N. 7 – 2008 – Memorie//MMD-Giuramento-plebe-Monte-Sacro
Università
di “Roma Tre”
Alius et idem.
il tribunato della plebe
nel corso della storia
romana
I
L’invito
a partecipare a questo seminario di studi mi offre la gradita
opportunità di riprendere, e completare (nelle sue grandi linee), il
contributo presentato ad un convegno internazionale promosso dalla rivista Il Pensiero politico sul tema
«Magistrature repubblicane: modelli nella storia del pensiero
politico»[1].
Gli storici del pensiero politico avevano chiesto agli storici
dell’antichità di fornire una sintesi storico-concettuale di alcuni
modelli antichi, appunto, che hanno incontrato particolare fortuna nello
svolgimento del pensiero politico moderno. In questa prospettiva, si
parlò di legislazione ateniese e romana, ma anche di Mosè
legislatore; si parlò di forme di controllo ad Atene e a Sparta, e
– in relazione a Roma – di censura e di tribunato. «Il
tribunato della plebe» era il titolo del mio intervento[2]:
breve, per la mancanza di tempo che angustia tutti i convegni, e
schematicamente funzionale alle esigenze di quel convegno. Per questi due
motivi (ma ne sarebbe bastato uno), il mio contributo finì per ridursi
alla prima delle quattro sezioni in cui lo avevo prospettato; esigenze di
chiarezza espositiva impongono, ora, di richiamarne le considerazioni
introduttive[3].
La
costituzione romana è un classico esempio di costituzione non scritta,
dove gli istituti sono perenni proprio per la loro perenne trasformazione. In
particolare, nella storia del tribunato della plebe, si possono e si devono
distinguere almeno quattro fasi, profondamente – anzi, sostanzialmente
– diverse:
1. La
prima fase abbraccia un paio di secoli, dalla nascita dell’istituzione
(all’inizio del V secolo, poco dopo l’inizio della repubblica) fino
alla completa parificazione degli ordini, patrizio e plebeo, con la lex Hortensia del 287.
2.
All’interno della nobilitas
patrizio-plebea, che per effetto della parificazione degli ordini
sostituì il patriziato come oligarchia di governo della media e tarda
repubblica, i tribuni della plebe costituiscono de facto (più tardi anche de iure) uno dei vari collegi di magistrati, fortemente
caratterizzati dalla sopravvivenza – in questa seconda fase – dei
poteri assolutamente straordinari che i tribuni della plebe avevano
conquistato, ed esercitato, nel corso della prima.
3.
Proprio la sopravvivenza di questi poteri straordinari fece del tribunato della
plebe, nella sua terza fase (dal tribunato di Tiberio Gracco, nel 133, alla
fondazione del principato), il motore della cosiddetta «rivoluzione
romana»: se ricordo i nomi dei Gracchi, di Druso padre e figlio, di
Saturnino e Glaucia, di Clodio ecc., è solo per richiamare con
l’evidenza di ovvii ricordi storici l’incisività della
presenza dei tribuni della plebe nel processo di trasformazione della
repubblica nel principato.
4. Lo
aveva capito benissimo Augusto. Quando – nel 23 – diede struttura
pressoché definitiva alla costituzione del principato, lasciò
bensì in vita il tribunato della plebe (e siamo così giunti alla
quarta fase della sua esistenza) come normale, e formale, gradino del cursus honorum senatorio, ma ne
estrapolò (per così dire) l’essenza
politico-costituzionale, la tribunicia
potestas, che dal
Di queste
quattro fasi, che scandiscono la storia del tribunato della plebe nel corso
della storia della libera res publica[4],
solo la prima fu oggetto di specifica considerazione nel precedente contributo,
anche e soprattutto perché – in prospettiva storica e
storiografica – è la fase originaria che permette di cogliere e di
valutare, con la genesi dell’istituzione, la sua singolare natura, i
poteri esercitati dai tribuni della plebe, i risultati politici e
costituzionali dell’aspetto più propriamente pubblico della loro
intensa attività[5].
