., il Cuiacio ricorda due costituzioni di Diocleziano e Massimiano in una versione alquanto diversa da quella che lo stesso pubblicherà nel 1577 (rispettivamente in Cons. 5.6 e 5.7). Nella sua edizione del Codice Teodosiano, infine (Codicis theodosiani lib.XVI … curante Iacobi Cuiacii, Lugduni, 1566), Cuiacio riporta diverse costituzioni esistenti nei codici Gregoriano, Ermogeniano e Teodosiano, senza però indicarne la provenienza. In proposito, ampiamente, E. VOLTERRA, Le sette costituzioni di Valentiniano e Valente contenute nella Consultatio veteris cuiusdam iurisconsulti, in Scritti Giuridici, VI. Le fonti, Napoli, 1994, 179 ss.
[42] In effetti, tanto nel 1564 quanto nel 1566, il Cuiacio, pur servendosi della Consultatio quale fonte di cognizione per ricostruire il contenuto dei Codici Gregoriano ed Ermogeniano e per completare il Teodosiano (in alcuni casi muovendosi in modo anche un po’ arbitrario), non include l’operetta nella sua raccolta di fonti pregiustinianee, con ciò evitando di considerla un unicum.
[43]
Del Loisel è pervenuta una interessante corrispondenza “a proposito
della grandezza e autorevolezza dei giuristi romani e della parte del diritto
civile chiamata responsa
prudentium” con Etienne Pasquier, affascinante figura di uomo di
cultura e di magistrato regio (1529-1619), acceso sostenitore delle
peculiarità dei principi e delle regole del diritto francese rispetto al
mondo romano (per una dotta ricostruzione della vita e degli ideali di
Pasquier, cfr. V. PIANO MORTARI, Diritto
romano e diritto nazionale in Francia nel secolo XVI, Milano, 1962, 109
ss.). Nella risposta ad una lettera di quest’ultimo (riportata da Claude
Joly negli Opuscules e certamente
successiva al 1600), il Loisel sembra ricollegare il decadimento della cultura
giuridica romana al fatto che “plusieurs
personnages de doctrine s’estans faits Chrestiens, quitterent
[44] In tal senso, per primo, RUDORFF, Uber die Entstehung der Consultatio, in ZRG 13, 1846, 51, seguito dalla dottrina dominante. Come giustamente affermato da CANNATA, La cosiddetta “Consultatio”, cit., 207 “non ci è possibile in alcun modo stabilire quale fosse il rapporto tra questo manoscritto e l’originale”.
[45] In effetti, le testimonianze che ci sono pervenute non appaiono decisive per qualificare il rapporto intercorrente tra il Loisel e il Cuiacio a proposito del manoscritto della Consultatio. Come si è già rilevato, infatti, mentre quest’ultimo tanto nel 1564 (Observ. et Emend. 7, 26) quanto nel 1577 (lettera dedicatoria) utilizza i verbi accipere e dare, il Loisel, nell’epistola a Pasquier parla di donner, espressioni dunque idonee a significare sia la consegna materiale, anche temporanea, sia la donazione definitiva.