N. 7 – 2008 – Memorie//MMD-Giuramento-plebe-Monte-Sacro
Università
di Salerno
Tassi
usurari e giurisdizione
Sommario: 1. Faeneratores e vittime dell’usura tra V e III sec. a.C. –
2. La più antica
legge antiusura. – 3. Le sanzioni per gli
inosservanti: le procedure rimesse all’iniziativa dei privati.
– 4. Segue: i rapporti tra la
legge Marcia in Gai 4.23 e la manus iniectio
quadrupli. –
5. Un nuovo esperimento di
politica legislativa. – 6. La repressione
pubblica del prestito usurario. – 7. Il plebiscito Sempronio.
– 8. Il mancato coordinamento tra
le disposizioni legislative e la loro divaricazione rispetto alla prassi:
disagi nell’esercizio dell’attività giurisdizionale.
Oggetto della prima parte di questo studio
è l’esame dei problemi legati alla tutela e alla repressione
giurisdizionale del faenus con
riferimento alle rivendicazioni della plebe tra V e III sec. a.C., e dunque con
riguardo a un periodo in cui, secondo una opinione molto diffusa, il ricorso al
prestito era finalizzato alla mera sopravvivenza o al pagamento di debiti
preesistenti, non certo all’impiego in settori produttivi o a
finanziamenti in attività commerciali[1].
Se si accoglie questa impostazione, occorre supporre che non prima della
metà del III sec. a.C. il faenus
avrebbe perso la sua originaria caratteristica di ‘prestito di
consumo’, in quanto tale totalmente improduttivo; solo questo mutamento
avrebbe fatto sì che si cominciasse a considerare giustificata la
previsione degli interessi.
Quanto appena esposto postula però
una economia povera e stagnante anche nell’età della monarchia
etrusca; il che sembra molto opinabile, se si considera la rete di vantaggiosi
rapporti commerciali che certamente crearono gli etruschi[2]
e che poi bruscamente venne a cadere con il rovesciamento della monarchia[3].
Concordo invece nel ritenere che le XII Tavole attestano il ritorno ad una
economia legata a modeste attività agropastorali[4]:
occorre attendere il finire del IV secolo per l’emersione di segnali di
piena ripresa, quale la costruzione della via Appia, probabilmente voluta da
Appio Claudio il Cieco, al fine di incrementare le relazioni commerciali tra
Roma e Capua, cui era dedita la plebe urbana (liberti, mercanti, banchieri)[5].
Ma tale dato, se da un lato insinua il dubbio che già all’epoca i
prestiti potessero essere finalizzati all’investimento in imprese
commerciali anche da parte della plebe (urbana, e forse anche rustica), per
altro verso scuote pure la tradizionale rappresentazione di un ceto plebeo
omogeneo e monolitico, nella sua pervicace avversione alla pratica dei prestiti
feneratizi.
E’ comunque da rivedere attentamente
l’immagine – trasmessa da Livio – di un patriziato dedito
all’usura, praticata ai danni della plebe, ceto indigente e compatto,
tanto nella sua composizione interna, tanto nella condizione di povertà:
in realtà, strati emergenti della plebe disponevano di grosse
quantità di aes già nel
V sec. a.C., come nel caso di Spurio Melio[6],
mentre le indagini prosopografiche dimostrano[7]
che, all’indomani delle leggi Licinie Sestie, esponenti di spicco della
plebe si coalizzarono con alcuni patrizi, condividendone attività
economiche, fortune, e indirizzi di politica legislativa.
Anche la pretesa
‘improduttività’ del prestito di consumo, fino al III sec.
a.C., è, probabilmente, un luogo comune da sottoporre a puntuale
riesame. Il calcolo dell’interesse risulta essere una pratica antica
quanto il prestito stesso, ed è senz’altro antecedente
l’avvento dell’economia monetaria: il prestito di solidarietà
più antico è, infatti, il prestito di derrate alimentari (farro),
di pellami – questi sì, improduttivi –, ma anche di semi e
di bestiame. Oltre che presso i Romani, come più avanti si
preciserà, la richiesta di prestiti in natura e a breve termine, da restituire
con il nuovo raccolto, è stata osservata anche con riguardo ad altri
popoli antichi[8].
La nozione di interesse e la determinazione del suo tasso si sono create sulla
base di due elementi: a) il calcolo della prole e dei prodotti degli animali o
dei semi prestati; b) la verifica del danno cagionato dal ritardo o dalla
mancata restituzione del ‘capitale’ prestato entro il termine
stabilito, comportamento che si è reputato passibile di rigorose
sanzioni. E’ stato sostenuto che la nozione di interesse deve essere in
origine sorta con il prestito di bestiame[9].
La congettura trae forza dall’osservazione che i popoli indoeuropei
più antichi calcolavano in prevalenza l’interesse composto[10],
non quello semplice: operazione di computo troppo complessa, se rapportata ad
una economia monetaria antica, ma perfettamente comprensibile se posta in
rapporto alla moltiplicazione naturale del bestiame (e, credo di potere
aggiungere, della semente).
Queste esperienze appaiono tutt’altro
che lontane dalle realtà economiche dell’area italica. E infatti,
a Roma anticamente il valore dei beni si stimava in bestiame (ed è
possibile che l’aes signatum della
fase più recente recasse l’effige di un animale proprio
perché ormai il lingotto aveva sostituito il bestiame, come mezzo di
scambio[11]).
Significativa, forse, è anche la circostanza che gli autori latini
asserivano la derivazione etimologica di faenus
da fetus[12].
Considerato, poi, che i Romani allevavano per lo più montoni, la cui
gestazione dura solo cinque mesi, e i cui prodotti (lana e latte) erano ritenuti
assai pregiati, si spiega perfettamente l’enormità del tasso di
interessi leciti in Roma antica, che Tacito (ann. 6.16), come a breve si esporrà, riferisce alla
disposizione decemvirale: faenus
unciarium indica probabilmente un dodicesimo mensile, dunque il 100% annuo[13].
Presso i popoli dediti ad attività agropastorali l’interesse segue
la semplice regola della restituzione del doppio[14].
‘Prestito improduttivo’ era
dunque solo il prestito di pellami e di derrate alimentari. Il prestito di
danaro lo fu solo nella fase precedente l’espansione dei commerci.
E’ alle leggi delle XII tavole[15]
che verosimilmente risale la prima limitazione legale degli interessi. Lo
asserisce Tacito, nel corso di una sintetica – ma estremamente efficace
– descrizione delle prime misure repressive delle usure:
Tac. Ann. 6.16: …Nam primo duodecim tabulis sanctum, ne quis
unciario faenore amplius exerceret, cum antea ex libidine locupletium
agitaretur; dein rogatione tribunicia ad semuncias redactum, postremo vetita
versura: multisque plebiscitis obviam itum fraudibus quae totiens repressae
miras per artes rursum oriebantur...
Una norma sul tasso d’interesse
sembra coerente con il più ampio progetto dei decemviri, se è
vero che l’ascesa del ceto plebeo (vale a dire quello che,
all’epoca, subiva in massima parte le vessazioni degli usurai) ebbe un
ruolo significativo nell’intera vicenda del decemvirato[16].
Il plebiscito Duilio Menenio del
E’ però poco credibile che in
età decemvirale il fenomeno del prestito si realizzasse già
esclusivamente nei modi tipici dell’economia monetaria:
l’espressione tacitiana faenus
unciarium (interesse nella misura dell’oncia) sembra fare riferimento
ad una economia monetaria, eppure l’aes
signatum allora circolante era bronzo, dunque metallo scambiato a peso, non
moneta numerata a corso legale[18].
Solo nel IV sec., con il conio campano-laziale, si verificò una
circolazione monetaria statale. Ma ci risulta che nel VI sec. a.C. circolava a
Roma, oltre all’aes signatum,
anche moneta coniata fuori Roma[19].
Dunque, la moneta circolava; sono però da escludere pratiche di
investimento massiccio in attività mercantili, considerato il regresso,
verificatosi nel V sec., a forme di economia agropastorale. Può
ritenersi che in età decemvirale il bestiame fosse tornato in auge, come
merce di scambio, pur non soppiantando del tutto il bronzo, che, sebbene
facilmente accessibile solo alle fasce sociali più elevate, veniva
usato, per esempio, nel rituale della mancipatio[20].
Un riscontro di quanto appena esposto si
può avere dall’osservazione dell’antica disciplina delle mulctae: mentre in età
predecemvirale le multe pubbliche venivano irrogate in aes signatum, la lex Maenenia
Sextia del
Eppure, non possono sussistere dubbi sulla
diffusa pratica del prestito nel V sec. Ne fanno fede troppe testimonianze
univoche, che evidenziano quanto la piaga dei debiti opprimesse vasti strati
della popolazione, già a partire dal
Sulla base dei dati disponibili, si deve
ritenere che i debiti e gli interessi relativi, verso la metà del V
sec., concernessero tanto beni naturali, quanto aes signatum. L’ipotesi che ancora buona parte dei debiti
dell’età decemvirale derivasse da prestiti in natura deriva dalla
considerazione che l’impoverimento generale conseguente alla caduta della
monarchia etrusca colpì soprattutto gli strati più bassi della
popolazione, esclusi dalla circolazione dell’aes, depauperati dal servizio militare e dalle devastazioni
belliche[23],
e perciò costretti a ripiegare sulle attività agropastorali.
Il divieto, attestato da Tacito, di exercere (resta dubbio se il significato
da attribuire a tale vocabolo sia ‘esercitare’ o
‘esigere’) il faenus in
misura esorbitante l’uncia (su
base annuale o mensile?) del capitale prestato (bestiame, sementi, metallo) non
contrasta necessariamente con il quadro tracciato. Anche nell’aspetto
terminologico può ravvisarsi una curiosa esemplificazione del carattere
‘misto’ dell’economia dell’epoca, presa in
considerazione dallo storico: faenus da
fetus, secondo l’etimologia,
con ogni probabilità esatta, testimoniata dalle fonti, è un
inequivocabile richiamo all’economia pastorale, mentre unciarium opera un possibile riferimento
all’uso del metallo.
Se è vero che l’uncia designa la dodicesima parte della
libbra, non si deve, per ciò, meccanicamente giungere alla conclusione
che l’espressione unciarium
presuppone già circolante l’aes
grave librale e che non può, dunque, riferirsi ad avvenimenti
antecedenti il IV sec. a.C. In realtà, il termine unciarium non va necessariamente inteso come percentuale di una
determinata quantità di denaro (per esempio, Columella, in de re r. 3.2.2, utilizza la parola unciaria in un’accezione
ponderale: ‘acini rossi dal peso di un’oncia’). Difatti la libbra, quale unità
di misura ponderale, era largamente usata negli scambi di merci, e di merci con
metallo, già anteriormente al V sec.[24].
Neppure si può validamente obiettare che sarebbe risultato troppo
difficile, per la mentalità dell’epoca, calcolare interessi in
metallo qualora i prestiti fossero stati fatti in natura: il metallo, quale
merce di scambio, veniva quantizzato abitualmente sin da tempi antichissimi con
criteri ponderali, o numerici, o formali[25],
e la pronta realizzabilità della conversione tra beni naturali ed aes è dimostrata dal contenuto
delle leggi Maenenia Sestia e Aternia Tarpeia (i cui criteri di
conversione tra bestiame ed aes erano
stati ispirati, probabilmente, dai canoni e dalle valutazioni all’epoca
ricorrenti nei commerci privati)[26].
Al riguardo sussistono quattro
testimonianze; secondo l’opinione corrente, esse sono pertinenti alla
stessa procedura giurisdizionale, che avrebbe peraltro costituito l’unico
strumento privatistico di difesa per le vittime dell’usura. Come si
constaterà, questo luogo comune probabilmente deve essere rivisto.
La disposizione decemvirale con la quale si
poneva il divieto di superare, nella richiesta di interessi, il limite del faenus unciarium ci si presenta come una
lex imperfecta, cioè come una
legge senza alcuna comminatoria a carico degli inosservanti (benché sia improprio, a rigore, il richiamo ad una
tricotomia di elaborazione ben più tarda[27],
rispetto al fenomeno all’esame). Nessuna sanzione (né la
rescissione dell’atto, né una sanzione pecuniaria) risulta infatti
ricondotta da Tacito all’ipotesi di violazione del divieto. D’altra
parte, l’intera legislazione fenebre si caratterizza per la mancata
previsione dell’invalidità dell’atto compiuto in violazione
di ciò che si fosse disposto[28]:
fattore che ha alimentato i sospetti circa la natura essenzialmente
politico-demagogica delle leggi in parola[29].
Oltretutto, il tasso del 100% annuo
è quello tipico di una economia agricola, e non sembra che la fissazione
di questo limite potesse avere costituito un significativo successo per le
vittime dell’usura: il faenus
unciarium, in altri termini, non introduceva un tasso inferiore, rispetto
alla prassi dell’epoca. I problemi sorsero, verosimilmente, quando si
cominciò ad applicare il tasso del 100% annuo, proprio dell’economia
agro-pastorale, a prestiti che ormai si innestavano su una economia monetaria,
denotata da un timido rifiorire dei commerci. Non essendo ancora esplosa
l’economia mercantile, il prestito di danaro costituì inizialmente
un prestito ‘improduttivo’[30].
Non a caso, proprio nel IV sec. (in concomitanza con il primo conio di moneta
bronzea romana, datato al 338 a.C.) il tasso d’interesse divenne il punto
centrale dello scontro sociale[31].
L’economia romana cominciò ad abbandonare il tradizionale
carattere rurale, per compiere il suo percorso verso la monetizzazione[32],
ma, lungo questo tragitto, l’imposizione di alti tassi di interesse ai
prestiti in denaro si rivelò un peso insopportabile per i meno abbienti.
Di qui, l’esigenza di una repressione efficace degli abusi.
Tacito, però, con il ricorso al
vocabolo exercere (nel senso di
‘praticare’, ‘esercitare’, o piuttosto di
‘esigere’?) non chiarisce se vietata fosse la convenzione degli
interessi superiori all’uncia o
se vietata ne fosse solo la riscossione. Qualora si dovesse propendere per la
seconda ipotesi, andrebbe riveduta l’opinione comune, secondo cui le
antiche leggi antiusura sarebbero imperfectae:
e infatti, se al divieto di esigere (e non di ‘concordare’) usurae ultra modum fosse stata connessa
la sanzione del quadruplum, si
dovrebbe piuttosto qualificare la norma limitatrice degli interessi
(benché impropriamente utilizzando una concettualizzazione successiva)
come minus quam perfecta[33].
E’ probabile, a mio giudizio, che la violazione
del vetusto limite del faenus unciarium
fosse sanzionata sin dall’origine con un’azione penale privata in quadruplum. Catone il Censore fa risalire ai maiores un’azione penale con condanna in quadruplum, collegata alla violazione dei divieti in tema di usurae e già posta nelle ‘leges’:
Cat. de agr. praef. 1: Maiores nostri sic habuerunt et ita in legibus
posiverunt, furem duplum condemnari, feneratorem quadrupli.
Nel passo, si effettua un accostamento con
la pena decemvirale del furto, ma è difficile affermare con certezza che
anche la pena nel quadruplo per l’usuraio era prevista nelle XII Tavole,
quale conseguenza della violazione del limite, ivi fissato, del faenus unciarium[34].
Un indizio in questo senso si potrebbe vedere nell’uso dell’espressione
in legibus: è questo
l’elemento che dovrebbe indurre, a mio giudizio, a rivedere un luogo
comune, l’affermazione, cioè, che le più antiche leggi
antiusura fossero leges imperfectae,
cioè prive di qualunque comminatoria a carico del trasgressore. Le
antiche leges fenebres andrebbero
più propriamente qualificate come leges
minus quam perfectae[35], vale a dire come leggi che, pur non
prevedendo la rescissione dell’atto costitutivo di usure ultra modum, comminavano una sanzione
penale per l’inosservante.
Nessuno, comunque, dubita che
l’importanza della testimonianza catoniana risieda nel ricordo di una poena quadrupli (privata) contro gli
usurai[36].
Tale sanzione era forse collegata ad un’azione esecutiva (manus iniectio in quadruplum) nei confronti
di un faenerator iudicatus (vale a
dire, condannato, dopo un regolare processo di accertamento in ordine
all’esazione di interessi in misura illecita); oppure, più
probabilmente, ad un procedimento direttamente esecutivo, quale la manus iniectio pura in quadruplum, cui
il processo di accertamento faceva seguito solo nell’ipotesi di
contestazione da parte dell’usuraio. Questo secondo collegamento è
stato suggerito dalla lettura congiunta di altre tre testimonianze, che
tuttavia appartengono, o fanno riferimento, ad una età successiva.