Sulla prima fase della storia del tribunato della plebe, dalle origini
dell’istituzione al 287, non intendo dunque tornare in questa occasione,
se non per ricordare che quest’anno (2007) ricorre – con il
cinquantenario della scomparsa di Gaetano De Sanctis[6]
– il centenario della pubblicazione dei primi due volumi della sua Storia dei Romani[7].
La partecipazione ad un convegno dedicato alla duplice ricorrenza dal Senato
della Repubblica e dall’Istituto della Enciclopedia Italiana[8]
mi ha dato appunto occasione di rileggere distesamente alcune parti di
un’opera, che si è ormai abituati più a consultare e citare
che a leggere, e di ammirare – per esempio – il capitolo dedicato a
«La plebe e i suoi tribuni»[9].
Della storia della plebe romana questo capitolo tratta la fase più
antica e più problematica (fino ai decemviri), che trova svolgimento in
successivi capitoli del volume, fino a quello su «L’ordinamento
centuriato»[10],
dove la trattazione giunge appunto al 287. «L’ultimo atto della
lotta due volte secolare tra patriziato e plebe [la citazione[11]
vuol rilevare soprattutto la sobria densità fattuale che sottende
l’interpretazione desanctisiana] fu la secessione del 287 circa. Il
popolo, esasperato ancora per le sofferenze dovute ai debiti ed all’usura
e perché proposte, non sappiamo precisamente di qual sorta, tendenti a
lenirle non potevano divenir leggi per l’opposizione del senato, si
ritirò di nuovo sul Gianicolo[12].
Fu creato allora dittatore Q. Ortensio, il quale apparteneva a una famiglia che
prima di lui [...] era stata illustrata solo da un tribuno della plebe [...].
Si richiedeva appunto un uomo nuovo a rinnovare la concordia, mentre la
nobiltà plebea si era ormai troppo allontanata dalla classe onde aveva
avuto origine. E Ortensio poté riuscir nell’intento facendo
approvare una legge che sanciva la validità dei plebisciti per tutto il
popolo [...]».
II
Passando
dunque alla seconda fase della storia del tribunato della plebe, dal 287 al
In
altri termini: una nobilitas
patrizio-plebea aveva sostituito l’aristocrazia patrizia come oligarchia
di governo dello Stato romano; il tribunato della plebe passava, così,
dal ruolo rivoluzionario della prima fase della sua esistenza al ruolo
istituzionale della seconda. È significativo, in questo senso, lo scarso
rilievo che Polibio dà ai tribuni della plebe nella descrizione della
perfetta costituzione mista che a lui pareva essere la costituzione romana fra
fine III e prima metà del II secolo: sia nel capitolo 14 del VI libro,
dove analizza i poteri del popolo, sia nei successivi capitoli 15 e 16,
dedicati ai condizionamenti e ai controlli che nei poteri del popolo trovavano
i poteri, rispettivamente, dei consoli e del senato[16].
III
Lo
svolgimento di una costituzione non scritta tende insomma a identificarsi,
sostanzialmente, con lo svolgimento storico generale. Ciò è tanto
più evidente nella terza fase della storia del tribunato della plebe,
dai Gracchi ad Augusto[17].
Trattare dell’istituzione nell’età della cosiddetta
«rivoluzione romana» (tale essa fu, in ogni caso, dal punto di
vista costituzionale) altro non è, infatti, che analizzare la concreta
sostanza politica dell’attività dei più significativi
tribuni della plebe e la ricaduta costituzionale che essa ebbe con la creazione
di precedenti, prontamente assorbiti da un sistema reso più agile dal
clima rivoluzionario, appunto, dell’epoca. L’analisi
–facilitata, resa anzi possibile dalle preziose liste del Broughton[18]
– sarebbe appunto da condurre in duplice direzione: della storia del
diritto pubblico romano, da una parte, e della storia romana tout court, dall’altra. Per quanto
riguarda la prima, la serie dei precedenti subito o presto accolti nel work in progress che è la
costituzione romana si apre già nel 133 con Tiberio Gracco che fa esautorare
il collega Ottavio, reo di essersi opposto alla legge agraria, e si ricandida
per il
Se
abbrevio drasticamente, non è solo per motivi di tempo (ed ora di
spazio). Ritengo, infatti, che ben più importante della sua pur
significativa ricaduta costituzionale sia, di per se stessa,
l’attività politica dei tribuni della plebe nell’età
del passaggio dalla repubblica al principato: dai Gracchi a Saturnino e
Glaucia, da M. Livio Druso (il tribuno del 91 che fu all’origine della
Guerra Sociale) a Servilio Rufo (il tribuno dell’88 che fu
all’origine della prima guerra civile)[22].
