Patria e Lumi nella crisi
dell’antico regime.
L’esperienza
civile e intellettuale del medico naturalista
sardo
Pietro ANTONIO leo
(Arbus
1766 - Parigi 1805)*
Università
di Sassari
Sommario: 1 «E chi ci resta ora in quel
genere di studi?». – 2. Una formazione scientifica
all’insegna degli ideali del «Rifiorimento». – 3. Le novità
della Lezione fisico-medica e le
ragioni del suo interesse. – 4. La lettera del capitano
Magnon e l’Histoire di Domenico
Alberto Azuni. – 5. Il
viaggio a Parigi, le nuove scienze, la nascita del mito ottocentesco.
L’8
maggio
Obino
lo aveva premurosamente assistito negli ultimi mesi del suo penoso soggiorno
parigino: «Fin da molto tempo prima – dichiarava il sacerdote amico
– credeva inevitabile, come spesso mi diceva, la sua morte, che
aspettò intrepidamente esternando il solo dispiacere di morir lontano e
di lasciar desolata una moglie e due teneri pargoletti che amava estremamente.
Le prime cause della sua malattia datano da lungo tempo: fin da quando
arrivò a Parigi si sentiva tormentato da una tosse secca e continua, che
gli faceva passare dell’intiere notti senza dormire. La tosse andò
sempre crescendo finché gli sopraggiunse la febbre, che lo
prostrò nel letto della morte»[1].
Ma al
di là del lutto dei familiari e degli amici, la morte di Leo era
destinata a destare un profondo sgomento tra i connazionali anche per il vuoto
che lasciava in quella «repubblica delle sarde lettere» che
faticosamente si stava ricostituendo a quasi un decennio dal fallimento della
rivoluzione patriottica del 1793-96 [2].
Così l’idea via via accreditata che un fatale destino lo avesse
prematuramente rapito alle scienze mediche, privando la patria delle
«più grandi speranze» in lui riposte, avrebbe contribuito a
mitizzarne il ricordo e a farne, contemporaneamente, una delle figure
più emblematiche delle inquietudini identitarie e delle ansie di
modernizzazione dei ceti dirigenti sardi nei primi decenni del nuovo secolo[3].
La
notizia della scomparsa di Leo, prontamente rifluita nella fitta rete degli
scambi epistolari dei compatrioti fuori dal Regno, non tardò ad arrivare
agli amici e ai conoscenti sparsi in diversi centri dell’isola, e
rimbalzò ben presto anche in Toscana, dove aveva soggiornato anni
addietro per lunghi periodi. A Firenze uno dei suoi amici più cari,
l’abate e letterato algherese Gian Francesco Simon, ne ricevette la
notizia da una lettera del fratello Matteo Luigi, già magistrato a
Cagliari ed esule a Parigi, che fino a poco tempo prima aveva convissuto con
Leo nella stessa locanda: «La Sardegna ha perduto uno dei suoi migliori
scienziati – considerava a caldo Gian Francesco in un’accorata
lettera al fratello Giambattista –. E chi ci resta ora in quel genere di
studi? Nessuno. Io ne sono afflittissimo perché lo amavo»[4].
Pochi
mesi dopo, nel riflettere sulla scomparsa del celebre scienziato toscano Felice
Fontana, fondatore e direttore del museo fiorentino di scienze naturali ed
eccentrico esponente della nuova chimica pneumatica, con il quale Simon aveva
stretto una cordiale amicizia, l’emozione per l’autorevole amico
perduto faceva riemergere la nostalgia per Leo: «Mi riuscì anche
sensibilissima la morte di Leo […] – confidava Simon al fratello
residente in Sardegna –. Io lo amavo moltissimo e lo stimavo
infinitamente perché, a dir il vero, era l’unico sardo che facesse
onore alle scienze fisiche e naturali»[5].
Così,
l’abate algherese coglieva lucidamente, dal suo osservatorio fiorentino,
il grave contraccolpo che la scomparsa dell’amico avrebbe determinato nel
mondo scientifico isolano. In Sardegna, infatti, nei primi anni
dell’Ottocento, il prestigio e la fama di Leo si erano diffusi ben al di
là degli ambienti universitari, e nell’estate del 1804, quando il
professore cagliaritano aveva abbandonato l’isola per l’ultima
volta, diretto in Francia, la sua nomea di clinico e scienziato di valore aveva
già ricevuto numerosi riconoscimenti.
Pochi
anni prima, nel 1801, era apparsa, presso la Reale stamperia di Cagliari, la
sua Lezione fisico-medica sulle
febbri autunnali e sulla malaria, che lo aveva rapidamente accreditato come
scienziato insigne e moderno riformatore della «sarda medicina»[6].
La vigorosa dissertazione, significativamente intitolata Di alcuni antichi pregiudizii sulla così detta sarda intemperie,
non si limitava infatti a confutare i principali preconcetti sulla natura e le
cause del più insidioso flagello dell’isola[7],
ma affrontando alla luce delle recenti acquisizioni delle scienze
fisico-chimiche anche le vaste problematiche della diagnosi e della terapia
delle diverse patologie febbrili si configurava, in realtà, come
l’appassionato manifesto di una nuova, illuminata clinica medica[8].
Leo
si era inoltre distinto nell’esercizio della professione e
nell’organizzazione dell’assistenza sanitaria a Cagliari, non solo
come clinico dell’ospedale di Sant’Antonio e medico delle carceri,
ma anche come responsabile della sanità pubblica e dell’assistenza
agli infermi nel popoloso quartiere di Stampace, all’interno del nuovo
servizio del «medico dei poveri», istituito da Carlo Felice nel
1802 [9].
Leo
si era soprattutto messo in luce sia come fautore di una nuova concezione della
sanità pubblica, sia come promotore di terapie mediche
d’avanguardia: con sorprendente tempestività, anche rispetto ad
altre realtà italiane sanitariamente più evolute, si era
impegnato a introdurre in Sardegna la sperimentazione della nuova medicina
preventiva contro il vaiolo, e nel settembre del 1801 aveva richiesto
l’autorizzazione al governo per poter avviare sui neonati abbandonati
dell’ospedale di Sant’Antonio i primi esperimenti di vaccinazione,
secondo il metodo messo a punto pochi anni prima dall’inglese Edward
Jenner[10].
Per quei tempi si trattava in effetti di una proposta pionieristica, soprattutto
se si considera che negli spazi italiani le prime sperimentazioni della
metodica jenneriana erano state realizzate soltanto un anno prima, da Onofrio
Sauli Scassi a Genova e da Luigi Sacco in Lombardia e da Michele Antonio Buniva
e Ignazio Edoardo Calvo in Piemonte. Anche nel Regno di Napoli le prime
vaccinazioni erano state relativamente precoci, ma in quel caso la spinta
iniziale era venuta dall’esterno, quando nel marzo del 1801 era arrivata
la spedizione medica partita dalla Gran Bretagna proprio con l’obiettivo
di diffondere nel Mediterraneo la nuova pratica della vaccinazione[11].
Può anche darsi che le confortanti notizie provenienti dal Regno di
Napoli e la speranza di ottenere rapidamente il vaccino avessero incoraggiato
lo stesso Leo a rompere ogni indugio e a prendersi la responsabilità di
avviare i primi esperimenti. E tuttavia il progetto di Leo si arenò ben
presto, anche, probabilmente, per la difficoltà di approvvigionamento
dei «fili vaccinici»[12].
Ciononostante,
la sua iniziativa ebbe il merito di sensibilizzare l’opinione pubblica
locale e di coinvolgere contemporaneamente le autorità accademiche,
l’amministrazione viceregia e il ministero. A poche settimane dalla
richiesta di autorizzazione per poter avviare gli esperimenti sugli esposti, anche
il Collegio della facoltà di medicina, di cui Leo era autorevole
componente, interpellato dal viceré Carlo Felice
sull’opportunità d’introdurre nell’isola il
«nuovo ritrovato della vaccinazione», assicurava il suo avallo alla
scelta della metodica jenneriana e ne auspicava l’adozione. Il parere
indirizzato al viceré poggiava su due punti principali: da un lato il
riconoscimento della comprovata efficacia preventiva del «vajolo
innestato con la vaccina», ormai ampiamente documentata da
«scrittori degni di fede»; dall’altro, la ferma convinzione
che non c’era nell’isola nessuna particolare causa
d’incompatibilità che potesse sconsigliare d’introdurvi
l’«inoculazione»[13].
Non
c’è traccia, nel conciso parere del Collegio medico, dei dubbi di
carattere sanitario, e soprattutto etico-religioso, che da più parti
venivano sollevati nei riguardi di una profilassi inedita e inquietante, che
contemplava l’inoculazione di pus animale in un individuo sano. In
realtà il Collegio, in linea con i dettami delle dottrine aeriste e
neo-ippocratiche prevalenti nella medicina tardo-settecentesca, concentrava la
sua attenzione sulle caratteristiche fisico-climatiche dell’ambiente
isolano, con l’intento di poter escludere eventuali controindicazioni[14].
È in quest’ottica che il Collegio concludeva le sue argomentazioni
con un singolare, succinto ragionamento sul clima della Sardegna nel quale non
è difficile intravedere il riferimento alle coeve polemiche
sull’insalubrità dell’isola.
Nel
parere del Collegio riecheggiavano, in particolare, le appassionate
argomentazioni con cui in quei mesi Pietro Antonio Leo rilanciava, dalla sua
cattedra universitaria, la «tesi patriottica» della normale
salubrità del clima di gran parte del territorio dell’isola,
puntando a confutare sul piano scientifico la falsa e ingenerosa immagine,
incautamente divulgata da alcuni «scrittori forestieri», di una
Sardegna «pestilenziale», totalmente immersa in un’aria
perniciosa e malsana[15].