Apprendiamo da uno scolio alla divinatio in Q. Caecilium di Cicerone
dello Pseudo Asconio (IV o V sec. d.C.)[37],
che quadruplator, in relazione ai
processi (pubblici), era denominata la persona che avesse conseguito la quarta
parte del patrimonio del reo, attraverso la delazione di un crimen, o che avesse accusato coloro che
poi venivano condannati nella misura
del quadruplo per gioco d’azzardo, o per avere praticato l’usura ad
un tasso superiore rispetto al mos
maiorum, e per altri crimina
dello stesso genere, attraverso l’esercizio di una azione penale
(privata?) a ‘legittimazione generale’[38]
(non è però specificato se la summa
condemnationis era lucrata dall’attore):
Ps. Asc. ad Cic. in div. 7.24 (194 ed. Stangl):
Quadriplatores delatores erant criminum publicorum, in qua re quartam partem de
proscriptorum bonis quos detulerant consequbantur. Alii dicunt quadriplatores esse eorum
reorum accusatores qui convicti quadrupli damnari soleant, aut aleae aut
pecuniae gravioribus usuris foeneratae quam pro more maiorum aut eiusmodi
aliorum criminum.
Colpisce, nel dettato complessivo del testo[39],
da un lato il richiamo a un mos maiorum
sul limite dei tassi usurari, dall’altro lato l’uso di espressioni
chiaramente allusive a forme più proprie della repressione pubblica (proscriptio bonorum, accusatores reorum, criminum), non già privata; ma la scelta terminologica si
spiega forse con la datazione del testo ad una età in cui non sussisteva
più un’apprezzabile differenza tra repressione pubblica e privata. Nulla aggiunge ai contenuti del passo
ora esaminato
Ps. Asc. ad Cic. in Verr. 2.7.21 (261 ed. Stangl):
Accusatores sive delatores criminum publicorum sub poena quadrupli: sive quod
ipsi ex bonis damnatorum, quos accusaverant, quartam partem consequebantur.
Risulta invece compatibile con forme
repressive private
Paul. Diac. apd. Fest. s.v. quadruplatores (309 ed. Lindsay): Quadruplatores dicebantur, qui eo
quaestu se tuebantur, ut eas persequerentur, quarum ex legibus quadrupli erat
actio.
Si afferma che i quadruplatori lucravano la
condanna al quadruplo, ma non vi è alcuna allusione agli usurai.
Per il 197 o
Plaut. Persa
61-76:
neque quadrupulari me volo, neque enim
decet
sine meo periclo ire aliena ereptum bona
neque illi qui faciunt
mihi placent. planemque loquor?
nam
publicae rei caussa quiquomque id facit
magis quam sui questi animus induci potest
eum esse civem et
fidelem et bonum.
sed si legerupam qui
damnet, det in publicum
dimidium;
atque etiam in ea lege adscribier:
ubi
quadruplator quempiam iniexit manum,
tantidem ille illi
rursus iniciat manus,
ut aequa parte prodeant ad trisviros:
si id fiat, ne isti faxim nusquam appareant
qui hic albo rete aliena oppugnant bona.
sed
sumne ego stultus qui rem curo publicam
ubi sint magistratus quos curare oporteat?
Il comico attribuisce al parassita
Saturnione una feroce invettiva contro i quadruplatores,
nel corso della quale allude ad una manus
iniectio in quadruplum contro i faeneratores
(immediatamente esecutiva?)[40],
a legittimazione generale, in cui la condanna al quadruplo andava per intero a
vantaggio dell’attore, manum
iniciens. Nel testo, Plauto, per bocca di Saturnione, commenta ironicamente
che il mestiere di quadruplator era
altamente redditizio, perché l’abuso del potere di azione,
riconosciuto a qualunque cittadino, consentiva di attentare impunemente,
cioè senza rischio, al patrimonio altrui[41],
e – precisa – non certo nel nome del pubblico interesse. Il
Sarsinate, perciò, propone una riforma: che il denunziante dia la
metà della condanna all’erario, e che ogni qualvolta un quadruplator effettua la manus iniectio, l’iniectus
effettui a sua volta la manus iniectio nei
confronti del quadruplator, per
essere alla pari quando si compare dinanzi ai tresviri. Solo in questo modo, prosegue Plauto con le parole del
parassita, sparirebbero dalla circolazione quei tali che si servono
dell’albo del pretore come di una rete, per pescare nei beni del
prossimo.
Il Sarsinate non si esprime con molta chiarezza
su alcuni profili giurisdizionali e procedurali. In ordine alla manus iniectio menzionata nel Persa (così come in relazione ad
altre manus iniectiones per
particolari illeciti, all’epoca non passibili di persecuzione criminale),
dalla dettagliata descrizione della riforma auspicata dal comico risulta
verosimile (ma non certa[42]),
la competenza dei tresviri capitales
(su incarico stabile del pretore, o forse sulla base di un autonomo potere di
giudicare)[43].
Plauto non è esplicito neppure sulla natura della procedura (era una manus iniectio pura?) e sui suoi
presupposti; ma si può dedurre che la manus iniectio in quadruplum non colpiva la convenzione degli
interessi in misura illecita, bensì la loro esazione. Dunque, la
procedura esecutiva «presupponeva l’avvenuta riscossione da parte
del creditore degli interessi vietati, al cui ammontare andava rapportata la
misura della poena»[44].
In ogni caso, la procedura menzionata da
Plauto sembra appartenere al novero (già all’epoca vasto, a
giudicare dal tenore del testo[45])
delle azioni penali ‘private’ popolari, cioè esperibili da
qualunque cittadino, volte a «preservare l’osservanza di leggi a
tutela del pubblico interesse»[46].
Colpisce il riferimento operato da Plauto nel ‘Persiano’ alla
scarsa tutela del pubblico interesse (publicae
rei caussa), cui il comico suggerisce che nel futuro sia informata la
procedura in oggetto (e non più solo preordinata, dunque, alla tutela
degli interessi del tutto privati del delatore)[47].
Anche questo riferimento alla necessità di una riforma per fare sparire
«la triste genia» dei delatori (con la proposta di limitare al dimidium – dell’intera pena
dovuta dal colpevole – l’utile del quadruplator, destinando l’altra metà
all’erario, forse ad imitazione delle leggi greche, in forza delle quali
il delatore spesso riceveva la metà della pena pecuniaria[48])
richiama la prassi giudiziaria delle azioni popolari, «le quali
consentivano a lestofanti di promuovere un processo contro cittadini incorsi in
qualche violazione di norme penali o accusati di ciò»[49].
Ancora, è significativa nello stesso
senso la probabile competenza dei tresviri,
per quanto risulta ancora da Plauto[50],
nel procedimento in quadruplo contro gli usurai, così come per altri
illeciti in ordine ai quali l’ordinamento prevedeva una pena multipla
(quale il gioco d’azzardo): casi «tutti in qualche modo collegati
con il controllo dell’ordine cittadino»[51],
ambito nel quale si esplicavano le funzioni di ‘polizia’ dei tresviri capitales. Non sappiamo,
però, in quale fase del procedimento intervenissero i tresviri: se nella fase iniziale, o per
instaurare il processo di accertamento eventualmente promosso da colui che
aveva subito la manus iniectio (che
dai tresviri ci si recasse dopo la manus iniectio sembra suggerito
dall’espressione ‘ut aequa
parte prodeant ad trisviros’, allusiva ad un momento successivo
rispetto alla manus iniectio). Sotto
un profilo più generale, va comunque notato che questa mansione
giurisdizionale, in qualche misura, finiva per rapportarsi ai compiti dei tresviri nel campo della repressione
criminale, riferendosi, quindi, «se non ad illeciti pubblicistici
perseguiti penalmente (quanto possiamo essere sicuri della romanità di
tali costruzioni?)»[52],
almeno ad attività lato sensu di ‘controllo sociale’[53].
Nel passato, si tendeva ad assimilare
l’azione cui allude Catone con il rimedio descritto da Plauto, ma una
più attenta lettura complessiva dei brani qui all’esame ha
indotto, in tempi recenti, a ritenere piuttosto che l’azione predisposta
dai maiores rivestisse
caratteristiche diverse, rispetto alla procedura descritta nel
‘Persiano’[54].
Ritengo senz’altro più aderente al dettato delle fonti tale ultima
valutazione.
A mio giudizio, intanto, è probabile
che la condanna in quadruplum menzionata
da Catone fosse collegata ad un’azione privata penale più antica
del procedimento esecutivo per manus iniectionem a legittimazione generale descritto da Plauto: forse,
addirittura una legis actio (e non
necessariamente un ‘procedimento esecutivo’[55]),
esperibile in origine dalle sole vittime dell’usura – non da un quivis de populo – dopo il
pagamento degli interessi in misura illecita al creditore[56]
(una sorta di ‘azione di ripetizione’, di cui però non ci
è giunta traccia). E infatti, non va dimenticato che solo tra la fine
del III e l’inizio del II sec. a.C.[57]
la procedura in quadruplum contro i faeneratores per l’esazione di
interessi in misura illecita sembra essere divenuta esperibile da un quivis de populo (ove il diretto
interessato non avesse preso l’iniziativa): le nuove caratteristiche
procedurali, impresse all’antico rimedio, evidenziavano l’emersione
di interessi nuovi e più ampi, che travalicavano l’interesse
privato e individuale della vittima dell’usura. Di qui la manus iniectio quadrupli, caratterizzata
da natura, come si è accennato, ibrida, a cavaliere tra il
‘privato’ e il ‘pubblico’ (e non è neppure da
escludersi, anche su questo specifico punto, qualche contaminazione con i
diritti greci[58]).
Concordo nell’escludere – per
la totale assenza di dati testuali in tal senso – che l’azione con
condanna in quadruplo potesse consistere in un rimedio giurisdizionale
esperibile, dalla vittima dell’usura, anteriormente al pagamento degli
interessi ultra modum. Ciò non
significa, però, a mio giudizio, che fino alla comparsa delle exceptiones nella procedura formulare il
debitore potesse ottenere tutela giuridizionale esclusivamente dopo la
corresponsione degli interessi illeciti. La tesi tradizionale, in materia,
è che nel sistema delle legis
actiones, non sussistendo per il convenuto la possibilità di opporre
una exceptio[59], il debitore, chiamato in giudizio dal
creditore per il pagamento delle usure, non poteva che essere condannato al
pagamento degli interessi, benché illeciti; solo in un secondo momento,
dopo averli effettivamente prestati, avrebbe potuto esperire l’azione
penale, per ottenere la condanna in quadruplo del faenerator[60]
(e qualora vi avesse rinunciato, l’iniziativa sarebbe potuta essere presa
da un quivis de populo).
Questa ricostruzione mi sembra nel
complesso opinabile, sia perché presuppone l’identità dei
rimedi processuali, forse invece eterogenei, descritti rispettivamente da
Catone, Plauto, Festo, Pseudo Asconio, sia perché esclude
aprioristicamente che nel processo per legis
actiones la vittima dell’usura, convenuta in giudizio dal faenerator per il pagamento degli
interessi illeciti, fosse priva di qualsivoglia possibilità di
assoluzione. A tale riguardo, mi sembra che si debba prestare maggiore
attenzione alla recente fioritura di studi sui poteri del giudice, nelle legis actiones, nel campo delle
valutazioni discrezionali[61].
In altri termini, non reputo affatto improponibile l’ipotesi che il
debitore, convenuto in giudizio dal creditore, con una legis actio, per il pagamento di interessi in misura illecita,
potesse essere assolto dal giudice, in considerazione della violazione delle
disposizioni contenute nelle leggi antiusura, benché ancora non fosse
stato introdotto lo strumento processuale dell’exceptio.
Ignoriamo se il procedimento esecutivo nel
quadruplo, illustrato da Plauto, costituisse una forma evoluta del rimedio
introdotto già dai maiores nelle
XII Tavole, o se fosse piuttosto da ricondursi ad una lex Marcia di incerta datazione (352 a.C., o 196 a.C.?)[62],
di cui abbiamo notizia solo da Gaio:
Gai 4.23: Sed aliae leges ex
quibusdam causis constituerunt quasdam actiones per manus iniectionem, sed puram,
id est non pro iudicato: veluti lex Furia testamentaria … item lex Marcia
adversus faeneratores, ut si usuras exegissent, de his reddendis per manus
iniectionem cum eis ageretur.
Sembra questo l’unico testo in cui
viene precisato a chiare lettere che la manus
iniectio adversus faeneratores era pura,
ma va anche rilevato che tale caratteristica è ricondotta da Gaio alle
disposizioni contenute nella legge Marcia: colui che aveva corrisposto le usure
non dovute poteva attuare direttamente la manus
iniectio (non, dunque, previo processo di accertamento), per ottenere la
restituzione degli interessi ingiustamente pagati, e l’iniectus poteva procedere all’infitiatio senza l’intervento del vindex.
Si può notare che Gaio menziona la
semplice restituzione delle usurae pagate,
senza alcuna allusione al quadruplum.
E’ possibile che tale discrepanza tra le fonti sia solo apparente, e
possa trovare spiegazione attraverso la più attenta valutazione del
procedimento in oggetto. Caratteristica generale della manus iniectio pura era la facoltà riconosciuta
all’esecutato di promuovere un processo di accertamento anche senza
l’intervento del vindex. Nella
fattispecie, dunque, il faenerator avrebbe
potuto manum sibi depellere, non
essendo necessario l’intervento del vindex,
e pro se lege agere[63].
E’ verosimile che, se l’esecutato non avesse effettuato alcuna
contestazione, gli sarebbe stata imposta la semplice restituzione delle usure supra modum riscosse (‘reddere usuras’); mentre, qualora
fosse risultato soccombente nel processo di accertamento da lui stesso
richiesto (infitiatio), la condanna
sarebbe stata nel quadruplum.
Va a questo punto ricordata l’ipotesi
tradizionale, facente capo a Huschke[64],
secondo cui il riferimento al quadruplum
andrebbe valutato in termini di doppia liscrescenza (duplum del duplum):
dapprima il debitore che avesse resistito al pagamento degli interessi
stabiliti in misura illecita con un negozio venuto a conclusione, sarebbe stato
tenuto (con manus iniectio) a pagare
il doppio al creditore usurario (per la natura di lex minus quam perfecta della disposizione che aveva posto il
divieto), ma, in un secondo momento, il debitore che aveva corrisposto il duplum, avvalendosi della damnatio legale del faenerator, avrebbe conseguito da quest’ultimo, nell’eventualità
di sua opposizione all’esecuzione per la restituzione delle usurae illecite, il doppio del doppio,
cioè, appunto, il quadruplum.
Tale costruzione, però, non convince, per più ragioni:
innanzitutto essa presuppone – inverosimilmente – una prima infitiatio del debitore, circoscritta ai
soli interessi eccedenti il limite legale[65];
in secondo luogo, la fattispecie ipotizzata non collima con
l’attestazione gaiana, di una manus
inectio contro gli usurai, intesa alla semplice ‘restituzione’
degli interessi illecitamente riscossi (reddere
usuras); infine, quale considerazione
di carattere generale, occorre ricordare che nessuna fonte afferma per
esplicito la regola per cui a seguito di infitiatio,
successiva a manus iniectio pura, la condanna era stabilmente commisurata nella misura del
doppio[66].
La differente disciplina prima ipotizzata
(semplice restituzione delle usure a carico dell’esecutato – con manus iniectio pura – non infitians, condanna al pagamento del
quadruplo dell’esecutato condannato a seguito di infitiatio), invece, potrebbe anche spiegare, e comporre,
l’apparente contraddizione tra il resoconto gaiano del procedimento ex lege Marcia e l’attestazione in
Ulp. tit. pr.2 (dove alla lex Furia testamentaria, che Gaio
accosta e assimila alla lex Marcia,
si riconnette una poena quadrupli),
benché in linea generale non sia inconfutabilmente attestato dalle fonti
che l’esecutato infitians in
caso di soccombenza fosse condannato ad un multiplo prefissato[67].
Si potrebbe addirittura individuare nel procedimento esecutivo della manus iniectio pura (quando esente da
contestazione, e dunque finalizzato al semplice reddere, a carico dell’esecutato) il precedente storico
dell’azione di restituzione.
Se si deve riconnettere un qualche
significato al silenzio di Gaio sull’antica poena quadrupli descritta da Plauto, Festo e dallo Pseudo Asconio,
due sono le possibilità. O bisogna concludere che l’azione ex lege
Marcia aveva perso la sua originaria natura penale nel corso del tempo,
divenendo reipersecutoria, e mirando semplicemente alla restituzione delle usurae illecite pagate[68];
costruzione che, se da un lato si giustificherebbe tenendo presente come al
tempo di Gaio la corresponsione di interessi fosse largamente accettata dalla
prassi, come nelle leggi, per altro verso trova un ostacolo nella lettura
congiunta di Gai 4.23 con Ulp. tit.
pr.2. Oppure si deve ipotizzare che la lex
Marcia (se si attribuisce non al
In ogni caso, ritengo assai dubbio: a) che
la manus inectio quadrupli abbia
mantenuto inalterati i suoi caratteri nel corso dei secoli[71]
e b) che tale procedura costituisse l’unica forma repressiva privatistica
delle usure illecite.