La portata rivoluzionaria del tribunato della plebe in quest’epoca fu
còlta lucidamente da Silla, che nella sua opera di restaurazione della
repubblica senatoria cercò innanzitutto di ridurre il tribunato ad una
«imago sine re» (così Velleio Patercolo[23]),
e di distogliere dal tribunato i migliori uomini politici con il divieto di
procedere ulteriormente nella carriera dopo l’esercizio di quella carica[24].
Come si sa, la legislazione antitribunizia di Silla fu rapidamente smantellata
dopo la sua morte, definitivamente con la lex
Pompeia Licinia de tribunicia potestate al tempo del primo consolato di
Pompeo e Crasso, nel
Nella
terza fase della sua esistenza (cioè, nell’età del
passaggio dalla repubblica al principato), il tribunato della plebe aveva
insomma recuperato il carattere rivoluzionario della fase iniziale. Con la
sostanziale differenza, però, che allora – nella prima fase
– i tribuni avevano condotto l’effettiva rivoluzione dei plebei
contro i patrizi[29],
ora – nella terza fase – si trovavano invece a capeggiare lo
schieramento progressista (dei populares)
contro lo schieramento conservatore (degli optimates)
all’interno della nobilitas,
cioè della stessa oligarchia di governo.
IV
Anche
Augusto (passando così alla quarta ed ultima fase dell’esistenza
del tribunato della plebe) dovette fare i conti con questa realtà. E li
fece meglio di Silla e di Cesare, combinando sapientemente – qui come
altrove – tradizione e innovazione. L’innovazione consisteva
nell’assunzione dell’inviolabilità tribunicia nel 36, ma soprattutto dell’intera tribunicia potestas nel 23. La questione
è complessa nel rispetto formale, non in quello della sostanza storica:
«La potestas tribunicia
conferita al principe senza che egli fosse sottoposto al veto degli altri
tribuni, non solo lo rendeva inviolabile, “sacrosanctus”, e gli consentiva di intervenire in qualsiasi
ramo della pubblica amministrazione, ma diveniva anche più grave ed
indefinito potere sia per l’impossibilità dell’intercessio da parte degli altri
tribuni, che non erano colleghi del principe, sia per la mancanza dei limiti
dell’annualità»[30].
Come dicevo all’inizio, annualmente iterata, la tribunicia potestas costituì uno dei due pilastri del potere
del princeps: di Augusto e dei suoi
successori. (L’altro pilastro era, ovviamente, l’imperium proconsulare maius et infinitum[31]).
Ma
non era ancora la fine del tribunato della plebe, perché Augusto –
nel rispetto formale della tradizione repubblicana che informa la sua
riorganizzazione dello Stato – conservò l’istituzione, con
quanto l’aveva caratterizzata nei secoli: intercessio, ius auxilii,
multae dictio, convocazione e
direzione delle adunanze della plebe, proposta delle leggi ecc. (per non dire
del numero dei tribuni, dieci, e della data del loro ingresso nella carica, il
10 dicembre)[32].
Come gradino del cursus honorum
senatorio, il tribunato della plebe compare nelle iscrizioni fino all’inizio
del III secolo; ma è ricordato ancora in costituzioni imperiali di
età tarda. Ma, più di questa estrema e problematica sopravvivenza
del tribunato della plebe, interessa il giudizio che di esso dava la classe
politica nel corso del principato. Nel 97, all’inizio di una fase della
storia imperiale che a Tacito[33]
pareva avesse riconciliato «res
olim dissociabiles […] principatum ac libertatem», Plinio
documenta le contrapposte opinioni sul tribunato della plebe, all’interno
della classe politica.