Non a caso l’assenza di controindicazioni alla vaccinazione jenneriana trovava
conforto nell’asserzione della sostanziale affinità del clima
dell’isola con quello dei principali paesi nei quali la nuova metodica si
era già affermata («né può sospettarsi nel clima
sardo particolarità alcuna – sostenevano i medici cagliaritani
–, per la quale possa dubitarsi del felice esito della tanto decantata
inoculazione, senza dire, che esso clima sia cotanto stravagante da non potersi
con verun altro paese, ove con ottimo successo è stata praticata,
paragonare»).
D’altra
parte, anche in Sardegna, come in altre realtà italiane ed europee, la
battaglia culturale per l’adozione su larga scala del nuovo ritrovato si
era subito configurata come scelta filantropica e umanitaria, che si
accompagnava a un rinnovato patriottismo civile e alla richiesta di un
massiccio impegno del potere pubblico. Non meraviglia perciò
l’accorato appello con cui il Collegio medico cagliaritano auspicava che
«tutti i cittadini» si scuotessero dall’inerzia, e
«animati dalla turba d’illustri esempi» si sottoponessero al «sicuro
benefizio» della vaccinazione, «potente soccorso contro un male
inevitabile e frequentemente mortale». Così, quando, sul finire
del 1801, iniziò a circolare la Lezione
fisico-medica, la battaglia per la sperimentazione del vaccino aveva
già accreditato il suo autore come scienziato filantropo, impegnato a
promuovere nel campo medico ogni innovazione che potesse recare beneficio alla
patria e all’umanità.
Negli
anni successivi l’attenzione e le polemiche suscitate dalla sua
dissertazione avevano contribuito ad accrescere la notorietà di Leo e a
farne conoscere il nome anche al di fuori dell’isola. Era già
socio di diverse accademie scientifiche italiane e straniere, quando, nel
gennaio del 1805, durante il suo soggiorno a Parigi, la neonata Reale Società
Agraria ed Economica di Cagliari deliberò di cooptarlo fra i soci
ordinari, riconoscendo l’ottima fama e la pubblica stima che già
da anni lo accompagnavano[16].
Nella comunicazione ufficiale il segretario dell’accademia cagliaritana,
il suo amico Lodovico Baille, lo informava che l’assemblea aveva
approvato «con unanime plauso» la sua cooptazione, lusingata di
poter annoverare tra i suoi soci «un soggetto benemerito, già noto
alla Repubblica letteraria pei suoi talenti e per le sue erudite produzioni, e
cognito altronde per il suo attaccamento alla Patria e per l’amore del
pubblico bene»[17].
La
particolare reputazione che Leo si era conquistato era anche il frutto di un
percorso di studi rigoroso e di una nutrita serie di esperienze di
specializzazione professionale, che gli avevano permesso d’imprimere un
taglio largamente innovativo al suo insegnamento universitario, alle sue
ricerche naturalistiche, alle sue molteplici attività medico-sanitarie.
Non deve dunque meravigliare che il mondo letterario sardo avesse preso a
riconoscere nella sua Lezione il
segno di quel rinnovamento degli studi che, avviato dalle riforme universitarie
degli anni sessanta del Settecento, dopo un lungo periodo d’incubazione
aveva finalmente investito anche la «sarda medicina». È significativo,
per esempio, che nella seconda edizione del poema didascalico I tonni, apparsa a Cagliari nel 1802, il
suo autore, il sacerdote Raimondo Valle, membro del Collegio di filosofia e
belle arti dell’Università cagliaritana, si fosse premurato
d’inserire un lusinghiero riferimento alla Lezione di Leo «giovane che unisce ad una buona Teorica un
indefesso esercizio»[18].
E poco tempo dopo, un altro letterato, Giovanni Andrea Massala, insegnante di
retorica nelle regie scuole di Alghero, nella sua Dissertazione sul progresso delle scienze e della letteratura in
Sardegna non esitava a celebrare la modernità della Lezione fisico-medica indicandola come
testimonianza del moto di rinnovamento che anche in Sardegna aveva ormai
nettamente caratterizzato il più recente sviluppo delle scienze mediche:
«Un esempio preclarissimo recentemente – osservava Massala –
ne abbiamo nella dotta dissertazione sulla Sarda
intemperie con profondità di medico-fisiche cognizioni, e con
eleganza singolare di stile scritta nella lingua italiana dal valente
professore di materia medica nella Regia Università di Cagliari, Pietro
Antonio Leo, cui la Patria riconoscente augurar dee lunga vita e salute per
illustrarla a conforto dell’umanità sofferente»[19].
Pietro
Antonio Leo proveniva da una modesta famiglia contadina. Era nato nel 1766 ad
Arbus, un piccolo villaggio della Sardegna sud-occidentale; aveva compiuto gli
studi inferiori presso gli scolopi e si era formato
nell’Università di Cagliari. Si era iscritto nella facoltà
di Filosofia ed arti, poco meno che ventenne, a metà degli anni ottanta
del Settecento, quando nel mondo intellettuale e nella vita pubblica del Regno
iniziavano a maturare i primi frutti della riforma degli studi varata negli
anni sessanta. Nella sua brillante carriera di studente – nel 1785-87
nella facoltà di Filosofia e arti e nel 1787-90 nella facoltà di
Medicina, dove gli fu concesso di saltare un anno – poté studiare
su programmi aggiornati e avvalersi dell’insegnamento di diversi buoni
maestri[20].
Tra questi spiccavano alcuni docenti particolarmente preparati, che erano
approdati nell’Ateneo cagliaritano con il radicale rinnovamento del corpo
docente voluto dal ministro Bogino: vi era per esempio l’ex gesuita,
letterato e filosofo torinese Giuseppe Gagliardi, professore di Fisica
sperimentale, proveniente dall’Università di Sassari, dove aveva
avuto allievo il giovane poeta Francesco Carboni, autore di un impegnato e acuto
poemetto in esametri latini, De Sardoa
intemperie (Cagliari 1772), dedicato alla malaria e alle risorse naturali
della Sardegna[21].
Come docente di Medicina teorico-pratica ebbe Giacomo Giuseppe Paglietti,
protomedico del Regno, autore di un’interessante Pharmacopea Sardoa (Cagliari 1773), e come professore di Materia
medica Pietro Francesco De Gioanni, il «valente medico e
naturalista» di cui Leo non esitava a dichiararsi discepolo, ricordandone
nella sua Lezione «con animo
grato e rispettoso» l’alto magistero scientifico[22].
Tra i
docenti della facoltà di Medicina spiccava inoltre il piemontese Michele
Antonio Plazza, professore di Chirurgia e primo titolare di questa cattedra
istituita nel 1759: un ricercatore pieno di curiosità e
d’interessi scientifici, appassionato studioso di botanica e di storia
naturale, che da quando si era definitivamente trasferito a Cagliari, alla fine
degli anni cinquanta, si era sempre mantenuto in stretto rapporto con lo
scienziato torinese Carlo Allioni, al quale aveva trasmesso, oltre a diverse
informazioni sulla flora e sui fossili della Sardegna, anche i risultati di
un’interessante indagine da lui svolta tra i medici locali «sopra
le febbri migliarie», principale oggetto delle ricerche scientifiche del
suo interlocutore piemontese. Plazza era inoltre l’autore delle
pionieristiche «Riflessioni intorno ai mezzi per rendere migliore
l’Isola di Sardegna»: un’ampia e originale memoria
medico-sanitaria e tecnico-economica che, prendendo le mosse dallo
«spopolamento» dell’isola, analizzava lo stato generale della
salute pubblica nel Regno passando in rassegna le molteplici cause della
«trascurata conservazione degli individui». In particolare si
soffermava sui costumi alimentari delle popolazioni locali e sulle gravi
carenze della medicina isolana, sugli effetti del paludismo, sulla presenza
della cosiddetta «sarda intemperie» in relazione alle stagioni e
alle zone geografiche, sull’erronea convinzione che essa costituisse
l’unica causa dell’impoverimento demografico del Regno e che
l’intera popolazione ne fosse uniformemente colpita[23].
A Leo
non erano dunque mancate le opportunità per fare dei buoni studi, per
coltivare i suoi interessi medico-naturalistici, per cogliere
l’importanza di un costante aggiornamento scientifico.
All’indomani
della laurea il giovane Leo era ritornato al paese natale e aveva iniziato a
esercitarvi la professione. Ma qualche tempo dopo, in quella vivace fase della
vita pubblica del Regno che si era aperta nel 1794 con la sollevazione
cagliaritana e con l’espulsione dei piemontesi dall’isola[24],
Leo aveva riallacciato i rapporti con gli ambienti accademici della capitale
presentando la sua candidatura alla cattedra di Istituzioni mediche, resasi
vacante in seguito alla promozione del professore titolare, il sardo Salvatore
Cappai, chiamato alla cattedra di Medicina teorico-pratica. La necessità
di reclutare un nuovo docente per l’insegnamento delle Istituzioni
mediche scaturiva, dunque, da un più ampio riassetto del corpo docente
della Facoltà maturato in quel particolare periodo in cui, in assenza
del viceré piemontese, la direzione politica della vita
dell’Ateneo era passata alla Reale Udienza, la suprema magistratura del
Regno che costituiva temporaneamente la più alta autorità di
governo nell’isola. Il giovane Leo si era aggiudicato la cattedra
prevalendo brillantemente, col voto unanime del Collegio, sugli altri due
concorrenti. La sua nomina era stata rapidamente decretata dal sovrano con le
regie patenti del 7 dicembre 1794 [25].
Ma al di là delle procedure accademiche la sua ascesa alla cattedra
universitaria fu percepita dai connazionali come un concreto riflesso del
rinnovamento culturale e del fervore patriottico scaturiti dal moto
antipiemontese.
Un
anno dopo, nel settembre del 1795, la richiesta del neoprofessore di poter accedere,
per trasferimento o per concorso, alla prestigiosa cattedra di Materia medica,
liberatasi in seguito alla scomparsa del titolare, Marco Sini, protomedico del
Regno, era destinata a provocare una clamorosa e prolungata spaccatura nel
mondo accademico locale. L’istanza di Leo si contrapponeva infatti a
un’analoga richiesta dell’anziano medico collegiato Giovanni
Antonio Castagna, che rivendicava l’assegnazione diretta della cattedra[26].
