N. 7 – 2008 –
Memorie//MMD-Giuramento-plebe-Monte-Sacro
Università
di Roma “
Secessione e
giuramento
della plebe
al Monte Sacro[1]
Sommario: 1. Ambiente
storico: il reclutamento anomalo delle forze di lavoro, i «feneratores», l’asservimento
dei debitori. – 2. Dalle «coniurationes»
alla secessione. Le trattative col senato. L’accordo. – 3. L’elezione dei
tribuni, la «lex sacrata», il giuramento.
- 4. La
«lex sacrata» del 492 e i tribunali rivoluzionari.
– 5. L’inizio
di una grande lotta di classe, per una nuova «forma civitatis». – 6. Potere
negativo e positivo espressione bifronte di un’unica esigenza di lotta. – 7. L’inizio
di una rivoluzione. – 8. Ideologia plebea e movimenti
democratici successivi. Da Sicinio a Giulio Cesare.
Corre
l’anno
La
comune situazione di asservimento e la comune funzione di forze lavorative
sottoposte, in ogni gruppo familiare, alla ferrea potestà del capocasa,
ha fatto si che mentre nelle fonti giuridiche i vari status siano precisamente distinti in quanto alla loro genesi, pur
se alcuni di essi raggruppati in una categoria generale quali personae in mancipio, nelle fonti
storiografiche e letterarie, che, per quell’epoca, sono poi le più
numerose ed ampie, la loro distinzione genetica e giuridica non è
perfettamente percepita e siano presentati come una categoria quasi unitaria,
senza nemmeno troppo distinguere fra gli asserviti mediante forme negoziali, almeno
apparentemente volontarie, come i nexi,
e gli asserviti per atto magistratuale (addictio)
a conclusione dell’esecuzione personale mediante manus iniectio. E di questo non v’è da meravigliarsi
troppo, data la loro concreta posizione nella familia padronale e la loro comune funzione di forze di lavoro
comunque vincolate: infatti, ripeto, si tratta di fenomeno sostanzialmente
unitario, sia dal lato economico che dal lato sociale, in quanto espressione di
una formazione economica egemonizzata da una sola classe, quella patrizia. Tale
fenomeno unitario non sempre è stato tenuto presente dagli storici e dai
giuristi moderni, che sovente hanno ripetuto e talvolta addirittura aggravato
la confusione trovata in testi antichi.
Il
quadro fin qui rapidamente indicato deriva dalla grande crisi economica
succeduta alla caduta del dominio etrusco; dalla scomparsa della parentesi
commerciale della «grande Roma dei Tarquini»; dall’avvento di
una repubblica tipicamente classista, in quanto dominata economicamente e
politicamente dai soli patrizi.
In un
tale quadro la base sociale della comunità, esclusa
dall’occupazione di ager publicus,
priva di mezzi di sussistenza, priva di lavoro libero remunerato, costretta
quindi a far debiti di derrate o di danari per far fronte alle necessità
della vita, ravvisa la causa di tutti i mali che l’affliggono nei debiti,
pur se necessitati dalle insopprimibili esigenze dell’esistenza. E
così la lotta contro i creditori crudeli, che infieriscono sui debitori
divenuti lavoratori asserviti, la lotta contro i feneratores, ossia contro gli usurai che praticano prestiti ad alti
interessi, la lotta per calmierare gli interessi, la lotta per la liberazione dei
debitori asserviti, che gli storici antichi spesso identificano tutti coi nexi, sono le parole d’ordine
intorno a cui, per iniziativa di capi che si vanno affermando nel vivo della
generale rivolta, si forma e consolida l’unità di tutta la classe
plebea, che nella sua gran maggioranza insorge contro l’egemonia patrizia
e ricorre ad un’arma rivoluzionaria nuova, originale e foriera di grandi,
impensabili sviluppi futuri.
È
la separazione territoriale dalla città patrizia e la minaccia di
fondare una nuova e separata comunità cittadina, che non avrà il
crisma ancestrale della società gentilizia, ma sarà libera e
plebea. Così la maggioranza della plebe, in un giorno imprecisabile del
494, si ferma, rifiuta la leva, abbandona la città e si ritira sul monte
sito al di là dell’Aniene ed ivi si accampa, quasi a voler fondare
un’altra città se il senato patrizio non accoglierà le sue
prime fondamentali rivendicazioni.
Il
gesto non è frutto di improvvisazione agitatoria, ma sbocco di calcolate
mosse rivoluzionarie. Delle riflessioni plebee e momenti organizzativi è
l’eco inequivoca nelle voci, tramandate dalla dizione e raccolte dagli
storici classici; sui coetus nocturni
e sulle coniurationes che da qualche
tempo si andavano organizzando nel popolo (Livio 2.28.1 e 2.32.1).
Tali
sintomi di largo malessere e di conati rivoluzionari avevano indotto più
di una volta i patrizi a cercare un diversivo forte, cui talvolta le classi
dominanti, antiche e moderne, sogliono ricorrere: «la patria è in
pericolo», «i nemici ci minacciano!», «Corriamo»,
«Tacciano i dissensi interni». Nel caso i nemici erano i Volsci,
contro cui la plebe combatte, ma al rientro nella città, siccome il vaso
è ormai colmo e trabocca, l’insurrezione, forse già
studiata e preparata, è inevitabile. L’occasione non manca:
è un ennesimo caso di soprusi e crudeltà di un creditore nei
confronti di un nexus, che si ribella
e diviene simbolo di tutti i lavoratori plebei asserviti al creditore per una o
altra via (dai nexi agli addicti).
