Legislazione
‘religiosa’ del IV secolo:
la prospettiva di
CTh. 16, 1 e 2 [*]
Università
di Napoli
“Parthenope”
Sommario: – 1. Una prospettiva. – 2. CTh. 16, 1 De fide catholica. – 3. La rubrica di CTh. 16, 2. – 4. Religio del vescovo e normazione. – 5. Christiana lex e ius principale.
Ringrazio anzitutto gli amici
dell’Istituto “Augustinianum”, promotori dell’incontro
odierno, poi il preside, i professori e gli studenti della Facoltà
Teologica.
Sono grato, per la loro presenza,
al presidente dell’Associazione di Studi Tardoantichi professor De
Giovanni, ai colleghi giusromanisti e ad alcuni dei miei cari studenti della
Facoltà di Giurisprudenza dell’Università
“Parthenope”; un ringraziamento particolare, per essere intervenuto,
va al vescovo della diocesi di Nocera - Sarno: si tratta di una fortunata
circostanza perché più avanti proprio di vescovi dovrò
parlare.
Di séguito, devo
confessare come io sia particolarmente lieto non solo per essere ora in questa
sede (qui ho studiato spesso, ancora frequento la bella biblioteca che è
ai piani inferiori, e d’altra parte non posso dimenticare di aver
pubblicato alcune delle mie cose proprio su Asprenas),
ma anche per essere stato invitato in compagnia di alcuni studiosi che, sia
pure indirettamente, negli anni ho sentito come maestri non giuristi: Tonino
Nazzaro e Vittorino Grossi (ed è giusto ricordare, con loro, Angelo di
Berardino). Oggi, però, sono anche triste per il fatto che
quest’aula ancora mi ricorda un evento distante da noi forse una ventina
d’anni, e legato a una persona purtroppo prematuramente scomparsa e assai
cara, nel ricordo, a non pochi tra i presenti; invero, sto pensando alla
discussione dottorale condotta qui da Luigi Fatica, e con molta dottrina concentrata
sulla Defensio di Facondo di Ermiane:
un testo, questo, che solo da pochi mesi ha finalmente trovato la sua prima
traduzione integrale a stampa in italiano, ma purtroppo non in quella versio che fu del nostro caro Gigi.
Per ciò che concerne
l’odierna Lectio occorre dire
sùbito come il tema di questo intervento non sia stato scelto da me,
bensì ‘suggerito’ dall’amico Luigi Longobardo. Se
è vero, infatti, che non sono pochi gli anni da quando la mia attenzione
è in gran parte concentrata sulla politica normativa romana
d’argomento religioso, è pur vero che lo spazio che normalmente
è consueto ai miei studi non è certo quello del secolo
costantiniano quanto, piuttosto, il ristretto e assai meno indagato tratto
della metà del V secolo — il segmento, in particolare (davvero
poco frequentato dalla ricerca), tra concilio efesino (a. 431) e sinodo
calcedonese (a. 451) — o, tutt’al più, il periodo dei
decenni immediatamente successivi: dunque, per quanto riguarda specificamente
le fonti tecniche dello studioso di diritto romano, il Codex Theodosianus, le novellae
post-teodosiane, le leggi religiose del Codice di Giustiniano e,
relativamente solo ai materiali patristici, in special modo gli scritti
storiografici degli Scolastici Socrate, Sozomeno ed Evagrio di Epifania.
Del resto, sul mio tema, il
quale forse potrebbe tornare utile a una migliore contestualizzazione della
lettura del De vera religione di
Agostino (operetta, come sappiamo, composta circa un lustro prima della morte
di Teodosio il Grande), esiste da qualche anno una importante bibliografia
storico-giuridica ben nota agli specialisti: su questa, dunque, solo pochissime
parole.