A quest’ultimo riguardo, torno su una
considerazione già accennata nelle pagine precedenti: credo che si debba
inserire qualche elemento di dubbio nell’assolutezza della posizione
tradizionale, secondo cui, nel sistema processuale delle legis actiones, il debitore che avesse promesso il pagamento di
interessi in misura superiore al faenus
unciarium, se convenuto in giudizio per il pagamento del dovuto, sarebbe
stato senza meno condannato. Al contrario, possiamo supporre, allineandoci
sulle posizioni di Corbino, che almeno nella fase più evoluta del
processo per legis actiones, dunque
tra III e II sec. a.C., fosse uso, se non ancora di ammettere, da parte del
pretore, che il debitore convenuto in giudizio paralizzasse la pretesa
dell’attore in ordine al pagamento di usurae
supra modum, almeno da parte del giudice – dunque nella seconda fase
del processo –, accogliere difese «consentite dal pensiero
giurisprudenziale consolidato o da leggi delle quali il giudice dovesse tenere
conto»[72].
In altri termini, rientrava nei poteri del
giudice (non del magistrato!), che si trovasse di fronte a una lex imperfecta o minus quam perfecta, realizzare già, sulla base delle sue
libere valutazioni (pur senza appoggiarsi su di una ‘difesa’
– poi evolutasi in exceptio
– segnalata al magistrato nella fase in
iure), una efficace tutela dei concreti interessi dei debitori; per i quali,
certo, da un lato la repressione pubblicistica mediante multe edilizie (su cui
mi soffermerò più avanti) non poteva risultare satisfattoria (la
multa non veniva incamerata dalla vittima dell’usura!) e, per altro
verso, il tortuoso meccanismo della manus
iniectio quadrupli (ammesso che poi la pena del quadruplo fosse stata
lucrata dalla vittima dell’usura, e non da un terzo, più rapido
nel prendere l’iniziativa processuale) avrebbe implicato la
necessità di un iniquo pagamento preventivo. Una indiretta conferma
della verosimiglianza del quadro ora tracciato si può vedere nel
resoconto fornito dalle fonti circa le ragioni dell’uccisione del pretore
Asellio, verificatasi nell’89 a.C., sul quale mi soffermerò
più avanti.
Se si accetta questa ricostruzione, la manus iniectio in quadruplum deve essere
considerata come un rimedio soggetto a numerose modifiche, e dunque non
strutturato stabilmente nei termini in cui ci viene descritto da Plauto; ma
anche, probabilmente, a partire all’incirca dal III sec. a.C., come un
rimedio residuale, cui, cioè, faceva ricorso il malaccorto debitore che
avesse pagato le usure in quantità superiore alla misura consentita[73],
e poi, pentitosi, ne chiedesse la restituzione (lucrando il quadruplo
nell’ipotesi di soccombenza dell’esecutato infitians).
Quanto al concorso con la procedura
pubblica edilizia[74],
va sottolineata la scarsa credibilità dell’ipotesi secondo cui la manus iniectio quadrupli sarebbe stata
introdotta ex novo, come procedura a legittimazione
generale, solo nel
Va poi considerato l’intreccio di
questi profili repressivi con l’evoluzione del mutuo e della sua tutela
giurisdizionale. A partire dal III sec. a.C. (dunque successivamente al
plebiscito Genucio), in forza della poco conosciuta legge (o plebiscito?) Silia[75],
fu possibile agire per i crediti di danaro con la legis actio per condictionem[76],
una procedura più snella (non si richiedeva più il sacramentum, ma solo la sponsio tertiae partis), e soprattutto
caratterizzata dalla c.d. astrattezza processuale (mancava il richiamo alla
causa giustificativa, che invece era richiesta negli altri modus dichiarativi[77]).
A rigore, il creditore (e, specificamente, il mutuante) avrebbe potuto esperire
quest’azione per ottenere il pagamento del capitale, non invece delle usurae, che all’epoca dovevano essere stipulate a parte, con una stipulatio usurarum; in ipotesi, il
creditore poteva essere così scaltro di farsi promettere anche le usure
a titolo di capitale (se il credito era stato promesso mediante sponsio o stipulatio), o di documentare una consegna di denaro maggiorata
dell’importo delle usure (in caso di obligatio
contracta a suo tempo re),
approfittando della formulazione astratta dell’azione (nel processo
formulare, dell’intentio).
L’astrattezza processuale implicava infatti la possibilità di
evitare ogni allusione al concreto rapporto di credito, data «la non
obbligatorietà della nominatio
causae al momento di intentare l’azione»[78]:
tutto ciò che si richiedeva era l’asserzione dell’obbligo di
restituire. E non è da escludere, a mio parere, la possibilità
che questa azione (sulle misteriose ragioni della cui introduzione Gaio ancora
si interroga[79]),
così concepita, fosse stata applicata proprio per consentire ai faeneratores di vincolare, con obligationes contractae verbis, litteris o re, i debitori alla restituzione del capitale insieme agli
interessi, dopo che il plebiscito Genucio aveva vietato in assoluto il fenus.
Potrebbe dunque essere significativo,
proprio in questo senso, il dato che la legis
actio per condictionem fosse caratterizzata
«dall’astrattezza del formulario, non venendo in essa menzionata, a
differenza che nelle altre legis actiones
in personam, la causa del credito fatto valere»[80].
E’ già stato rilevato, in generale, che «l’astrattezza
processuale dovette costituire un importante momento di rottura
dell’ordine fino a quel momento costituito»[81].
E certamente l’introduzione di questa azione conferì ai creditori
la certezza che i debitori sarebbero stati tenuti all’adempimento
(‘certum est debitum iri’)[82],
forse anche se ne fosse stata oggetto la corresponsione di interessi in misura
illegale. Solo quando si cominciò ad ammettere l’incidenza delle
valutazioni discrezionali del giudice nelle procedure per legis actiones, o, nelle procedure formulari, con la proposizione
di una praescriptio pro reo[83]
e, in epoca più recente, di una exceptio[84]
che facesse riferimento allo specifico rapporto di mutuo sottostante e che
risultasse fondata su un divieto normativo[85]
(come sembra suggerito dall’episodio di Asellio), il debitore convenuto
in giudizio avrebbe potuto respingere la domanda dell’usuraio sulla base
dei divieti legislativi: l’inserimento della praescriptio nella formula,
prima dell’intentio, se
fondata, avrebbe precluso l’esame della pretesa azionata[86],
mentre la concessione dell’exceptio
avrebbe consentito al convenuto di ottenere l’assoluzione.
Nell’anno 352 fu approvata una lex de creandis quinqueviris mensariis[87].
Lo attesta solo Livio (7.21.5-8) e l’assenza di riscontri ha dato luogo a
non pochi sospetti e perplessità sulla storicità
dell’episodio[88];
certo, gli elementi di dubbio non mancano, a cominciare dalla occasionale
ingerenza dei comitia – a detta
di Livio – in una materia che generalmente esulava dalle sue competenze.
Ritengo opportuno soffermarmi brevemente su
questa disposizione, anche perché essa presenta particolare interesse ai
fini della individuazione dell’estrazione sociale di faeneratores e vittime dell’usura nel IV sec. a.C.
Seguiamo, innanzitutto, il racconto della
tradizione. Gli eventi che avevano preceduto l’emanazione della legge in
parola erano stati particolarmente turbolenti (Liv. 7.21.1-6), per le
sofferenze della plebe in relazione all’alto tasso di interessi cui era assoggettato
il prestito (Liv. 7.21.3: proprior dolor
plebi foenoris ingravescentis erat…; 6.14.7: mergentibus sempre sortem usuris, obruptum fenore esse; 2.23.1:
… inter patres plebemque flagrabat
odio, maxime propter nexos ob aes alienum). Si può subito osservare
che, evidentemente, il caput de aere
alieno approvato circa quindici anni prima tra le leggi Licinie Sestie non
aveva alleviato il peso dei debiti[89].
Così continua Livio: considerato che
la questione del prestito a interessi era in quel momento la sola a generare
disunione, si decise di conferire al problema della estinzione dei debiti carattere di interesse pubblico (è
degna di nota l’espressione liviana solutionem
alieni aeris in publicam curam verterunt). La coppia consolare composta dal
patrizio (dall’atteggiamento democratico) P. Valerio Publicola e dal
plebeo – di cui si ricordano altri interventi in materia di res fenebris[90]
– Caio Marcio Rutilio (la cui famiglia riscuoteva consensi anche presso i
patrizi[91])
propose la creazione di un collegio di magistrati straordinari (dunque non
sottoposti al limite dell’annualità), i mensarii, a composizione mista (tre plebei e due patrizi[92]),
cui affidare il compito (rem
difficillimam, precisa Livio[93])
di risolvere la questione dei debiti, e questa volta non attraverso attività
giurisdizionali repressive, ma con l’ausilio della res publica: si trattava, dunque, di una iniziativa del tutto
nuova, ricalcata su modelli in uso nel mondo ellenico[94].
I cinque mensarii avrebbero dovuto
fornire, con l’intervento dello Stato, anticipazioni ai debitori morosi
in grado di offrire idonee garanzie, o assisterli nella cessione dei loro beni,
dopo averne effettuato una giusta valutazione (di interesse è il
richiamo all’aequitas):
Liv. 7.21.5-6:
…inclinatis semel in concordiam animis novi consules faenebrem quoque
rem, quae distinere una animos videbatur, levare adgressi solutionem alieni
aeris in publicam curam verterunt quinqueviris creatis, quos mensarios ab
dispensatione pecuniae appellarunt… fuere autem C. Duilius, P. Decius Mus,
M. Papirius, Q. Publilius et T. Aemilius.
Liv. 7.21.8: …tarda
enim nomina et impeditiora inertia debitorum quam facultatibus aut aerarium
mensis cum aere in foro positis dissolvit, ut populus prius caveretur, aut
aestimatio aequis rerum pretiis liberavit, ut non modo sine iniuria sed etiam
sine quaerimoniis partis utriusque exhausta vis ingens aeris alinei sit.
L’iniziativa era volta a offrire ai
cittadini modalità agevoli per l’estinzione di debiti già
scaduti[95],
e non a predisporre misure per i debiti futuri (con illusorie riduzioni dei
tassi di interesse). D’altronde, la disposizione aveva di mira anche la
restituzione del capitale, non il solo problema degli interessi. I quinqueviri esercitarono il loro mandato
nel Foro, ed agirono – è stato notato – come banchieri di
una temporanea banca di prestito dello Stato, nel cui nome espletarono le
operazioni previste dalla legge. Essi non mettevano in discussione il diritto
acquisito dai creditori, ma offrivano ai debitori, che “per
trascuratezza” non avevano estinto i debiti scaduti, la
possibilità di liberarsi con il denaro anticipato dall’erario (ma
a condizione che fossero in grado di offrire pubblica garanzia); oppure, ai debitori che volessero cedere le
proprietà, proponevano una stima equa dei beni, di modo che il creditore
ricevesse in pagamento il fondo o il bene mobile stimato (presumibilmente, a
seguito di vendita forzosa)[96].
Dunque, il tesoro dello Stato anticipava ai
morosi le somme necessarie per l’estinzione del debito (il ricorso al
prestito pubblico era frequente nel mondo ellenico); ma ciò solo a
condizione che costoro potessero garantire il rimborso. Pare che i creditori
avrebbero invece dovuto accettare una dazione in luogo del pagamento (una sorta
di datio in solutum necessaria)[97],
qualora i morosi avessero preferito offrire beni (equamente stimati dai mensarii) in cambio del denaro dovuto.
Dalla valutazione complessiva del resoconto
liviano risulta chiaro che questa disposizione aveva di mira non l’alleviamento
delle sofferenze della plebe povera, vessata dagli usurai, bensì la
sollecitazione del pagamento di debiti scaduti contratti da cittadini
benestanti, che tentassero di frodare i creditori occultando i propri beni. Gli
scaltri morosi, usufruendo del prestito pubblico, o cedendo i loro beni,
avrebbero evitato la temuta esecuzione personale; d’altra parte, anche ai
creditori poco avrebbe giovato rifarsi sul corpo di un debitore agiato (dal
momento che i beni sarebbero rimasti ai figli dell’insolvente[98]).
Che l’operazione riguardasse ceti
piuttosto elevati della popolazione si evince dall’accenno liviano alla
‘trascuratezza’ dei morosi, inertia
debitorum (in luogo della ‘impossibilità’ per miseria: quam facultatibus), dal presupposto
della pubblica garanzia, per il conseguimento del finanziamento statale (gli
indigenti non avrebbero potuto garantire in alcun modo il rimborso del debito
pubblico), infine dalla possibilità di liberazione dal credito mediante
cessione delle proprietà stimate[99];
potrebbero rivestire un qualche significato nello stesso senso anche
l’‘anomalo’ intervento dei comitia con una delibera popolare su una materia che restava
generalmente al di fuori della sua competenza[100],
nonché il notevole rischio assunto dallo Stato in questa operazione di
mutuo garantito (si noti che Livio non fa alcun cenno alla restituzione delle
somme prestate). In linea generale, conferma ulteriormente questa lettura della
vicenda quanto afferma il Patavino per gli anni immediatamente successivi
l’incendio gallico (
E’ significativo che la prima deroga
alla tradizionale regola dell’esecuzione personale fosse stata introdotta
per venire incontro all’indebitamento di proprietari terrieri. Le
difficoltà nella individuazione del patrimonio immobiliare di debitori
benestanti, da parte dei creditori, poteva derivare dall’assenza di un
‘catasto’ aggiornato (l’ultima operazione censitaria era
stata effettuata nel 403 a.C.), congiunta, ovviamente, alla scaltrezza e alla
mala fede dei mutuatari.
Rilevanza ed estensione
dell’operazione furono enormi: l’assegnazione ai creditori dei beni
immobili dei debitori morosi, da parte dei mensarii,
creò una tale incertezza nelle proprietà, da rendere necessaria
l’elezione della coppia censoria nell’anno successivo (con
riferimento al 351 a.C., Liv. 7.22.6: … quia solutio aeris alieni multarum rerum mutaverat dominos, censum agi
placuit).
Comunque, l’opera dei magistrati
straordinari, conclusasi sine iniuria[102] e sine
quaerimoniis, fu apprezzata a tal punto che i loro nomi vennero menzionati
in tutti gli annali (Liv. 7.21.6: …ut
per omnium annalium monumenta celebres nominibus essent…)[103];
stupisce, quindi, che successivamente il procedimento non fosse stato
riattivato. Al contrario, si scelse di tornare al vecchio metodo dei divieti
legislativi: pochi anni dopo fu votato il plebiscito de foenore semiunciario[104],
con cui si dimezzava il prestito a interessi.
Un provvedimento analogo, almeno in parte,
a quello ora illustrato fu fatto applicare solo molti anni dopo, da Cesare, nel
49 a.C.[105]:
secondo la narrazione del dittatore, per rimediare alla crisi del credito, con
il decreto (forse identificabile nella lex
Iulia de pecuniis mutuis)[106] si stabilì, con riguardo alle
precedenti obbligazioni da mutuo rimaste inadempiute, che i debitori potessero
pagare con i loro fondi, anziché in denaro. Alle parti in lite sarebbero
stati nominati arbitri, con l’incarico di effettuare la stima dei beni
mobili e immobili dei debitori, rivalutati secondo i prezzi in vigore anteriormente
allo scoppio della guerra civile, e di provvedere al trasferimento di tali beni
ai creditori[107].
Nell’intervento, così come
descritto da Cesare, taluni hanno visto un precedente della lex Iulia de bonis cedendis, promulgata
da Augusto nel
Complessivamente, non sembra, comunque, che
il decreto avesse disposto propriamente una cessio
bonorum (dal momento che la cessio
bonorum non realizzava un trasferimento della proprietà dei beni,
consentendo solo di ottenere soddisfazione attraverso la venditio bonorum)[112],
né una espropriazione con successiva assegnazione ai creditori (non vi
è alcun elemento, nelle fonti, per sostenere tale tesi); il
provvedimento del
Accanto alle già illustrate
procedure rimesse all’iniziativa privata (esercizio di un’actio in quadruplum e una sporadica
‘cessione dei beni’[116]),
risulta l’esistenza di una procedura pubblica affidata agli edili.
