N. 7 – 2008 – D & Innovazione

 

Nesso causale

(una prospettiva gius-realista)

 

VINCENzO Zeno-Zencovich

Università di Roma Tre

 

 

 

Sommario: 1. Qualche richiamo storico. – 2. Teorie causali e pensiero filosofico. – 3. L’evoluzione delle teorie causali. – 4. La funzione delle teorie causali. – 5. Nesso causale e ruolo del giudice. – 6. La fuga dalle regole causali. – 7. Il nesso causale come fattore variabile. – 8. Nesso causale e retorica dell’argomentazione.

 

 

1. – Qualche richiamo storico

 

La Bibbia, nel libro dell’Esodo (21:12 ss.) presenta numerosi problemi causali: «Colui che colpisce un uomo causandone la morte sarà messo a morte» (versetto 12). «Quando un bue cozza con le corna contro un uomo o una donna e ne segue la morte, il bue sarà lapidato e non se ne mangerà la carne. Però il proprietario del bue è innocente» (versetto 28). «Quando il bue di un uomo cozza contro il bue del suo prossimo e ne causa la morte, essi venderanno il bue vivo e se ne divideranno il prezzo; si divideranno anche la bestia morta» (versetto 35).

I passi riportati riflettono tendenze già presenti  in area mesopotamica e ben espresse nel c.d. Codice di Hammurabi agli artt. 195/267. In particolare la responsabilità del medico e del veterinario e le conseguenze dei loro atti sono ampiamente trattate (artt. 215-225), nonché la responsabilità per fatto degli animali in termini quasi identici a quelli della Bibbia (artt. 251,252).

I riferimenti antichistici non servono ad pompam quanto ad evidenziare come le questioni intorno al rapporto fra fatto, evento e responsabilità sono antiche come il diritto e dunque nihil sub sole novi.

Tuttavia va sottolineato che fintanto che la responsabilità si fonda su una azione diretta dell’agente esse sono relativamente semplici e si complicano quando nella prima grande esperienza occidentale di società fortemente organizzate da leggi e istituzioni come l’impero romano compaiono i quasi delicta che introducono il seme della responsabilità oggettiva (le actiones de depositis et suspensis, de effusis et deiectis, in factum contra nautas caupones et stabularios).

 

 

2. – Teorie causali e pensiero filosofico

 

Da quel momento l’evoluzione economica e sociale, e dunque giuridica, porta ad attribuire gradualmente sempre maggiore rilievo ai problemi causali sotto almeno tre profili che continuano ad agitare il dibattito teorico e l’applicazione pratica.

1.   Il principio della responsabilità individuale, particolarmente rilevante nel campo del diritto penale per la gravità delle conseguenze personali (privazione della vita o della libertà) che ne derivano.

2.   Il problema della giusta e/o efficiente allocazione dei danni verificatisi

3.   La perimetrazione delle conseguenze dannose ai fini del risarcimento

 

Nelle società pre o proto-industriali i tre aspetti sono il più delle volte sovrapposti se non confusi. Di qui una forte esigenza – che si esprimerà nell’800 – di una sistemazione teoretica del nesso causale. Non a caso il tema diviene un punto centrale della filosofia, la quale sviluppando concetti già presenti nell’opera aristotelica, si sforza di offrire al giurista una soluzione coerente.

La importanza è dimostrata dal fatto che esso è fortemente presente non solo nelle metafisiche ed idealistiche dottrine tedesche (ad es. Kant, Feuerbach) ma anche in quelle ben più sociali e pragmatiche inglesi (ad es. Hume, Mill, Spencer).

 

 

3. – L’evoluzione delle teorie causali

 

Un approccio gius-realistico, nel cercare di offrire un bilancio di circa due secoli di straordinaria riflessione filosofica sul nesso causale, non può che mettere in luce i seguenti fatti:

a)   Le teorie sul nesso causale nell’ambito giuridico sono innumerevoli. Esse si contendono il campo, nessuna riuscendo a prevalere sulle altre. Al tempo stesso sono tutte “vere” e tutte “false”. Ma ciò ha poca importanza, quel che conta è che i giuristi di tutta la tradizione giuridica occidentale sentono, prepotentemente, l’esigenza di affrontare e risolvere questioni causali.

b)   Le teorie sul nesso causale si moltiplicano in relazione a numerosi fattori: i mutamenti economici e sociali, le ideologie dominanti in alcune epoche, il progresso nelle conoscenze scientifiche, la materia alla quale si applicano.