Le ambizioni accademiche di Leo, per quanto autorevolmente assecondate dal
Magistrato sopra gli studi, suscitarono l’opposizione del prefetto del
Collegio medico della Facoltà, che caldeggiava invece la richiesta
dell’anziano collega. Intorno a questo, infatti, aveva naturalmente fatto
quadrato gran parte dei dottori del Collegio, sicché il viceré,
nel prendere atto della situazione di stallo, si era limitato a suggerire al
ministero di evitare temporaneamente l’apertura del concorso che, a suo
avviso, non avrebbe raccolto altre candidature oltre a quella di Leo e avrebbe
invece suscitato l’aperta ostilità degli «antichi dottori di
Collegio»[27].
Ma al
di là delle vicende personali la contrapposizione tra le due candidature
era ormai riconducibile a più ampie polarizzazioni di carattere
culturale, scientifico, generazionale. In realtà Leo faceva parte di
quella nuova generazione di giovani laureati che, consapevoli
dell’impegno profuso negli studi universitari e incoraggiati dalle
promesse governative di impieghi e sbocchi professionali attribuiti per merito,
si faceva avanti a reclamare concorsi e carriere.
Nella
primavera del 1796, mentre la vita pubblica del Regno si avviava verso
conflitti sempre più drammatici, l’ormai trentenne professore
decideva di spendersi in un’impegnativa esperienza di studio:
perciò chiedeva alle autorità accademiche di poter usufruire di
un congedo con adeguato «sussidio pubblico» per affrontare un
intenso periodo di specializzazione presso «una celebre e ben stabilita
Università d’Italia», dove contava di perfezionare la sua
preparazione nel campo della botanica e dell’anatomia.
Nell’Università di Cagliari era la prima volta che un docente
proponeva di concordare con le autorità accademiche, secondo una formula
già sperimentata in diversi atenei, un percorso di specializzazione da
realizzare presso altre istituzioni universitarie, ma la proposta presentava
diversi aspetti particolarmente utili per il futuro della Facoltà
medica: non a caso le autorità accademiche colsero al balzo
l’occasione e l’approvarono entusiasticamente, sottolineando che
non si doveva perdere l’opportunità di assecondare la buona
inclinazione del giovane professore «dotato di grande e perspicace
talento» e capace di «acquistare quei lumi che sono necessari per
formare un buon professore botanico ed anatomico, di cui abbisogna nelle
presenti circostanze la predetta Regia Università». Parallelamente
anche il Magistrato sopra gli studi riconosceva che le nuove competenze
scientifiche avrebbero reso Leo «vieppiù idoneo ad occupare la
cattedra vacante di Materia medica», il cui concorso veniva perciò
rinviato fino al suo ritorno[28].
Non stupisce dunque che la stessa delibera sottolineasse l’importanza e
l’interesse generale del progetto di Leo, considerandolo
«vantaggioso e proficuo non solo all’Università e alla
gioventù studiosa, ma altresì alla Patria e alla Nazione».
Nella
storia dell’Università di Cagliari il provvedimento adottato per
Leo rappresentò quindi un importante elemento di novità, i cui
precedenti potevano esser rintracciati soltanto in alcune esperienze di specializzazione
di docenti sardi promosse dal ministro Bogino nel quadro dei radicali
interventi per il ricambio del corpo docente negli anni della rifondazione
dell’Ateneo cagliaritano[29].
La
soluzione adottata per Leo inaugurò così un modello
d’intervento che le autorità accademiche seguirono anche negli
anni successivi facendovi ricorso con l’obiettivo di colmare i ritardi
che l’ateneo cagliaritano aveva accumulato rispetto ad altre
università italiane ed europee. Già poche settimane dopo si
riproponeva lo stesso tipo d’intervento per sopperire allo «stato
di notabile decadenza» della scuola di Chirurgia: il Magistrato sopra gli
studi riteneva pertanto «esser cosa utilissima lo spedire a Napoli»
un valido chirurgo del Collegio cagliaritano che opportunamente sovvenzionato
potesse acquistare «quei lumi di cui non si è avuto ancor notizia
o si sono ben rado osservati nel Paese»[30].
A
più riprese, tra l’estate del 1796 e l’autunno del 1800, Leo
soggiornò lungamente a Pisa e a Firenze e visitò diverse
città dell’Italia settentrionale, dove ebbe modo di esercitare la
professione medica sotto la guida d’insigni maestri, di maturare nuove
esperienze cliniche con la pratica al letto del malato e di frequentare i
grandi ospedali di Santa Chiara a Pisa e di Santa Maria Nuova a Firenze, e
quelli di Bologna, di Milano, di Torino e di Genova[31].
Com’egli
stesso riconosceva quegli anni rappresentarono una tappa fondamentale nella sua
formazione di medico e scienziato. «Fu questa l’epoca per me
fortunata, in cui – sottolineava Leo –, oltre molti altri
pregiudizii, che mi guastavano lo spirito, deposi anche quello che ripeter mi
faceva da vizio dell’aria tutte quasi le febbri autunnali. E qual uomo
per tenace che fosse ed ostinato nelle false concepite idee, non l’avrebbe
mai deposto veggendo migliaia di persone abitanti di terre, che godono del
clima più temperato e d’un aria affatto priva di velenate
esalazioni paludose […] languire pur nondimeno miseramente in letto per
le stesse stessissime malattie febbrili, sì continue che intermittenti,
che io avevo per l’addietro conosciuto per febbri
d’intemperie?»[32].
Tra
la primavera e l’estate del 1796, quando Leo giunse a Pisa, le armate
francesi erano già dilagate in Piemonte e in Lombardia, Napoleone faceva
il suo ingresso trionfale a Milano, le Legazioni pontificie di Bologna e
Ferrara e le Romagne erano sull’orlo della capitolazione e un corpo di
spedizione francese stava ormai per occupare Livorno. La vita pubblica del
Granducato si avviava verso un periodo di grande fermento: mentre la
neutralità di Ferdinando III di Lorena appariva sempre più
fragile, i circoli patriottici intensificavano le loro iniziative per
l’avvio di un processo di democratizzazione e di radicale rinnovamento
della società[33].
Nella
seconda metà dell’anno iniziò ad affluire in Toscana una
parte dei patrioti sardi esuli dopo la sconfitta della sollevazione antifeudale
guidata dal giudice Giovanni Maria Angioy: nel luglio andarono a stabilirsi a
Pisa anche Gian Francesco e Giambattista Simon, che riallacciarono con Leo
l’antico sodalizio cagliaritano[34].
Sotto
il profilo scientifico, Pisa, era una sede universitaria di prim’ordine,
e in particolare la facoltà di Medicina costituiva l’espressione
più viva del mondo universitario toscano. La città ospitava
prestigiose istituzioni culturali e scientifiche che rappresentavano per
l’epoca importanti punti di riferimento per il mondo accademico italiano
ed europeo. Un ruolo di primo piano svolgevano nel campo medico-naturalistico
l’Orto botanico e il Teatro anatomico[35].
D’altra parte, nella medicina toscana la dissezione del cadavere e
l’accurata osservazione del malato in ospedale si erano affermate come
momenti indispensabili della formazione del medico già nella seconda
metà del Settecento, qualche decennio prima che diventassero i capisaldi
delle nuove dottrine mediche francesi. Inoltre, in Toscana, anche per i
laureati che avevano già svolto attività di «pratica in
ospedale» presso il Santa Chiara, l’autorizzazione
all’esercizio della professione era subordinata alla frequenza di un
corso di specializzazione presso la rinomata Scuola medico-chirurgica
dell’ospedale di Santa Maria Nuova di Firenze, nella quale insegnavano
diversi professori dell’Università di Pisa.
Ma il
punto di forza della Facoltà medica pisana era costituito soprattutto da
un corpo docente dotato di una notevole capacità di aggiornamento e
largamente partecipe dei dibattiti intorno alle nuove dottrine mediche. Una
delle figure più autorevoli di quel mondo era certamente Francesco Vaccà
Berlinghieri, medico e scienziato di grande fama, docente di Chirurgia
teoretica, considerato il vero fondatore della Clinica medica nell’Ateneo
di Pisa, del quale fu anche provveditore. Studioso di solida cultura
illuministica e di spiccata apertura cosmopolita, Francesco Vaccà, oltre
al corso ufficiale nella Sapienza pisana, teneva presso la sua abitazione,
com’era consuetudine dei docenti di quell’ateneo, un corso privato
parallelo d’Istituzioni mediche che ogni anno culminava in un tirocinio
estivo di pratica medica «al letto dell’infermo» presso
l’ospedale di Santa Chiara. Capostipite di un’agiata famiglia
pisana, Vaccà non nascondeva le sue simpatie per gli ideali repubblicani
ed era al centro di un sistema di relazioni che saldavano la dimensione
accademica e l’impegno nella vita pubblica, del quale facevano parte gli
stessi figli, tutti e tre professori universitari, due dei quali, i maggiori,
con grande lungimiranza aveva mandato a studiare all’estero, a Parigi e
in Inghilterra dal 1787 al 1791 [36].
Al
professor Vaccà Leo arrivò segnalato da una lettera di
presentazione dell’Università di Cagliari, e nello stimolante
contesto politico e culturale che faceva capo all’insigne maestro
maturò le sue esperienze e visse la sua «epoca fortunata»,
accolto e incoraggiato da lui. Il suo insegnamento e la sua filosofia segnarono
intensamente la formazione e la stessa personalità di studioso di Leo
che da quella scuola trasse le coordinate tematiche e metodologiche a cui
avrebbe fatto costante riferimento nella sua attività successiva[37].