In generale, gli edili, se curuli,
comminavano multe nell’esercizio del potere coercitivo (multam dicere), proprio dei magistrati
patrizi; ma la multae inrogatio si
affermò originariamente come l’esercizio di un generico potere
giurisdizionale da parte dei tribuni, in progresso di tempo svolto
congiuntamente all’assemblea della sola plebe ed esorbitante dai
‘limiti legali’ (vera e propria ‘Criminalstrafe’)[117].
Si è ipotizzato che già in età predecemvirale le leggi Aternia Tarpeia del 454 e Maenenia Sestia del
Gli edili della plebe, dunque, su incarico
dei tribuni[121],
potevano comminare multe; ma solo successivamente alle XII Tavole si consolidò
la prassi dell’instaurazione di uno iudicium
populi, quando l’importo delle ammende superava la misura della multa maxima (fissata in tremilaventi
assi, ovvero in trenta buoi e due pecore, dalla legge Menenia Sestia[122]).
Anche gli edili curuli (istituiti dal
patriziato nel 367, con funzioni di carattere ‘amministrativo’,
forse omologhe a quelle già spettanti agli edili plebei, e la cui
efficacia non si dispiegava nei confronti della sola plebe[123])
presero ad esercitare il più rilevante tra i compiti affidati agli edili
plebei, cioè quello di perseguire i rei di crimini comuni con
l’irrogazione di ammende; ma questa funzione si svolse non apud plebem, bensì al cospetto
del comizio tributo[124].
E’ importante ricordare, per meglio comprendere la natura ‘politica’
dei processi edilizi per usura, che l’edilità curule divenne
accessibile ai plebei forse già nel
Sembra, poi, ancora da discutere la
questione se si possa correttamente qualificare ‘giurisdizionale’
la funzione svolta dagli edili nella irrogazione delle multe. Sul punto,
è opinione diffusa, ma non corroborata da espliciti dati testuali, che
la ‘giurisdizione’ penale dell’edilità (plebea e
curule) avesse a suo fondamento il potere ‘amministrativo’, a
questa ab origine riconosciuto[128].
Quanto alla correlazione instaurabile tra
la manus iniectio e le sanzioni
penali pubblicamente irrogate dagli edili con frequenza, a carico dei faeneratores, tra il IV e il II sec.
a.C., il silenzio delle fonti non consente di giungere sul punto a conclusioni
sicure. Ma non vi è ragione di escludere che l’azione privata potesse
astrattamente cumularsi con quella penale pubblica[129].
Lo studio degli interventi edilizi nella
repressione delle usure, illustrati da Livio e da Plinio il Vecchio[130],
rivela che a partire dal
Come si è esposto, all’epoca
coesistevano probabilmente due procedure, contro gli usurai: una, rimessa
all’iniziativa privata e consistente in una manus iniectio forse già
immediatamente esecutiva, esercitabile solo dopo il pagamento delle usure
illecite; la seconda, pubblica e facente capo all’attività
giurisdizionale degli edili. L’imposizione delle multe edilizie si
colloca nel periodo in cui la questione dei debiti rappresentava uno dei temi
principali delle rivendicazioni plebee (oltre alle vicende delle secessioni, va
anche considerato il significato della legge Petelia Papiria de nexis). Ma desta meraviglia che la
prima notizia sulle multe edilizie a carico di usurai risalga al
Sta di fatto che i primi resoconti su processi
contro gli usurai risalgono agli anni immediatamente successivi alla lex de quinqueviris mensariis (approvata
otto anni prima) e al plebiscito del 347 d.C., il plebiscitum de foenore semiunciario[137],
con il quale, solo tre anni prima, su iniziativa dei tribuni della plebe, la
misura degli interessi massimi consentiti era stata dimezzata, concedendosi
inoltre la possibilità di rateizzare in tre anni il pagamento del
dovuto, purché la quarta parte fosse pagata immediatamente. La plebe non
rimase soddisfatta da questo nuovo limite (Liv. 7.23.3-4: …levatae-supersessum), ma, evidentemente,
neppure gli usurai. Con una frase laconica, Livio riferisce che nel 344 furono
emesse severe condanne contro usurai chiamati in giudizio dagli edili:
Liv. 7.28.9: Iudicia eo anno
populi tristia in faeneratores facta, quibus ab aedilibus dicta dies esset,
traduntur.
Le pene inflitte, superiori
all’importo della multa maxima,
furono dunque considerevoli. Ma le multe cui vennero condannati i faeneratores non dovettero essere sempre
di importo elevato, a giudicare dal fatto che negli ultimi anni del IV sec.
a.C. l’edile Gneo Flavio, con il ricavato delle multe da lui stesso
imposte ai faeneratores, fece costruire solo un tempietto di
bronzo nella Graecostasis[138]. Livio, viceversa, descrive come
processi popolari tristia quelli del
344, conclusisi con l’imposizione di ammende talmente elevate, da
consentire la realizzazione di opere di particolare grandezza[139].
La scarna notizia del Patavino riguarda però un periodo, ben precedente
quello di Gneo Flavio, nel quale il fenomeno dell’usura doveva avere
raggiunto livelli talmente intollerabili da richiedere punizioni esemplari: nei
tre anni successivi alla emanazione del plebiscito che dimezzò il tasso
legale degli interessi, si verificarono, evidentemente, frequenti violazioni di
notevole entità, che indussero gli edili a comminare multe superiori a
quella maxima, poi confermate dal
popolo[140].
I creditori, dunque, non si erano adattati
alle nuove disposizioni sul faenus
semiunciarium. D’altra parte, negli stessi anni il fenomeno della
richiesta di prestiti di denaro era verosimilmente molto aumentata. Le ragioni
di questa recrudescenza dell’usura, negli anni a partire almeno dal 347 e
fino al 344, sono forse attribuibili da un lato alle disastrose conseguenze
dell’incendio gallico (si registrò infatti un ritorno a prestiti
di consumo, al cui ricorso non riuscirono a sottrarsi, all’epoca, neppure
i più benestanti, secondo quanto attesta Livio)[141],
cui neppure la misura straordinaria del 352 era riuscita a porre completamente
rimedio, dall’altro lato al progressivo rifiorire degli scambi, dei
commerci transmarini, e quindi ad una maggiore circolazione di aes signatum[142] . Questo secondo fenomeno ci richiama
però a una tipologia di prestiti non di consumo, ma finalizzati
all’investimento, dunque coinvolgenti gli strati più elevati della
plebe urbana: quanti ricorrevano al faenus
non più solo per sopravvivere, ma per avviare attività
economiche, avevano bisogno di prestiti di
lunga durata: perciò, per
queste specifiche e nuove esigenze, anche il faenus semiunciarium doveva sembrare eccessivamente gravoso[143].
D’altronde, l’apparente assenza, anche in questo caso, della
sanzione della nullità dell’atto concluso in violazione del divieto,
o di sanzioni penali, confermerebbe la natura demagogica della lex fenebris del
I primi tristia
iudicia adversus faeneratores furono dunque celebrati nel 344. Due anni
dopo, nel 342, si verificò una secessione fra le legioni di stanza in
Campania e poste sotto il comando di C. Marcio Rutilio, connessa con il
problema dei debiti[145].
Tra i tentativi di sedare la rivolta, vi fu quello dei patrizi e del senato
che, mediatore Valerio Corvo, accettò di decretare la remissione totale
dei debiti (ma si sarebbe trattato di una misura eccezionale[146]),
e quello del tribuno Genucio, il quale propose un plebiscito sul divieto
assoluto di prestare denaro a interesse
Liv.
7.42.1: Praeter haec invenio apud quosdam L. Genucium tribunum plebis tulisse
ad plebem, ne faenerare liceret …
Tac. ann. 6.16: …postremo vetita
versura…
In questa disposizione[147],
alcuni hanno visto l’origine della gratuità del mutuo (e nella stipulatio usurarum il mezzo più
semplice ed immediato per eludere la norma)[148];
aggiungerei, alle ipotesi già formulate nella letteratura sul tema, che
forse nella successiva legge Silia, introduttiva della legis actio per condictionem, si può vedere la
predisposizione di un efficace strumento di esazione delle usure, volto a
contrastare l’operatività del plebiscito Genucio (almeno fino a
quando i giudici non cominciarono ad accogliere le difese dei convenuti, fondate
sulla violazione dei divieti legislativi)[149].
In favore della veridicità della
notizia liviana – e dunque di una proibizione legislativa del faenus in assoluto – si può
addurre la gravità della contingenza da cui il c.d. plebiscito Genucio
sarebbe scaturito[150];
ma nessuna fonte ci informa con chiarezza sul punto se la proposta di Genucio
fosse stata effettivamente approvata dalla plebe e se poi avesse ottenuto
l’auctoritas patrum, rivestendo
valore vincolante per tutto il popolo. Quest’ultima eventualità si
prospetta improbabile, perché l’espressione liviana tulisse ad plebem (7.42.1), congiunta
con la formula di poco successiva item
aliis plebis scitis (7.42.2) e con i dubbi espressi dallo stesso Livio
nelle parole conclusive del suo resoconto sull’intervento di Genucio (quae si omnia concessa sunt plebi),
lascia al massimo ipotizzare un’approvazione plebiscitaria.
D’altronde, sembra difficile credere
che una disposizione così drastica incontrasse il favore dei ceti
egemoni: essa sarebbe anzi entrata in rotta di collisione tanto con gli
interessi delle famiglie patrizie, tanto con le nuove mire degli esponenti
facoltosi della plebe, che avrebbero visto ostacolata l’agognata ascesa
economica dal venir meno di una attività particolarmente redditizia. Non
vi sono dubbi, infatti, sulla progressiva diversificazione di censo, di
condizioni di vita, di attività economiche, di esigenze ed obiettivi,
all’interno del gruppo plebeo, nel corso del IV sec. a.C., e
sull’affermarsi, almeno a partire dal 367 a.C., di una élite
plebea che cominciò a far fronte comune con alcuni esponenti del
patriziato[151].
Ma, forse, l’aggravarsi della piaga dell’indebitamento e la
gravità della rivolta del 342 furono tali da travolgere e sovrastare
persino gli interessi economici dei ceti egemoni: lo scotto da pagare per il
ripristino della concordia fu l’accettazione dell’invisa regola
della gratuità del prestito.
Le notizie sulle multe edilizie successive
ci riportano addirittura agli ultimi anni del IV sec., ed è strano che
di fronte ad un divieto assoluto di faenus
non vi fossero stati tentativi di aggirare o di violare apertamente una norma
così severa. Evidentemente, i faeneratores
erano ricorsi alla stipulatio usurarum,
o forse già al nuovo espediente della intestazione dei crediti a stranieri,
o, ancora, avevano trovato una comoda soluzione nell’esercizio della legis actio sacramenti in personam,
probabilmente anch’essa astratta[152],
come la successiva legis actio per
condictionem. Comunque, i successivi episodi sono ricordati – come
accennato – da Plinio il Vecchio[153],
il quale allude a multe assai modiche imposte dall’edile curule Gneo
Flavio nel 304; poi da Livio[154]
per l’edilità curule di Cneo e Quinto Ogulnio del
Quest’ultimo intervento edilizio (
Liv.
35.7.2-5: Instabat enim cura alia, quod civitas faenore laborabat et quod, cum
multis faenebribus legibus constrincta avaritia esset, via fraudis inita erat
ut in socios, qui non tenerentur iis legibus, nomina transcriberent; ita libero
faenore obruebantur debitores. Cuius coercendi cum ratio quaererentur, diem
finiri placuit Feralia quae proxime fuissent, ut qui post eam diem socii
civibus Romanis credidissent pecunias profiterentur, et ex ea die pecuniae
credatae quibus debitor vellet legibus ius creditori diceretur. Inde postquam
professionibus detecta est magnitudo aeris alieni per hanc fraudem contracti,
M. Sempronius tribunus plebis ex auctoritate patrum plebem rogavit plebesque
scivit ut cum sociis ac nomine Latino creditae pecuniae ius idem quod cum
civibus Romanis esset.
Il racconto dà adito a non poche
perplessità. Innanzitutto, non è spiegato quale fosse il
vantaggio dell’autodenuncia posta a carico degli alleati intestatari di
crediti nei confronti dei cittadini romani, ovvero a quale inconveniente
andassero incontro gli alleati che omettessero la denuncia (la perdita del
credito?). Inoltre, poco chiaro è il ruolo della transscriptio (a persona in
personam, come si deduce dall’espressione liviana ut in socios …nomina transcriberent)
nella frode illustrata dallo storico patavino, dal momento che la transscriptio a persona in personam non
era uno strumento tecnicamente idoneo a realizzare una novazione soggettiva
attiva: il creditore non poteva essere che il proprietario del codex accepti et expensi[157].
Eppure, il racconto liviano allude chiaramente ad una interposizione fittizia
nel lato attivo del rapporto (al posto di un creditore romano, si faceva
figurare come creditore apparente uno straniero)[158].
E’ stato al riguardo osservato che le leggi romane antiusura sarebbero
state più semplicemente ed efficacemente aggirate se si fosse fatto
risultare come creditore il socio italico sin dall’inizio (dunque, senza
ricorso ad alcun nomen transscripticium).
La considerazione appare pienamente condivisibile per due ordini di ragioni: in
primo luogo, prestare piena fede al resoconto liviano sull’applicazione
della transscriptio in socios implica
l’incerta conclusione che anche i socii
fossero muniti di codex accepti et
expensi; poi, si dovrebbe presupporre il consenso e la collaborazione del
debitore all’operazione[159].
In definitiva, sembra probabile che Livio avesse richiamato l’istituto
romano della transscriptio in modo
improprio e impreciso[160],
mentre si presenta molto più verosimile l’ipotesi che, per
aggirare le leges fenebres romane, i
creditori facessero figurare ab initiio i
socii compiacenti come creditori.
Nel tentativo di comprendere meglio i
meccanismi fraudolenti cui allude Livio, esaminiamo innanzitutto il contesto
storico in cui si collocano gli avvenimenti narrati.
Già il senato aveva stabilito (Liv.
35.7.2-5) che in occasione dei Feralia (21
febbraio) i socii creditori di
cittadini romani avrebbero dovuto farne formale dichiarazione, e da quel giorno
avrebbero ricevuto giustizia secondo le regole scelte dai debitori romani.
Questa notizia riferita da Livio va
verosimilmente intesa non nel senso che si riconosceva al debitore romano la
facoltà di scelta tra le varie azioni processuali romane applicabili
alla fattispecie (il cambiamento di rito, nell’eventualità che la
parte attrice avesse scelto una procedura diversa da quella gradita dal
convenuto, avrebbe creato troppa confusione), quanto piuttosto nel senso che il
debitore, convenuto in giudizio dal socio italico, avrebbe potuto invocare in
giudizio le leggi romane sull’usura, precedentemente inapplicabili nei
confronti dei creditori stranieri[161].
Per quanto concerne la determinazione del foro competente, è probabile
che già anteriormente al plebiscito Sempronio si applicassero le regole
del forum rei (se per attore e
convenuto non era competente la stessa autorità, la questione della
competenza andava risolta secondo il foro del convenuto) e del forum contractus (era competente
l’autorità del luogo dell’esecuzione, non quella del luogo
dove si era contratta l’obbligazione)[162].
Ma il numero esorbitante di denunzie dei
crediti rivelò un’entità della frode inizialmente
imprevista, e allora il tribuno M. Sempronio, ex auctoritate patrum, portò la questione dinanzi ai concilia plebis.
Con il plebiscito Sempronio (cui a taluni
è sembrato potersi collegare la notizia di Tacito ann. 6.16: … postremo
vetita versura…[163]),
si prevedeva, nei confronti dei creditori latini e soci italici, l’applicazione
dello stesso diritto valevole per i cittadini romani (… ut cum sociis ac nomine Latino creditae pecuniae ius idem quod cum
civibus Romanis esset). Al
debitore romano, così, nei confronti degli alleati, si assicurava una
protezione analoga a quella di cui egli godeva nei confronti dei creditori
concittadini. Il che non significava estendere le leggi romane antiusura ai socii Italici: gli alleati intestatari
dei crediti sarebbero stati giudicati secondo il diritto romano solo a
condizione che la controparte processuale fosse civis Romanus[164].
Attraverso tale revisione dei criteri di giurisdizione (misura, che, come
meglio si esporrà più avanti, andava apparentemente ben oltre le
esigenze della situazione contingente), si garantiva il rispetto dei divieti
contenuti nelle precedenti ‘leges
minus quam perfectae’ antiusura[165],
anche a fronte della nuova frode (intestazione dei crediti a stranieri) ideata
dai faeneratores romani. Questo il
circostanziato racconto di Livio:
Liv.