i.     Sarebbe ingenuo pensare che il prevalente sistema economico e sociale non influenzi le teorie sul nesso causale e la loro concreta applicazione. Basti pensare al ruolo della condicio sine qua non in contesti a forte caratterizzazione liberista e alla sua esclusione in modelli solidaristici (ad es. infortuni sul lavoro). I principi sul nesso causale e ancor più la loro esplicazione giudiziale, quando visti in una prospettiva di lunga durata, sono coerenti con la società in cui si collocano e contribuiscono a caratterizzarla: il sistema sociale influenza le teorie causali, le teorie causali sono uno specchio della società.

ii.    Al tempo stesso questa coerenza si rinviene con le dominanti correnti filosofiche di talune epoche. L’attuale frammentazione delle dottrine non ci impedisce di cogliere l’impronta idealistica, positivista, utilitarista, analitica in tante teorie. Ed il giurista che tali teorie assimila non può non esserne influenzato.

iii.   Il problema del nesso causale costituisce uno dei principali canali di comunicazione fra diritto e scienza. Il gius-realista tende a fornire di ciò due spiegazioni:

-             la prima è quella del tentativo, tutto ottocentesco ma ancora vivo nel linguaggio, di presentare il diritto non come insieme di regole sociali bensì come “scienza giuridica”. Le regole devono dunque essere “scientifiche”: esatte ed universali

-             nelle società laicizzate il richiamo alla scienza sostituisce argomentativamente e retoricamente quello alla divinità e alle sacre scritture. La scienza, anzi la “prova scientifica”, è il vero e proprio deus ex machina del diritto e, soprattutto, di quel dramma che è il processo. Ovviamente non interessa qui contestare gli assunti e la fondatezza della fiducia nella scienza, quanto prendere atto che di essa, sotto svariate forme (indagini di laboratorio, statistiche, dati epedemiologici ecc.), si fa un uso sempre più diffuso.

iv.   Le teorie causali sono diverse – ed è probabilmente opportuno sia così – a seconda della materia in cui esse devono essere utilizzate. Stabilire se un imputato sia colpevole e debba essere condannato per omicidio non è la stessa cosa che stabilire se un prodotto ha arrecato un danno ad un consumatore. Accertare la responsabilità in un sinistro stradale non è la stessa cosa che accertarla con riferimento all’individuazione delle concause umane di un disastro naturale. Stabilire le conseguenze di una colposa interruzione dell’energia elettrica non è la stessa cosa che stabilirle con riguardo a false o errate comunicazioni ai mercati finanziari. Nel diritto internazionale, nel diritto del lavoro, nel diritto amministrativo i principi causali sono adattati alla peculiarità della disciplina.

 

 

4. – La funzione delle teorie causali

 

L’ultima considerazione porta il gius-realista a interrogarsi sulle funzioni delle teorie causali. Perché ad esse si attribuisce tanta importanza, perché sollevano tanto dibattito, perché si contendono fra di loro il campo?

a)   Una prima risposta, apparentemente semplicistica, è che il nesso causale appare inestricabilmente legato a quello della giustizia, cioè quello che è (o appare) giusto. Una “teoria della giustizia” (per usare il titolo del fortunato libro di John  Rawls) richiede una “teoria causale”, e questo sia che si propenda verso una giustizia distributiva (come pensa Rawls) oppure verso una giustizia correttiva (come pensano altri). Le teorie causali “giustificano” (in senso sia proprio che figurato) le decisioni dei giudici, stabilendo o negando un nesso (nexus: cioè vincolo) fra un accadimento ed un soggetto. Non vi è arbitrio – che è l’opposto della giustizia – bensì razionale ponderazione (la bilancia nell’allegoria della giustizia) di tutti gli elementi noti (e anche di quelli ignoti) in funzione di una pronuncia che colpirà qualcuno (è la spada dell’allegoria).

b)   La seconda risposta – meno metagiuridica – è che la funzione del nesso causale è quella di tecnicizzare le decisioni rendendole più verificabili. Le teorie causali segnano il passaggio da una “giustizia naturale” ad una “giustizia finalistica” che si pone una serie di obiettivi, e dunque richiede l’utilizzo di strumenti logici coerenti con essi.