E
così, nel pieno della generale indignazione del popolo plebeo contro i
soprusi dei feneratores e di tutti i
creditori, la secessione si consuma.
Che il
monte su cui i reduci dalla guerra contro i Volsci e la moltitudine plebea
proveniente dalla città si accampano sia quello al di là
dell’Aniene, come un’accurata indagine critica sulle nostre fonti
mi sembra suggerire, o l’Aventino, che la storia successiva
colorirà di eventi luminosi e illuminanti, poco conta.
L’essenziale è il fatto carico di creatività
rivoluzionaria; è la secessione in sé e per sé; sono i
suoi esiti sociali, economici, politici e costituzionali. L’uno e
l’altro sono, nella storia di Roma, due monti plebei e diverranno due
monti cui le «plebi» sofferenti e ribelli d’ogni paese, i
militanti della libertà e dell’eguaglianza d’ogni luogo
talvolta guarderanno nei momenti cruciali delle loro lotte, quasi a voler
cogliere i raggi di ribellione e creatività rivoluzionaria che si
irradiano da quei due monti.
Le
rivendicazioni e le richieste esplicite che partono dal monte sono due, nette e
precise, il resto, forse ancora più importante, è in re ipsa, nei fatti, e lo vedremo
presto. I creditori dovranno liberare i debitori che si trovano attualmente
asserviti mediante nexum o, in
seguito a condanna, mediante addictio
(Dionigi 6.83.4); la città patrizia, e per essa il senato, dovrà
riconoscere il diritto della plebe di eleggere propri capi, che la difenderanno
e la rappresenteranno nei confronti della città patrizia e dei suoi
magistrati. Della realizzazione di tali richieste, se accettate, dovrà
dare garanzia il senato.
In
senato si fronteggiano opinioni e fazioni diverse. Di fronte alla decisa
secessione plebea finisce col vincere la parte che cerca la trattativa e la
conciliazione onde salvare l’unità cittadina, riavere le forze di
lavoro. Di questa parte è rappresentante Menenio Agrippa. Il suo apologo
famoso appartiene ad uno strato antico della tradizione (Dionigi 6.83), esprime
il distillato delle teorie di ogni tempo sulla concordia ordinum, ma principalmente, com’è stato
notato da Gaetano De Sanctis (Storia dei
romani² II cit. 4), «rispecchia lo sfruttamento della plebe a
profitto del patriziato e la ragione economica della lotta».
Menenio
è bene accolto. Si scambiano legati fra plebe e senato che dà
infine la richiesta garanzia e accoglie, con senatoconsulto, le richieste della
plebe. In quest’accordo fra le due parti, più o meno formalizzato,
da Livio (4.6.7) e, specialmente da Dionigi (6.89.1), è stato ravvisato
sostanzialmente un foedus. La plebe
continua ad occupare il monte della secessione pur nei primi mesi freddi del
493 e, prima di rientrare in città, procede alla realizzazione del suo
programma.
Innanzitutto,
sono eletti i tribuni: due, cui poi ne verranno aggiunti altri tre. Fra questi
colui che viene tramandato come l’autore della secessione: C. Sicinio
Belluto. Ma chi è questo creatore di uno strumento di lotta che
diverrà da quel momento parte importante dell’ideologia plebea e a
cui la plebe continuerà a guardare e ricorrere in altri momenti decisivi
delle sue battaglie politiche? Dionigi d’Alicarnasso (7.33) lo presenta
come «il più strenuo avversario dell’aristocrazia ... di
infima nascita, educato poveramente». Certo è che egli
verrà poi rieletto due volte tribuno e che la sua stirpe avrà,
nella storia repubblicana, ben undici tribuni della plebe. Anche Sicinio, come
i monti della libertà plebea, diverrà più d’una
volta, in tempi e luoghi diversi, simbolo di lotta per la libertà e
l’indipendenza dei popoli.
Una
delibera della plebe riunita in assemblea (concilio tributo, è da
pensare, pur contro Dionigi) inaugura la lunga serie dei plebisciti e
stabilisce i poteri dei tribuni. Dionigi, come fa spesso, la riassume e la
riporta: nessuno attenti alla libertà e indipendenza del tribuno,
né lo fustighi, né lo faccia fustigare, né lo uccida,
né lo faccia uccidere. Chi vi contravviene sarà sacer e potrà essere ucciso
impunemente.
Così,
con lex plebeia e sacratio del contravventore, la plebe
garantisce la libertà e l’indipendenza dei suoi capi. Ma non
basta. La plebe giura di osservare, fare osservare e non abrogare mai la lex votata. Si espressero e si
fissarono, in tal modo, alcuni principii ideologici fondamentali, che
guideranno la lotta di due secoli; si posero capisaldi importantissimi su cui
progressivamente si costruirà la costituzione repubblicana.