35.7.2-5: Instabat enim cura alia, quod civitas faenore laborabat et quod, cum
multis faenebribus legibus constricta avaritia esset, via fraudis inita erat ut
in socios, qui non tenerentur iis legibus, nomina transcriberent; ita libero
faenore obruebantur debitores. Cuius coercendi cum ratio quaererentur, diem
finiri placuit Feralia quae proxime fuissent, ut qui post eam diem socii
civibus Romanis credidissent pecunias profiterentur, et ex ea die pecuniae
creditae quibus debitor vellet legibus ius creditori diceretur. Inde postquam professionibus
detecta est magnitudo aeris alieni per hanc fraudem contracti, M. Sempronius
tribunus plebis ex auctoritate patrum plebem rogavit plebesque scivit ut cum
sociis ac nomine Latino creditae pecuniae ius idem quod cum civibus Romanis
esset.
Si deve tenere presente che già
antecedentemente al plebiscito Sempronio (dal
Invece, nelle liti tra cittadini romani,
all’epoca del plebiscito Sempronio, non era ancora (fino alla legge
Ebuzia, del
Questa, allora, la finalità del
senatoconsulto che precedette l’emanazione del plebiscito Sempronio:
riconoscere al debitore romano il diritto di essere giudicato secondo le leggi
(antiusura) valevoli tra Romani. Ciò significa, però, (e questa
deduzione conferma l’ipotesi precedentemente esposta) che nel diritto
romano già esistevano, in quegli anni, strumenti giurisdizionali idonei
alla tutela del debitore, ulteriori e diversi, rispetto alla procedura per manus iniectionem. Livio afferma
chiaramente che gli usurai romani presero a intestare i crediti agli stranieri
perché questi non erano soggetti alle leggi antiusura romane (quia non tenerentur iis legibus). Ma, se
il plebiscito Sempronio, per stroncare questa frode, aveva disposto di ius dicere, tra creditori stranieri e
debitori romani, secondo le leggi romane, significa che, antecedentemente al
193, le leggi antiusura nei tribunali romani erano applicate anche per
contrastare la richiesta giudiziale di usurae
supra modum, e potevano condurre all’assoluzione dei debitori.
Mi sembra senz’altro da escludere che
il rimedio giurisdizionale esteso con il plebiscito alle liti con stranieri
fosse il procedimento esecutivo della manus
iniectio quadrupli, attivabile dopo il pagamento delle usure (procedimento
al quale già prima del 193 gli alleati muniti di ius commercii erano probabilmente soggetti). Dal racconto liviano
emerge con chiarezza che tanto il senatoconsulto, quanto il plebiscito del 193
erano piuttosto intesi a bloccare l’esazione giudiziale degli interessi
da parte dei creditori stranieri (il censimento dei crediti di Latini e soci
nei confronti dei Romani non riguardava evidentemente pagamenti già
eseguiti!)[167].
Il riconoscimento ai debitori romani del diritto di invocare in giudizio le
leggi antiusura significa che in Roma già esistevano strumenti per
proteggere le vittima dell’usura dalla richiesta giudiziale di interessi
illeciti, e che dunque la tutela dei debitori non aveva necessariamente quale
presupposto il già avvenuto pagamento degli interessi vietati.
E’ però dubbio se tale
strumento di difesa nei confronti dei faeneratores
sia da ricercare nell’ambito delle legis
actiones o delle procedure formulari. Che il senatoconsulto e che il
successivo plebiscito Sempronio presupponessero l’ammissione di Latini e socii Italici all’uso tanto delle legis actiones quanto delle formule è, a mio avviso,
congettura verosimile, considerata l’antica concessione, a quelli, del commercium[168].
E tale strumento di tutela (diverso dalla manus
iniectio quadrupli), nelle procedure per
legis actiones, non poteva che essere la valutazione discrezionale da parte
del giudice privato[169];
invece, nelle procedure formulari, all’epoca del plebiscito Sempronio, la
praescriptio pro reo.
Naturalmente, la verosimiglianza di questa
conclusione si basa sull’ipotesi che già nelle legis actiones fosse ammessa la
possibilità di una sorta di difesa, a favore del convenuto in giudizio
per l’inadempimento di un obbligo assunto in violazione di un divieto
legislativo (benché introdotto attraverso una cd. lex minus quam perfecta, o addirittura imperfecta). E proprio con riferimento a tale sistema procedurale
acquista un senso ben preciso il mezzo impiegato dal plebiscito Sempronio per
sventare le frodi degli scaltri faeneratores.
Infatti, è stato osservato che per prevenire gli espedienti fraudolenti
degli usurai romani sarebbe stato sufficiente dichiarare applicabili a socii e Latini le leggi antiusura romane, anziché stabilire una
(ultronea) equiparazione tra stranieri e cives
quanto a ius pecuniae creditae[170].
In realtà, la struttura delle legis
actiones (a differenza delle procedure formulari) non avrebbe comunque
consentito l’applicazione delle leggi antiusura in favore del debitore
convenuto in giudizio, dal momento che costui non aveva facoltà di
formulare eccezioni. Mentre l’assoggettamento della parte attrice
peregrina (munita di commercium) allo
ius pecuniae creditae romano apriva
le porte alle valutazioni discrezionali del giudicante (in questo caso fondate
non solo sulle leggi antiusura violate, ma anche sulla ben più grave
rottura della fides).
Qualora invece si preferisse prestare
credito alla diversa ricostruzione, secondo cui il plebiscito Sempronio avrebbe
consentito ai debitori convenuti in giudizio da creditori latini o soci italici
di ottenere che il processo si svolgesse secondo il solo rito delle procedure
formulari (e non anche con le legis
actiones), allora lo strumento di difesa per la vittima dell’usura
andrebbe individuato nella praescriptio
pro reo (con riferimento alle valutazione del magistrato nella fase in iure e non più, come
congetturato per l’età precedente, del giudice, nella seconda fase
del processo).
Si può supporre che la mancanza di
notizie di pubblici processi per l’applicazione di multe edilizie,
segnalata prima come assai sospetta, sia da collegare all’uso, invalso
dopo la stangata inferta dal plebiscito Genucio, di intestare crediti con tassi
di interesse illeciti a stranieri, i quali, peraltro, non potevano essere
sottoposti neppure ai iudicia populi. Ma
dopo il plebiscito Sempronio i feneratores
smisero di rivolgersi a prestanome stranieri, tornando ad agire personalmente: e, una volta tornati allo scoperto, furono colpiti
con rinnovata severità dagli edili.
In definitiva, la tutela privata accordata contro
gli usurai, nel II sec. a.C., non colpiva ancora la mera convenzione di
interessi vietati. Verosimilmente, però, erano stati introdotti prima
nella prassi, poi attraverso l’editto pretorio, alcuni meccanismi
processuali idonei a bloccare la richiesta in giudizio del pagamento degli
interessi, in forza di una pattuizione contraria alle leges fenebres. Se il creditore intentava l’azione per il
pagamento di capitale e interessi (o dei soli interessi), nel sistema delle legis actiones il giudice poteva discrezionalmente
mandare assolto il convenuto, richiamandosi alla violazione delle leggi
antiusura da parte dell’attore. Con l’avvento della procedura
formulare, il debitore convenuto poteva far respingere (o non fare neppure
esaminare) la domanda dell’usuraio, mediante una praescriptio pro reo (poi evolutasi in exceptio), fondata su di un divieto legislativo. Se invece gli
interessi erano già stati pagati spontaneamente, si poteva ricorrere,
nei confronti dell’usuraio, alla manus
iniectio, che forse solo in caso di infitiatio
dava luogo ad una condanna nel quadruplo. Con il plebiscito Sempronio, leggi
antiusura e relativi strumenti di tutela processuale furono estesi ai rapporti
creditizi con gli alleati, in opportuna considerazione
dell’effettività del fenomeno, che ormai sconvolgeva una
collettività ben più vasta di quella individuabile nella civitas Romana.
Quanto fin qui ipotizzato in ordine alla
tutela processuale progressivamente accordata alle vittime dell’usura
può essere avvalorato dalla riflessione sulla oscura vicenda processuale
che, nell’89 a.C., condusse all’uccisione del pretore Asellio.
Appiano[171],
con dovizia di particolari, e più sinteticamente Livio[172]
e Valerio Massimo[173]
riportano questo episodio, della cui storicità, a mio giudizio, non
è dato dubitare. Nell’89 a.C., alcuni creditori si rivolsero al
pretore Sempronio Asellio per il riconoscimento dei loro diritti; secondo
Appiano, non essendo stato in grado di fronteggiare le contestazioni dei
debitori e di mediare tra le opposte esigenze, il magistrato avrebbe rimesso ai
giudici di decidere, in ordine agli interessi sui prestiti, o in base alle
consuetudini, o in base alla legge[174].
E’ in questo contesto che Appiano opera un riferimento ad una
‘antica legge’ – invocata dai debitori, nella vertenza in
oggetto –, con la quale si sarebbe vietato il prestito a interesse,
comminando una sanzione penale per
i trasgressori (il riferimento
è forse al plebiscito Genucio, o alla legge Marcia); ma i creditori
avrebbero insistito sulla consuetudine, non essendo certo loro conveniente
l’applicazione dell’‘antica legge’. Secondo Livio e
Valerio Massimo, invece, il magistrato Asellio avrebbe preso le parti dei
debitori. Comunque, tutti gli scrittori concordano sul tragico epilogo della
vertenza: i creditori, fomentati in modo determinante – precisa Valerio
Massimo – dal tribuno della plebe Lucio Cassio, uccisero il pretore
Asellio, nel corso di un sacrificio offerto a Castore e Polluce, assassinandolo
in una taverna dove si era rifugiato.
Non sappiamo come fu decisa la lite, e si
potrebbe riflettere meglio sui vantaggi che ai creditori avrebbe potuto
apportare la morte del pretore[175].
Ma la evidente natura di ‘reato d’impeto’ dell’omicidio
in oggetto sembra escludere ogni genere di programmazione razionale da parte
dei creditori indignati. Quanto allo svolgimento della procedura, va premesso
che ci troviamo qui senza dubbio nell’ambito di un processo privato; a
prestare fede ad Appiano, il creditore invocava la prassi, il debitore una
severa legge antiusura. La legge la cui applicazione era avversata dalla parte
attrice, per quanto antica, non poteva ritenersi abrogata per desuetudine[176];
e proprio perché non poterono efficacemente invocarne
l’abrogazione per desuetudine, i creditori, esasperati, «ricorsero
all’assassinio del pretore»[177].
E’ di difficile identificazione il
meccanismo processuale che dette adito alla violenta reazione dei creditori.
Appleton[178]
ipotizzava che ad agire, dopo il pagamento degli interessi in misura illecita,
fossero stati i debitori, contro i faeneratores,
con la procedura della manus iniectio ex
lege Marcia (
In astratto convince, d’altra parte,
anche la ricostruzione di Tilli[182],
condivisa da Poma[183],
secondo cui ad agire sarebbero stati invece i faeneratores, ai quali non erano stati corrisposti gli interessi,
concordati e promessi in misura illecita con una stipulatio usurarum (strumento utilizzato nella prassi per aggirare
la gratuità del mutuo). Verosimilmente, al fine di bloccare l’actio ex stipulatu promossa dai
creditori, i debitori avrebbero opposto una eccezione (o, forse, chiesto una praescriptio pro reo), adducendo la
frode della parte attrice, che pretendeva il pagamento di interessi, in
violazione del divieto posto dall’antica norma: contro la decisione del
pretore, di inserire una siffatta clausola nello iudicium, rimettendo la decisione al giudice, si sarebbe scatenata
la furia omicida dei creditori, perché, indubbiamente, la remissione al
giudice con una formula di tal fatta avrebbe implicato un esito sfavorevole
alla parte attrice.
Questa ipotesi potrebbe da un lato trovare
un ostacolo nell’astrattezza della stipulatio
usurarum (i debitori convenuti in giudizio avrebbero dovuto dimostrare che
il rapporto sostanziale consisteva in un mutuo oneroso, in violazione di
un’antica norma), e per altro verso non risultare aderente al dettato di
tutte le fonti citate: mentre da Livio e da Valerio Massimo risulta che il magistrato
aveva ‘preso le parti dei debitori’ (e questa impostazione è
compatibile con l’ipotesi della eccezione) da Appiano invece risulta che
il magistrato rimise al giudice la decisione se applicare la legge (divieto
assoluto o relativo di interessi) o la consuetudine (richiesta di interessi, o,
rispettivamente, di un tasso illecito di interessi). In altre parole, nel
racconto appianeo il magistrato non avrebbe preso posizione in favore
dell’una o dell’altra parte in causa (cosa che invece avrebbe fatto,
se avesse accettato di inserire l’eccezione del convenuto nella formula);
Asellio aveva lasciato impregiudicata la questione, rimettendo il tutto al
prudente apprezzamento del giudice.
Certo, la versione appianea dei fatti
verrebbe spiegata più facilmente se si pensasse all’esercizio di
una legis actio, procedura nella
quale non spettava al magistrato, nella fase in iure, accordare o negare l’eccezione al convenuto, ma al
giudice, nella fase apud iudicem valutare
discrezionalmente le ragioni delle parti; mentre nella procedura per concepta verba il magistrato doveva
decidere se accordare o meno l’eccezione al convenuto, condizionando
così l’esito della lite[184].
Il resoconto di Appiano si adatterebbe perfettamente all’ipotesi di un
procedimento per manus iniectionem puram,
cui avesse fatto seguito un processo mediante legis actio, che magari minacciava di sfociare nella condanna in quadruplum degli usurai. Tuttavia, nell’ambito di una
processo per legis actiones riesce
difficile immaginare come invece il magistrato avrebbe potuto evitare di
incorrere nelle ire dei creditori, prendendo le loro parti.
Allo stato delle attuali conoscenze, non
sembra di potere andare oltre. Certo pare solo che, per avere invitato il
giudice a scegliere tra la tesi della parte attrice (che invocava la prassi) e
la difesa dei convenuti (che faceva perno su una antica legge antiusura), e
dunque per avere rimesso al giudice la decisione se applicare la legge o la
consuetudine, Asellio fu ucciso. Il magistrato, insomma, peccò forse di
eccessivo idealismo e pagò con la vita per una presa di posizione che
rimase, in definitiva, un episodio isolato[185].
Ma perché a sobillare i creditori fu
un tribuno della plebe? L’atteggiamento assunto da Asellio andava a tutto
vantaggio dei debitori, contrastando gli interessi degli usurai: «La
perdita della lite avrebbe costituito un pericoloso precedente, capace di
limitare al solo capitale la riscossione dei crediti in scadenza ed annullando
così, oltretutto in un periodo di crisi, le aspettative di guadagno
della classe finanziaria»[186].
Gli interessi in gioco dovevano essere enormi, anche a giudicare dalla taglia
posta (invano) dal senato sul capo degli assassini. L’episodio potrebbe
allora inquadrarsi nell’ambito di un conflitto tra nobilitas indebitata ed equites,
detentori del potere finanziario: un indizio in questo senso si è visto
nella circostanza che a fomentare l’ira contro Asellio fu il tribuno
della plebe L. Cassio, il quale era stato collega di Papirio Carbone, ricordato
per avere proposto invano, proprio in quell’anno, una lex semiunciaria, dunque un ripristino
degli interessi legali[187].
Quando l’esigenza di norme antiusura cominciò ad avvertirsi
all’interno della nobilitas, le
leggi si approvarono senza bisogno di ricorrere a sedizioni o secessioni, e
anzi se ne anticiparono gli effetti attraverso un senatoconsulto: emblematico,
al riguardo, il racconto in Liv. 35.7, sopra esaminato. Ma in qualche occasione
gli usurai riuscirono ad avere il sopravvento sui patres: l’imposizione di una taglia sugli uccisori di
Asellio, da parte del senato, si rivelò un insuccesso, e l’anno
successivo si ottenne l’approvazione della lex Cornelia Pompeia unciaria, che ripristinò le usure, come
attesta Appiano[188],
in un tasso indeterminato.
I resoconti a noi giunti sulla uccisione di
Asellio non consentono di capire se i creditori avessero agito per ottenere il
pagamento delle sole usure (se il capitale era già stato loro
corrisposto), ovvero di capitale e interessi. In assenza di indicazioni nelle
fonti pervenuteci, entrambe le ipotesi restano possibili e la ricostruzione
della vicenda dipende, in ultima analisi, anche dalle ragioni che si vogliano
credere alla base della gratuità del mutuo romano. La gratuità
del mutuo potrebbe infatti farsi derivare proprio dal divieto di usure contenuto
nel plebiscito Genucio, che avrebbe reso necessario il ricorso alla conclusione
di un patto aggiunto (la stipulatio,
o sponsio, usurarum) ove si volesse gravare il mutuo di interessi[189];
oppure, negandosi la riconducibilità del mutuo gratuito al plebiscito
Genucio, si dovrebbe postulare l’esistenza, ab antiquo, tanto del contratto reale gratuito di mutuum (tutelato prima con la legis actio per condictionem, poi con le
actiones certae crediate pecuniae e certae rei), tanto di un mutuo oneroso contratto verbalmente (verbis, non re), il faenus (tutelato
anticamente dalla legis actio per iudicis
arbitrive postulationem e nel processo formulare dall’actio ex stipulatu)[190].