È
significativa, a questo riguardo, la sua risposta all’amico Pompeo
Falcone, che gli aveva chiesto se durante l’esercizio del tribunato
dovesse trattare cause: «Plurimum
refert quid esse tribunatum putes, inanem umbram et sine honore nomen an
potestatem sacrosanctam, et quam in ordinem cogi ut a nullo ita ne a se quidem
deceat»[34].
Fermamente convinto che si trattasse di una potestas
sacrosancta, Plinio si era appunto astenuto dal trattare cause quando era
stato tribuno (e – si noti – solo quando era stato tribuno[35]):
«primum quod deforme arbitrabar,
cui adsurgere cui loco cedere omnes oporteret, hunc omnibus sedentibus stare,
et qui iubere posset tacere quemcumque, huic silentium clepsydra indici, et
quem interfari nefas esset, hunc etiam conuicia audire et si inulta pateretur
inertem, si ulcisceretur insolentem uideri»[36].
Astenendosi dal trattare cause durante il tribunato, Plinio si era anche
sottratto ad una (quanto meno) imbarazzante eventualità: «si forte me adpellasset uel ille cui adessem,
uel ille quem contra, intercederem et auxilium ferrem an quiescerem sileremque,
et quasi eiurato magistratu priuatum ipse me facerem»[37].
Restava, naturalmente, a Pompeo Falcone decidere se far propria la scelta di
Plinio («His rationibus motus malui
me tribunum omnibus exhibere quam paucis aduocatum»[38]):
«Sed tu (iterum dicam) plurimum
interest quid esse tribunatum putes, quam personam tibi imponas; quae sapienti
uiro ita aptanda est ut perferatur»[39].
V
Concludo,
anche se il mio intervento dovrebbe cominciare ora. «Alius et idem», nel titolo, altro non è infatti che
una ipotesi di lavoro in ordine alla coesistenza di continuità e
discontinuità (o viceversa) nella lunga storia del tribunato della
plebe. Se gli elementi di discontinuità sembrano prevalere (e
oggettivamente prevalgono, ritengo) nel passaggio dalla prima alla seconda fase
e soprattutto nel passaggio dalla terza alla quarta, nella terza fase (dai
Gracchi ad Augusto) il tribunato della plebe dimostra la forza della sua
continuità – rispetto alla fase originaria – nel recupero
del carattere eminentemente rivoluzionario dell’istituzione, pur in una
prospettiva sociale, economica e politica del tutto diversa. Restano aperti due
problemi essenziali. Il primo, di merito, riguarda la valutazione del peso
formale e sostanziale degli elementi di continuità e
discontinuità che si lasciano riconoscere nel passaggio dall’una
all’altra fase di esistenza del tribunato della plebe. Il secondo problema
è di metodo: se, e in che misura, la considerazione dello svolgimento
del tribunato della plebe nel corso della sua lunga storia possa
retrospettivamente illuminare la fase originaria (e più caratteristica)
dell’istituzione, rivelandone le insite potenzialità. Affido agli
specialisti del tribunato della plebe due problemi che, non solo per ragioni di
tempo (e di spazio), mi sono limitato a proporre.
[1] Il
convegno si tenne a Perugia e a Gubbio dal 30 novembre al 2 dicembre 2006. Gli
atti sono stati pubblicati, nel corso del
[2] Ivi,
360-368. (A questo precedente contributo rinvio per i riferimenti documentari e
bibliografici di carattere generale sulla storia e i problemi del tribunato
della plebe).
[4]
Sullo svolgimento storico-politico del tribunato della plebe nel corso
dell’età repubblicana vd. J.
BLEICKEN, Das römische
Volkstribunat. Versuch einer Analyse seiner politischen Funktion in
republikanischer Zeit, in Chiron,
11, 1981, 87-108.
[5] I
risultati economici e sociali sono altrettanto e forse più importanti,
ma difficili da valutare per la deformazione anacronistica introdotta nelle
vicende più antiche dall’annalistica di età graccana e
sillana.