E
precisamente. Col fatto di redigere e votare una deliberazione con cui si
ordinava e garantiva la «magistratura» plebea si affermava la raggiunta
capacità della plebe di autonormarsi e si poneva il seme, gravido di
sviluppi futuri, della sovranità popolare, che poi troverà, su
iniziativa e pressione plebea, definitiva statuizione in una norma fondamentale
delle XII tavole (Tab. 12.5 ex Livio
7.17.12; 9.33.9; 9.34.6-7). Si poneva il principio che il plebiscito è iussum plebis e quindi, ancor
più, che la lex publica
è iussum populi.
Non
trattandosi di lex publica, vale a
dire di tutto il popolo, e mancando la base giuridico-costituzionale su cui fondare
la comminatoria di una pena per il contravventore, si riempiva il vuoto
religione, ricorrendo al sacer esto
del contravventore, con la conseguente non punibilità
dell’uccisore dell’homo sacer. E questa una sanctio interna alla legge, cui si aggiunge una sanctio esterna e politicamente
avvolgente, costituita dal giuramento di osservare la legge e, principalmente,
di farla osservare e, con ciò, di ritenere sacer chi avesse attentato alla libertà ed indipendenza dei
tribuni. E la più antica sanctio,
intesa quale complesso apparato protettivo della legge e della sua
effettività. Il sacer esto,
ossia la sanctio interna, copre il
vuoto di potere che impedisce la comminatoria di una pena e proclama
rivoluzionariamente la validità di un atto di parte (ossia della sola
plebe). Il giuramento della plebe, anche esso atto rivoluzionario in quanto
proveniente da una sola parte sociale, è forte impegno per il futuro
comportamento politico plebeo.
L’uno
e l’altro (sacratio capitis e
giuramento) atti di parte; l’uno e l’altro fuori dall’ordine
costituito; ma entrambi squisiti esempi di creatività politica e
culturale nella lotta di liberazione da un’egemonia opprimente della
classe politicamente ed economicamente dominante. Ed infine l’uno e
l’altro atti pervasi e fortificati da una innegabile carica religiosa:
l’uccisione dell’uomo sacer
è sacrificio del contravventore alle divinità della plebe; il
venir meno al giuramento è offesa agli dei della plebe. Emerge la maiestas plebis.
Il sacer esto scomparirà dalla sanctio dopo l’integrazione
dell’assemblea e delle magistrature plebee nella struttura costituzionale
della repubblica. Il giuramento, in varie modalità e applicazioni,
rimarrà e verrà più volta ripreso dai movimenti popolari
quale presidio politico-religioso dell’applicazione di leggi riformatrici
(specie di leges agrariae o,
comunque, antioligarchiche).
Sacer esto e giuramento, e la carica
religiosa di entrambi, rendevano sacrosancti
i tribuni; la sacratio capitis dava a
quella lex plebeia il carattere di lex sacrata; il monte della secessione, trans Anienem, diveniva mons Sacer (il Monte Sacro). Iniziava
una nuova storia della repubblica. La secessione aveva posto tanti e rilevanti
problemi economici, sociali e politici; aveva posto solidi fondamenti per la genesi
e lo sviluppo di nuove strutture costituzionali; aveva tolto ogni velo
all’ordine costituito mettendone a nudo tutta la sua natura classista.
L’unica
parte non toccata, o forse solo sfiorata con la creazione dei iudices decemviri, che rivendicavano la cognitio dei processi di libertà
per i plebei asserviti ai creditori, era la competenza a conoscere e giudicare
sui crimina in materia politica in
danno alla plebe, funzione di sommo rilievo onde evitare che la lex sacrata, appena votata e giurata,
venisse vanificata dai poteri giudicanti della città patrizia.
Ma
l’occasione si presenta appena due anni dopo ed è data dagli
eccessi turbolenti di giovani rampolli delle genti patrizie, che trovavano
sollazzo nel disturbare i tribuni variamente concionanti col popolo plebeo. Nel
492 infatti la plebe riunita in assemblea, su proposta di un tribuno, pur egli
della stirpe Sicinia, e quasi in applicazione del giuramento fatto sul Monte
Sacro, approva una seconda lex sacrata
con cui stabilisce che chiunque disturba il tribuno mentre parla alla plebe
deve fornire vades (garanti) che
garantiscano di pagare la multa a lui irrogata dai tribuni. In mancanza egli
verrà giudicato dall’assemblea della plebe, che lo
dichiarerà sacer e
consacrerà il suo patrimonio alle divinità plebee.
Questa
seconda lex sacrata completa le linee
fondamentali delle forme di due anni prima. La plebe, pur senza trattative e
pattuizioni col senato, sull’onda della vittoria del 494 e 493, con un
atto del tutto unilaterale, mentre di fatto riafferma il conquistato seppur
ancora limitato potere legislativo, mette la mano sulla repressione di tutti
gli atti che l’offendono (economicamente e politicamente). Si va
configurando il crimine di offesa alla plebe e si afferma una certa competenza
giudiziaria in materia di reati politici.