Se si fosse usata la stipulatio per ledere il divieto di prestito a interessi introdotto
dal plebiscito Genucio, il creditore avrebbe dovuto esercitare due azioni: una
per il capitale, l’altra per gli interessi.
Certamente, la vicenda di Asellio attesta
una disordinata stratificazione delle varie leggi limitatrici degli interessi e
la contestuale persistenza di una prassi che, avvalendosi di ogni espediente (stipulatio usurarum esigibili mediante actio ex stipulatu[191] astratta, promessa contestuale di
restituzione di capitale e interessi esigibili mediante legis actio per condictionem astratta, intestazione dei crediti
agli stranieri), largamente disattendeva tutte le leggi antiusura
progressivamente emanate; prassi di cui, a quanto traspare dall’episodio
di Asellio, nei tribunali persino magistrati e giudici dovevano tenere
largamente conto. In questo senso si è parlato – e a mio giudizio
a ragion veduta, anche se con una certa esagerazione – di una
‘inutilità’ delle leges
fenebres emanate nel corso del IV e III sec. a.C.[192].
Probabilmente, i debitori, nella vicenda in esame, avevano invocato la
disposizione, tra le varie che si erano susseguite nel tempo, a loro più
favorevole, benché forse superata da successive disposizioni meno
drastiche e, soprattutto, da una prassi largamente diffusa che in pieno la
disattendeva.
Questa drastica divaricazione tra dettato
normativo e prassi (fraudolenta), spesso avallata dai tribunali, viene
efficacemente descritta da Tacito, nel già citato passo in ann. 6.16.2 (multisque plebiscitis obviam itum fraudibus, quae totiens repressae
miras per artes rursum oriebantur), ove si afferma che alla proibizione di
‘versura’ fecero seguito
molti plebisciti volti a reprimere le frodi alla norma, frodi che tuttavia
puntualmente rispuntavano. Una testimonianza del pari significativa si ritrova
nel Curculio[193]
(ritenuto di epoca non anteriore al
Plaut. Curc.
507-511:
Hi saltem in occultis locis prostant, vos
in foro ipso;
vos faenori, hi male suadendo et lustris
lacerant homines.
rogitationes
plurumas propter vos populus scivit
quas vos
rogatas rumpitis: aliquam reperitus rimam;
quasi
aquam ferventem frigidam esse, ita vos putatis leges.
[I
lenoni, almeno, fanno i loro sudici affari di nascosto, voi usurai nel bel
mezzo del Foro. Quelli rovineranno gli esseri umani con le loro diaboliche
tentazioni, voi invece con lo strozzinaggio. Il popolo ha approvato contro di
voi più di una legge, ma voi le avete violate, trovate sempre modo di
aggirarle con l’inganno. Voi pensate che le leggi siano come
l’acqua bollente, che tanto, poi, si raffredda].
[1]
Così P. Capone, Gli interventi edilizi nella repressione
delle “usurae”, in Labeo 45,
1999, 197 s., sulle orme di un cospicuo filone storiografico: G. Salvioli, Il capitalismo antico. Storia dell’economia romana, Bari 1929,
15 ss., 193 ss.; F. M. Heichelheim,
Storia economica del mondo antico,
tr. it. Bari 1972, 849 ss.; J. Ph. Lévy,
L’economia antica, tr. it.
Napoli 1984, 67 ss.
[2] Per
l’epoca, sussiste un’ampia documentazione sulla fioritura della
produzione artigianale (assai significativa, al riguardo, la tradizione che
riconduce a Numa l’origine dei collegia
opificum: v. soprattutto Plut. Numa
17.1-4, su cui rinvio a quanto ho esposto in I più antichi divieti di riunione: gruppi, ripartizioni sociali
e potere regio nelle istituzioni romane arcaiche, in Index 29, 2001, 113 ss., specialm. 120 ss., con altra bibl.) e
tracce di una vivace economia di scambio (documentazione in F. De Martino, Storia economica di Roma antica, I, Firenze 1979, 10 ss.),
indirettamente dimostrata anche da una fase di apertura linguistica (G. Devoto, Storia politica e storia linguistica, in ANRW. I.1, 1972, 4457 ss.). D’altra parte,
l’antichità degli istituti del commercium
e del connubium costituisce
l’evidente prova della frequenza, in età monarchica, dei rapporti
commerciali tra Roma e le città latine: F. De Martino, Storia
economica, I, cit., 9; v. anche A. Torrent,
Moneda credito y derecho penal
monetario en Roma (s. IV a.C.-IV d.C.), in SDHI. 73, 2007, 111 ss., specialm. 120.
[3] Per
altri spunti, oltre alle ben note considerazioni tradizionali basate sui
rilievi archeologici, si l. M. Crawford,
Coinage and money under the Roman
Republic, London 1985, 19 ss.; L. Peppe,
Studi sull’esecuzione personale. I,
Debito e debitori nei primi due secoli
della repubblica romana, Milano 1981, 85 ss., sostiene che i disagi
gravarono prevalentemente sulla plebe rustica.
[4] F. De Martino, Storia economica, I, cit., 13 ss.; A. D. Manfredini, Tre leggi
nel quadro della crisi del V secolo, in Labeo
22, 1976, 198 ss.
[5] F. Cassola, I gruppi politici romani
nel III sec. a.C., Trieste 1962, 129 e passim;
L. Loreto, La censura di Appio Claudio, l’edilità di Cn. Flavio e la
razionalizzazione delle strutture interne dello stato romano, in AeR. 36, 1991, 197 ss.
[6] Liv.
4.13.1; Dion. Hal. 12.1.1; Zonar. 7.20; A. Pollera,
La carestia del
[8] C. Appleton,
Contributions à l’histoire
du prêt à intérêt à Rome. Le taux du
“fenus unciarium”, in RHD.
1, 1919, 467, con prec. bibl.
[9] M. Kowalewski,
Coûtume contemporaine et loi
ancienne, Paris 1893, 129 ss.; C.
Appleton, Le taux, cit., 470 ss.
[10]
Sull’anatocismo, ampia trattazione in M. G. Gómez Rojo, Historia
juridica del anatocismo, Barcelona 2003; C. Vittoria, Le
“usurae usurarum” convenzionali
e l’ordine pubblico economico a Roma, in Labeo 49, 2003, 291 ss.; F. Fasolino,
L’anatocismo
nell’esperienza giuridica romana, in Scritti in onore del prof. Vincenzo Buonocore, I, Milano 2005, 283
ss., ora in Studi sulle
“usurae”, Salerno 2006, 13 ss.
[11]
Plin. nat. hist. 18.12; Varro de re r. 2.19; Varro de vita pop. Rom., apud Non. Marc. 189 (ed. Müller).
Sull’attendibilità di tali testimonianze, rinvio a dati e bibl. in
L. Solidoro Maruotti, Datazione e caratteri dei più antichi
divieti usurari, in Problemi di storia
sociale nell’elaborazione giuridica romana, Napoli 1994, 23 e nt. 45.
[12]
Varro apud Gell. 16.2.7-8; Non. Marc.
54.5-6, sui cui contenuti v. C. Appleton,
Le taux, cit., 475 s.
[13]
L’entità degli interessi è frutto di ipotesi: secondo una differente
opinione, il calcolo del fenus unciarium
sarebbe da farsi su base annua (l’interesse dovrebbe allora intendersi
fissato nella misura dell’8,33% annuo), non mensile: cfr. le differenti
ricostruzioni di C. Appleton, Le taux, cit.; G. Billeter, Geschichte des Zinsfusses im griechisch-römischen Altertum bis auf
Justinian, Leipzig 1898, 115 ss.; V. Scialoja,
“Unciarium fenus”,
in BIDR. 33, 1922, 240 ss.; H. Zehnacker, “Unciarium fenus” (Tacite. Annales, VI, 16), in Mélanges P. Wuilleumier, Paris
1980, 353 ss., 362 (i quali tutti accolgono la costruzione qui proposta, che
deriva peraltro dall’interpretazione di Accursio e Gotofredo);
diversamente R. P. Maloney, Usury in Greek, Roman, and Rabbinic Thought,
in Traditio 27, 1971, 89; ma
riafferma la fondatezza della congettura tradizionale G. Cervenca, voce Usura (dir. rom.), in Enc.
dir. XLV, Milano 1992, 1126. Ulteriore discussione del tema infra, nel testo.
[14] C. Appleton, Le taux, cit., 472 ss.,
564 ss.; L. Peppe, Studi sull’esecuzione, cit., 94;
P. Capone, Gli interventi, cit., nt.
84, con altra lett.
[15] E
precisamente all’ottava tavola, almeno secondo la ricostruzione
tradizionale, in FIRA. I. 2a ed. 161
(XII tab. 8.18a). Annotazioni critiche in O. Diliberto,
Materiali per una palingenesi delle XII
Tavole, I, Cagliari 1992, 216.
[17]
Macrobio ricorda (Macrob. Sat. conv.
3.17.8) che spesso le leggi decemvirali per lungo tempo disattese vennero
riproposte dai Romani con leggi successive; d’altra parte, la presenza,
nel testo decemvirale, di una norma antiusura sembra corroborata da Cat. de agric. praef. 1, su cui infra.
[18] T. L. Comparette,
“Aes signatum”, in American Journal of Numismatic 52, 1918,
estr.
[19] V.
l’ampia esposizione e discussione dei dati in H. Zehnacker, La
numismatique de
[21] Fonti in A. D. Manfredini, Tre leggi, cit., 209 ss.; J. GagÉ, La “lex Aternia”, l’estimation des amendes
(“multae”) et le fonctionnement de la commission décemvirale
des 451-449 av. J.-C., in Ant. Class. 47, 1978, 70 ss.; v. anche
L. Solidoro Maruotti, Datazione e caratteri, cit., 18 s., e ora A. Torrent, Moneda, cit., 123, con
altra bibl.
[22] V.
soprattutto Dion. 5.53.2; 5.63.1; 5.64.2; 5.65.1, 5; 5.66-68.2; 5.69.1-3;
6.22.1-2; 6.25-90; Liv. 2.22-23. Per ulteriori dati rinvio a Datazione e caratteri, cit., 20 s.
[24] E. Ciaceri, Le origini di Roma,
Milano-Genova-Roma-Napoli 1937, 177 ss.; A. D. Manfredini, Tre leggi, cit., 202 nt. 12; M. Crawford, La moneta in Grecia e a Roma,
Roma-Bari 1982, 98.
[27] La
definizione della lex imperfecta,
come legge quae vetat aliquid fieri et, si
factum sit, nec rescindit nec poenam iniungit ei, qui contra legem fecit,
qualis est lex Cincia rell., ci deriva dalla integrazione proposta da Ph.
E. HUSCHKE a Ulp. tit. pr.1-2: F. Senn, “Leges perfectae, minus quam perfectae et imperfectae”,
Paris 1902; A. Guarino, L’ordinamento giuridico romano, 4a ed., Napoli 1980, 200 ss.
[28]
Così L. Di Lella, Il plebiscito Sempronio del
[30] Per
il rapporto tra monetazione e disagi sociali, verso la metà del IV sec.,
v. L. Pedroni, Censo, moneta e rivoluzione della plebe,
in MEFRA. 107.1, 1995, 197 ss.
[31]
Ampia dimostrazione in A. Storchi
Marino, “Quinqueviri
mensarii”. Censo e debiti nel IV secolo, in Athenaeum 81.1, 1993, 213 ss.
[32] L. Peppe, Studi, cit.,
94, sulle orme di M. Crawford,
Coinage, cit., e v. ora A. Torrent,
Moneda, cit., 124 s., 129.
[33]
E’ questa la terminologia adottata molto più tardi da Ulpiano, in
Tit. 1.2, che naturalmente qui si richiama solo per comodità espositiva.
Qualifica correttamente le leggi antiusura repubblicane come minus quam perfectae A. Torrent, Moneda, cit., 142.
[35] Ulp.
tit. pr. 2: Minus quam perfecta lex est quae vetat aliquid fieri, et si factum sit,
non rescindit, sed poenam iniungit ei qui contra legem fecit: qualis est lex
Furia testamentaria…; v. ora correttamente, con riferimento alle disposizioni
della legge Marcia, C. Russo Ruggeri,
Leggi sociali, cit., 365 e passim; A. M. Salomone, “Iudicati
velut obligatio”. Storia di un dovere giuridico, Napoli 2007, 98.
[37] Fonte
di cui sono ben note l’‘atecnicità’ e
l’imprecisione: S. Di Salvo, “Lex Laetoria”. Minore età e crisi sociale tra il
III e il II sec. a.C., Napoli 1979, 139 nt. 99, con altra bibl.
[38]
Sulla figura del quadruplator, v.
soprattutto F. De Martino, I “quadruplatores” nel “Persa” di Plauto,
in Labeo 1, 1955, 43 [anche in Id., Diritto
e società nell’antica Roma, Roma 1979, 477 ss.]; L. Di Lella, Il plebiscito Sempronio, cit., 13 ss.; Y. Revière, Les
“quadruplatores”: la répression du jeu, de l’usure et
quelques autres délits sous
[39] Sul
quale v. anche i cenni in C. Cascione,
“Tresviri capitales”. Storia
di una magistratura minore, Napoli
1999, 190 nt. 95, con altra bibl.
[40]
Dettagli e discussione su questo tormentato testo, in S. Di Salvo,
“Lex Laetoria”, cit., 139 e nt. 98; J. G. Camiňas, Sobre los “quadruplatores”, in SDHI. 50, 1984, 472 ss.; A. Pollera,
In tema di repressione del gioco
d’azzardo: dati e problemi, in St.
de Sarlo, Milano 1989, 323 ss.; C.
Russo Ruggeri, Leggi sociali, cit., 349 ss., dove altra
bibl.; cenni in A. M. Salomone, “Iudicati velut obligatio”,
cit., 195 s. Occorre tenere presente
che, secondo l’opinione più diffusa, nel passo sono cadute alcune
parole dopo il sed, e numerose sono
state le proposte di integrazione: v. soprattutto F. Bettini, Il parasito
Saturnio, una riforma legislativa ed un testo variamente tormentato (Persa, vv.
65-74), in Studi classici ed
orientali 25, 1977, 86 ss.
[41] Non
vi è però esplicita menzione della calumnia, come esercizio doloso di azioni infondate: D. Centola, Il “crimen calumniae”. Contributo allo studio del processo criminale
romano, Napoli 1999, 91 nt. 60.
[42]
Condivido, al riguardo, la cautela di C. Cascione
(“Tresviri”, cit., 185 ss.), nell’esegesi dei
passi plautini generalmente addotti (v. M. B. G. Niebuhr, Römische
Geschichte, Berlin 1874, 357 ss., con AA. ivi citt.) quale prova della
competenza dei tresviri, e di C. Russo Ruggeri, Leggi sociali, cit., 377 ss., la quale da un lato rileva
l’impossibilità di dimostrare una competenza generale dei tresviri a giudicare nella legis actio sacramenti, ma ammette,
sulla base della testimonianza di Plauto, la verosimiglianza dell’idea
che questi magistrati intervenissero nei procedimenti che si svolgevano per manus iniectionem: con riguardo alla
manus iniectio pura, probabilmente i tresviri giudicavano quando
l’esecutato si opponeva alla manus
iniectio (ibid. 381 ss.). In
tema, amplius infra, nel testo.
[43]
Pensava a una delega pretoria Th. Mommsen,
Römisches Staatsrecht, Leipzig 1887, II, 3a ed., 599 nt. 3; sulle sue orme, P. Girard, Histoire de
l’organisation judiciaire des Romains, Paris 1901, I, 177 ss.; mentre
ipotizza un autonomo potere di giudicare dei magistrati minori in oggetto F. Cancelli, A proposito dei “tresviri capitales”, in St. P. de Francisci, III, Milano 1956, 24 ss. Sui tre luoghi plautini
che attestano la competenza dei tresviri nel
procedimento della manus iniectio, C.
Cascione, “Tresviri capitales”, cit., 185 ss., con bibl.
[44] L. Di Lella,
Il plebiscito Sempronio, cit., 16, argomentando da Plaut. Truc. 760 ss. (quae adversum legem accepisti a plurimis pecuniam…) e, per
analogia, dai caratteri della manus
iniectio quadrupli accordata nei confronti di chi avesse acquisito un
lascito mortis causa in violazione
della lex Furia testamentaria (Gai
2.225; 4.23).