Per
Leo il periodo toscano coincise quindi con il primo incontro con la nuova
Clinica medica, caratterizzata da una medicina preventiva già aperta
alle nuove acquisizioni della fisica e della chimica e che guardava con vivo
interesse allo studio dell’igiene e all’influsso dei fattori
ambientali e alimentari sulla salute. Purtroppo anche del soggiorno in Toscana
abbiamo pochissime testimonianze: da esse si evince però che
approfittò di ogni occasione per ampliare i suoi orizzonti scientifici,
gettandosi a capofitto nello studio, frequentando le dissezioni anatomiche
presso l’ospedale di Santa Chiara, seguendo con entusiasmo un corso di
Chimica sperimentale, partecipando assiduamente alla lezioni di Chirurgia che
il figlio di Francesco Vaccà, Andrea, teneva, con grande partecipazione
di studenti, nella sua abitazione; e perfino intraprendendo lo studio della
lingua greca, necessario alla comprensione della terminologia medica[38].
Al
suo ritorno a Cagliari, nell’estate del 1797, la buona reputazione che si
era conquistato in Toscana e l’apprezzamento degli ambienti accademici e
governativi gli propiziarono l’attesa nomina alla cattedra di Materia
medica, che gli fu conferita con patenti regie del 20 febbraio del 1798 [39].
Pochi
mesi dopo, alla fine dei corsi universitari, Leo intraprese un nuovo viaggio di
studio. Fu, di passaggio, a Firenze, dove a quel tempo risiedeva il suo amico
Gian Francesco Simon, e alla fine di luglio era a Torino, dove si trattenne per
tutta l’estate. Proprio nel luglio del 1798 la cittadella di Torino era
stata ceduta ai francesi dietro la promessa della cessazione di ogni
ostilità. Ma la sopravvivenza dello stato sabaudo era appesa a un filo
sottile che si sarebbe definitivamente spezzato, nel dicembre, con la dichiarazione
di guerra del Direttorio, l’occupazione dell’Armata d’Italia
e la resa sottoscritta da Carlo Emanuele IV.
Al di
là del clima d’inquietudine e d’incertezza politica che
caratterizzava la vita pubblica torinese Leo poté comunque prendere
contatto con una realtà medico-sanitaria evoluta e ben organizzata: da
alcuni decenni gli ospedali torinesi si erano trasformati in luoghi di cura di
patologie acute e avevano da tempo abbandonato la loro originaria natura di
ospizi e di ricoveri per poveri; l’Università, l’Accademia
delle Scienze e l’Accademia di Agricoltura facevano di Torino uno dei
crocevia della cultura scientifica europea. Quando Leo giunse nella capitale
sabauda vi era ancora attivo il Comitato galvanico che raggruppava il meglio
della scienza torinese, impegnato a difendere le tesi del medico bolognese
contro quelle di Alessandro Volta. Da alcuni lustri la «nuova chimica
lavoisieriana» aveva fatto breccia negli ambienti dell’Accademia
delle Scienze, che ne aveva incentivato lo studio promuovendo nuove ricerche
orientate verso le potenzialità applicative. Un ruolo
d’avanguardia avevano assunto in questo campo le indagini chimiche per
l’analisi delle acque come componente essenziale di una politica
sanitaria e dell’igiene pubblica[40].
Ma il
tratto forse più significativo della cultura medico-scientifica
piemontese era la straordinaria fioritura di studi e ricerche di topografia
medica, cioè di lavori che analizzavano le condizioni
climatico-ambientali ed economico-sanitarie di singoli territori o limitate
zone geografiche. Tra le pubblicazioni di questo genere figurava, per esempio,
la singolare opera del «medico patrizio» Lorenzo Vacchini, apparsa
nel
Leo
trovò un’accoglienza particolarmente calorosa negli ambienti
dell’Accademia di Agricoltura, che nell’adunanza del 19 settembre
1798 lo cooptò tra i suoi «soci liberi corrispondenti». Era
un riconoscimento importante anche perché, tra i sardi, solo tre
personaggi di particolare spicco avevano ottenuto diversi anni addietro un
titolo analogo: il censore generale dell’agricoltura Giuseppe Cossu, il
giudice della Reale Udienza Giovanni Maria Angioy e il giurista Domenico
Alberto Azuni, che aveva da poco pubblicato il primo tomo del Dizionario della Giurisprudenza mercantile
ed era stato eletto socio onorario[42].
Leo
compì infine un altro viaggio di studio nell’estate-autunno del
1800 toccando le città di Bologna, Milano e Firenze, ma dal 1801 al 1804
visse stabilmente a Cagliari, dedicandosi all’insegnamento universitario,
svolgendo una generosa assistenza medica e impegnandosi in una serie di
sperimentazioni scientifiche e sanitarie. Ma l’elemento che più di
ogni altro contribuì a imporlo all’attenzione dei connazionali fu
la pubblicazione della sua battagliera dissertazione sulla malaria,
l’unico suo scritto che ci sia pervenuto[43].
La
dissertazione aveva avuto inoltre un autorevole, appassionato suggeritore: era
stata infatti ispirata, e in realtà quasi commissionata, da Gian
Francesco Simon, il vulcanico e poliedrico letterato algherese che proprio
nell’autunno del 1801, mentre curava l’edizione di diverse altre
opere, dava alle stampe la sua brillante Lettera
sugli illustri coltivatori della giurisprudenza in Sardegna. Egli non solo
aveva esortato l’amico scienziato a cimentarsi con il cruciale problema
della sarda intemperie, ma aveva anche, col suo consenso, ampiamente limato, e
in parte rimaneggiato, il testo della Lezione.
Aveva infine rinunciato, ma soltanto per le difficoltà incontrate
nella ricerca, ad affiancare alla dissertazione un suo scritto complementare e
integrativo, che avrebbe illustrato il tema sotto il profilo storico e
letterario: «La Lezione la so
quasi a memoria, ond’è non occorre che le ne parli –
confidava Simon a Baille nell’autunno del 1801 – [...]. Alla
suddetta Lezione io facevo conto di
aggiungervi un mio lavoro letterario sulla stessa materia, quasi per mantissa [a integrazione], ma la
mancanza di qualche monumento di cui abbisognava mi fece sospendere il lavoro.
E con ciò veda – dichiarava con amara ironia – ch’io
cerco di uccidere il tempo come meglio posso in un paese ove esseri di lettere
e di ragione sono fenomeni più rari della fenice d’Arabia. Ella
riderebbe se mi vedesse nelle mie stanze assediato or d’uno or
d’altro senza lasciarmi solo un momento, e chi per chiedermi lumi su
d’una cosa, chi su d’un’altra, ed io intanto far da
ciarlatano di lettere e di scienze enciclopedicamente»[44].
È
probabile che Baille, nella sua risposta,
mettesse in dubbio le competenze dell’erudito algherese;
sicché questi, ritornando sulla specifica natura del progettato contributo
letterario, rivendicava la rilevanza del suo segreto ma incisivo apporto alla Lezione: «Ho avuto sempre presente
il ne, sutor, ultra crepidam [iudicet: nessuno emetta giudizi su cose
di cui non è competente] – replicava Simon il 12 ottobre 1801
–, e l’ho inculcato le migliaia di volte a chi si è a me
indirizzato; ma il lavoro ch’io meditai sulla sarda intemperie non era
medico ma puramente letterario, e mai ultra
crepidam. Se ho voglia di distenderlo Ella non mi rinfaccerà il noto
detto. E poi, Ella sa che un filologo deve aver cognizioni d’ogni
materia; e sul concreto della sarda intemperie potrei ancor io parlarne da fisiologo, come ne ho largamente
parlato col dottor Fois [il medico Pietro Fois], cui prima d’ogni altro
ne incaricai di scriver sulla materia, come il feci posteriormente col dottor
Leo (la di cui Lezione, come parmi d’averle scritto altra
volta in confidenza, è di qualche mio dritto in moltissime parti per la
libertà ch’Egli mi diede sulla medesima allorché sin dal
principio del corrente anno la soggettò al mio giudizio)»[45].
Risalgono
probabilmente a questo periodo gli appunti lasciatici da Gian Francesco Simon
«Sul clima della Sardegna e sugli scrittori che ne hanno parlato fino a questo momento»: una serie di
brevi annotazioni con cui l’erudito abate aveva iniziato a raccogliere,
insieme ad alcune schede su autori antichi e moderni (da Silio Italico fino a
Chaptal, passando per Petrarca), alcune riflessioni sui progressi e le nuove
scoperte delle scienze naturali in ordine al clima e alla salubrità
dell’aria, in cui spicca il lusinghiero giudizio sul coraggioso
contributo della Lezione fisico-medica e
sulla figura di Leo: «Un genio filosofico come quello del dottor Pietro
Antonio Leo, franco, sagace, ingegnoso e filantropo, ha osato [corretto su ardì], il primo, di
annunziare, dalla cattedra ch’egli regge nell’Università di
Cagliari, delle verità forti e utilissime nel bene
dell’umanità»[46].
L’ampia
dissertazione di Leo – un’ottantina di pagine, precedute da
un’appassionata prefazione e arricchite da consistenti note esplicative e
integrative – era suddivisa in due parti. Nella prima l’autore
confutava le principali argomentazioni della tesi dell’insalubrità
del clima della Sardegna, soffermandosi sulle caratteristiche geografiche,
fisiche e ambientali dell’isola e sulla loro incidenza sulla flora, sulla
fauna e sulla salute delle popolazioni. Le considerazioni di Leo non solo
contrastavano l’idea che l’intemperie fosse una malattia peculiare
della Sardegna, indissolubilmente legata al suo clima e al suo ambiente
naturale, ma mettevano anche in luce la molteplicità di patologie
febbrili, che venivano spesso confuse con la malaria o erroneamente ricondotte
alla «cattiva temperie dell’aria».