[7]
Torino 1907 (poi: Firenze 1956 e 1960; ivi, nel 1979, una terza edizione del I
volume a cura di S. Accame).
[9] G.
DE SANCTIS, Storia dei Romani, II, 1-40
= II, 2a ed., 1-38. (Nel quadro del rinnovato interesse per una delle
più singolari istituzioni del mondo romano, quale mostrano in particolar
modo i seminari di studi promossi da Pierangelo Catalano nel 2006 e nel 2007,
il capitolo che apre il II volume della Storia
dei Romani meriterebbe una specifica analisi, storica e storiografica).
[12] Liv.
Per. 11, 11 (secondo l’edizione
di P. JAL, Paris 1984): «Plebs
propter aes alienum post graues et longas seditiones ad ultimum secessit in
Ianiculum, unde a Q. Hortensio dictatore deducta est». Sul Gianicolo
sarebbe avvenuta già la terza secessione, guidata da Canuleio nel 445
per far accogliere la legge sul connubio fra patrizi e plebei. Nella diatriba
sulla localizzazione delle secessioni plebee (Aventino o Monte Sacro?), il
Gianicolo costituisce una variante non priva d’interesse: spero di
tornare sulla questione.
[13] Sul
tribunato della plebe nella seconda fase della sua esistenza vd. J. BLEICKEN, Das Volkstribunat der klassischen Republik. Studien zu seiner
Entwicklung zwischen 287 und 133 v. Chr., 2a ed., München 1968.
[14] G.
DE SANCTIS, Storia dei Romani, IV 1,
Torino 1923, 486-616 = IV 1, 2a ed., Firenze 1969, 473-600.
[16]
Rinvio al mio saggio Democrazia a Roma?
La costituzione repubblicana secondo Polibio, in Popolo e potere nel mondo antico, a cura di G. URSO, Pisa 2005, 85-
[17] Sul
tribunato della plebe nella terza fase della sua esistenza vd. L. THOMMEN, Das Volkstribunat der späten
römischen Republik, Stuttgart 1989.
[18]
T.R.S. BROUGHTON, The Magistrates of the
Roman Republic, I, American Philological Association 1951 (rist. 1968),
492-578, per quanto riguarda gli anni 133-100; II, ivi 1952 (rist. 1968).
[22]
Sugli anni dal 133 all’88 vd. A. LINTOTT, Political history, 146-95 b.c.,
in C.A.H. IX, 2a ed., 1994, 40-103;
E. GABBA, Rome and Italy: the Social War,
ivi, 104-128; R. SEAGER, Sulla, ivi,
165-
[25] Vd.
ivi, 146. Sul tribunato della plebe nel successivo decennio vd. T. P. WISEMAN, The Senate and the populares, 69-60 b.c.,
in C.A.H. IX, 2a ed., 1994, 327-
[26] Con
ovvio riferimento al titolo del libro di L. CANFORA, Giulio Cesare. Il dittatore democratico, Roma-Bari 1999 (che ha un
meno noto precedente, vale la pena di richiamare, nella definizione di
«monarca democratico» che Mommsen dava di Cesare nel III volume
della sua Römische Geschichte).
[27] Sul
significativo episodio, nel quadro della politica cesariana relativa al
tribunato della plebe, vd. DE MARTINO, Storia
della costituzione romana, III, 2a ed., 336-338.
[29] Vd.
A. GUARINO, La rivoluzione della plebe,
Napoli 1975 (e già TH. MOMMSEN, Römisches
Staatsrecht, III 1, Leipzig 1887, 144-145).
[30] F.
DE MARTINO, Storia della costituzione
romana, IV 1, 2a ed., Napoli 1974, 173 (e 169-173, sulla tribunicia potestas di Augusto).
[34]
Plin. Epist. 1, 23, 1 (qui e in
séguito, la lettera è citata dall’edizione di R. A. B.
MYNORS, Oxford 1963).
[35] Vd. A. N. SHERWIN-WHITE, The Letters of Pliny. A historical and
social commentary,