Nesso causale
(una prospettiva
gius-realista)
Università di Roma Tre
Sommario: 1. Qualche richiamo
storico. – 2. Teorie causali e pensiero
filosofico. – 3. L’evoluzione
delle teorie causali.
– 4. La funzione delle teorie
causali. – 5. Nesso causale e ruolo del
giudice. – 6. La fuga dalle regole causali. – 7. Il nesso causale come
fattore variabile.
– 8. Nesso causale e
retorica dell’argomentazione.
La
Bibbia, nel libro dell’Esodo (21:12 ss.) presenta numerosi problemi
causali: «Colui che colpisce un uomo causandone la morte sarà
messo a morte» (versetto 12). «Quando un bue cozza con le corna
contro un uomo o una donna e ne segue la morte, il bue sarà lapidato e non
se ne mangerà la carne. Però il proprietario del bue è
innocente» (versetto 28). «Quando il bue di un uomo cozza contro il
bue del suo prossimo e ne causa la morte, essi venderanno il bue vivo e se ne
divideranno il prezzo; si divideranno anche la bestia morta» (versetto
35).
I
passi riportati riflettono tendenze già presenti in area mesopotamica e ben espresse nel
c.d. Codice di Hammurabi agli artt. 195/267. In particolare la
responsabilità del medico e del veterinario e le conseguenze dei loro
atti sono ampiamente trattate (artt. 215-225), nonché la
responsabilità per fatto degli animali in termini quasi identici a
quelli della Bibbia (artt. 251,252).
I
riferimenti antichistici non servono ad pompam quanto ad evidenziare
come le questioni intorno al rapporto fra fatto, evento e responsabilità
sono antiche come il diritto e dunque nihil sub sole novi.
Tuttavia
va sottolineato che fintanto che la responsabilità si fonda su una
azione diretta dell’agente esse sono relativamente semplici e si
complicano quando nella prima grande esperienza occidentale di società
fortemente organizzate da leggi e istituzioni come l’impero romano
compaiono i quasi delicta che introducono il seme della
responsabilità oggettiva (le actiones de depositis et suspensis, de
effusis et deiectis, in factum contra nautas caupones et stabularios).
Da
quel momento l’evoluzione economica e sociale, e dunque giuridica, porta
ad attribuire gradualmente sempre maggiore rilievo ai problemi causali sotto
almeno tre profili che continuano ad agitare il dibattito teorico e
l’applicazione pratica.
1. Il
principio della responsabilità individuale, particolarmente rilevante
nel campo del diritto penale per la gravità delle conseguenze personali
(privazione della vita o della libertà) che ne derivano.
2. Il
problema della giusta e/o efficiente allocazione dei danni verificatisi
3. La
perimetrazione delle conseguenze dannose ai fini del risarcimento
Nelle
società pre o proto-industriali i tre aspetti sono il più delle
volte sovrapposti se non confusi. Di qui una forte esigenza – che si
esprimerà nell’800 – di una sistemazione teoretica del nesso
causale. Non a caso il tema diviene un punto centrale della filosofia, la quale
sviluppando concetti già presenti nell’opera aristotelica, si
sforza di offrire al giurista una soluzione coerente.
La
importanza è dimostrata dal fatto che esso è fortemente presente
non solo nelle metafisiche ed idealistiche dottrine tedesche (ad es. Kant,
Feuerbach) ma anche in quelle ben più sociali e pragmatiche inglesi (ad
es. Hume, Mill, Spencer).
Un
approccio gius-realistico, nel cercare di offrire un bilancio di circa due
secoli di straordinaria riflessione filosofica sul nesso causale, non
può che mettere in luce i seguenti fatti:
a) Le
teorie sul nesso causale nell’ambito giuridico sono innumerevoli. Esse si
contendono il campo, nessuna riuscendo a prevalere sulle altre. Al tempo stesso
sono tutte “vere” e tutte “false”. Ma ciò ha
poca importanza, quel che conta è che i giuristi di tutta la tradizione
giuridica occidentale sentono, prepotentemente, l’esigenza di affrontare
e risolvere questioni causali.
b) Le
teorie sul nesso causale si moltiplicano in relazione a numerosi fattori: i
mutamenti economici e sociali, le ideologie dominanti in alcune epoche, il
progresso nelle conoscenze scientifiche, la materia alla quale si applicano.