[45] Il
brano plautino «dimostra una diffusione alquanto ampia dell’azione
popolare, presumibilmente al di là delle sole ipotesi dell’usura e
dell’alea»: S. Di Salvo,
“Lex Laetoria”, cit., 138
s.
[47] Si
è ipotizzata la caduta, dal testo, dopo il sed, della «menzione di una legge, che costringa
l’attore a versare all’erario la metà del profitto»:
F. DE MARTINO, I
“quadruplatores”, cit., 32 s. Sul significato giuridico della
contrapposizione tra rei publicae causa e
suum quaestum, F. BOTTA, Legittimazione, interesse ed
incapacità all’accusa nei “publica iudicia”, Cagliari 1996, 130 s. nt. 220. Va
d’altra parte ricordato che la manus
iniectio costituì la forma procedurale più antica delle
azioni popolari: D. Mantovani, Il problema dell’accusa popolare.
Dalla “quaestio” unilaterale alla “quaestio” bilaterale, Padova 1989, 142.
[48] Che
la procedura per manus iniectionem fosse
effettivamente quella romana, mentre la riforma vagheggiata si ispirasse a
modelli greci, è ipotesi formulata da J. Partsch, Römisches
und griechisches Recht in Plautus “Persa”, in Hermes 45, 1910, 599. Non nutre dubbi
sulla rispondenza alle realtà romane dell’epoca del quadro sociale
e istituzionale risultante dal brano plautino all’esame, C. Russo Ruggeri (Tre leggi, cit., 331 s.,
con altra lett. orientata nello stesso senso), la quale opportunamente adduce a
sostegno di tale convinzione il contenuto dei due scolii dello Pseudo Asconio,
riportati supra, nel testo.
[50] Le sole
attestazioni sulla manus iniectio
quadrupli sono plautine, ed ancora in soli tre testi di Plauto si allude,
più o meno esplicitamente, alle competenze dei tresviri nell’ambito della manus iniectio: C. Cascione,
“Tresviri”, cit., 185, 194 nt. 114; diversa
impostazione in C. Russo Ruggeri, Leggi sociali, cit., 377 ss.
[53]
«Insomma, i giudizi che si tenevano davanti ai tresviri dovevano avere una qualche connotazione criminalistica»:
C. CASCIONE, Tresviri, cit., 195.
[54]
Sullo spunto di P. Capone, Gli interventi, cit., 202, v. gli
approfondimenti di C. Russo Ruggeri, Leggi sociali, cit., 357.
[55]
Sulla distinzione tra azione esecutiva nei confronti dello iudicatus, e procedimento esecutivo (attivabile senza precedente
processo, come nel caso delle ‘domande privilegiate’, fondate ad
es. sulla lex Publilia de sponsu: Gai
4.22) cfr. soprattutto L. Wenger,
Istituzioni di procedura civile romana,
tr. it. Milano 1938, 224 s.; ampia discussione del problema e della prec. lett.
ora in A. M. Salomone, “Iudicati velut obligatio”,
cit., 93 ss.
[56]
E’ noto che non tutte le azioni implicanti la condanna in quadruplo erano
a legittimazione generale: non lo erano le azioni pretorie furti manifesti (lo sottolinea S. Di Salvo, “Lex Laetoria”, cit., 136 nt. 91) e vi bonorum raptorum.
[57] Per
la comparsa, in questo periodo, delle prime azioni a legittimazione generale,
ampia trattazione in S. Di Salvo, “Lex Laetoria”, cit., 134 ss.; v. anche C. Russo Ruggeri, Leggi sociali, cit., 355.
[58] Con
riguardo al testo di Plauto, sulla possibile dipendenza da modelli greci,
sempre valide le trattazioni di U. E. Paoli,
Nota giuridica su Plauto (Plaut. Persa vv. 66-71), in IURA. 4, 1953,
174, e, più in generale, ID., Comici
latini e diritto attico, Milano 1962, 5 ss.; cui adde quanto precisano E. Lefèvre,
E. Stärk, G. Vogt-Spira, in “Plautus barbarus”, Sechs Kapitel zur Originalität des
Plautus, Tübingen 1991, ove altra bibl. Non mancano però
opinioni opposte, che riconducono esclusivamente al contesto romano i versi
plautini: ragguagli in C. Russo Ruggeri,
Leggi sociali, cit., 351.
[59]
Attualmente, si propende per l’ipotesi di un riconoscimento al convenuto
di questa possibilità anche prima della piena affermazione del sistema
formulare (ancora di recente A. Corbino,
Eccezione di dolo generale: suoi
precedenti nella procedura ‘per legis actiones’, in L’eccezione di dolo generale. Diritto
romano e tradizione romanistica, Padova 2006, 17 ss., con prec. lett.), ma
non certo prima del III sec. a.C.
[60] Cfr.
P. Capone, Gli interventi, cit., 200 s. e nt. 21, con ampio ragguaglio bibl.;
anche la tradizionale gratuità del mutuo era un ostacolo facilmente
aggirabile mediante il ricorso a una stipulatio
accessoria, avente ad oggetto le sole usurae,
oppure a un’unica stipulatio,
comprensiva di capitale e interessi: ibid.,
199 s., nt. 20.
[62]
Rassegna delle differenti opinioni ed ipotesi in L. Di Lella, Il plebiscito Sempronio, cit., nt. 68; P. Capone, Gli interventi, cit., 201
ss., 226 ss.; C. Russo Ruggeri, Leggi sociali, cit., 358 s., 365 s.; A.
M. Salomone, “Iudicati velut obligatio”, cit., 94 ss. e nt. 80.
[63] In
generale, su questa procedura, L. WENGER, Istituzioni,
cit., 225; nella specifica applicazione qui segnalata, F.
[64] Ph. E. Huschke,
Über das Recht des
“nexum” und das alte römische Schuldrecht, Leipzig 1846,
rist. Aalen 1980, 143 nt. 198; sulle sue orme G. Billeter, Geschichte,
cit., 218.
[65] Il
rilievo è di R. Cardilli, “Plebiscita et leges” antiusura,
Relazione svolta in occasione del MMD Anniversario del giuramento della plebe
al Monte Sacro, presso
[67] Che
in caso di manus iniectio pura la
condanna del soccombente fosse costantemente in duplum o in un altro multiplo è ipotesi non avvalorata dalle
fonti: lo sostiene comunemente la manualistica, sotto la suggestione di F. L. Von Keller,
Über Litis Contestation und Urtheil
nach klassischen römischen Recht,
Zürich 1827, 99, ma siffatta
ricostruzione è stata contestata, come infondata, da L. Wenger, Istituzioni, cit., 225 e
nt. 18. Per l’esame delle fonti v. anche J. Paoli, “Lis
infitiando crescit in duplum”, Paris 1933.
[70]
Fugaci spunti in O. Karlowa, Der römische Civilprocess zur Zeit der
Legisactionen, Berlin 1872, 347
ss., il quale però ipotizza che tale supposta azione di ripetizione per
l’ingiusto arricchimento esistesse già in età antichissima
e costituisse il ‘precedente storico’ della condictio, e in F.
[71]
Condivido al riguardo le convinzioni, solidamente argomentate, di C. Russo Ruggeri, Leggi sociali, cit., specialm. 357.
[72]
Così, con riferimento ai ‘precedenti’ dell’exceptio doli, A. Corbino, Eccezione, cit., 21; dalla lettura di Plaut. Rud. 1375-1382 emerge l’esistenza di strumenti di difesa
rispetto al comportamento doloso dell’avversario, esercitabili dal
convenuto, anche prima dell’introduzione dell’exceptio doli. Tali difese sarebbero state liberamente valutabili
nella fase apud iudicem.
[73]
Senza attendere di essere dal creditore convenuto in giudizio, sede nella quale
(apud iudicem) avrebbe potuto sperare
nell’attenta valutazione della fattispecie da parte del giudicante.
[75] Ne
siamo informati da Gai 4.17.b-19, ma è possibile che tanto la lex Silia, tanto la lex Calpurnia fossero plebisciti. Se la legge Silia, come sembra
probabile, prevedeva l’obbligo del giuramento (B. Santalucia, in Aa.Vv., Lineamenti di
storia del diritto romano, 2a ed., Milano 1989, 280), si può vedere
un collegamento con Plaut. Curc. 496;
Pers. 478; Rud. 14, con l’ulteriore ipotetica conclusione che la legge
Silia è anteriore al 197 o
[76] Su
cui ora ampiamente A. Saccoccio, “Si certum petetur”. Dalla
“condictio” dei “veteres” alle
“condictiones” giustinianee, Milano 2002, 12 ss., cui rinvio
anche per ragguagli bibl.
[77] La legis actio per iudicis arbitrive
postulationem, introdotta dalle XII Tavole e anch’essa probabilmente
astratta, si applicava ai soli debiti promessi mediante sponsio, non alle obbligazioni da mutuo.
[78] A. Saccoccio, “Si certum petetur”,
cit., 22, il quale espone anche le ragioni che a suo avviso portarono alla
scelta del meccanismo dell’astrattezza (53 ss.).
[80] L. Di Lella,
Il plebiscito, cit., 13 (sulla l.a.p.c. v. l’approfondita
trattazione in C. A. Cannata, Profilo istituzionale del processo privato
romano. I, Le “legis
actiones”, Torino 1980, 70 ss.). Contra
G. Tilli, “Postremo vetita versura”,
in BIDR. 86/87, 1984, 160 ss., il
quale rifiuta di credere nell’astrattezza dell’intentio della l.a. per
condictionem, e sostiene, di conseguenza, che le leggi Silia e Calpurnia
vadano inquadrate nell’ambito delle leges
fenebres, in quanto avrebbero introdotto nel sistema delle legis actiones un meccanismo molto
simile a quello dell’exceptio formulare,
a tutto vantaggio dei debitori convenuti in giudizio per il pagamento di
interessi illeciti.
[82] Cfr.
Gai 3.124-125: … certum est …
debitum iri rell., su cui ampiamente A. Saccoccio,
“Si certum petetur”, cit., 44 ss., 51.
[83] Gai
4.133; v. ora R. Fiori, “Ea res agatur”. I due modelli
del processo formulare repubblicano, Milano 2003, 18 ss., 28 ss.
[85] Si
v. la clausola edittale “Si quid
contra legem senatusve consultum factum esse dicetur”: O. Lenel, EP., 3a ed., 513.
[86]
Così G. I. Luzzatto, s.v. Eccezione (diritto romano), in Enc. dir. XIV, Milano 1965, 139; C. A. Cannata, Profilo istituzionale del processo privato romano II, Il processo formulare, Torino 1982, 54 nt. 2, 118 ss.
[87]
Esposizione dettagliata con note prosop. e bibl. in A. Pollera, Un intervento
di ‘politica economica’ nel IV sec. a.C.: “lex de crendis
quinqueviris mensariis” (
[90] Il
nome di Marcio Rutilio è infatti legato al provvedimento del 357 sul fenus unciarium e agli iudicia tristia celebrati dagli edili a
carico degli usurai nel 344 (egli ricopriva il consolato in entrambi gli anni).
Ancora a Marcio Rutilio alcuni attribuiscono la legge Marcia ricordata da Gai
4.23, datandola al
[91]
«Plebeo emergente che si muove in clima di collaborazione con una parte
almeno dei patres», lo
definisce A. Storchi Marino, “Quinqueviri mensarii”: censo e debiti nel IV secolo,
in Athenaeum 81, 1993, 234 s.
[94] Il
prestito pubblico era in uso presso i Greci: C. Nicolet, A Rome pendant
la seconde guerre punique: technique financiaires et manipulations monetaires,
in AESC., 1963, 417 ss. Questo A. sospetta che la notizia liviana sia una
anticipazione storica della più tarda magistratura dei triumviri mensarii, di cui abbiamo
notizia per il 216, 214, 210 (in quest’ultima occasione essi furono
incaricati di incassare per l’erario, da senatori e cittadini, metalli
preziosi da restituire dopo la guerra).
[95]
Verosimilmente, ciascun debito doveva essere estinto per intero, dal momento
che il creditore poteva innanzitutto rifiutare il pagamento parziale e, se lo
accettava, conservava il diritto di agire nel futuro contro il debitore per il
residuo, con l’eventuale esito dell’esecuzione personale.
[96] Una mancipatio, o forse più
credibilmente una in iure cessio,
certo un atto idoneo a trasferire il diritto di proprietà, considerato
che nell’anno successivo gli immobili ceduti vennero censiti.
[98] L. Wenger, Istituzioni, cit., 220 ss.; G. Pugliese,
IL processo civile romano I, Le “legis actiones”, Roma
1961, 2, 303 ss.; L. Peppe, Studi, cit., 105, 135, 145.
[100]
Cenni in A. Pollera, Un intervento, cit., 451, il quale però non collega questo singolare
intervento dei comitia con il ceto
sociale cui appartenevano verosimilmente i debitori avvantaggiati dalla
disposizione in oggetto.
[101] Sul
testo, L. Peppe, Studi, cit., 99, il quale ricorda che negli stessi anni (e più
precisamente nel 377), «ad aggravare la situazione, alla imposizione
ordinaria del tributum, si era
aggiunta quella straordinaria del tributum
in murum a censoribus locatum saxo quadrato
faciundum» (Liv. 6.32.1).
[102]
Sembra questo un riferimento tecnico alla mancata commissione di
illiceità o di attività pregiudizievoli per gli interessi di
debitori e creditori, da parte dei mensarii.
Taluni attribuiscono invece ad iniuria il
significato ‘politico’ di ‘misure prese contro la
plebe’ (A. Storchi Marino, “Quinqueviri”, cit., 220 e nt. 36), ma mi sembra che
questa interpretazione si scontra con i richiami liviani al clima di concordia, alla moderatio e all’aequitas
dei mensarii, allusivi, a mio avviso,
piuttosto ad una ‘equidistanza politico-istituzionale’ dei mensarii rispetto alle parti
interessate.
[103] Su
cosa Livio intendesse con l’espressione per onmium annalium monumenta, A. Storchi
Marino, “ Quinqueviri”, cit., 216 s.
[105] Z. Yavetz, Fluctuations monétaires et condition de la plèbe, in
AA.VV., Recherches sur les structures
sociales dans l’antiquité classique, Paris 1970, 148; A. Saccoccio, Un provvedimento di Cesare del
[108] V.
soprattutto J. Carcopino, Julius César, Paris 1935, tr.
it., da cui cito, Milano 1975, 554; M. W. Frederiksen, Caesar. Cicero and the problem of debt,
in JRS. 51, 1966, 135 ss.; V. GiuffrÈ, La c.d. “lex Iulia de bonis cedendis”, in Labeo 18, 1972, 173 ss.; Id., voce Mutuo (storia), in Enc. dir.
XXVII, Milano 1977, 421 nt. 25; Id., Sulla “cessio bonorum ex decreto
Caesaris”, in Labeo 30,
1984, 90 ss.; v. sul punto le considerazioni di P. Pinna Parpaglia, La “lex Iulia de pecuniis
mutuis” e la opposizione di
Celio, in Labeo 22, 1976, 30 ss.;
Id., Ancora sulla “lex Iulia de pecuniis mutuis”, in Studi in onore di Arnaldo Biscardi IV,
Milano 1983, 115 ss.
[110] Cfr.
Cic. ad Att. 10.8.2. V. soprattutto
M. P. Piazza, “Tabulae novae”. Osservazioni sul
problema dei debiti negli ultimi decenni della Repubblica, in Atti del II Seminario romanistico Gardesano
promosso dall’Istituto milanese di Diritto romano e Storia dei diritti
antichi, 12-14 giugno 1978, Milano 1980, 37 ss.
[111]
Plut. Caes. 37.1-2; App. bell. civ. 2.48; Dio C. 41.37.3; 42.22,
51, per il cui esame critico rinvio all’approfondita trattazione di A. Saccoccio, Un provvedimento, cit., 101 ss.
[115] La
necessità del consenso dei debitori è una congettura, ma
avvalorata dai contenuti di Caes. bell.
civ. 3.20.3; mentre non vi è alcun indizio, nelle fonti, in favore
dell’opposta ipotesi (avanzata, tra gli altri, da J. Carcopino, Iulius César, cit., 554, e largamente condivisa), che
l’offerta del debitore fosse vincolante: ampia discussione in A. Saccoccio, Un provvedimento, cit., 149 ss.
[116] La cessione
dei beni riguardava però il problema del pagamento dei debiti scaduti,
non quello delle usurae ultra modum,
né rivestiva finalità repressive.