La
nuova lex sacrata rappresenta quasi
una autotutela ai fini della realizzazione dei risultati conseguiti due anni
prima. Autotutela in doppio senso: sia in quanto è creazione autonoma
dell’assemblea plebea ed è votata senza alcun esplicito
lasciapassare del senato, sia perché, in ordine agli attentati alla
libertà ed autonomia del tribunato e della plebe, stabilisce la competenza
dei tribuni ad applicare multe e la competenza del concili della plebe, in caso
di omessa garanzia mediante vades, di
giudicare e pronunciare la sacertà del contravventore e la sacratio del suo patrimonio alle
divinità della plebe. Legge sacrata
quindi nel senso più puro e rivoluzionario, che la plebe vara e subito
applicherà consapevole della forza conquistatasi in seno alla
comunità cittadina con la vittoriosa secessione sul Monte Sacro.
È la genesi dei tribunali rivoluzionari, che tanta parte avranno nella
lotta plebea e nelle vicende politico-costituzionali di tre secoli.
Ma che
cosa fu tutto questo? Quale può essere la diagnosi storica? Quali
saranno gli sviluppi futuri?
I fatti
parlano da soli; meglio di qualsiasi commento. Per spiegarli sono state
proposte fini e sofisticate costruzioni politico-giuridiche. Qualcuno
(impressionato forse dal termine foedus
tramandato dalle fonti) ha voluto ravvisare due Stati posti l’un contro
l’altro. Qualche altro ha preferito parlare di Stato entro lo Stato.
Altri ancora ha posto il problema se l’attacco allo stato patrizio veniva
dall’esterno o dall’interno. E chi avesse la voglia di disquisire
su sottili costruzioni potrebbe continuare e, magari, allontanarsi sempre
più dalla concreta realtà storica inveratasi nella
comunità romana in quell’inizio, burrascoso ma chiarificatore, del
quinto secolo a.C.
Ove si
esaminino e si analizzino nella loro realtà, nuda da veli
politico-religiosi e da sottili ma evanescenti disquisizioni giuridiche, gli
avvenimenti del 494-492 non si sfugge da una chiara quanto solida
constatazione: essi segnarono, nella loro vera sostanza, l’esplosione di
una grande, lunga, originale lotta di classe. Durerà circa due secoli,
si colorerà continuamente, secondo il genio romano, di
giuridicità, trasformerà dall’interno la dialettica fra le
parti del populus, condurrà ad
un nuovo assetto della società, determinerà progressivamente
l’assetto definitivo della costituzione repubblicana.
Ma
torniamo agli avvenimenti del 494-492, alla loro diagnosi storica. La plebe,
pur stratificata economicamente ma unita politicamente e socialmente a causa
della totale esclusione dal governo della comunità e
dall’occupazione dell’ager
publicus, prende coscienza del
proprio essere di classe soggetta e
dominata e inizia, con un’insurrezione originale quale la secessione, una
lotta mirabile di quasi due secoli.
L’inizio
è vittorioso e la prima grande vittoria è la lex sacrata di cui il giuramento è il DNA, il fulcro di una sanctio (ossia di un apparato
protettivo) ampia e avvolgente, che varrà man mano a coprire tutte le
rivendicazioni plebee di due secoli. La costituzione aristocratica di Publio
Valerio Publicola è riformata e trasformata. Si pongono nuovi pilastri,
fondamentali per gli sviluppi futuri.
E
precisamente.
a) Il tribunato, creazione originalissima, cui viene
riconosciuta la funzione di auxilium
ferre alla plebe, intesa nella sua totalità e nei suoi singoli
componenti, mediante l’esercizio di un forte potere negativo, espressione
della resistenza all’egemonia patrizia, nei confronti degli organi e
magistrature della città.
b) Col riconoscere il tribunato come suprema magistratura
plebea si riconosce costituzionalmente la divisione della società
cittadina in due classi distinte, oltre che nella struttura economica e
sociale, anche nella dialettica politica. Con ciò mentre si dà
per scontata la natura patrizia della repubblica, si costituzionalizza la
presenza attiva della plebe nella politica. Questo segna l’inizio di un
nuovo corso della vita politica nuovi e più democratici assetti
costituzionali, sino ad arrivare, dopo un lungo cammino di quasi due secoli,
alla struttura matura della costituzione repubblicana in cui le partes della comunità, pur avendo
basi di classe, assumono carattere più preciso di movimenti politici e
il tribunato, pur conservando almeno in parte le originarie funzioni di
difensore delle classi popolari, si inserisce nella struttura costituzionale
cittadina, divenendo spesso elemento importante di equilibrio democratico e di
attività riformatrice anche se, almeno in una parte dei suoi componenti,
talvolta cede alla sete di potere e s’infeuda a gruppi rilevanti
dell’aristocrazia senatoria.
c) I tribuni, quali capi della classe, hanno il potere di
convocare la plebe, ossia, per dirla in termini propri alle magistrature
cittadine, hanno il ius agendi cum plebe,
quasi specchio e contrapposto del consolare ius
agendi cum populo. Con ciò si pone subito il problema di un’assemblea
della plebe, anche essa specchio dell’assemblea di tutto il populus, con gli annessi problemi della
sua competenza, oltre che elettorale, per l’elezione dei magistrati
plebei, pure legislativa e giudiziaria. E qui la parificazione dei plebisciti
alle leggi, che dalle leggi sacratae
prende solido avvio, costituirà uno dei cardini della lotta di due
secoli.
d) Col riconoscere validità alle leges sacratae, seppur dopo approvate
dal senato (sí da dar luogo a leggi-contratto), ma talvolta (come per la
lex del 492) fatte valere solo dalla
forza rivoluzionaria della plebe, si afferma come principio generale la
capacità autonormativa della plebe e quindi, a maggior ragione, del populus e si pongono gli incunaboli
della concezione della lex publica
quale iussum populi.
e) Infine il giuramento della lex sacrata e la comminatoria della sacertà al
contravventore. Si crea il primo e più antico esempio di sanctio quale elemento strutturale
importante della lex publica in
quanto strumento diretto ad assicurarne l’effettività e a
garantirne l’applicazione.