i. Sarebbe
ingenuo pensare che il prevalente sistema economico e sociale non influenzi le
teorie sul nesso causale e la loro concreta applicazione. Basti pensare al
ruolo della condicio sine qua non in contesti a forte
caratterizzazione liberista e alla sua esclusione in modelli solidaristici (ad
es. infortuni sul lavoro). I principi sul nesso causale e ancor più la
loro esplicazione giudiziale, quando visti in una prospettiva di lunga durata,
sono coerenti con la società in cui si collocano e contribuiscono a
caratterizzarla: il sistema sociale influenza le teorie causali, le teorie
causali sono uno specchio della società.
ii. Al tempo
stesso questa coerenza si rinviene con le dominanti correnti filosofiche di
talune epoche. L’attuale frammentazione delle dottrine non ci impedisce
di cogliere l’impronta idealistica, positivista, utilitarista, analitica
in tante teorie. Ed il giurista che tali teorie assimila non può non
esserne influenzato.
iii. Il
problema del nesso causale costituisce uno dei principali canali di
comunicazione fra diritto e scienza. Il gius-realista tende a fornire di
ciò due spiegazioni:
-
la prima è quella del tentativo, tutto ottocentesco ma
ancora vivo nel linguaggio, di presentare il diritto non come insieme di regole
sociali bensì come “scienza giuridica”. Le regole devono
dunque essere “scientifiche”: esatte ed universali
-
nelle società laicizzate il richiamo alla scienza
sostituisce argomentativamente e retoricamente quello alla divinità e
alle sacre scritture. La scienza, anzi la “prova scientifica”,
è il vero e proprio deus ex machina del diritto e, soprattutto,
di quel dramma che è il processo. Ovviamente non interessa qui
contestare gli assunti e la fondatezza della fiducia nella scienza, quanto
prendere atto che di essa, sotto svariate forme (indagini di laboratorio,
statistiche, dati epedemiologici ecc.), si fa un uso sempre più diffuso.
iv. Le
teorie causali sono diverse – ed è probabilmente opportuno sia
così – a seconda della materia in cui esse devono essere
utilizzate. Stabilire se un imputato sia colpevole e debba essere condannato
per omicidio non è la stessa cosa che stabilire se un prodotto ha
arrecato un danno ad un consumatore. Accertare la responsabilità in un
sinistro stradale non è la stessa cosa che accertarla con riferimento
all’individuazione delle concause umane di un disastro naturale.
Stabilire le conseguenze di una colposa interruzione dell’energia
elettrica non è la stessa cosa che stabilirle con riguardo a false o
errate comunicazioni ai mercati finanziari. Nel diritto internazionale, nel
diritto del lavoro, nel diritto amministrativo i principi causali sono adattati
alla peculiarità della disciplina.
L’ultima considerazione porta il gius-realista a
interrogarsi sulle funzioni delle teorie causali. Perché ad esse
si attribuisce tanta importanza, perché sollevano tanto dibattito, perché
si contendono fra di loro il campo?
a) Una
prima risposta, apparentemente semplicistica, è che il nesso causale
appare inestricabilmente legato a quello della giustizia, cioè quello
che è (o appare) giusto. Una “teoria della giustizia” (per
usare il titolo del fortunato libro di John Rawls) richiede una “teoria
causale”, e questo sia che si propenda verso una giustizia distributiva
(come pensa Rawls) oppure verso una giustizia correttiva (come pensano altri).
Le teorie causali “giustificano” (in senso sia proprio che
figurato) le decisioni dei giudici, stabilendo o negando un nesso (nexus:
cioè vincolo) fra un accadimento ed un soggetto. Non vi è
arbitrio – che è l’opposto della giustizia –
bensì razionale ponderazione (la bilancia nell’allegoria della
giustizia) di tutti gli elementi noti (e anche di quelli ignoti) in funzione di
una pronuncia che colpirà qualcuno (è la spada
dell’allegoria).
b) La
seconda risposta – meno metagiuridica – è che la funzione
del nesso causale è quella di tecnicizzare le decisioni rendendole
più verificabili. Le teorie causali segnano il passaggio da una
“giustizia naturale” ad una “giustizia finalistica” che
si pone una serie di obiettivi, e dunque richiede l’utilizzo di strumenti
logici coerenti con essi.
