N. 7 – 2008 – Memorie//MMD-Giuramento-plebe-Monte-Sacro
Università
di Modena e Reggio Emilia
Aspetti “positivo” e
“negativo”
della sacrosancta
potestas
dei Tribuni della plebe
SOMMARIO: 1. Premessa.
I due ‘volti’ del potere tribunizio. – 2. ‘Ius agendi
cum plebe’; ‘ius agendi cum
senatu’. – 3. ‘Summa coercendi
potestas’. – 4. ‘Intercessio’.
– 5. Segue: sua univoca
natura.
Un celebre luogo del De legibus (3.8.19 - 3.10.25) vede Marco Tullio Cicerone confrontarsi
in un articolato scambio di idee con il fratello Quinto circa i poteri dei
tribuni della plebe. All’interlocutore che definisce pestifera quella potestas,
nata – afferma in un crescendo di animosità verbale –
«nella rivolta e per la rivolta (…), generata nella guerra civile
con le zone della città occupate e assediate», l’oratore,
dopo aver ammesso con tono assai più pacato di ritenere egli pure
eccessivo quel potere, risponde che «la violenza del popolo è
molto più feroce e sfrenata, e tuttavia, per solo il fatto di avere una
guida, risulta talora più moderata di quanto non lo sarebbe se non ne
avesse alcuna».
In uno studio del 1974 [1]
Giuseppe Grosso – distinguendo nel dialogo di cui sopra la
personificazione delle due anime, estremista e moderata della conservazione
– adombrava una tendenza della storiografia romana filo-ottimate tesa a
focalizzare - nell’ambito della tribunicia
potestas - soprattutto la facoltà di intercessio, in certo modo più tranquillante rispetto
all’iniziativa legislativa, perché non di ardua
reversibilità a vantaggio della parte conservatrice, come del resto con
sottile ironia rivela Cicerone stesso nel prosieguo del dialogo quando fa
notare al fratello che nel collegio dei dieci è dato in genere trovare
almeno un tribuno di sana mente, ossia, da diverso e più pragmatico
angolo visuale, la smagliatura da cui operare lo strappo.
In effetti, come pure emerge
dalla recente migliore dottrina in tema di tribunato della plebe, la
manifestazione più rilevante dei poteri ‘positivi’ dei
tribuni – convocazione e presidenza dei concilia plebis tributa da cui vengono deliberati i plebis scita, che quanto meno dal
Per quanto mi concerne non
sono convinto della tesi, pur recentemente abbastanza diffusa, della
trasformazione degli originari concilia
plebis – riuniti tributim a
partire dal
Va nondimeno sottolineato il
peso rilevante dell’aspetto ‘positivo’ della potestà
tribunizia che si estrinseca nella convocazione e nella presidenza dei concilia plebis. E ciò non solo
dal momento dell’equiparazione, anche formale, dei plebis scita alle leges
publicae, ma anche con riguardo al pur lungo periodo precedente, per la vis in ogni senso persuasiva della
sempre più forte e integrata componente plebea, come del resto
dimostrano le palesi oscillazioni della tradizione annalistica che, circa la
predetta exaequatio indica, come
è noto, ben tre distinti atti normativi lungo un arco di tempo di oltre
centosessant’anni (lex Valeria
Horatia del 449, lex Publilia Philonis del 339, e, appunto, lex Hortensia del 287).
Con l’ovvia premessa
che il presente rapido quadro di sintesi non rende giustizia alle moderne
indagini dottrinarie ove acutezza euristica e sorvegliata fantasia hanno,
insieme, dedicato alla quaestio
finissime ricostruzioni[3],
mi sentirei sul punto di concludere che problemi di anticipazioni e di
duplicazioni – o triplicazioni – a parte, tematica in cui in questa
sede non possiamo addentrarci, vi è, se così si può dire,
un sicuro collante logico-ermeneutico che unisce i tre provvedimenti, e
risiede, appunto, nella esigenza di racchiudere a posteriori entro un usitato involucro formale il dato per contro
di natura fattuale e di indiscutibile evidenza storica, di una
vincolatività dei plebis scita,
che, pur fluttuante e legata alle ovvie variabili contingenti, ci pone di
fronte ad un’unilateralità decisionale che assume di imporsi, in
buona sostanza – e comunque in progressione – riuscendoci,
all’intera compagine sociale.