Ecco
perché i contemporanei, e indi politici e storici successivi, nei fatti
e negli atti, ossia nella secessione e nelle creazioni inveratesi con e durante
la secessione sul Monte Sacro, videro una nuova forma civitatis (ossia una nuova costituzione) alla cui abrogazione
saranno dirette le battaglie della parte più rigida del patriziato negli
anni successivi (Livio 3.15.3).
Con la
legge sacrata del 492, il quadro si completa. L’esigenza di intervenire
nel campo giudiziario si era già affacciata nella secessione del 494 con
la nomina dei iudices decemviri, cui
è molto verosimile che si volesse devolvere la cognizione dei processi
di libertà che in quel momento coincidevano coi processi relativi alla
esistenza o meno di una situazione di asservimento dei debitori (nexi, personae in mancipio, addicti).
Con la lex sacrata del 492 entra in
campo la giurisdizione penale dei tribuni e del concilio, si pongono le
premesse per la configurazione dell’offesa alla plebe come reato
perseguibile dai tribuni dinanzi al concilio, si apre la via ai tribunali
rivoluzionari.
Nella
secessione del 494-493, nell’elezione dei primi tribuni, nella lex sacrata che l’accompagnava e
nell’accettazione della lex
stessa da parte patrizia era la genesi e l’affermazione forte del potere
negativo che da quel tempo i tribuni avrebbero potuto usare, nei confronti
delle magistrature e del senato patrizi, in difesa della plebe. Potere
originale e unico nella storia, rappresentativo della resistenza plebea
all’egemonia della classe dominante.
Ma il
potere e la funzione del tribuno non si esauriscono nella mera resistenza,
così come la lotta plebea non è meramente difensiva, ma è
lotta di avanzamento, di innovazione, di progresso della democrazia. In una
parola è lotta rivoluzionaria in quanto tende al cambiamento della
società romana del V secolo e del suo assetto politico-costituzionale.
Ecco perché il potere dei suoi capi; vale a dire dei tribuni, non
potrebbe mai essere meramente negativo. E infatti, sin dalle origini, essi
hanno il potere di convocare l’assemblea della plebe e di proporre
normazioni in posizione dialettica col ius
preesistente, espresso dai mores
delle genti patrizie e in cui s’identifica l’ordinamento della
città.
Tali
normazioni, costituenti leges plebeiae
(la terminologia è di Livio 3.31.7), si affermano quali normazioni
squisitamente rivoluzionarie (leges
puramente sacratae) o vengono accettate
dal senato (leggi-contratto) ed entrano costituzionalmente
nell’ordinamento, sino a divenire uguali alle leges rogatae di tutto il populus
(leges del comizio centuriato per cui
è pur necessaria la ratifica senatoria) con le leges Valeriae Horatiae nel 449.
Da quel
momento l’attività legislativa plebea sarà come un fiume in
piena, si da costituire il filone più grosso ed importante della
legislazione popolare (aggettivo, nel caso, da preferire a
«comiziale»). Così, mentre da una parte la
«sovranità plebea», sorta dagli eventi rivoluzionari del
494-492, sarà la base ideologica su cui si edificherà la
«sovranità popolare» che troverà luminosa sanzione
nelle XII tavole (quodcumque postremum
populus iusserit id ius ratumque esto), dall’altra parte si
esprimerà direttamente e positivamente attraverso una vasta e importante
attività legislativa tribunizia in cui giustamente si ravviserà
la massima espressione della libertas
plebea.
Questa
breve ma importante analisi storica mi suggerisce una riflessione. Il potere
negativo dei tribuni, che esprime concretamente e simboleggia ideologicamente
la resistenza e l’opposizione della plebe alla classe dominante, e la
concezione della lex quale iussum populi aut plebis in opposizione
e in contrasto dialettico col ius
della città, espresso dai mores
patrizi, e quindi la grande attività legislativa tribunizia, pur
presentandosi il primo come potere negativo e la seconda (attività
legislativa) come potere positivo, sono senza dubbio espressione della medesima
dialettica sociale (fra le due classi), ma forse sono pure espressione della
stessa «filosofia» politico-costituzionale (o, se si preferisce,
della stessa matrice ideologica) che al potere e al ius della città (patrizia prima, nobiliare poi) oppone
dialetticamente e l’intercessio
tribunizia e la lex plebeia e, indi, publica, l’una e l’altra
espressione della sovranità popolare che proprio negli avvenimenti del
primo decennio del V secolo trova le sue radici.
Ma, per
finire, torniamo al giuramento e agli avvenimenti di quell’inverno
494-493 sul monte della secessione. Fu l’inizio di una rivoluzione?