Nella
seconda parte la critica impietosa della superficialità con cui molti
medici erano soliti affrontare, con un massiccio ricorso a salassi, emetici e
purganti, le «febbri autunnali», offriva lo spunto per una puntuale
contestazione degli assiomi della cosiddetta «polifarmacia»: ad
essa veniva contrapposta una convinta esaltazione delle virtù
terapeutiche della china, dell’oppio e di pochi altri presidi
farmaceutici fondamentali; si profilava, in sostanza, un’argomentata
rassegna delle moderne teorie di diagnosi e terapia delle patologie febbrili e
delle «regole della buona clinica». Nel campo delle indicazioni
medico-sanitarie la dissertazione insisteva, infatti, su due obiettivi
principali: da un lato la necessità di combattere la tradizionale
tendenza dei medici sardi a curare come febbri malariche tutta la gamma delle
patologie febbrili; dall’altro l’esigenza di adottare terapie
differenziate, evitando d’indebolire il malato con l’abituale abuso
di purghe e salassi, ma ricorrendo, eventualmente, a opportune cure
ricostituenti accompagnate da farmaci universalmente apprezzati come
l’oppio e la china[47].
La
dissertazione, anche per il piglio polemico con cui denunciava
l’inadeguatezza scientifica, se non la ciarlataneria, di molti medici
locali[48],
suscitò resistenze e ostilità negli ambienti accademici e
professionali, ma diede una vigorosa scossa al mondo intellettuale isolano: fu
infatti soprattutto la nuova ottica con cui veniva analizzata la complessa
problematica delle cause e della natura dell’intemperie ad attirare
l’interesse dei medici sardi e di un pubblico più ampio di lettori
colti.
In
realtà, l’opera di Leo affrontava di petto uno dei nodi più
spinosi dell’annosa querelle
sulla Sardegna come isola «pestilente», irrimediabilmente
penalizzata da un clima ovunque «intemperioso». Sotto questo
profilo la Lezione di Leo
s’inseriva nel robusto filone delle accese polemiche
tardo-settecentesche, che avevano visto il fior fiore dei letterati sardi
impegnati a difendere la reputazione della Sardegna dagli offensivi giudizi sul
clima dell’isola e sui costumi dei sardi, affrettatamente espressi da
viaggiatori e geografi che talvolta non l’avevano neppure visitata[49].
In particolare, negli anni ottanta del Settecento le polemiche sulle
caratteristiche della «sarda intemperie» e sul clima
dell’isola avevano costituito un formidabile incubatore dei sentimenti di
appartenenza e di identità patria, successivamente confluiti
nell’ampio moto patriottico del triennio rivoluzionario sardo.
L’opera di Leo rilanciava i fasti di un patriottismo letterario e
scientifico rapidamente caduto in disgrazia con la sconfitta della «sarda
rivoluzione» e la normalizzazione assolutistica degli ultimi anni del
secolo[50].
Così,
nella sua battagliera prefazione indirizzata agli «ornatissimi»
studenti dell’Università di Cagliari, Pietro Leo non esitava a
rivendicare il carattere militante della sua dissertazione, affermando il
«sacro dovere» per lo scienziato «filopatrida» di
difendere e «vindicare» la patria dalle «ingiuste
imputazioni» che le venivano rivolte a proposito del clima e
dell’intemperie. E d’altra parte, quale «impresa», si
domandava Leo, poteva rivelarsi più degna per un «medico
filantropo» che confutare i «perniciosissimi errori» in base
ai quali da un lato i forestieri consideravano l’intemperie come una
patologia endemica della Sardegna, e dall’altro la medicina sarda,
trascurandone la dimensione pressoché universale, finiva per affrontarla
come «supposta malattia» specificamente locale[51]?
Certo, le classificazioni scientifiche dei più autorevoli trattati
clinici tardo-settecenteschi non lasciavano dubbi sulla necessità di
considerare come «endemiche» o «patriotiche» soltanto
quelle patologie che fossero realmente caratteristiche ed esclusive di alcuni
paesi e non trovassero riscontro in altre zone geografiche[52].
Non si trattava, però, di riaffermare verità astratte o evidenze
in parte scontate: smentire che in Sardegna le febbri malariche colpissero
uniformemente, in ogni tempo e in ogni luogo, tutta la popolazione, o che
presentassero caratteristiche così particolari da trasformarle in una
«malattia patriotica», significava infatti per Leo mettere le basi
di un nuovo approccio metodologico che ricollocava la «sarda intemperie»
nel più vasto contesto delle patologie febbrili e permetteva di far
tesoro dei progressi scientifici compiuti in tutti i campi delle scienze della
natura.
L’interesse
dell’opera di Leo non deriva infatti dall’originalità della
confutazione dei molti luoghi comuni sull’onnipresenza della malaria
nell’isola, bensì dalla novità delle riflessioni e dei
riferimenti medico-scientifici. Certo, nell’analisi delle caratteristiche
delle zone malariche dell’isola non c’erano, nella Lezione di Leo, novità
sostanziali, ma le argomentazioni chimico-fisiche sulle modalità di
trasmissione della malaria e la confutazione della tesi della «pretesa
naturale insalubrità della Sardegna» prospettavano interrogativi
di sconcertante originalità. In effetti, per gli aspetti
geografico-ambientali,
Colpisce,
per esempio, la coraggiosa critica con cui Leo metteva in dubbio una delle
certezze più consolidate sulle cause delle febbri malariche, cioè
il ruolo determinante che veniva attribuito alle esalazioni delle «acque
stagnanti» nella insorgenza della malattia: «Se io non temessi di
essere tacciato di pirronismo oserei persino dubitare – dichiarava Leo
– della tanto temuta indole mortifera e pestilente delle palustri
esalazioni. Né privo affatto di fondamento parrebbe questo mio dubbio a
coloro che lasciando per un momento di giurare sulle asserzioni de’ lor
maggiori e guidati soltanto dagli inconcussi principi della Chimica moderna,
volessero una volta esaminare le cose da filosofi spassionati»[54].
Così,
sulla base di un rigoroso ragionamento fondato sulle principali nozioni,
sperimentalmente acquisite, della fisica e della chimica tardo settecentesche,
il medico cagliaritano escludeva che la semplice evaporazione delle acque
palustri potesse liberare quei nocivi «principii» che si riteneva
costituissero la causa immediata della malaria: «s’egli è
dunque dimostrato […] che dessa [l’acqua] è composta di gaz
ossigeno e di gaz idrogeno, non altro certamente tramanderà
all’atmosfera che questi due fluidi elastici». E se anche si
volessero prendere in esame le «pestilenti esalazioni» della
putrefazione delle «sostanze vegetabili e animali, che trovansi quasi
sempre coll’acqua mischiate», quali prove, domandava Leo,
potrebbero dimostrare che «tutti o alcuni di questi fluidi
aeriformi» siano capaci di determinare «la supposta infezione
dell’aria che respiriamo»? Gli esperimenti sulla composizione
dell’aria atmosferica avevano ormai dimostrato che alcuni dei gas
più nocivi risultavano solitamente «mischiati coll’aria
vitale» e venivano respirati «in grandissima quantità»
senza causare alcun danno. E d’altronde era ormai accertato che alcune
«spezie d’arie» si rivelavano letali soltanto
«perché incapaci di sostenere quella nobile vitale funzione che
può essere soltanto mantenuta dall’aria vitale o gaz ossigeno; ma
non già perché, come si suppone, insinuatesi nelle macchine
nostre ne infettino i liquidi circolanti e ne promuovano la putrida
dissoluzione e le così dette putride malattie»[55].
Si
trattava dunque di ipotesi e di considerazioni nient’affatto scontate che
puntavano a mettere a frutto alcune delle più recenti scoperte sulla
composizione chimico-fisica dell’aria atmosferica, sui processi di
dissoluzione delle sostanze organiche, sulla metabolizzazione dei cibi e sulle
caratteristiche delle «malattie putride»[56].
In
realtà la caratteristica più interessante (e la vera
modernità) dell’opera di Leo consiste proprio in quel suo procedere
non solo smentendo i pregiudizi e i luoghi comuni, ma anche mettendo in
discussione le certezze e i capisaldi di alcune delle più accreditate
interpretazioni scientifiche tradizionali. D’altra parte, per quasi un
secolo, fino alla scoperta del ruolo della zanzara anophele come vettore della
malaria, si continuò a ritenere che a determinare l’insorgere
della malattia fossero i «miasmi» e l’aria malsana, che si
producevano al di sopra delle acque stagnanti. Non deve pertanto meravigliare
che anche le argomentazioni con cui Leo confutava i pregiudizi relativi alle
modalità di trasmissione e di contagio della malattia si collochino
all’interno di una lettura complessiva del fenomeno che continuava a
individuare nelle condizioni climatiche e ambientali il fattore determinante
dell’epidemiologia della malaria.
È
in questa chiave che Leo contestava l’idea che anche le febbri che si
manifestavano in zone lontane dai «virulenti miasmi della terra e delle
acque palustri» potessero essere attribuite alla «depravazione
dell’aria», determinata dalle esalazioni nocive trasportate dai
venti a grande distanza dai luoghi dove originariamente si producevano.
Analogamente, non esitava a contrastare l’idea che anche
l’insolazione potesse essere annoverata tra le cause delle febbri
malariche[57].
Per
Leo era infine un vero sproposito l’idea assai diffusa che la malaria
potesse essere contratta con l’assunzione di cibi provenienti da luoghi
malsani. Quell’opinione gli appariva un attentato «alle leggi della
fisica esatta». Lo scienziato cagliaritano non esitava a richiamare
quanto era stato «osservato, scritto e sperimentato dall’immortale
Spallanzani» circa le proprietà antisettiche dei «sughi
gastrici», e ad evocare, oltre alla grande tradizione scientifica toscana
delle ricerche sul veleno della vipera[58],
i più recenti studi di Francesco Chiarenti sui processi fisico-chimici
della digestione, che, apparsi a Firenze tra il 1792 e il 1797, avevano animato
un intenso dibattito medico-scientifico durante il suo soggiorno in Toscana[59].