A parte la monografia di
Lucio De Giovanni sui rapporti chiesa-stato nel Teodosiano, apparsa ormai
ventisette anni fa ma tuttora attuale nelle sue linee generali,
all’interno del panorama letterario contemporaneo io credo che si debba
senz’altro ricordare, e proprio sul nostro specifico arco temporale, un
libriccino davvero prezioso, Legislazione
imperiale e religione nel IV secolo: un lavoro, guarda caso edito
dall’Istituto Patristico “Augustinianum” nel 2000 (n. 11
della collana dei Sussidi), che purtroppo, a mia scienza, deve però aver
beneficiato di una diffusione davvero modesta. Il volumetto (scarse 200 pagine)
accoglie tre diverse facce, ma ugualmente interessanti, dell’ampia
questione riguardante la normazione religiosa tardoantica; si tratta di tre
prospettive tracciate per un esemplare corso di perfezionamento patristico
tenutosi nel 1996: Jean Gaudemet avrebbe offerto il quadro generale della
legislazione emanata contro i religiosamente ‘diversi’, i
contestatori, i separati (pagani, Giudei, eretici, donatisti); Paolo Siniscalco
avrebbe ricostruito la collocazione personale dei sovrani-legislatori nei
confronti del cristianesimo montante nel secolo dei costantinidi; Gian Luigi
Falchi avrebbe esaminato in analisi — e questo, forse, già
potrebbe rendere superfluo il mio intervento odierno — la diffusione
della normazione di marca ecclesiastica nei secoli IV e V.
Ebbene, per non ripetere cose
già dette egregiamente da altri, ho pensato che stavolta, grazie a
qualche appunto tratto dalle mie ricerche pregresse, non sarebbe stato inutile
tentare di gettare uno sguardo, fugace ma non superficiale, sulla politica
delle cancellerie del IV secolo — come sostanzialmente mi è stato
proposto — in una prospettiva parzialmente diversa da quella consueta a
storici e giuristi: un punto di vista capace di lumeggiare a posteriori, partendo dall’insieme sistematico teodosiano
delle costituzioni, entrando perciò in un paio di segmenti del Codice del V secolo, qualche aspetto primario
dei rapporti constitutiones-religio negli
anni precodificatòri (sostanzialmente fino al momento di passaggio fra
Teodosio e Arcadio).
Per fare ciò, piuttosto
che guardare al ‘solito’ titolo De
haereticis, esuberante di leges
negli anni della codificazione (ben sessantasei provvedimenti) e poi
costantemente al centro dell’attenzione scientifica degli studiosi
moderni, altre partizioni codificatorie, per esempio, sembrerebbero senza alcun
dubbio più interessanti, non foss’altro che per la presenza di
leggi del IV secolo particolarmente esplicite e ben più che
significative sull’argomento che qui sollecita. Il titolo rubricato De fide catholica, cioè CTh. 16,
1 (e magari, aliunde, CTh. 16, 4. De his, qui super religione contendunt),
è quello che già di primo acchito, e meglio di altri
apparentemente più ‘intriganti’ (che so, il De apostatis), suggerisce
l’inevitabile profondo rapporto corrente nel Tardoantico tra religio e attività normativa.
La prima costituzione del
titolo De fide catholica, una legge
di Valentiniano I dell’a. 364 — tra l’altro studiata in
maniera impeccabile da Lucio De Giovanni —, sembrerebbe aver salvaguardato
la libertà di coscienza individuale dei sudditi impedendo agli organi
stessi dell’amministrazione imperiale
di imporre ai soldati di fede cristiana la custodia dei templi pagani (in
tale direzione, peraltro, nell’a. 323 già Costantino aveva fornito
segnali sicuri: CTh. 16, 2, 5); dunque, con la legge in CTh. 16, 1, 1 la
cancelleria occidentale avrebbe minacciato senza possibilità alcuna di
equivoci, ammiccamenti o connivenze ‘interne’ i possibili
contravventori della norma: «chiunque, giudice o apparitor, abbia posto degli uomini di religione cristiana a
custodire i templi sappia che non si avrà riguardo né per la sua
incolumità fisica, né per le sue ricchezze».