c)   Una terza risposta è che le teorie causali servono non tanto alla decisione, ma soprattutto a dettare regole nei confronti dei consociati. La loro formulazione tecnica consente di indirizzare la condotta prevedendone le conseguenze. Una “funzione sociale” delle teorie  causali dunque che, se riproducono modelli scientifici, costituiscono vere e proprie linee-guida in numerosi settori (si pensi alla produzione di beni di consumo di massa, alla costruzione di immobili o mezzi di trasporto, alla organizzazione aziendale). Il più delle volte tutte queste funzioni, ed altre ancora, sono presenti congiuntamente, talvolta occultate, talvolta palesate. Le letture “funzionali” del nesso causale hanno comunque come conseguenza l’interrogarsi non tanto sulla astratta condivisibilità delle teorie causali, bensì sulla loro coerenza e idoneità rispetto agli obiettivi fissati. E, di conseguenza, a legittimare la grande varietà di orientamenti sia pure a scapito della certezza del diritto.

 

 

5. – Nesso causale e ruolo del giudice

 

Se sicuramente le teorie causali trovano i loro primi artefici nei filosofi e nella più elevata dottrina giuridica, chi le trasforma in strumenti dell’agire giuridico e ne decreta il successo o l’oblio sono i giudici. Questo è ovvio nel campo del diritto penale e della responsabilità civile, ma si è progressivamente esteso a praticamente a tutti i settori del diritto nei quali è richiesto l’intervento del giudice.

Da questo punto di vista lo studio delle teorie causali applicate non è solo uno studio di diritto giurisprudenziale ma anche di sociologia degli ordinamenti giudiziari. «Dimmi che regole causali utilizzi, e ti dirò che giudice sei» parrebbe un appropriato adattamento del proverbio.

Proprio perchè le teorie causali sono funzionali all’amministrare una giustizia “giusta” da esse comprendiamo il ruolo che il giudice intende avere nella società. Il formalismo piuttosto che l’attivismo, il “medico della società” piuttosto che l’attento allocatore di risorse, il “judicial self restraint” piuttosto che il servitore della legge. A tutti questi modelli di giudice, presenti (e spesso compresenti) negli ordinamenti occidentali corrisponde un modello di causalità.

L’argomento del nesso causale è, all’apparenza,  neutrale giacchè esso può essere utilizzato sia per mantenere il sistema saldamente arroccato sui consolidati principi di responsabilità  (ed è questa, tipicamente, l’esperienza inglese), sia per aprire la strada verso nuove forme di responsabilità e di danno (è il caso della perdita di chances, della market-share-liability, della prova statistica, utilizzate dal giudice americano).

Di qui l’importanza attribuita alle contese sulle regole causali, giacchè esse vengono viste come il baluardo contro il profluvio di azioni giudiziarie (è il c.d. flood-gates argument che da Shakespeare in poi muove il giudice inglese), oppure, al contrario, come araldo della giustizia.

Tale dimensione giudiziaria delle regole causali fa assumere ad esse una connotazione particolare.

Il gius-realista – ma anche altri – vede nelle regole causali un mezzo, non un fine, per decidere quella specifica controversia. Estremizzando direbbe che il giudice ha già deciso e l’argomentazione causale gli è necessaria per presentare in maniera appropriata la sua sentenza.

Ma in questo dibattito sulle regole causali chiunque si rende conto che si tratta di una evoluzione antitetica al metodo tipico delle vere scienze.

Con riguardo a queste ultime l’osservazione dei fatti porta ad enucleare induttivamente quelle regole che si ripetono con regolarità causale.

Nella sequenza dei casi giudiziari la regola causale viene, invece, deduttivamente applicata a fattispecie diverse.

Non sfugge, poi, che l’individuazione di una regola nel contesto di una controversia giudiziale porta spesso all’esigenza di scegliere fra due soluzioni opposte (assoluzione/condanna) ovvero di mediare fra di loro (concorso di responsabilità). L’aula di qualsiasi tribunale è ben diversa dalla rarefatta ed elegante pagina teorica in cui tutti i tasselli trovano la loro coerente collocazione. La lotta per il diritto è concretamente lotta per la vita, la libertà, il patrimonio, l’onore. Gruppi sociali più o meno ampi si fronteggiano (imputati contro parti offese, danneggiati contro vittime, produttori contro consumatori, poteri pubblici contro cittadini). Il giudice è chiamato a risolvere la controversia e chiede aiuto all’argomentazione causale.