«Né starò io ad aggiungere molte parole su questo
particolare – osservava Leo –, essendo oggimai una verità
dimostrata, che qualunque sostanza, per virulenta che sia e nociva alla specie
umana, digerita una volta dagli animali bruti […], cambia affatto natura
[…]. Egli è dunque falso, falsissimo – incalzava Leo
–, che si diano sostanze alimentizie le quali perché provenienti
da paesi infetti d’aria palustre vagliano a produrre la vera febbre
d’intemperie»[60].
L’opera
di Leo si presentava quindi come una moderna, autorevole smentita, sul piano
scientifico, degli offensivi pregiudizi che per secoli avevano deformato
l’immagine e la reputazione dell’isola. Agli occhi dei letterati
sardi, poi, la dissertazione era espressione dei lumi delle nuove scienze; era
il frutto del sapere e degli studi di un medico sardo sapiente patriota; aveva
le caratteristiche e le qualità per essere spesa al di fuori
dell’isola. Di qui l’apprezzamento con cui essa venne accolta da
quella generazione di letterati che, formatisi negli ultimi decenni del
Settecento, avevano fatto propri i criteri di uno studio metodologicamente
rigoroso e che da diverse angolazioni civili e culturali avevano ripreso a
coltivare gli ideali del Rifiorimento della Sardegna. Non a caso la Lezione di Leo entrò rapidamente
a far parte delle conversazioni scientifico-letterarie che univano gli eruditi
sardi, all’interno e fuori dell’isola, in quella ideale
ricomposizione della «repubblica delle sarde lettere» che in gran parte
sarebbe sfociata nella nascita della Reale Società Agraria ed Economica
di Cagliari.
Una
viva testimonianza di come l’opera di Leo venne recepita e riletta anche
al di fuori degli ambienti medici e universitari ci viene offerta dalla lunga
lettera – quasi una memoria ragionata –, che un ufficiale
savoiardo, Francesco Maria Magnon, comandante della guarnigione dei Cacciatori
esteri di stanza presso la torre di Longonsardo, sulla costa nord-orientale
della Sardegna, indirizzava, nel marzo del 1803, al medico cagliaritano[61].
Magnon si era trasferito in Sardegna, con la corte sabauda, nel 1799, dopo
essersi rifiutato di proseguire la carriera di ufficiale in Piemonte sotto il
governo francese; aveva scelto la Sardegna come sua seconda patria e nel
febbraio del 1803 aveva finito di predisporre il progetto di fondazione del
nuovo centro abitato che sarebbe sorto nei pressi di Longonsardo e che avrebbe
preso il nome di Santa Teresa[62].
Personaggio poliedrico ed eclettico, ma anche di ampia cultura agronomica e
tecnico-scientifica[63],
Magnon mostra di sapersi accostare alla Lezione
di Leo cogliendone gli aspetti più originali e apprezzandone in
particolare il puntuale ricorso ai principi della chimica lavoiseriana per
contestare i numerosi pregiudizi sul fenomeno della «sarda
intemperie».
La
sua formazione nelle scuole militari sabaude e la sua esperienza di ufficiale
negli stati di terraferma gli avevano consentito di acquisire una buona
conoscenza dei principi delle moderne scienze fisiche e chimiche[64].
Non a caso nella lettera a Leo si presentava con ironia come «un
incognito militare», che, per amore delle scienze, abbandonava «le
strepitose scuole di Marte» per spingere il suo «curioso sguardo
nel santuario delle chimiche nozioni». Aveva avuto l’idea di
rivolgersi direttamente all’autore della Lezione sull’onda della vivissima emozione che la sua lettura
gli aveva suscitato: «un amico mi comunicò per due giorni soltanto
il dotto di lei scritto sull’intemperie; ho dovuto divorarlo e
restituirlo con sommo mio rammarico perché perdevo un delizioso
letterario trattenimento in questa deserta terra isolata per così dire
da ogni commercio coi viventi». L’ufficiale dichiarava inoltre la
sua ammirazione per lo slancio che il «profondo» lavoro del
professore cagliaritano aveva dato alle «fisiche scienze» nella sua
«patria», sicché, se «i fautori dei pregiudizi ed
usanze antiche» avessero voluto controbattere alle sue «luminose proposizioni»,
se non altro sarebbero stati costretti a documentarsi
sull’«ammirabile sistema di Lavoisier», di cui fino ad allora
non conoscevano «neppure il nome immortale»[65].
Magnon
dichiarava di condividere pienamente l’opinione di Leo secondo cui
«la malattia così detta d’intemperie» non poteva esser
considerata «endemica della Sardegna»; osservava però che,
comunque la si volesse definire, essa imperversava indubbiamente in diverse
zone dell’isola, sicché occorreva studiarne le cause: era proprio
questo lo «scopo del vero patriottismo», a cui Leo avrebbe potuto
dedicarsi «con più probabile successo», avendo tutti i
requisiti per «un travaglio sì glorioso per il letterato e cotanto
utile all’umanità».
Pur
condividendo diverse premesse del discorso di Leo, Magnon avanzava comunque una
serie di obiezioni che prefiguravano una sostanziale riproposizione, seppure
creativamente aggiornata, della tesi classica della trasmissione della malattia
attraverso le esalazioni dei miasmi palustri. D’altra parte, alcune
osservazioni empiriche e alcuni esperimenti da lui stesso condotti –
sosteneva –, lo avevano convinto che l’aria e le esalazioni
potevano essere il mezzo di trasmissione dei «principii di
putrefazione». Di qui la confermata idea che il contagio avvenisse per
via aerea nel contatto atmosferico con sostanze in corruzione: «Non
sarebbe […] possibile – si domandava – che dei miasmi
pericolosi, delle particelle dei corpi fradici, con l’introdursi nelle
fauci per mezzo dell’inspirazione, introducessero con loro nella macchina
umana quel lievito di putrida fermentazione, che potrebbe cagionare la febbre
autunnale?»[66].
Ma l’antica tesi dell’origine miasmatica della malaria si vestiva,
nell’opinione di Magnon, dei panni della modernità,
rimodellandosi, alla luce delle teorie fisiche e chimiche di Chaptal, sui
fenomeni atmosferici e sui processi di evaporazione legati al ciclo
dell’acqua: «L’autorità di quell’immortale
chimico – scriveva Magnon – mi ha indotto a pensare che i miasmi
del sereno, come quelli che s’alzano con l’azione del sole
potrebbero essere una vera cagione e forse la più generale di tante
febbri autunnali»[67].
La
lettera di Magnon sollevava questioni di notevole rilevanza, che toccavano
alcuni dei punti più discussi nel dibattito suscitato nell’isola
dalla dissertazione di Leo. Sappiamo che tra gli scritti inediti del professore
cagliaritano, che risultavano perduti già a metà
dell’Ottocento, figurava, secondo i suoi primi biografi, anche una
«difesa» della Lezione
fisico-medica «in risposta ad un dotto savoiardo» che ne aveva
criticato alcune tesi[68]:
si tratta, verosimilmente, dello scritto che il medico cagliaritano aveva
composto per rispondere alle garbate ma puntuali critiche di Magnon e con tutta
probabilità la fonte della notizia è Lodovico Baille che, amico
sia di Leo che di Magnon, era al corrente del prezioso scambio epistolare
intercorso tra i due. È certo che Baille, nella sua qualità di
segretario della Reale Società Agraria ed Economica di Cagliari, il 2
novembre del
D’altra
parte non cessavano di giungere notizie delle vivaci reazioni suscitate
dall’opera di Leo negli ambienti più tradizionalisti. Con un certo
sarcasmo lo stesso Baille comunicava a Magnon che a Cagliari perfino «un
fraticello» aveva composto «una dissertazione latina» per
controbattere alla Lezione fisico-medica:
«procurerò di fargliela leggere», gli prometteva, nella
stessa lettera del 23 novembre 1805.
Con
particolare insistenza, fin dal 1802, circolò inoltre la notizia che a
Sassari il letterato e poeta di origine siciliana Domenico Rossetti lavorava a
un’organica memoria o forse a un pamphlet
o a un’operetta polemica, per confutare le tesi di Leo. Rossetti stesso,
nel corso di un viaggio in Francia, aveva incontrato a Marsiglia,
nell’estate di quell’anno, l’esule sardo Matteo Luigi Simon e
gli aveva detto che «aveva da stampare la critica del libro di Leo»[72].
Ma lo scritto di Rossetti non fu mai pubblicato, e lo stesso Magnon, che era a
conoscenza del preannunciato progetto, ne riferiva con ironia a Leo,
ridicolizzandone il dilettantismo scientifico: «Mi era rinvenuto che il
signor improvvisatore avvocato Domenico Rossetti avesse progettata una
confutazione del precitato di lei scritto, volendo, s’aggiungeva,
combatterlo colli stessi principi della nuova chimica; siccome però non
ho più sentito che l’avesse data alla luce, mi do a pensare che il
medesimo avrà più maturamente riflettuto sull’importanza
del cimento […]»[73].
Acutamente l’ufficiale savoiardo attribuiva agli ambienti culturali
più tradizionalisti l’ispirazione dell’iniziativa di
Rossetti, che «poteva essergli suggerita dai seguaci della tanto venerata
antica usanza».
Proprio
per il suo carattere innovativo e per il suo patriottismo militante la Lezione di Leo era destinata a ricevere
invece un’accoglienza particolarmente calorosa tra gli esuli sardi
rifugiatisi nella penisola italiana e nella repubblica francese.
La Lezione di Leo era arrivata in Francia
già nella primavera del 1802: «Si bramerebbero molte copie del
libro di Leo, buono, ma in stile declamatorio»[74],
scriveva da Marsiglia, nel giugno di quell’anno, Matteo Luigi Simon, di
ritorno da Parigi, dove aveva potuto incontrare i compatrioti Michele Obino e
Giovanni Maria Angioy[75].