c) Una
terza risposta è che le teorie causali servono non tanto alla decisione,
ma soprattutto a dettare regole nei confronti dei consociati. La loro
formulazione tecnica consente di indirizzare la condotta prevedendone le
conseguenze. Una “funzione sociale” delle teorie causali dunque che, se riproducono
modelli scientifici, costituiscono vere e proprie linee-guida in numerosi
settori (si pensi alla produzione di beni di consumo di massa, alla costruzione
di immobili o mezzi di trasporto, alla organizzazione aziendale). Il più
delle volte tutte queste funzioni, ed altre ancora, sono presenti
congiuntamente, talvolta occultate, talvolta palesate. Le letture
“funzionali” del nesso causale hanno comunque come conseguenza
l’interrogarsi non tanto sulla astratta condivisibilità delle
teorie causali, bensì sulla loro coerenza e idoneità rispetto
agli obiettivi fissati. E, di conseguenza, a legittimare la grande
varietà di orientamenti sia pure a scapito della certezza del diritto.
Se sicuramente le teorie causali trovano i loro primi artefici
nei filosofi e nella più elevata dottrina giuridica, chi le trasforma in
strumenti dell’agire giuridico e ne decreta il successo o l’oblio
sono i giudici. Questo è ovvio nel campo del diritto penale e della
responsabilità civile, ma si è progressivamente esteso a
praticamente a tutti i settori del diritto nei quali è richiesto
l’intervento del giudice.
Da questo punto di vista lo studio delle teorie causali
applicate non è solo uno studio di diritto giurisprudenziale ma anche di
sociologia degli ordinamenti giudiziari. «Dimmi che regole causali
utilizzi, e ti dirò che giudice sei» parrebbe un appropriato
adattamento del proverbio.
Proprio perchè le teorie causali sono funzionali
all’amministrare una giustizia “giusta” da esse comprendiamo
il ruolo che il giudice intende avere nella società. Il formalismo
piuttosto che l’attivismo, il “medico della società”
piuttosto che l’attento allocatore di risorse, il “judicial self
restraint” piuttosto che il servitore della legge. A tutti questi modelli
di giudice, presenti (e spesso compresenti) negli ordinamenti occidentali
corrisponde un modello di causalità.
L’argomento del nesso causale è,
all’apparenza, neutrale
giacchè esso può essere utilizzato sia per mantenere il sistema
saldamente arroccato sui consolidati principi di responsabilità (ed è questa, tipicamente,
l’esperienza inglese), sia per aprire la strada verso nuove forme di
responsabilità e di danno (è il caso della perdita di chances,
della market-share-liability, della prova statistica, utilizzate dal
giudice americano).
Di qui l’importanza attribuita alle contese sulle regole
causali, giacchè esse vengono viste come il baluardo contro il profluvio
di azioni giudiziarie (è il c.d. flood-gates argument che da
Shakespeare in poi muove il giudice inglese), oppure, al contrario, come araldo
della giustizia.
Tale dimensione giudiziaria delle regole causali fa assumere ad
esse una connotazione particolare.
Il gius-realista – ma anche altri – vede nelle
regole causali un mezzo, non un fine, per decidere quella specifica
controversia. Estremizzando direbbe che il giudice ha già deciso e
l’argomentazione causale gli è necessaria per presentare in
maniera appropriata la sua sentenza.
Ma in questo dibattito sulle regole causali chiunque si rende
conto che si tratta di una evoluzione antitetica al metodo tipico delle vere
scienze.
Con riguardo a queste ultime l’osservazione dei fatti
porta ad enucleare induttivamente quelle regole che si ripetono con
regolarità causale.
Nella sequenza dei casi giudiziari la regola causale viene,
invece, deduttivamente applicata a fattispecie diverse.
Non sfugge, poi, che l’individuazione di una regola nel
contesto di una controversia giudiziale porta spesso all’esigenza di
scegliere fra due soluzioni opposte (assoluzione/condanna) ovvero di mediare
fra di loro (concorso di responsabilità). L’aula di qualsiasi
tribunale è ben diversa dalla rarefatta ed elegante pagina teorica in
cui tutti i tasselli trovano la loro coerente collocazione. La lotta per il
diritto è concretamente lotta per la vita, la libertà, il
patrimonio, l’onore. Gruppi sociali più o meno ampi si
fronteggiano (imputati contro parti offese, danneggiati contro vittime,
produttori contro consumatori, poteri pubblici contro cittadini). Il giudice
è chiamato a risolvere la controversia e chiede aiuto
all’argomentazione causale.