Anche
per questo problema (come già sopra si è visto per i vari
tentativi di qualificazione politica-giuridica della secessione), nella ricerca
di una diagnosi storicamente solida, è necessario riflettere sulla
sostanza degli avvenimenti iniziati con la secessione del 494 e sulle
conseguenze che ne derivarono. E pertanto, a mio avviso, non bisogna fermarsi
alle concezioni «leggere» ed elastiche del termine, per cui finisce
con l’essere qualificato come «rivoluzione» ogni moto o
rivolta, anche di mero carattere politico. Concezioni pur luminose e
illuminanti, sorte e diffuse nel pensiero liberale dell’Ottocento, in cui
senza dubbio furono apportatrici di programmi stimolanti e di idee nuove nella
lotta per la libertà e la democrazia.
Ma pur
al lume di una concezione densa e forte (e quindi rigida), come quella
marxista, per cui v’è «rivoluzione» solo se si cercano
e si inverano profondi cambiamenti, prima e oltre che negli assetti politici e
costituzionali, nelle più profonde strutture dell’economia e della
società, vale a dire non tanto cambiamenti «nel sistema», ma
«del sistema», va notato che la lotta plebea sarà fattore
importante e spesso decisivo (pur se non unico) della transizione ad una nuova
formazione economica della società romana contrassegnata da mutamenti
sostanziali nei modi di appartenenza e di sfruttamento dei beni, da nuove
classi politiche dirigenti ed economicamente dominanti, da un cambiamento
profondo delle forze di lavoro e della loro collocazione nella struttura
sociale.
Infatti,
in particolare:
a) il potere negativo dei tribuni si inserirà
saldamente nella struttura costituzionale.
b) La plebe, principalmente nei suoi strati superiori,
parteciperà, addirittura egemonizzandola, all’attività
legislativa assembleare nonché al governo supremo della repubblica.
c) La plebe parteciperà, in un modo o
nell’altro, allo «sfruttamento» dell’ager publicus.
d) Muteranno le forze di lavoro dominanti e, con esse, il
modo di produzione. Non più liberi semiasserviti dai debiti di vario
genere, ma schiavi stranieri o, in piccola parte, liberi non più
asserviti.
e) Parte dell’antica plebe formerà la classe
degli uomini di affari, che costituiranno la punta di diamante di
un’economia che, dopo circa tre secoli dall’esordio rivoluzionario
plebeo, andrà sempre più globalizzandosi.
Nella
nuova formazione sociale e, volgendo lo sguardo al suo assetto politico
costituzionale (oltre che economico), potremmo dire nella «repubblica
imperiale», centro politico ed economico di tanta parte del mondo allora
conosciuto, e pur in una mutata stratificazione sociale e in una mutata
coagulazione e ripartizione dei movimenti politici, c’e però un
fenomeno, importante e macroscopico, che ancora illumina l’esordio
rivoluzionario della secessione.
Un
saldo filo rosso ideologico collega i movimenti democratici romani della
seconda repubblica alla rivoluzione plebea. Da Caio Flaminio ai Gracchi e ai
loro seguaci, a C. Mario, a P. Sulpicio Rufo, allo stesso Cesare,
«dittatore democratico», il riferimento, l’ispirazione,
l’attacco ai principali pilastri ideologici della lotta plebea e ai
capisaldi politico-costuzionali fissati con le leges sacratae è costante come è pure costante il
richiamo ai simboli dell’antica lotta. Perfino i due monti delle
secessioni saranno meta dei democratici romani, e poi, spesso, simbolo dei
ribelli di ogni parte del mondo.
Nella
secessione e nel giuramento del 494-493 la memoria popolare troverà
sempre la spinta ideologica alle battaglie per la libertà; i cittadini
vi ravviseranno perennemente un grande esordio della loro costituzione; illiberale
Teodoro Mommsen dirà che in quella «rivoluzione si rivela qualche
cosa che tocca il sublime».
[1] Pubblicato in Index. Quaderni camerti di studi romanistici, 35, 2007, 13 ss.
È
la ricostruzione scritta del discorso per la celebrazione del duemilacinquecentesimo
anno del giuramento della plebe durante la secessione del 494-
Fra le
trattazioni di storia generale le esposizioni più penetranti, con
diversi orientamenti e punti di vista, vanno da quelle classiche del NIEBUHR, Römische Geschichte I² (Berlin
1827) 595 ss. e 624 ss. [= Histoire
romaine I (Bruxelles 1830) 536 ss. e 559 ss.] e del MOMMSEN, Storia di Roma II [traduz. Quattrini
(Roma s.d.) 35-57], a quella di GAETANO DE SANCTIS, Storia dei romani² II (Firenze 1960) 1 ss.; a quelle del PAIS,
Storia di Roma dall’età
regia sino alle vittorie su Taranto e Pirro I (Torino 1934) 267 ss.; del
PARETI, Storia di Roma I (Torino
1952) 374 ss.; del BARBAGALLO, Storia
universale II (Torino 1955) 63 ss.; di H. STUART JONES e di H. LAST, nella Cambridge Ancient History VII (Cambridge
1954) 450 ss. e 476 ss.
Fra le
monografie la più recente è J.-C. RICHARD, Les origines de la plèbe romaine (Roma 1978), a cui rinvio
per la bibliografia precedente.