Nello stesso titolo,
continuando, ci si può ancora soffermare su una constitutio di Teodosio I; questa, immediatamente, in qualsiasi
ascoltatore presente in quest’aula non può che sollecitare il
ricordo della impressionante mole bibliografica suscitata nel tempo: si tratta
della celeberrima Cunctos populos,
CTh. 16, 1, 2 del febbraio 380 (= CI. 1, 1, 1), altrimenti nota come Editto di
Tessalonica. Di essa, però, quello che qui preme non è affatto
ricordare la generale prospettiva ‘confessionale’ che pure
solitamente si è voluta intravedere (sulla portata generale del
provvedimento, d’altronde, come anche su altri argomenti omogenei, la
dottrina non è punto concorde), quanto, viceversa, evidenziare il fulcro
de fide; è interessante notare
nel testo, cioè, l’atteggiarsi formale del legislatore rispetto al
cuore del provvedimento medesimo (16, 1, 2 pr., che qui parafraso ovviamente
abbreviando): «vogliamo che tutti i popoli restino fedeli a quel Credo
tramandato dal divino apostolo Pietro e che è chiaramente seguito dal
pontefice Damaso e da Pietro, vescovo di Alessandria». Per la cancelleria
solo il vescovo romano e quello alessandrino avrebbero potuto sintetizzare
l’assunto religioso che autoritativamente veniva suggerito ai sudditi:
piuttosto che ricorrere a formule di fede astratte — invero, di
séguito vi è solo un cenno, per quanto esplicito, al dogma
trinitario —, essa preferiva ricorrere (come notava già Duchesne
all’inizio del secolo passato) a punti di riferimento ben più
concretamente rintracciabili, quegli orientamenti pastorali che altrove ho
definito ‘teologicamente soggettivi’.
La scelta di fornire ai
sudditi, e prima ancora ai funzionari periferici (esecutori nel quotidiano
delle disposizioni normative centrali), alcuni exempla religiosi inequivocabili — il presule di Roma e
quello di Alessandria, e ciascuno probabilmente scelto per motivi non
irrilevanti — emerge come opzione per nulla casuale. E tanto essa appare
poco casuale che la costituzione successiva nell’ordine del Codice, la
16, 1, 3 del 381, avrebbe poi indicato ben altro numero di vescovi come
ancoraggio teologico per tutti i cristiani; undici sacerdotes, alcuni dei quali protagonisti del sinodo ecumenico non
appena terminato a Costantinopoli (la legge è della fine di luglio, il
concilio s’era chiuso all’inizio dello stesso mese), sarebbero
stati indicati dal legislatore come le persone con le quali entrare
necessariamente in comunione: Nettario, Timoteo, Pelagio, Diodoro, Amfilochio,
Optimo, Elladio, Otreio, Gregorio, Terennio, Marmario. Solo la comunione con
questi Padri, affermava la constitutio,
sarebbe stato il metro dell’ortodossia: evidentemente per i cittadini, ma
prima ancora per quei burocrati lontani dagli officia costantinopolitani; eretico, perciò, sarebbe stato
solo colui che avesse dissentito —
«fidei communione dissentiunt» sono le parole impiegate dalla cancelleria
d’Oriente — dalla professione di fede dei vescovi contestualmente
richiamati.
Nei fatti questa scelta
comproverebbe quasi un atteggiamento, mi si lasci passare la locuzione, di
‘intima laicità’ del legislatore tardo; mai, infatti, egli
avrebbe determinato nei testi normativi — non solo, dunque, nel luogo
individuato — una specifica Formula per la religio dei sudditi, anzi egli avrebbe sempre e solo rinviati
costoro al Simbolo proclamato dai Pastori. Tale opzione, stabilmente ribadita
anche in séguito (sarà Arcadio, nell’a.