 

 

6. – La fuga dalle regole causali

 

La complessità e l’opinabilità delle regole causali, assieme al costo delle procedure per la loro verificazione, sono alcune delle ragioni che portano tutti i sistemi giuridici occidentali ad una “fuga” dalla causalità.

a)   Essa è risalente nel tempo e non potrebbe essere meglio illustrata che dai sistemi di assicurazione per gli infortuni sul lavoro che si affermano in Europa già al finire del XIX secolo. È il fatto oggettivo dell’infortunio a legittimare la pretesa indennitaria. Non v’è spazio per indagini su colpa o nesso causale che condurrebbero, spesso, a negare ogni ristoro per via dell’emersione di auto-responsabilità e di eventi imprevedibili (e dunque causalmente remoti). I sistemi indennitari negano in radice la rilevanza di questioni causali (negli ordinamenti contemporanei si pensi ai sistemi di riparazione del danno a vittime di reati, di incidenti medici, di sinistri stradali anonimi, di disastri naturali) per alcune ragioni abbastanza ovvie, la prima delle quali è che non è necessario collegare un fatto ad un responsabile (che dovrà espiare o pagare). La seconda è che la relativa rigidità degli importi erogati rende scarsamente rilevante, in termini monetari, il concorso causale del danneggiato; ed infine, e collegato al precedente, l’argomento che i sistemi indennitari riflettono logiche solidaristiche e non di giustizia: tutti sono uguali nella disgrazia. Non è un caso che i sistemi indennitari siano in generale extra-giudiziari, trattandosi di una questione “amministrativa” e non una per la quale si richiede l’intervento di un giudice.

b)   L’altra via di fuga della causalità è rappresentata dalla responsabilità oggettiva. Il mero accadimento fa sorgere una presunzione di responsabilità ed obbliga al risarcimento. Tale presunzione varia di intensità, ma trova il suo più forte alleato nell’inversione dell’onere della prova. Senza scomodare ricostruzioni filosofiche, provare l’inesistenza di un nesso causale (ovvero di ogni diversa causa) è ben più difficile che provare la sua esistenza. Il presunto danneggiante si batterà solo in quei casi in cui ritiene di avere qualche ragionevole probabilità di fornire la probatio diabolica. Negli altri casi lascerà il campo all’avversario e si limiterà a tentare di ridurre i danni. Che non valga l’inverso è particolarmente evidente nel contenzioso civile nei casi in cui grava sull’attore l’onere di provare il nesso causale, giacchè la valutazione probabilistica è stata già effettuata in limine decidendo se agire oppure no.

c)   Vi sono poi percorsi più “tecnici” e casistici che consentono al giudice di sfuggire alle problematiche causali o enfatizzando l’elemento soggettivo (“l’intenzione” del danneggiante) oppure sviluppando il collaudato (in tutti i sistemi giuridici) meccanismo delle finzioni, sostituendo il fatto reale con uno supposto, come avviene con la c.d. perdita di chances.

 

 

7. – Il nesso causale come fattore variabile

 

Il campo della responsabilità civile extracontrattuale costituisce un terreno di elezione per la verifica delle teorie causali sia perchè è quello più collaudato, sia per il numero di occasioni in cui esse vengono messe alla prova. Esso finisce per svolgere un ruolo paradigmatico per i tanti altri campi nei quali pure esse vengono invocate.

Ora, l’esperienza comparata ci mostra come, nella responsabilità extracontrattuale, il nesso causale sia un fattore variabile.

a)   In taluni casi esso è del tutto assente come nel caso della responsabilità del datore di lavoro per il fatto del dipendente (art. 1384 cod. Nap., art. 2049 cod. civ. it.). E’ palese che nessuna teoria causale riuscirebbe a collegare il fatto dell’assunzione di un dipendente che, anni dopo, provoca un sinistro con il sinistro stesso.

b)   In generale, però, l’elemento causale è funzione di altri tre aspetti: la colpa dell’agente, la natura degli interessi lesi, l’entità del danno arrecato. Semplificando, si può dire che il rigore nella regola causale sarà inversamente proporzionale rispetto alla gravità della colpa (o, addirittura, il dolo), alla collocazione gerarchica dell’interesse protetto (primo fra tutti, la vita) e alle dimensioni dell’evento dannoso. Quando il valore attribuito ad uno di questi elementi è particolarmente elevato il giudice tenderà a ridurre il rilievo delle regole causali, ovvero a ritenere facilmente provato il nesso.