In questo senso, per una
stretta associazione di idee, mi sovviene un’acuta considerazione di
Giovanni Lobrano[4],
che, sul più generale problema del fondamento giuridico della tribunicia potestas, rilevava come la
dottrina romanistica si sia sempre mostrata quasi – si direbbe –
‘ontologicamente’ refrattaria a ricollegarlo a
un’impostazione unilaterale della plebe, e ciò nonostante –
nel caso in parola si può dirlo senza tema – il limpido tenore
delle fonti nella predetta direzione.
Stando a Livio, 8.23.12, i
tribuni sarebbero titolari fin dal 326 del ius
sententiae dicendae in senato, e di una proposta del tribuno ai patres, che ovviamente presuppone il ius senatus habendi, ossia il diritto di
convocarlo e di dirigerne la discussione, si ha notizia, sempre da Livio,
22.61.7, per l’anno 216, nel quadro della guerra annibalica.
Da un testo ciceroniano (Phil. 7.1.1) si evince inoltre che il
tribuno poteva riferire al senato anche nel corso di una riunione convocata dal
console, benché l’oratore si mostri altrove (Ad fam. 1.2.2; anno
Anche se talora si è
sostenuto il contrario, sembra più convincente la soluzione che colloca
il diritto dei tribuni di esprimere in senato la propria opinione in un momento
anteriore rispetto al diritto di convocare e dirigere il consesso dei patres.
Particolarmente incisive
risultano, come è facile arguire, queste estrinsecazioni
‘positive’ della tribunicia
potestas, se si pensa alla rilevanza del senato nell’alta direzione
politica della res publica e alla
conseguente facoltà riconosciuta in tal modo ai tribuni, certo in un
quadro politico mutato rispetto ai lontani tempi ‘eroici’, che li
vede ora non di rado alleati dell’organo senatorio in funzione di
controllo costituzionale dell’operato dei magistrati maggiori.
Quasi a chiusura del circolo,
la lex Atinia de tribunis plebis in
senatum legendis – di data incerta, ma della seconda metà del
II secolo a. C. – riconosce agli ex tribuni l’ingresso in senato,
previo il rituale vaglio da parte dei censori.
Strettamente connessa –
sul piano storico e di logica politica – alla facoltà di intercessio, e quindi in certo modo
connaturale all’aspetto ‘negativo’ della potestà
tribunizia, ma che poi si può dire assuma una sorta di valenza
‘positiva’ – e che quindi potrebbe anche essere considerata
alla stregua di trait d’union
tra l’una e l’altra – è la summa coercendi potestas dei tribuni, in forza della quale –
almeno fino al divieto decemvirale di indemnatum
hominem interfici ([Salv. De
gubernat. Dei 8.5] ossia di mettere a morte una persona senza la pronuncia
di una preventiva regolare condanna) - essi infliggono pene capitali senza
possibilità di provocatio
– ed è, questo, un potere sconosciuto agli stessi magistrati
patrizi –, ordinano l’arresto, irrogano multe, dispongono il
sequestro di beni.
La citata norma della legge
delle XII tavole mirava evidentemente a porre fine ai giudizi capitali
celebrati dai tribuni davanti ai concilia
plebis con metodi rivoluzionari, e, secondo l’interpretazione a mio
avviso preferibile[5],
non è da ritenersi assorbita dall’altra norma dell’antico
codice che designa come unico organo competente a condannare a morte un
cittadino il maximus comitiatus,
cioè l’assemblea delle centurie (Cic., De leg. 3.11), in quanto quest’ultima è una norma
sulla competenza, la prima si pone invece come statuizione incriminatrice.
Il volto
‘negativo’ della potestas, ossia il potere di intercessio, pur con la tara dei meccanismi di volta in volta
escogitati per disattivarne la carica, nonché delle interpretazioni
più o meno ad arte amplificatrici di una storiografia che può
dirsi bimillenaria, resta pur sempre un volto terribile, a segnare la vera
prerogativa antonomastica dei difensori del popolo.