Fra le
trattazioni storico-giuridiche, oltre TH. MOMMSEN, Römisches
Staatsrecht (Leipzig 1887-1888, rist. Basel-Stuttgart 1963) II 272
ss. e III 143 ss. [= Droit public romain
(Paris 1893-1894) III 311 ss. e IV/1 160 ss.], è fondamentale F. DE
MARTINO, Storia della costituzione romana²
I (Napoli 1972) 334 ss. (nonché 260 ss.) ed ivi la citazione e
l’esame, spesso critico, della letteratura precedente, nonché P.
de FRANCISCI, Storia del diritto romano
I (Milano 1940) 227 ss. E da segnalare inoltre, per l’incisivo esame
delle fonti, e specie di Dionigi, S. TONDO, Profilo
di storia costituzionale romana I (Milano 1981) 157 ss., nonché P.
FREZZA, Corso di storia del diritto
romano (Roma 1974) 106 ss. Per una visione sintetica F. SERRAO, Diritto privato economia e società
nella storia di Roma I (Napoli 2006) 83 ss. e bibliografia a p. 105 s. (in
séguito citato solo Diritto
privato).
[2] Per i rapporti di dipendenza, i
modi di asservimento, le categorie di asserviti e le ragioni
dell’asservimento dei debitori ai creditori rinvio all’ampia
trattazione svolta nel mio Diritto privato cit. 171 ss., dove tutto il fenomeno
è esaminato anche come reclutamento anomalo delle forze di lavoro
qualificante tutta la struttura e la dinamica di quell’antica formazione
economica della società romana. Questo, sulla funzione storica del
fenomeno, è il problema più importante. Ma numerosi sono poi i
problemi particolari al primo collegati. Basti qui indicarne solo due. La
terminologia delle fonti non giuridiche relativa alle diverse categorie e la
confusione talvolta esistente. Il nexum,
come da qualcuno sostenuto, poteva dar luogo ad una manus iniectio pro iudicato o, addirittura, pura? Dalla soluzione di tale problema potrebbero derivare
importanti deduzioni storiografiche. Ai rapporti di dipendenza sono
strettamente collegati i problemi del credito e delle usurae, che saranno al centro della lotta politica dalle XII tavole
all’abolizione del nexum (
[3] Il
problema su cui si continua a discutere è quello del foedus. Vi fu? In caso affermativo come
va qualificato? Si tratta di un uso atecnico del termine da parte delle nostre
fonti? Certamente, come dico nel testo, vi fu l’accordo che, è
bene tenerlo presente, al contrario di come da qualche parte, anche molto
autorevole (es. dal De Martino), è stato sostenuto, non contrasta in
modo alcuno con l’esistenza della lex
sacrata. Come ho altrove (Diritto
privato cit. 83 ss. e 99) rilevato, la lex
sacrata del 494 è una lex
plebeia la cui sanzione, che ne qualifica la natura, è il sacer esto ma, in quanto accettata dal
senato, ossia dalla città patrizia, è anche una legge-contratto e
tanto significa che la comunità tutta accetta e non contesta la sanzione
plebea del sacer esto, che, in tal
modo, finisce col penetrare, sia pure solo sostanzialmente e indirettamente,
nell’ordinamento. Sui momenti di formazione del plebiscito come
legge-contratto F. SERRAO, Classi partiti
e legge nella repubblica romana (Pisa 1974) 39 ss.; Legge e società nella repubblica romana I (Napoli 1981) xiii
ss.; nonché Lotte per la terra e
per la casa a Roma dal 485 al
[4] Sugli
argomenti cui è dedicato questo paragrafo, che poi costituiscono i punti
centrali in cui si espresse l’azione rivoluzionaria del 494, sono
fondamentali il volume di G. LOBRANO, Il
potere dei tribuni della plebe (Milano 1982), indagine approfondita ed
equilibrata, a cui rinvio per la precedente bibliografia, e, specie per il modo
come i concetti di potere negativo e resistenza hanno trovato elaborazione
ideologica o realizzazione nel mondo moderno, il solido Tribunato e resistenza (Torino 1971) di Pierangelo Catalano. Sulla lex sacrata e il giuramento vedasi poi
R. FIORI, Homo sacer (Napoli 1996)
293 ss., con analisi e problematiche puntuali e con ampia bibliografia. I
problemi su cui più si discute sono parecchi e precisamente riguardano
la critica del certe volte troppo particolareggiato racconto dionisiano; il
numero iniziale dei tribuni (su cui T.R.S. BROUGHTON, The Magistrates of the Roman Republic I [New York 1951] 15 ss.); la
dubbia storicità di un giuramento di tutto il popolo romano sulla
osservanza della lex sacrata.
[5] Sul carattere meramente sacrato
della lex del
[6] Sulla natura e il carattere
della lotta patrizio-plebea come lotta di classe, e nel senso esposto nel
testo, F. DE MARTINO, Storia della
costituzione romana² I cit. 337 ss. (e già, in nuce, P. de FRANCISCI, Storia I [Milano 1936] 250), F. SERRAO, Lotte di classe e legislazione popolare
cit. xiii ss.; Diritto privato cit.