Dopo i pochi testi di cui ho
rapidamente riferito traendoli, sostanzialmente, da uno solo fra i titoli del Teodosiano giusto per
esemplificare una delle posizioni di fondo della politica normativa fino allo
scorcio del IV secolo — atteggiamento allora importante, però, per
la corretta individuazione della religio dei
Romani delle due partes imperii
—, dunque, dopo questa davvero essenziale rassegna, non mi pare inutile
richiamare ora l’interesse non tanto su singoli altri documenti, come
normalmente fa lo storico-giurista abituato alla esegesi del dettato
imperatorio, quanto su una specifica rubrica
ancora una volta rintracciata nel XVI libro del medesimo Codice. Quello che ora
mi preme, cioè, in un modo per certi aspetti culturalmente complementare
a ciò che finora ho detto sulla ‘scelta episcopale’ del
legislatore tardo, è soffermarmi un momento sul semplice ma significativo
dato rubricale del II titolo dell’ultimo libro teodosiano.
De episcopis, ecclesiis et clericis è
quanto si legge in capo al titolo successivo al De fide catholica, e infatti, come appunto anticipato dalla rubrica,
si tratta di un segmento dedicato in via esclusiva alla gerarchia della ecclesia, tanto che al suo interno
appaiono raccolti divieti e privilegia molteplici
posti dalle cancellerie proprio per coloro che, istituzionalmente, alla
realtà ecclesiastica strutturata
afferivano. Orbene, già il semplice dato formale suggerisce un indizio
efficace del corretto atteggiamento del ius
principale nei confronti di quella materia religiosa che in qualche maniera
esso era costretto a canalizzare, cioè a regolare seppure
‘esternamente’, per meglio disciplinare la vita dei sudditi (e
così garantire, tra le altre cose, il corretto fluire dell’ordine
pubblico): l’articolazione della rubrica
implica una traccia per noi importante, e di sicuro omogenea con quanto finora
evidenziato.
In essa, in successione, si
trovano elencati tutti i soggetti sui quali era stata centrata la nutrita
documentazione (si tratta di quarantasette leggi, di cui più della
metà data tra Costantino e
Teodosio I) che ivi veniva raccolta. Quasi che i commissari teodosiani del V
secolo, guardando alla sostanza dei materiali selezionati per la specifica
partizione codificatoria, avessero poi voluto effettuare un elenco per
così dire ‘a scalare’, la rubrica suggerisce che sarebbero stati anzitutto condensati i
provvedimenti riguardanti i vescovi; solo dopo, essa avverte che
all’interno del titolo sarebbero state sistemate pure le norme relative
alle ecclesiae e quelle poste per
affrontare i non pochi problemi dei chierici. Se si riflette, anziché
porre di séguito, gli uni dietro agli altri, gli uomini della struttura
ecclesiastica e poi, magari in coda, l’organizzazione medesima che da
questi era composta — oppure, e dal punto di vista strettamente
istituzionale in un ordine (specialmente per il giurista) forse più
appropriato, invece di porre la successione ‘chiese, vescovi e
chierici’ (si pensi infatti, per esempio, ai futuri tituli giustinianei del Codex:
1, 2. De sacrosanctis ecclesiis ... e
1, 3. De episcopis et clericis ...)
—, l’insieme esibito dalla rubrica
di CTh. 16, 2 è quello che offre in posizione preliminare, e dunque
idealmente privilegiata, i Pastori della catholica
ecclesia.
Ciò che intendo
sottolineare è che, senza urgenza alcuna di entrare minutamente nel
contenuto delle singole leggi ‘religiose’ del IV secolo, a noi
basterebbe già solo osservare come il Codice del secolo successivo
avrebbe confermato con un minimo ma ragionato dato formale quello che
l’intera pregressa normazione, quella che stamattina ci interessa e che era
stata emanata tra Costantino e Teodosio, non poteva non aver considerato.