La richiesta di Simon era rivolta al fratello Giambattista, residente ad
Alghero, che d’intesa con l’autore, di cui era buon amico, avrebbe
dovuto provvedere alla spedizione. Non sappiamo se la proposta abbia avuto un
seguito, ma la lettera dimostra che il libro era già entrato nel
circuito dei patrioti sardi in Francia e che Simon non solo lo aveva letto e
apprezzato, ma si era forse convinto che l’opera, sebbene in italiano e
sebbene incentrata su un tema così particolare com’era quello
della «sarda intemperie», avrebbe potuto avere dei suoi lettori
anche in Francia o più in generale fuori dell’isola.
In
quel tempo Simon meditava di scrivere un’opera storico-geografica sulla
Sardegna per confutare i molti errori e spropositi contenuti nell’Essai sur l’histoire
géografique, politique et naturelle du Royaume de Sardaigne,
pubblicato a Parigi nel 1799 da Domenico Alberto Azuni. E proprio in quei mesi,
tra la primavera e l’estate del 1802, aveva avuto conferma
dell’ormai compiuta trasformazione dell’Essai nella nuova e più corposa Histoire géografique, politique et naturelle de Sardaigne,
che avrebbe visto la luce di lì a poco. In questo quadro appariva
prioritario a Matteo Luigi Simon svelare il disinvolto saccheggio compiuto da
Azuni della Storia naturale di Sardegna
di Francesco Cetti[76].
Si prefiggeva perciò di dare alle stampe una traduzione francese
dell’opera di Cetti, a cui pensava di unire «una più
accurata Geografica descrizione»
dell’isola, che facesse giustizia dei molti luoghi comuni sulla Sardegna,
e smentisse in particolare i frequenti spropositi sulla malaria e
sull’insalubrità del clima. È nell’ottica di questo
progetto che Simon pensava di poter contare sulla preziosa collaborazione dello
stesso Leo, che sulla «sarda intemperie» avrebbe potuto fornirgli
il contributo più aggiornato e più autorevole: «siccome in
questa descrizione vi sarà confutato l’errore della sarda intemperie
– affermava in una lettera indirizzata da Alassio al fratello
Giambattista e al letterato algherese Giannandrea Massala –, pregovi
caldamente che scriviate al dottor Fois [Pietro Fois, medico a Oristano,
anch’egli, come Leo, allievo del professor De Gioanni] e al dottor Leo a
distendere un articolo sull’intemperie, che poi voi altri rivedrete,
aggiungendovi quei riflessi che stimerete necessari ed avrete la cura di
trasmettermi»[77].
L’idea
di un’edizione francese del Cetti sfumò ben presto e perse probabilmente
di attualità dopo la pubblicazione della nuova opera di Azuni. L’Histoire, infatti, pur conservando agli
occhi di Simon tutti i difetti culturali e ideologici dell’Essai, ne emendava gli errori più
macroscopici e per alcuni temi aggiornava sensibilmente anche i contenuti.
Anzi, proprio sul tema della malaria, Azuni aveva nettamente corretto il tiro.
Se nell’Essai si era limitato a
segnalare, quasi di sfuggita, che in alcune località dell’isola la
presenza di acque stagnanti produceva durante l’estate «un air mal sain»[78],
nell’Histoire il problema
dell’intemperie e dell’insalubrità del clima sardo era
affrontato con riferimenti puntuali ai pregiudizi antichi e alle polemiche che
avevano animato la tradizione settecentesca: «Il y a, à la vérité, dans
Certo,
le considerazioni dell’Histoire
non potevano dar conto delle interessanti novità contenute nella Lezione di Leo, ma il giudizio sulla
diffusione della malaria nell’isola non era più così
generico e sommario come quello dell’Essai;
si era inoltre aggiunta l’aperta contestazione delle tesi
sull’insalubrità e sull’inabitabilità della Sardegna,
che impediva il perpetuarsi di quegli «errori» ed «equivoci
madornali», che i profughi sardi a Parigi avevano a lungo stigmatizzato e
che Simon aveva pensato di confutare nella sua progettata «descrizione»
geografica della Sardegna. Si capisce, dunque, il vivo interesse che
l’opera di Leo aveva subito suscitato presso gli esuli sardi in Francia:
finalmente gli errori e i pregiudizi sull’ambiente naturale della
Sardegna venivano rintuzzati attraverso coerenti argomentazioni scientifiche
capaci di far breccia in un vasto pubblico di lettori grazie alla forza
persuasiva dei lumi e delle moderne scienze chimiche e medico-naturalistiche.
Sotto questo profilo l’opera di Leo segnava, per gli esuli sardi, una svolta
fondamentale, che essi, a contatto con la vivace cultura francese, sembravano
percepire ancor più lucidamente che i loro connazionali residenti
nell’isola.
Ce ne
offrono una testimonianza significativa le lucide riflessioni dedicate al
problema della «sarda intemperie» da Matteo Luigi Simon nel suo
documentato «Mémoire»
sullo stato della Sardegna predisposto per Napoleone nella tarda primavera del
Sui
motivi che indussero Leo ad abbandonare l’isola e a recarsi a Parigi si
sono accumulate, fin dai primi decenni dell’Ottocento, varie congetture
che spaziano dalle ipotesi dei dissapori familiari a quelle del dissenso
politico, dalle ragioni di salute al desiderio di sviluppare le sue ricerche in
un ambiente più evoluto e stimolante[81].
In realtà, se si escludono le ragioni del dissenso politico con
l’élite al governo, che non trovano alcun realistico riscontro[82],
tutti gli altri motivi appaiono invece plausibili e suffragati da attendibili
indizi e testimonianze.
La
prima tappa del viaggio di Leo fu Montpellier, dove si trattenne in uno dei
centri di ricerca più rinomati d’Europa, l’Università
di Chaptal, ancora particolarmente apprezzata per gli studi di Medicina, di
Chimica medica e di Storia naturale. Dalle corrispondenze epistolari dei
fratelli Simon emergono diversi aspetti inediti dell’ultimo difficile
periodo della vita di Leo. Nel 1803 la sua esistenza fu irreversibilmente
segnata dal dolore per la perdita di una figlia naturale, come si apprende da
una lettera di Gian Francesco Simon, che confessava al fratello Giambattista di
essersi «intenerito» per le parole con cui Leo gli aveva parlato
del suo profondo dispiacere[83].
In effetti questa morte sembra essere stata la causa prima della profonda
depressione che avrebbe accompagnato il medico cagliaritano fino agli ultimi
giorni della sua esistenza. Se ne ha un’ulteriore conferma dai pochi
cenni con cui Matteo Luigi Simon comunicava da Parigi al padre Bartolomeo che
il «bravo dottor Leo» si era da qualche tempo trasferito nella
capitale francese «per istruirsi durante qualche mese e per distrarsi
dalla melancolia che gli cagionò in Sardegna la morte di sua
figlia»[84].
Ma fu
proprio l’umore malinconico del medico cagliaritano a rendere quanto mai
problematico il rapporto tra Matteo Luigi e Leo, che pure fino ad allora era
stato caratterizzato da cordialità e reciproca stima, sebbene coltivate
solo a distanza. «Leo è sempre qui – riferiva Simon quasi
esasperato – malcontento all’ultimo segno, come dev’esserlo
uno del suo umore e carattere nostalgico, non avente conoscenze, non prendente
gusto neppure a leggere i giornali. Altro che compenso a me è stata
questa sua venuta – si sfogava col fratello – e molto più
l’alloggio nel mio stesso albergo! Sono divenuto senza parole stando con
lui, con cui stiamo insieme al desinare e un’ora dopo. Egli poi da sei
ore di sera si ritira in casa, si corica ed io me ne vado al caffè o al
gabinetto, o altrove, e non mi ritiro che alle undici. Di giorno poi se ne va
ordinariamente al Giardino delle piante. Ecco il solo profitto che
trarrà da Parigi»[85].
Ma,
al di là delle incompatibilità dei due caratteri e dello stato di
depressione del medico cagliaritano, e al di là, soprattutto,
dell’esasperata e forse ingenerosa insofferenza di Matteo Luigi Simon,
è evidente che si profilava un radicale conflitto tra due diversi
approcci alla vita pubblica e ai rapidi cambiamenti politici e culturali che
attraversavano la realtà contemporanea. Non poteva non venire al pettine
il controverso nodo della valutazione delle vicende politiche che avevano
sconvolto la società sarda nel triennio 1793-96 fino alle più
recenti esperienze di governo avviate nell’isola durante l’esilio
della casa regnante, e che si erano concretizzate in quel singolare incrocio di
feudalesimo aristocratico e dispotismo illuminato che era incarnato dal
viceregno di Carlo Felice[86].
Di qui il glaciale scetticismo con cui lo stesso Gian Francesco Simon riferiva
del lusinghiero giudizio sul governo sardo espresso da Leo che a Parigi andava
raccontando, scriveva, «che in Sardegna si stan facendo buone cose e che
i Thiesi [Stefano Manca di Thiesi, marchese di Villahermosa, segretario e primo
scudiere di Carlo Felice], i De Quesada [il marchese Raimondo De Quesada,
segretario di stato e di guerra presso il viceré] ed il principe
viceré ascoltan Baille, il quale non fa che proporre cose nitidamente
utili al regno, per la sua felicità e per la sua gloria»[87].
In
realtà Gian Francesco, che dei quattro fratelli Simon era quello che
meglio aveva conosciuto, anche attraverso il lungo rapporto epistolare, la
personalità umbratile del medico cagliaritano, aveva intuito assai
precocemente le difficoltà culturali e i problemi esistenziali a cui
l’amico sarebbe andato incontro recandosi a Parigi, sia per il suo modo
di vivere tutto sommato provinciale, sia per le sue esigue risorse economiche e
patrimoniali, sia, infine, per la sua scarsa attitudine mondana. Così
nell’estate del 1804, sebbene Leo, ormai giunto a Montpellier, avesse da
più di un mese preannunciato la sua partenza per Parigi, Gian Francesco
Simon da Firenze continuava a dubitare che l’amico vi sarebbe
effettivamente andato: «Non so […] se avrà denari per quel
viaggio e per quella permanenza; tanto più che non si può godere
quel paese – considerava il cosmopolita abate algherese – senza
avere de’ mezzi grandi e delle grandi protezioni e sublimità di
sapere»[88].