Un potere idoneo a bloccare o
ad annullare qualsiasi atto degli organi costituzionali di Roma – senato,
magistrati, comizi –, le proposte di legge, le elezioni alle
magistrature, l’imposizione dei tributi, la leva militare.
Un potere per cui è
assi difficile rinvenire limiti sicuri e costanti, che, cioè, non siano
mai venuti meno o mai discussi, il più fermo dei quali si identifica
probabilmente – fino alla tarda repubblica – nella sentenza del
giudice, civile o penale; anche se al tribuno è dato intervenire prima,
contro i decreti dei magistrati in sede di giurisdizione, paralizzando
così la vicenda processuale nel suo nascere. Quantunque, anche per il
caso citato, non si possa tacere di un passo di Livio (6.27.11, anno
Un potere che, anche nei
periodi in cui l’orologio della repubblica scandisce il tempo senza
particolari sussulti, impedisce di considerare i tribuni magistrati come gli
altri, o, addirittura, come insegna Plutarco di Cheronea nelle Quaestiones Romanae (81), magistrati tout court.
La pratica dell’auxilii latio a difesa del plebeo
minacciato, gestita in antico con la fisica interposizione del tribuno tra il
proprio sodale e il littore già in procinto di dare di piglio, di
percuotere, di uccidere – e di tale origine fattuale, per tacere
dell’etimo rivelatore, si trova a mio credere almeno un chiaro segno
nelle fonti (Livio 3.11.1-2)[6]
– dà vita a questo generale potere di intercessio, destinato a diventare nella costituzione repubblicana
matura, incardinata sul compromesso licinio-sestio del 367, il potere
‘negativo’ riconosciuto dalla civitas
ai tribuni della plebe.
La tradizione annalistica,
come ben sa chi a vario titolo ne ha sperimentato le rotte, è un mare magnum tanto sconfinato quanto
infido, ove è frequente che l’interprete si trovi senza
accorgersene coinvolto in un illusorio gioco di specchi. Non vi è
percorso interpretativo che non incontri, qui ben più che in altri
campi, almeno un testo in grado di revocare tutto quanto in discussione.
Anche sulla storia del
tribunato romano alcuni passi delle fonti, interpretati in una certa chiave,
hanno dato vita a tesi ‘eretiche’ in cui pure non possono non
ammirarsi la coerenza interna e l’acume ricostruttivo[7].
Con l’ovvia premessa di
cui sopra, le mie attuali ricerche nel settore[8]
mi inducono a dubitare che l’intercessio
tribunizia possa riconnettersi al principio della collegialità piuttosto
che alla sua origine di natura rivoluzionaria. Se ciò è
abbastanza evidente - e in genere riconosciuto in dottrina - nel caso di veto
opposto dal tribuno a un magistrato curule, lo diventa in realtà assai
meno allorché il medesimo si indirizza verso un altro tribuno
all’interno del collegio.
Certo, se si prescinde dalle
due fasi autenticamente rivoluzionarie presenti nella storia del tribunato
romano, e cioè la lotta per la parificazione degli ordini dei secoli V e
IV a. C. e l’età graccana, ci si trova di fronte
all’immagine di una carica inserita in forma integrata nel meccanismo della
res publica e addirittura nel cursus honorum. Ma è, questa, a
mio credere un’arma che non muta i propri caratteri perché per un
tempo più o meno lungo vi si fa un ricorso limitato o di routine.
Un po’ troppo
facilmente – sia pure con l’autorità di Theodor Mommsen[9]
– si è talora cercato di smentire il dittatore Marco Furio Camillo
allorché minaccioso avverte i tribuni che non permetterà che essi
stessi vanifichino l’intercessio
secessione quondam plebis parta,
che in questo caso si riferisce proprio al veto opposto da tribuni ad altri
tribuni nelle vicende che preparano il compromesso istituzionale del 367 (Liv.
6.38.5-6).