La complessità e l’opinabilità delle regole
causali, assieme al costo delle procedure per la loro verificazione, sono
alcune delle ragioni che portano tutti i sistemi giuridici occidentali ad una
“fuga” dalla causalità.
a) Essa
è risalente nel tempo e non potrebbe essere meglio illustrata che dai
sistemi di assicurazione per gli infortuni sul lavoro che si affermano in
Europa già al finire del XIX secolo. È il fatto oggettivo
dell’infortunio a legittimare la pretesa indennitaria. Non
v’è spazio per indagini su colpa o nesso causale che
condurrebbero, spesso, a negare ogni ristoro per via dell’emersione di
auto-responsabilità e di eventi imprevedibili (e dunque causalmente
remoti). I sistemi indennitari negano in radice la rilevanza di questioni
causali (negli ordinamenti contemporanei si pensi ai sistemi di riparazione del
danno a vittime di reati, di incidenti medici, di sinistri stradali anonimi, di
disastri naturali) per alcune ragioni abbastanza ovvie, la prima delle quali
è che non è necessario collegare un fatto ad un responsabile (che
dovrà espiare o pagare). La seconda è che la relativa
rigidità degli importi erogati rende scarsamente rilevante, in termini
monetari, il concorso causale del danneggiato; ed infine, e collegato al
precedente, l’argomento che i sistemi indennitari riflettono logiche
solidaristiche e non di giustizia: tutti sono uguali nella disgrazia. Non
è un caso che i sistemi indennitari siano in generale extra-giudiziari,
trattandosi di una questione “amministrativa” e non una per la
quale si richiede l’intervento di un giudice.
b) L’altra
via di fuga della causalità è rappresentata dalla
responsabilità oggettiva. Il mero accadimento fa sorgere una presunzione
di responsabilità ed obbliga al risarcimento. Tale presunzione varia di
intensità, ma trova il suo più forte alleato
nell’inversione dell’onere della prova. Senza scomodare
ricostruzioni filosofiche, provare l’inesistenza di un nesso causale
(ovvero di ogni diversa causa) è ben più difficile che provare la
sua esistenza. Il presunto danneggiante si batterà solo in quei casi in
cui ritiene di avere qualche ragionevole probabilità di fornire la probatio diabolica. Negli altri casi lascerà il campo
all’avversario e si limiterà a tentare di ridurre i danni. Che non
valga l’inverso è particolarmente evidente nel contenzioso civile
nei casi in cui grava sull’attore l’onere di provare il nesso
causale, giacchè la valutazione probabilistica è stata già
effettuata in limine decidendo se agire
oppure no.
c) Vi
sono poi percorsi più “tecnici” e casistici che consentono
al giudice di sfuggire alle problematiche causali o enfatizzando
l’elemento soggettivo (“l’intenzione” del danneggiante)
oppure sviluppando il collaudato (in tutti i sistemi giuridici) meccanismo
delle finzioni, sostituendo il fatto reale con uno supposto, come avviene con
la c.d. perdita di chances.
Il campo della responsabilità civile extracontrattuale
costituisce un terreno di elezione per la verifica delle teorie causali sia
perchè è quello più collaudato, sia per il numero di
occasioni in cui esse vengono messe alla prova. Esso finisce per svolgere un ruolo
paradigmatico per i tanti altri campi nei quali pure esse vengono invocate.
Ora, l’esperienza comparata ci mostra come, nella
responsabilità extracontrattuale, il nesso causale sia un fattore
variabile.
a) In
taluni casi esso è del tutto assente come nel caso della responsabilità
del datore di lavoro per il fatto del dipendente (art. 1384 cod. Nap., art.
2049 cod. civ. it.). E’ palese che nessuna teoria causale riuscirebbe a
collegare il fatto dell’assunzione di un dipendente che, anni dopo,
provoca un sinistro con il sinistro stesso.
b) In
generale, però, l’elemento causale è funzione di altri tre
aspetti: la colpa dell’agente, la natura degli interessi lesi,
l’entità del danno arrecato. Semplificando, si può dire che
il rigore nella regola causale sarà inversamente proporzionale rispetto
alla gravità della colpa (o, addirittura, il dolo), alla collocazione
gerarchica dell’interesse protetto (primo fra tutti, la vita) e alle
dimensioni dell’evento dannoso. Quando il valore attribuito ad uno di
questi elementi è particolarmente elevato il giudice tenderà a
ridurre il rilievo delle regole causali, ovvero a ritenere facilmente provato
il nesso.