[118]
Sulla datazione, v. L. Garofalo, Il processo edilizio. Contributo allo studio dei “iudicia populi”,
Padova 1989, 32.
[119]
Potere, questo, probabilmente sorto sulla solida base della sacrosanctitas tribunizia riconosciuta
dalla plebe nel
[120] Al
contrario, il silenzio di Cic. rep. 2.31.53-54
sulle leggi Aternia Tarpeia e Menenia Sestia, nel suo excursus storico sulla provocatio,
sembra avvalorare l’ipotesi che tali leggi non introdussero affatto la provocatio in materia di multe: L. Garofalo, Il processo, cit., 65 s.
[123]
Dion. Hal. 6.90.2-3; 6.95; Zon. 7.15, su cui cfr. F. De Martino, Storia della costituzione romana, II, 2a
ed., Napoli 1973, 238 s.; L. Garofalo,
Il processo, cit., 135, nt. 183.
[125] Ma
sembra che pure dopo l’ingresso della plebe nella edilità curule,
la persecuzione dei crimini comuni multatici continuò a svolgersi al
cospetto del comizio tributo, forse per l’esigenza, sentita dal
patriziato, di non lasciare per intero questa funzione nelle mani della plebe:
segue questa tesi tradizionale anche L. Garofalo,
Il processo, cit., 136.
[126] La
terminologia adoperata da Livio per la narrazione dell’evento è
astrattamente compatibile con una eventuale iniziativa della edilità
plebea.
[128]
Diffusamente, sul punto, E. De Ruggiero, voce “ Aedilitas”,
in Enc. giur.it 1/2, Milano 1892 (ma
1912), 398 ss.; Id., voce “Aedilis”, in Diz. ep. 1, rist. Roma 1961, 209 ss.;
più sfumata la posizione di L. Garofalo,
Il processo, cit., 136 ss., il quale sostiene uno sviluppo speculare dei due
poteri.
[129] Cfr.
F. De Martino, Riforme del IV
sec., in BIDR. 78, 1975, 29 ss. [=
Id., Diritto e società nell’antica Roma, Roma 1979, 219 ss.]; G. Tilli,
“Postremo vetita versura”, cit., 153 s., con altra bibl.; P. Capone, Gli interventi, cit., 201
e nt. 24.
[131]
Nelle quali funzioni era ricompresa evidentemente l’attività dei faeneratores, che avessero prestato
denaro a tassi di interesse superiori al massimo previsto dalla legge: fonti e
lett. pertinenti in P. Capone, Gli interventi, cit., 193 ss.
[132]
Già posteriormente alla codificazione decemvirale, si era consolidato,
pur in assenza di una norma specifica in materia, il potere degli edili plebei
di comminare multe o di instaurare iudicia
populi quando l’ammontare delle multe superava l’importo,
fissato dalle leggi, di trenta buoi e due pecore, ovvero di tremilaventi assi.
Creati poi nel 367 gli edili curuli, anche a questi fu riconosciuta la
facoltà di infliggere multe, ma l’assemblea chiamata a
pronunziarsi sulle multe da loro inflitte ed eccedenti la misura massima fu il
comizio tributo (anche se gli edili curuli erano plebei): fonti e bibl. in L. Garofalo, Il processo, cit., passim.
[133] Da
Livio si evince che si trattò di veri e propri iudicia populi adversus faeneratores, come indicano i termini iudicia e diem dicere (espressione,
quest’ultima, con cui tecnicamente si indicava l’accusa): L. Garofalo, Il processo, cit., 141
ss.; P. Capone, Gli interventi, cit., 206 e nt. 40.
[141]
Livio (6.11.9) insiste sul malcontento della plebe per gli alti tassi di
interesse praticati dopo l’incendio gallico: v. al riguardo C. Appleton, Le taux, cit., 502 ss.
[147] Sul
plebiscito Genucio si l. anche App. bell.
civ. 1.54.234. In letteratura, oltre agli AA. citt. alle ntt. successive,
si l. L. Fascione, La legislazione di Genucio, in Legge e società nella Repubblica
romana II, Napoli 2000, 179 ss.
[148] C. Appleton, Le taux, cit., 531 nt. 1;
ricostruzione parzialmente diversa in G. Tilli,
“Postremo vetita versura”,
cit., 155 ss. Sull’utilizzo della stipulatio
quale strumento di elusione dei divieti feneratizi, J. Michel, Gratuité en droit romain, Bruxelles 1962, 110.
[149] Si
tenga presente che la legis actio per
iudicis arbitrive postulationem era applicabile ai crediti promessi
mediante sponsio, ma aveva struttura
causale, come si evince da Gai 4.17: dettagli in P. Frezza, Osservazioni
sulla “legis actio per iudicis postulationem”, in Studi in memoria di F. Ferrara I, Milano
1943, 273 ss., ora in Scritti I, Roma
2000, 329 ss.; e, sulla struttura causale, discussione soprattutto in A. Corbino, La struttura dell’affermazione contenziosa
nell’“agere sacramento in rem”, in Studi in onore di C. Sanfilippo VII, Milano 1987, 139 ss.,
specialm. 157 ss., e in A. Saccoccio,
“Si certum petetur”,
cit., 15 s., ntt. 31 s.
[150] Alla
notizia si è tradizionalmente propensi a prestare credito: v.
soprattutto G. Billeter, Geschichte, cit., 134 ss.; C. Appleton, Le taux, cit., 529 ss.; G. Tilli,
“Postremo vetita versura”,
cit., 147 ss.; G. Poma, Il plebiscito Genucio ne fenerare liceret (Liv. VII, 42,1), in
RSA. 19, 1989, 67 ss.; L. Fascione,
La legislazione, cit., 179 ss.
[151] V.
soprattutto F. Cassola, Lo scontro fra patrizi e plebei, in
AA.VV., Storia di Roma I, Torino
1988, 459 ss.
[152]
L’astrattezza processuale dell’antica legis actio sacramenti in personam sembra risultare dalla formula A.T.M.D.O. aio te mihi dare oportere, in
Val. Prob. De litteris sing. Fragmentum
4.1 (in Probi Donatii Servii qui feruntur
de arte grammatica libri, ed. Kiel, Lipsiae, teubneriana, 1864, 273). Ma,
per l’ambiguità di altri dati testuali, non si tratta di una
conclusione da tutti condivisa: esame critico delle diverse costruzioni in A. Saccoccio, “Si certum petetur”, cit., 14 s. nt. 31. La struttura
causale della legis actio per iudicis arbitrive postulationem è invece
attestata da Gai 4.17.
[153]
Plin. nat. hist. 6.3.19: Hoc actum P. Sempronio L. Sulpicio cos.
Flavius vovit aedem Concordiae, si populo reconciliasset ordines, et, cum ad id
pecunia publice non decerneretur, ex multaticia faeneratoribus condemnatis
aediculam aeream fecitin Graecostasi, quae tunc supra comitium erat, inciditque
in tabella aerea factam eam aedem CCIIII annis post Capitolinam dedicatam.
[154] Liv.
10.23.11-13: Eodem anno Cn. et Q. Ogulnii
aediles curules aliquot faeneratoribus diem dixerunt; quorum bonis multatis, ex
eo quod in publicum redactum est, aenea in Capitolio limina et trium mensarum
argentea vasa in cella Iovis Iovemque in culmine cum quadrigis, et ad ficum
Ruminalem simulacra infantium conditorum urbis sub uberibus lupae posuerunt semitamque
saxo quadrato a Capena porta ad Martis straverunt.
[155] Liv.
35.41.9-10: Iudicia in faeneratoribus eo
anno multa severe sunt facta, accusantibus privatos aedilibus curulibus M.
Tuccio et P. Iunio Bruto. De multa damnatorum quadrigae inauratae in Capitolio
posiate, et in cella Iovis supra fastigium aediculae duodecim clupea inaurata,
et iidem porticum extra portam Trigeminam inter lignarios fecerunt.
[156] Su
cui v. soprattutto L. Di Lella, Il plebiscito, cit.; S. Schipani, Intervento conclusivo. Livio 35.7; Gaio D.13.4.3 e il problema del
debito internazionale, in AA.VV., L’usura
ieri ed oggi, cit., 271 ss., 279 ss.
[157] Che
la transscriptio a persona in personam servisse
solo ai fini della novazione soggettiva passiva risulta da Gai 3.130. Vi sono
tracce di una disputa giurisprudenziale sull’accessibilità del nomen transscripticium a persona in personam
e a re in personam ai peregrini, conclusasi nel senso della
estensibilità di tali figure ai debitori stranieri: Gai 3.133, su cui v.
P. Catalano, Linee del sistema soprannazionale romano I, Torino 1965, 128 nt. 4.
E’ comunque altamente probabile che l’espressione liviana nomina transcribere fosse stata
adoperata da Livio con una valenza non squisitamente tecnica: cfr. M. Kaser, Zum Begriff des “commercium”, in St. Arangio-Ruiz II, Napoli 1953, 290 ss.
[159] V. soprattutto R. M. Thilo, Der “codex
accepti et expensi” im römischen Recht. Ein Beitrag zur Lehre der
Litteralobligation, Göttingen 1980, 309 s.
[161] Cfr.
L. Di Lella, Il plebiscito, cit., 4, con altra lett.; vigeva
infatti il principio secondo cui la legge vincolava solo i membri della
comunità, anche quando la peregrinitas
si inquadrava nel par ius cum populo
Romano: Fest. s.v. status dies (314
ed. Lindsay). Sul punto, P. Catalano,
Linee, cit., 71, 76 nt. 22; P. Frezza,
Corso di storia del diritto romano,
3a ed., Roma 1974, 394 ss.; S. Schipani,
Intervento, cit., 283.
[162]
Fonti (ma relative a un periodo più tardo rispetto a quello qui
considerato) in L. Wenger, Istituzioni, cit., 41 s.
[163]
Così L. Di Lella, Il plebiscito, cit., e P. Capone,
Gli interventi, cit., 43 ss.,
benché resti assai dubbio il significato tecnico del termine versura. Il collegamento tra la notizia
di Tacito e il plebiscito Genucio è invece proposto da A. Storchi Marino, “Quinqueviri”, cit., 245 nt. 144,
la quale però ipotizza, quale oggetto del plebiscito Genucio, la
proibizione di cedere il credito ad altri (così l’A. interpreta il
significato di versura).
[164] E’ questa la lettura di M. Wlassak, Römische Processgesetze,
II, Leipzig 1891, 153 s.; C. Appleton,
Les lois romaines sur le cautionnement,
in ZSS. 26, 1905, 23 nt. 3.
[165] L. Di Lella,
Il plebiscito, cit., 280 ss., il quale interpreta la disposizione nei termini di
un invito rivolto al pretore peregrino.
[166]
Rinvio sul punto alla trattazione di C. A. Cannata,
Profilo, II, cit., 53 s., con lett.
ivi cit.; sulla legis actio per
condictionem e la sua astrattezza, Id.,
Profilo istituzionale del processo
privato romano I, Le “legis
actiones”, Torino 1980, 70 ss., 74 ss.
[168] La
questione generale del contenuto del commercium
è ancora aperta: sulla capacità dei peregrini di lege agere gravano molti dubbi, ma si
è concordi nel ritenere che la condizione giuridica dei Latini fosse
diversa (fondamentale sul punto Ulp. reg.
19.45), e più favorevole (in questo senso P. Catalano, Linee,
cit., 106 ss., specialm. 107, ntt. 3-4, 109 ss.). Propende per escludere la
credibilità dell’ipotesi secondo cui i peregrini fossero ammessi a lege
agere L. Di Lella, Il plebiscito, cit., 10 e
nt. 43, con altra lett., ma si deve tenere nel debito conto che il plebiscito
Sempronio aveva riguardo non a tutti i creditori stranieri, ma ai soli Latini e
soci Italici, sulla cui particolare condizione giuridica (rispetto a quella
degli altri stranieri) v. soprattutto P. Frezza,
Le forme federative e la struttura
dei rapporti internazionali nell’antico diritto romano, in SDHI. 4, 1938, 363 ss.; SDHI. 5, 1939, 161 ss., ora in Scritti I, Roma 2000, 367 ss., 435 ss.;
L. Capogrossi Colognesi, “Ius commercii, connubium, civitas
sine suffragio”. Le origini del diritto internazionale privato e la
romanizzazione delle comunità latino-campane, in AA.VV., Le strade del potere, a cura di A.
Corbino, Catania 1994, 3 ss., 19 ss. Cenni anche in L. Solidoro Maruotti, Sulla
condizione giuridica dello straniero nel mondo romano, in Rivista della Scuola superiore
dell’economia e delle finanze 1, 2006, 21 ss.
[169] In
questo senso ritengo che vada corretto lo spunto offerto da J. Pétrau-Gay, Evolution historique des “exceptiones” et des
“prescriptiones”, Paris 1916, 76 ss., il quale congetturava
l’esistenza delle exceptiones nelle
procedure per legis actiones,
nonostante Gai 4.108, su suggestione di quanto inizialmente ipotizzato da M. Wlassak, Der Gerichtsmagistrat im gesetzlichen Spruchverfahren, in ZSS. 28, 1907, 100 s. (il quale,
però, già nel 1910 aveva notevolmente ridimensionato la portata
delle sue affermazioni: M. Wlassak,
Der Ursprung der Römischen Einrede,
ora in Labeo 13, 1967, 231 ss.); v.
anche L. Di Lella, Il plebiscito, cit., 9 e nt. 37.
[174]
Benché la vicenda si inquadri in un periodo storico corrispondente al
sistema processuale per concepta verba,
in questa testimonianza delle fonti trova ulteriore conferma, a mio avviso,
l’ipotesi che quando il magistrato non volesse, o non potesse, accogliere
le difese del convenuto, era devoluto al giudice il libero apprezzamento delle
ragioni delle parti: v. quanto già esposto supra, nel testo.
[175] V.
anche G. Poma, Il plebiscito Genucio, cit., 75 ss.; F. De Martino,
Diritto e società, cit., 220
s.; G. Tilli, “Postremo vetita versura”,
cit., 154 ss.; P. Pinna Parpaglia, Per una interpretazione della “lex Cornelia”, cit., 98
ss.; P. Capone, Gli interventi, cit., 34 e nt. 117, 44 e nt. 143.
[176] S. Solazzi, La desuetudine della legge, in AG.
102, 1929, 6 (= Id., Scritti III, Napoli 1960, 277).
[179] Per le
ragioni che espongo nel testo, non condivido infatti le critiche espresse da G.
Tilli, “Postremo vetita versura”, cit., 154 nt. 19.
[184] F. De Martino,
Riforme, cit., 67, il quale,
reputando incongruente, su questo punto, il resoconto di Appiano, avanza seri
dubbi sulla credibilità della sua versione dei fatti.
[185] Così Z. Yavetz, Fluctuations
monétaires et condition de la plèbe à la fin de
[187] Su
L. Cassius e C. Papirius Carbo, cfr. G. Niccolini,
I fasti, cit., 225 ss. V. sul punto G. Tilli,
“Postremo vetita versura”, cit., 155 nt. 20.
[190]
Questa seconda ricostruzione è proposta da C. A. Maschi, La
gratuità del mutuo classico. Strutture giuridiche e realtà
sociale, in St. Balladore Pallieri, Milano 1978, 289 s. Si
v. al riguardo, per la differenza tra mutuum
e fenus, Non.
[191] Le
cui origini risalgono alla legis actio
per iudicis postulationem e alla successiva l.a. per condictionem: Van
Oven, Les actions issues de la stipulation, in T. 27, 1959, 391 ss. Dunque, è possibile che lo stratagemma
della stipulatio usurarum fosse
precedente quello della stipula complessiva di capitale e interessi, da esigere
con la l.a. per condictionem (espediente
al quale si ricorse, forse, dopo un eventuale divieto di stipulationes usurarum in
misura illecita: allo stato delle attuali conoscenze, l’ipotesi è,
però, destinata a rimanere tale).
[192] L. Fascione, “Fraus legi”. Indagini sulla concezione della frode alla
legge nella lotta politica e nell’esperienza giuridica romana, Milano
1983, 40 ss.; reputano eccessiva tale definizione G. Poma, Il plebiscito
Genucio “ne fenerare liceret” (Liv., VII, 42,1), in RSA. 19, 1989, 82 ss.; L. Di Lella,
Il plebiscito, cit., 262 nt. 5.
[194]
Questa efficace immagine richiama quanto altrove afferma Plauto (in Fest. voce muneralis [127 ed. Lindsay]) anche in
tema di lex lenonia e di lex muneralis: C. Russo Ruggeri, Leggi sociali, cit., 356, 362 ss.; sul brano v. E. Costa, Il diritto privato romano nelle commedie di Plauto, Torino 1890,
rist. an. Roma 1968, 410.