83 ss. Diversa la concezione di A. GUARINO, La
rivoluzione della plebe (Napoli 1975) 13 ss.; 259 ss. e 314 ss. che pur
ravvisa nella lotta plebea una autentica lotta di classe e la collega al
«concetto di classe e alla visuale della lotta di classe
dell’ideologia marxista» (260 s.). La lotta iniziata con la
secessione tende poi ad una profonda riforma costituzionale, anzi
l’opinione pubblica e la tradizione, riportate da Tito Livio, videro
già negli esiti immediati della secessione una nuova forma civitatis contro cui i patrizi si
batteranno negli anni successivi (Liv. 3.93.1).
[7] L’impostazione data a
questo paragrafo mi è suggerita dalla necessità di `collocare
l’origine e lo svolgimento delle funzioni tribunizie nel quadro generale
della lotta e dell’ideologia plebea e, principalmente, nella dinamica del
suo slancio rivoluzionario verso il cambiamento (economico, sociale, politico).
Senza attività positive non vi può essere rivoluzione. Col mero
potere negativo si resiste, non si attacca. In particolare, inoltre, nella
lotta della plebe l’attività positiva del tribuno, esplicantesi,
in forma diretta o indiretta, in un’attività legislativa di
attacco all’egemonia patrizia, non poteva andar disgiunta dal potere
negativo. L’una e l’altro erano infatti esplicazione della libertas plebea quale si andava
affermando proprio in quegli anni, in seguito alla spinta rivoluzionaria
sprigionatasi dalla secessione del 494. Gli studiosi moderni, storici e
giuristi, esaminano e analizzano tutti e sempre il potere negativo dei tribuni,
che è il potere primigenio, da cui il resto nasce e si svolge, ma non
sempre rilevano l’estrema importanza delle loro funzioni legislative, e,
quindi, di un potere positivo dei tribuni, funzioni nate come rivoluzionarie,
ma poi man mano inseritesi nella costituzione repubblicana. Sul tema, con
impostazioni varie, sono da vedere principalmente gli scritti di Mommsen,
Niebuhr, de Francisci, De Martino, Catalano e Lobrano già sopra citati.
Da ultimo il mio saggio Ius e lex nella
dialettica costituzionale della prima repubblica, in Nozione formazione e interpretazione del diritto dall’età
romana alle esperienze moderne. Ricerche dedicate al professor Filippo Gallo
II (Napoli 1997) 279 ss. ed ivi richiamati i miei precedenti scritti.
[8] Il
giudizio sulla natura più o meno rivoluzionaria della secessione e di
tutta la lotta plebea è strettamente collegato al concetto e al termine
di «rivoluzione», variamente inteso nel mondo moderno dalle varie
correnti di pensiero e dalle varie ideologie. A voler distinguere una
concezione «leggera» da una concezione «densa e forte»
di rivoluzione, esse sono ricollegabili rispettivamente a due grandi correnti
di pensiero: quella liberale e quella marxista. Per una rassegna delle diverse
concezioni e le innumerevoli sfumature emerse nel pensiero storiografico su
Roma antica vedansi gli Atti dei
convegni su Stato e istituzioni
rivoluzionarie in Roma antica, in Index
3 (1972) e 7 (1977), nonché P. CATALANO, A proposito del concetto di rivoluzione nella dottrina romanistica
contemporanea, in SDHI. 43 (1977)
440 ss.; G. LOBRANO, Il potere dei
tribuni della plebe cit. 106 ss.; A. GUARINO, La rivoluzione della plebe cit. 13 ss.; 238 ss. e 259 ss., libro
denso di idee e di ipotesi originali, la cui impostazione e relativi risultati
non riesco però a condividere a causa della totalmente diversa
ricostruzione storica di tutto il periodo, dai re al III secolo a.C., dal
Maestro napoletano ipotizzata in totale contrasto con la ricostruzione che a me
sembra chiaramente emergere dalle fonti a nostra disposizione. Da ultimo R.
FIORI, Homo sacer cit. 293 ss. ed ivi
altra bibl.
[9] Per il problema posto in questo
paragrafo cfr. F. SERRAO, I partiti
politici nella repubblica romana, in Classi
partiti e legge cit. 163 ss. Ma, a distanza di molti anni, in
séguito alle ricerche da me stesso fatte sulla lotta plebea dei primi
due secoli della repubblica nonché sul diritto tutto, pubblico e
privato, di quei secoli (per cui mi limito a rinviare al mio recente Diritto privato cit. nonché al
saggio Ius e lex cit. 279 ss.), il
filo rosso che collega il pensiero, il programma e l’attività
concreta dei movimenti popolari e democratici dei secoli successivi (da Caio
Flaminio a Giulio Cesare) alle lotte, all’ideologia e alla
creatività politica e culturale della plebe (su cui, illuminante, A.
MOMIGLIANO, Quarto contributo alla storia
degli studi classici e del mondo antico [Roma 1969] 419 ss.) mi si è
venuto sempre meglio e più nitidamente precisando. Anzi è
diventato per me evidente. L’argomento meriterebbe di essere ripreso e
approfondito. Cosa che io forse difficilmente riuscirò a fare, data la
mia età e gli altri impegni scientifici presi con me stesso. Se non lo
farò io spero comunque che altri lo faccia. Mi basti per ora segnalare
un vasto campo di indagine tutto aperto. La frase del Mommsen con cui si chiude
il mio discorso è nella Storia di
Roma cit. 43 (= libro II cap. II § 5) [= Römische Geschichte6 (Berlin 1874) 270].