Il ricondurre l’intercessio opposta da tribuno a tribuno
all’interno della collegialità, e quindi nel gioco asettico della par potestas, si rivela il portato di
un’assonanza esterna, direi quasi fenomenologica, con le magistrature
della Città-stato. In fondo è anche un modo, più o meno
consapevole, per disattivarne in non lieve misura la portata: di fronte all’intercessio di uno dei tribuni, atto che
in sé non richiede giustificazioni di sorta, tutti gli altri si devono
fermare: potentior est qui intercedit
(Sen. Maior, Contr. 1.5.3), e qui la partita irrimediabilmente
finisce.
Nell’ottica indicata
è consequenziale concludere che Tiberio Gracco, il quale, urtando contro
il veto ostinato di Marco Ottavio, porta a compimento la riforma agraria
mediante l’abrogatio del
collega, infligga alla costituzione repubblicana un vulnus profondo e pernicioso, che, per ciò stesso, si pone
come inizio di un annunciato tracollo istituzionale.
Al fine di neutralizzare
l’intercessio di Ottavio
– scriveva Vincenzo Arangio-Ruiz nella sua inimitabile Storia del diritto romano[10]
– «egli [Tiberio Gracco] si valse di uno di quei ragionamenti
speciosi, capaci di profonde ripercussioni politiche ma assolutamente privi di
valore giuridico: che cioè non agisse da tribuno della plebe chi in una
questione di importanza capitale si poneva contro gli interessi della plebe
medesima».
Sul piano dello stretto
diritto e – sottolineo – se l’intercessio si fonda in questo caso sul rapporto collegiale, nulla
da obiettare: ma proprio qui sta, a mio avviso, il punto da decidere.
Non sembra un caso che
Polibio (16.1.5) in una temperie che certo non può qualificarsi
rivoluzionaria, scriva che «i tribuni devono sempre eseguire la
volontà del popolo e soprattutto assecondarne i desideri».
Nemmeno può dirsi che
questo citato sia il solo frangente in cui l’intercessio di un tribuno viene disattivata: stando a Livio
(10.37.6-12), nel quadro della delicata questione relativa al trionfo di
Postumio (
Almeno nei casi in cui alta
è la posta in gioco, la suscettibilità dell’intercessio tribunizia inter collegas ad essere proprio entro
quell’ambito superata, lungi dal segnarne un limite, ne custodisce al
contrario la forza. L’avallo rivoluzionario sorveglia il veto opposto al
console o al senato come il veto opposto al collega tribuno, perché i
secoli possono trascorrere ma il problema di fondo non cambia: difesa –
contro la minaccia di qualunque provenienza – di volta in volta degli
oppressi, dei deboli, dei subordinati, dei governati.
E proprio quell’avallo
rivoluzionario, che in epoche lontane si pose come la fonte prima del potere
ineffabile di chi inerme si parava davanti al magistratus rei publicae dotato del supremo potere di comando
– pur nel mutare delle condizioni storiche e quasi ad onta di forbite
ingegnerie costituzionali –, non ha mai abdicato, in fondo, al proprio
destino di costituirne la scorta.
[2] F. CÀSSOLA - L. LABRUNA, in Lineamenti di storia del diritto romano2 (direz. M. Talamanca),
Milano 1989, 223 s.
[3] Per
una più dettagliata informazione bibliografica mi permetto di rinviare a
R. LAMBERTINI, Sull’origine e la
natura dell’’intercessio’ tribunizia, in Tradizione romanistica e Costituzione - Cinquanta anni della Corte costituzionale
della Repubblica italiana (dir. L. Labruna; cur. M.P. Baccari - C.
Cascione), I, Napoli 2006, 613 ss.
[7]
Basti qui citare P. ZAMORANI, Plebe genti
esercito. Una ipotesi sulla storia di Roma (509-
[11]
Sull’episodio, che registra una differente versione in Dionigi di
Alicarnasso (17-18.5.3-4), si veda da ultimo A. PETRUCCI, Osservazioni sui rapporti tra organi della ‘res publica’
tra IV e II secolo a. C., in Tradizione
romanistica e Costituzione, I, cit., 717 s. (Cfr. anche IDEM, Il trionfo nella storia costituzionale
romana dagli inizi della repubblica ad Augusto, Milano 1996, 52 ss.).