L’utilizzo dell’espressione latina res ipsa
loquitur – coniata da un giudice inglese dell’800 per aggirare
le questioni sul perchè un barile di granaglie fosse volato da un
magazzino su un malcapitato passante – e la sua talismanica fortuna
è il miglior esempio di come ciascun caso possa avere la sua regola
(causale).
Il gius-realista è portato a concludere, guardando alla
sterminata riflessione sui problemi causali e alle ricorrenti, nei secoli,
similitudini fra gli ordinamenti giuridici, che la teoria del nesso causale
svolge una potente – e dunque essenziale – funzione nella retorica
dell’argomentazione giudiziaria. Essendo risultati vani – come
è ovvio avvenga sul piano delle idee – i tentativi di accreditare
una sola teoria causale, ovvero di sbarazzarsene, la circostanza della sua
centralità si spiega con il fatto che il giudice deve motivare la sua
decisione e ci si attende che egli tratti anche l’argomento causale. Se
non lo facesse difetterebbe uno degli elementi costituitivi della fattispecie
che abbiamo visto essere presente fin dai tempi biblici, ed incorrerebbe in un
vizio della motivazione sanzionato, in tutti gli ordinamenti, dalla riforma
della decisione.
Al gius-realista dunque interessa poco che le teorie causali
siano “corrette” o “sbagliate” (qualificazioni che
implicano l’esistenza di un metro esterno di valutazione, che non c’è)
ma se l’uso che se ne fa appare convincente a coloro cui la decisione
è rivolta: la comunità giuridica e gli ambienti sociali che ne
sono toccati.
Una regola causale, dunque, funziona se la sua applicazione
contribuisce a convincere della correttezza dell’esito raggiunto.
Si tratta di quel che Hart e Honorè chiamano il
«senso comune» della causalità, perchè spiega
perchè un certo fatto deve, o non deve, essere riferito a qualcuno. Su
questo piano ciò che conta, più dei fatti, è il potere di
convincimento delle parole di fronte alle quali ad un osservatore terzo venga
da commentare: «E’ giusto così».
Tale approccio non deve sembrare nè astratto nè
semplicistico ma trova innumerevoli riscontri giurisprudenziali, di cui il
più evidente è rappresentato dalla sentenza che solitamente viene
indicata, nell’ordinamento italiano, come l’esposizione dei
principi fondamentali che devono essere seguiti dal giudice nella applicazione
delle regole causali, e cioè la nota Cass. SS.UU. 10 luglio/11 settembre
2002, Franzese. Tutta la decisione, infatti, ruota intorno al concetto di
«alta o elevata credibilità razionale», nel quale i due
termini “credibilità” e “razionale” hanno a che
vedere con il modo con il quale gli argomenti vengono posti e sviluppati.
Quando, a conclusione dell’articolato discorso la sentenza
dice che «alla Corte di Cassazione, quale giudice di
legittimità, è assegnato il compito di controllare
retrospettivamente la razionalità delle argomentazioni
giustificative – la cosiddetta giustificazione esterna – della
decisione, inerente ai dati empirici assunti dal giudice di merito come
elementi di prova, alle inferenze formulate in base ad essi ed ai criteri che
sostengono le conclusioni: non la decisione, dunque, bensì il contesto
giustificativo di essa, come esplicitato dal giudice di merito nel ragionamento
probatorio che fonda il giudizio di conferma dell’ipotesi sullo
specifico fatto da provare» il gius-realista ne trae la conclusione
che la regola causale corretta è quella che convince. E che, nel caso
concreto, sono ritenute convincenti le spiegazioni controfattuali, mentre
invece non lo sono quelle basate (solo) su un coefficiente di
probabilità.
* * *
*
Concludendo: l’esperienza comparata – da cui le
riflessioni che precedono sono tratte – ci dice che i giudici, di
qualsiasi ordinamento, hanno un rapporto quasi alchimistico con le regole
causali, sottoponendole ai più svariati esperimenti ed usandole per il
raggiungimento degli scopi che sono loro assegnati. Il concetto si tramuta in
decisione e la decisione muta la realtà o ne sancisce la non
modificabilità. Da questo punto di vista il nesso causale non è
solo uno strumento del giudice ma anche un potente stimolo al suo operare.