Era sotto gli occhi di tutti
la presenza nell’àmbito delle comunità cristiane di questi
personaggi, i vescovi (i sacerdotes,
come frequentemente appaiono registrati nel corpus
teodosiano), personaggi ben distinti sia dai chierici sia dai diaconi: non
a caso, al gruppo dei credenti, questi ultimi apparivano più
semplicemente come meri collaboratori del vescovo stesso durante la
celebrazione dell’Eucaristia. Come sappiamo bene, e come ancora ci
attestano gli Atti degli Apostoli e Le lettere a Timoteo e a Tito, fin dagli ultimi anni
dell’età apostolica la chiesa si era dotata di un particolare
ministero al fine di garantire a se stessa chi potesse assicurarle la
fedeltà alla Parola, chi potesse cioè assicurarle
l’unità intorno alla testimonianza degli Apostoli: in specie alle
origini, infatti, come ben si immagina, il messaggio cristiano, portato ovunque
da tante persone diverse, avrebbe potuto pure disperdersi in mille
interpretazioni e dar vita a tradizioni tanto contrastanti da non potervi
più riconoscere il progetto di Gesù. A questo ministero, col rito
dell’imposizione delle mani e con l’invocazione dello Spirito
Santo, venivano destinati solo alcuni tra i fedeli; questi, da allora in
avanti, rappresentavano gli opportuni anelli nella catena della successione
apostolica.
E dunque, tornando
all’avvio di CTh. 16, 2, pur
riconoscendo alla catholica ecclesia caratteristiche
proprie, tali da meritarle uno specifico insieme legislativo che in certo senso
prescindesse dai relativi rappresentanti ufficiali, coerentemente con quanto
operato dai legislatori del secolo precedente il codificatore teodosiano
avrebbe pensato anzitutto ai Pastori delle comunità ecclesiali, e
significativamente li avrebbe anteposti nel Codice in sede di rubrica. I sacerdotes, nelle previsioni autoritative dei prìncipi
cristiani, quelle che appunto sarebbero poi confluite nei tituli del Teodosiano, talora erano stati accomunati ai più
semplici chierici (basti pensare, per esempio, a CTh. 16, 2, 20, una lex occidentale dell’a. 370 che
onnicomprensivamente aveva parlato di «ecclesiastici»); ai vescovi,
tuttavia, ancor più di frequente era stata riconosciuta quella che oggi
chiameremmo una situazione legale di assoluta preminenza sia morale, sia
più ordinariamente materiale, rispetto a ogni altro membro appartenente
alle chiese cattoliche (sarà Onorio, poco dopo i nostri anni, che con la
legge in CTh. 16, 2, 38 avrebbe finanche riconosciuto ai sacerdotes veri e propri compiti generali di difesa dei diritti
ecclesiastici).
Eppure, nonostante tutto
ciò, a dispetto quindi dell’attenzione particolare rivolta dalla
normazione ai vescovi quali autorevoli rappresentanti delle singole ecclesiae, almeno per ciò che
concerne il dettato testuale più antico in séguito sistemato in
CTh. 16, 2 appare comunque qualche sbavatura. Continuando infatti con
un’analisi del tutto formale — talora di interesse estremo per lo
storico-giurista —, le espressioni legislative più risalenti
idonee a identificare le referenze ecclesiali cui destinare attenzione non
paiono essere state sempre perfettamente acconcie: non lo sembrano, di sicuro,
a termini dell’ultima legislazione poi inserita nei libri teodosiani né ai sensi della ricca normativa
postcodificatoria della metà del V secolo, quella di Teodosio II e
quella di àmbito calcedonese del successore Marciano.
Giusto per esemplificare, in
tale direzione si può guardare brevemente almeno un testo. Nella constitutio di CTh. 16, 2, 4 dell’a.