L’utilizzo dell’espressione latina res ipsa loquitur – coniata da un giudice inglese dell’800 per aggirare le questioni sul perchè un barile di granaglie fosse volato da un magazzino su un malcapitato passante – e la sua talismanica fortuna è il miglior esempio di come ciascun caso possa avere la sua regola (causale).

 

 

8. – Nesso causale e retorica dell’argomentazione

 

Il gius-realista è portato a concludere, guardando alla sterminata riflessione sui problemi causali e alle ricorrenti, nei secoli, similitudini fra gli ordinamenti giuridici, che la teoria del nesso causale svolge una potente – e dunque essenziale – funzione nella retorica dell’argomentazione giudiziaria. Essendo risultati vani – come è ovvio avvenga sul piano delle idee – i tentativi di accreditare una sola teoria causale, ovvero di sbarazzarsene, la circostanza della sua centralità si spiega con il fatto che il giudice deve motivare la sua decisione e ci si attende che egli tratti anche l’argomento causale. Se non lo facesse difetterebbe uno degli elementi costituitivi della fattispecie che abbiamo visto essere presente fin dai tempi biblici, ed incorrerebbe in un vizio della motivazione sanzionato, in tutti gli ordinamenti, dalla riforma della decisione.

Al gius-realista dunque interessa poco che le teorie causali siano “corrette” o “sbagliate” (qualificazioni che implicano l’esistenza di un metro esterno di valutazione, che non c’è) ma se l’uso che se ne fa appare convincente a coloro cui la decisione è rivolta: la comunità giuridica e gli ambienti sociali che ne sono toccati.

Una regola causale, dunque, funziona se la sua applicazione contribuisce a convincere della correttezza dell’esito raggiunto.

Si tratta di quel che Hart e Honorè chiamano il «senso comune» della causalità, perchè spiega perchè un certo fatto deve, o non deve, essere riferito a qualcuno. Su questo piano ciò che conta, più dei fatti, è il potere di convincimento delle parole di fronte alle quali ad un osservatore terzo venga da commentare: «E’ giusto così».

Tale approccio non deve sembrare nè astratto nè semplicistico ma trova innumerevoli riscontri giurisprudenziali, di cui il più evidente è rappresentato dalla sentenza che solitamente viene indicata, nell’ordinamento italiano, come l’esposizione dei principi fondamentali che devono essere seguiti dal giudice nella applicazione delle regole causali, e cioè la nota Cass. SS.UU. 10 luglio/11 settembre 2002, Franzese. Tutta la decisione, infatti, ruota intorno al concetto di «alta o elevata credibilità razionale», nel quale i due termini “credibilità” e “razionale” hanno a che vedere con il modo con il quale gli argomenti vengono posti e sviluppati.

Quando, a conclusione dell’articolato discorso la sentenza dice che «alla Corte di Cassazione, quale giudice di legittimità, è assegnato il compito di controllare retrospettivamente la razionalità delle argomentazioni giustificative – la cosiddetta giustificazione esterna – della decisione, inerente ai dati empirici assunti dal giudice di merito come elementi di prova, alle inferenze formulate in base ad essi ed ai criteri che sostengono le conclusioni: non la decisione, dunque, bensì il contesto giustificativo di essa, come esplicitato dal giudice di merito nel ragionamento probatorio che fonda il giudizio di conferma dell’ipotesi sullo specifico fatto da provare» il gius-realista ne trae la conclusione che la regola causale corretta è quella che convince. E che, nel caso concreto, sono ritenute convincenti le spiegazioni controfattuali, mentre invece non lo sono quelle basate (solo) su un coefficiente di probabilità.

 

*  *  *  *

 

Concludendo: l’esperienza comparata – da cui le riflessioni che precedono sono tratte – ci dice che i giudici, di qualsiasi ordinamento, hanno un rapporto quasi alchimistico con le regole causali, sottoponendole ai più svariati esperimenti ed usandole per il raggiungimento degli scopi che sono loro assegnati. Il concetto si tramuta in decisione e la decisione muta la realtà o ne sancisce la non modificabilità. Da questo punto di vista il nesso causale non è solo uno strumento del giudice ma anche un potente stimolo al suo operare.