321 (= CI. 1, 2, 1), una legge della cancelleria costantiniana, si nota
l’impiego di un lessico davvero generico nei suoi riferimenti ecclesiali:
per indicare il privilegiato destinatario di alcune importanti previsioni il
legislatore avrebbe utilizzato una locuzione dal senso assia ampio, ben nota al
tradizionale glossario del ius publicum dei
Romani ma appunto alquanto vaga per il contemporaneo contesto ecclesiale
cristiano. Il provvedimento (di cui parafraso il testo) avrebbe stabilito quanto segue: «in punto di morte ognuno
abbia la facoltà di lasciare ciò che vuole dei propri beni al
santissimo e venerabile concilio della chiesa cattolica»; poiché
«niente si deve maggiormente agli uomini rispetto al fatto che sia del
tutto libera la volontà di testare, non foss’altro perché
essa non torna due volte», a beneficiare dei bona testamentari, e «senza por limiti
all’arbitrio» dei soggetti, perciò pur mancando il rispetto
delle forme prescritte dal ius civile,
avrebbe potuto senz’altro essere la catholica
ecclesia. In effetti, e appunto questo va osservato, la legge parla
esplicitamente del «venerabile concilio» anche se la volontà
del principe appare senza alcun dubbio quella di favorire la comunità
della specifica ecclesia dell’Urbe
(non a caso il provvedimento, dato a Roma, risulta formalmente indirizzato
«ad populum»); di sicuro
aveva ragione Gaudemet nel sostenere che qui gli uffici burocratici ancora non
si muovevano perfettamente a proprio a agio con la nomenclatura ecclesiastica:
essa, per buona quota, doveva esser loro a quel tempo abbastanza sconosciuta.
Le leggi successive,
viceversa, e comunque tutte quelle del II titolo del XVI libro teodosiano,
appaiono di certo meno ‘tecnicamente’ imprecise nel riferirsi alle
comunità cattoliche, a cominciare dalla constitutio 6, appunto del De
episcopis (ancora di Costantino, a. 326), che avrebbe parlato di ecclesiae (ma, volendo, si può
ricordare anche la c. 29 del 395 e
altre ancora); esse, tuttavia, con lectores
e hypodiaconi (16, 2, 7 a. 330), clerici (16, 2,
In definitiva, e a parte
quanto or ora detto circa l’imprecisione formale della legge del
Quello che dalle fonti appare
con decisione estrema è che i vescovi — coloro che poi, nel V
secolo, sarebbero stati legislativamente chiamati dal secondo Teodosio (CTh. 16, 2,
Questa posizione, per
così dire, di centralità legislativa, e ugualmente le
immunità che con larghezza era state via via attribuite ai Pastori — beninteso, sempre con forti
salvaguardie a favore degli interessi statuali (penso, giusto per esempio, agli
obblighi posti agli ecclesiastici nelle costituzioni presenti in CTh. 12, 1. De decurionibus, come pure in 7, 20. De
veteranis o in 14, 3. De pistoribus)
—, avevano trovato la loro ratio
profonda in alcune valutazioni che il legislatore postdioclezianeo,
evidentemente, non poteva non aver effettuato: considerazioni, va evidenziato,
riguardanti sia i delicatissimi compiti che ben conosciamo e che del vescovo
erano tipici all’interno del mondo ecclesiale cristiano, sia quelle altre
attribuzioni che nel tempo, con importanti riverberi di natura civile, gli
erano via via sempre più andate appartenendo (si pensi, in primis, alle funzioni giudiziarie ma
pure a quelle generali di controllo su tutta la vita, anche familiare, del suo
gregge, sulle attività dei chierici e, tendenzialmente, su quelle delle
sempre più numerose e ‘rumoreggianti’ aggregazioni
monastiche; ma si ricordino pure, e non secondariamente tra le altre competenze,
tutti i compiti connessi all’amministrazione degli ormai ingenti
patrimoni appartenenti a ogni singola ecclesia).
Il principe del IV secolo non
solo non aveva disconosciuto tale posizione socialmente apicale, in qualche
caso facendosene persino esplicito carico formale (ricordo CTh. 16, 2, 31 di
Onorio [= CI. 1, 3, 10 a. 398], con l’assunzione civile della difesa
dell’onorabilità del vescovo nel caso in cui essa fosse stata lesa
da una iniuria alla quale, proprio
per la sua posizione, l’ecclesiastico non avesse reagito), anzi, e qui
vengo al nocciolo del discorso riallacciandomi a quanto detto all’inizio,
egli aveva elevato il ruolo del sacerdos
a proprio punto di riferimento nell’attività di normazione de religione. Il Pastore diveniva
centralmente ineludibile in quell’attività della cancelleria che
avrebbe riguardato da vicino il nucleo dell’intera materia religiosa; il
vescovo, cioè, era sentito come imprescindibile dal legislatore nel
momento della identificazione formale del Simbolo, la Formula del Credo, e
della cogente proposizione di esso ai sudditi.
Il ius principale, in buona sostanza, da un lato poneva in essere
tutto quanto potesse rivelarsi funzionale alla massima tranquillità
quotidiana dei vertici tra gli operatori ecclesiastici, i quali sempre
più apparivano impegnati in compiti di grande rilievo sul terreno del
sociale; d’altro canto, per quello che qui interessa, la burocrazia
cancelleresca si serviva della serenità ecclesiale così garantita
per rintracciare comodi poli di orientamento, sempre e inequivocamente
disponibili, per l’individuazione ‘ufficiale’ del Simbolo
ortodosso della vera religio.
Solo in CTh. 16, 5, 6, 2 (=
CI. 1, 1, 2, 1), dell’inizio dell’a. 381, sembrerebbe di poter
scorgere uno sbilanciamento di tale politica normativa, per così dire un
apparente guizzo verso una sorta di propensione ‘teologica’ del
legislatore teodosiano: «... qui
omnipotentem deum et Christum filium dei uno nomine confitetur, deum de deo,
lumen ex lumine: qui spiritum sanctum ...» avrebbe recitato il paragrafo della costituzione immediatamente
successivo al principium. Tuttavia,
la modestissima porzione del Simbolo di fede ivi trascritta non aveva affatto
comportato alcuna compromissione teologica da parte del dominus imperiale; si trattava, infatti — e la legge
esplicitamente lo ricordava (Is autem
Nicaenae adsertor fidei ...) —, di una rapida tranche della Formula nicena che, appunto perché
testualmente riportata in maniera del tutto incompleta, non poteva che essere
canonicamente inefficace.
In realtà, nel IV
secolo (ma sarà così almeno fino al latrocinium conciliare di Efeso del 449, e alla connessa
legislazione oggi esclusivamente reperibile negli Acta Conciliorum Oecumenicorum riguardanti il sinodo calcedonese),
solo grazie all’adesione dei singoli cittadini, di ogni suddito dello
smisurato regnum, alla religio nelle forme professate da
ciascuno dei vescovi prescelti dalla cancelleria, ed elencati nelle
costituzioni — tutti sacerdotes,
com’è ovvio, reciprocamente in comunione, — i pubblici
funzionari, e specialmente i lontani rectores
provinciarum, sarebbero stati in grado di individuare coloro da considerare
‘fuori’ dalla ecclesia,
con tutte le gravi conseguenze del caso: per l’imperium il dissenso dei sudditi-fedeli dalla forma (il Credo), e
dunque dalla sostanza, della religio
del Pastore diveniva inammissibile. Riunirsi a discutere de fide negli spazi esterni alle ecclesiae (Arcadio lo avrebbe vietato in quella legge che ho
richiamato prima, CTh. 16, 4, 6) avrebbe significato porsi fuori
dall’esattezza della Christiana lex,
e per conseguenza fuori dalla perfetta osservanza del diritto imperatorio che
aveva ‘optato’ per i sacerdotes;
sarebbe stato — ed era aspramente vietato che così fosse (CTh. 16,
4, 2 e 3, aa. 388 e 392) — come volersi occupare della religio in luogo altro da quello a
ciò deputato, separati dalla ecclesia
catholica, fuori dalla possibilità di verifica del Simbolo
professato: una verifica naturalmente operata, a voler stare con
l’orientamento costante della normazione del IV secolo, solo ed
esclusivamente dal vescovo cattolico.
[*]
Pubblico qui senza modifiche (perciò privo d’apparatus) il testo letto in occasione della Lectio Augustini Neapolitana, «Il De vera religione nel dibattito tra le religioni», tenutasi
il 14 gennaio 2008 presso la Pontificia Facoltà Teologica
dell’Italia Meridionale – Sezione “San Tommaso
d’Aquino”; fonti e bibliografia essenziali di riferimento,
comunque, sono comodamente rintracciabili nel mio Ius principale e catholica lex (secolo V), 2a ed., Napoli 1999.