Ma il
peso delle difficoltà che Leo avrebbe incontrato nel suo soggiorno
parigino sarebbe andato ben al di là dei lucidi presentimenti dell’amico:
e si comprende, dunque, la rassegnata amarezza del Simon nel riferire i
durissimi giudizi che iniziarono a pervenirgli da Parigi sulla
personalità e sulla singolare abulia del medico cagliaritano: «Leo
è in Parigi, ma ha, secondo mi scrive Matteo, tutti i difetti di sardo e
di villano e […] ne ritornerà tal qual uscì, schizzinoso,
diffidente, poco colto, avendo speso molto e senza frutto»[89].
Si
resta effettivamente colpiti dall’immagine della prostrazione psicologica
e dal disorientamento culturale che emergono dalla rappresentazione che di quel
suo soggiorno parigino ci viene restituita da Matteo Luigi Simon[90]:
la sua caustica critica andava al di là di un’insofferenza
epidermica e sottolineava in realtà la profonda distanza che ormai
separava quel mondo provinciale sardo, a cui Leo per alcuni versi continuava ad
appartenere, dalla rutilante modernità della vita pubblica, dalla
vivacità del dibattito culturale e dallo straordinario progresso delle
tecniche e delle scienze che caratterizzavano invece la capitale
dell’Europa napoleonica. Di qui l’imbarazzo con cui Matteo Luigi
informava il fratello Giambattista dell’imprevedibile freddezza in cui
era precipitato il suo rapporto con Leo: «non oso dirvi nulla di lui,
perché né so né posso avere lo stesso umor suo, avendo
diversa educazione, lumi, umore, abitudini ecc. Pure ci parliamo, e come sta
nel mio alloggio mangiamo insieme. Di poco compenso mi fu la di lui
venuta»[91].
Ma
forse, per tentare di comprendere il disorientamento di Leo risulta preziosa la
testimonianza di Matteo Luigi Simon sul travaglio intellettuale che lo aveva
portato a prendere coscienza del provincialismo e del carattere antiquato della
cultura di cui si era nutrita la sua generazione. Già nell’estate
del 1801, durante il suo difficile soggiorno nella Repubblica ligure, aveva
iniziato a maturare un giudizio amaramente critico sui limiti della formazione
culturale ricevuta negli anni degli studi giovanili e sui rapidi cambiamenti
degli orizzonti scientifici che rendevano superate e obsolete le competenze
acquisite, di cui tanto andavano orgogliosi tutti i componenti della sua
famiglia, dal padre Bartolomeo ai suoi tre fratelli, Domenico, Gian Francesco e
Giambattista. «Dobbiam con confusione confessare – scriveva da
Genova al fratello Giambattista ad Alghero – che di solido non si sa
nulla […]; che né si è fatto, né potea, né
potrà mai farsi nulla di sostanziale mancando i principi; che nel mondo
odierno letterario significa nulla il saper fare qualche sonetto, il saper
amplificare una cosa, il saper raccogliere cose altrui, il fare insomma il
ciabattino letterario. Ma di noi chi saprà se non superficialmente
parlare di Teologia, di Giurisprudenza, di Fisica, di Matematica, Storia
Naturale, Chimica, Botanica, Agricoltura, Metafisica, Morale, Politica, Storia,
Diritto Pubblico, Economia Politica?»[92].
L’idea
che ormai le nuove scienze e la vitalità economica e politica della
Francia del consolato e dell’impero rappresentassero la nuova frontiera
che avrebbe permesso di far progredire gli studi e le conoscenze anche sulla
storia naturale della Sardegna si era da tempo saldamente radicata nella
coscienza di Matteo Luigi Simon, e fu probabilmente all’origine delle
motivazioni che lo avevano spinto a incoraggiare Leo a recarsi a Parigi. La
crisi dei saperi settecenteschi gli era apparsa ancor più dirompente e
incalzante, dopo l’esperienza ligure, durante il suo secondo soggiorno a
Parigi, quando, nella primavera del 1803, pensava di riallacciare qualche
contatto con alcuni esponenti di punta del mondo accademico e letterario sardo,
con i quali nel passato aveva condiviso amicizie e scambi culturali e dai quali
aveva finito per ritrovarsi lontano, travolto dalla «crisi
politica» che aveva avvelenato la vita pubblica del Regno.
Così
all’amico di un tempo, l’autorevole letterato Lodovico Baille, che
ora faceva parte dell’élite colta vicina agli ambienti governativi
e di corte, aveva chiesto se il suo soggiorno nella Francia napoleonica avrebbe
potuto procurargli qualche inconveniente, qualora nel futuro si fosse riaperta
la possibilità di ritornare in Sardegna: «Avrei qui potuto far
molto pel bene della nazione e delle lettere, se i Promotori me ne avessero
data l’occasione – scriveva da Parigi, alludendo alle
autorità di governo dell’isola e ai fautori delle nuove iniziative
culturali –. Quanti acquisti di monumenti sulla Storia naturale, libri
per la Biblioteca dell’università ecc. Ma per fatal caso la nostra
Sardegna non ha mai saputo conoscere i momenti preziosi da prevalersi de’
suoi più affezionati figli. La Storia naturale fa molti progressi
– asseriva lucidamente l’esule sardo –, è oggi la
scienza più propagata, e vi sono uomini insigni. Io mi ci sono applicato
per divertimento, al fine di sollevarmi dai pensieri più
affannosi»[93].
Come
si può dunque capire, il risentimento verso Leo era anche il riflesso
del profondo travaglio personale che l’ex magistrato sardo aveva maturato
durante l’esperienza dell’esilio e che lo aveva portato a prendere
coscienza, anche attraverso una sofferta autocritica, del provincialismo e dei
limiti culturali che caratterizzavano la formazione delle élite
intellettuali e dei gruppi dirigenti sardi. Erano gli stessi limiti che gli
pareva di vedere rispecchiati nella personalità di Leo, e che impedivano
ai letterati sardi di rendersi conto dei danni che derivavano al Regno
dall’isolamento diplomatico, politico e culturale a cui lo avevano
ridotto non solo i calcoli dinastici della corte sabauda, ma anche la miopia
politica di quei gruppi dirigenti isolani che per timore delle riforme
politiche e sociali tenevano forzatamente avulso il Regno dai processi
d’«incivilimento» e di modernizzazione tecnica e scientifica
che investivano l’Europa napoleonica[94].
All’origine
di tutto c’era per Simon, ancora una volta, un problema di natura
culturale: lo spiazzamento di una formazione intellettuale datata e
provinciale, come gli appariva anche la sua, e l’incapacità dei
letterati sardi d’impadronirsi dei nuovi saperi necessari per partecipare
ai vasti processi d’integrazione e modernizzazione che caratterizzavano
lo scenario politico europeo. «In qualunque cambiamento che possa
succedere […] – considerava rassegnato –, sempre andremo da
un chaos all’altro, massime noi che siamo adulti e che abbiam fatti studi
da pedanti, e non sappiam ciò che oggi è necessario […].
Neppure il francese lo sappiam con franchezza e con buon accento. In questo
cambiamento di cose – concludeva – vi han guadagnato i Piemontesi
perché vengon qua [a Parigi] e ritornano, brigano, hanno mezzi, lumi,
buona lingua e tournure française».
E perfino i Corsi, a differenza dei Sardi, riuscivano a farsi valere:
«oggi anch’essi – osservava – coltivan le scienze, non
sono pedanti; hanno accento naturale francese»[95].
Si
sbaglierebbe, però, a voler misurare la complessa esperienza intellettuale
di Leo sull’infelice soggiorno parigino e sull’impietosa
testimonianza del compatriota Simon[96].
È chiaro, invece, che quando giunse a Parigi Leo era già un uomo
malato e stanco, uno studioso che non aveva più le energie per
affrontare la sfida culturale che nondimeno aveva coerentemente ricercato.
Eppure, nel corso della sua vita, aveva ampiamente dimostrato di sapersi
emancipare dalla provincia e di saper mettere proficuamente a frutto le
esperienze maturate in ambienti scientifici e accademici più dinamici.
A
buon diritto, dunque, Leo restava, per i suoi connazionali, il protagonista
della riforma della medicina sarda. Anzi, per molti aspetti, proprio la sua
precoce scomparsa nella lontana Parigi contribuì ad enfatizzare
un’immagine che ben presto si radicò non solo tra i suoi
estimatori ma anche tra coloro che apertamente avevano avversato le sue teorie
più polemiche e problematiche. Il fatto è che nella
«repubblica delle sarde lettere» la figura dello scienziato
cagliaritano era percepita, dopo generazioni di studiosi sardi che si
distinguevano quasi esclusivamente nel settore umanistico, come il primo frutto
del rinnovamento degli studi nel campo delle scienze e il segno evidente
dell’emergere di una nuova generazione di studiosi. E il fatto che egli
incarnasse l’idea del ricercatore illuminato e dello scienziato patriota
fece sì che la sua scomparsa venisse ben presto rielaborata come perdita
della «sarda nazione».
Così,
pur prendendo apertamente le distanze dalle tesi della Lezione fisico-medica, il padre scolopio Tommaso Napoli, letterato
e geografo, ancora a quasi dieci anni dalla scomparsa di Leo, lo ricordava in
modo lusinghiero, lamentando la perdita che la sua morte aveva rappresentato
per la Sardegna: «giovine veramente di gran spirito e talento, e che dava
le più grandi speranze di divenire col tempo uno dei più celebri
medici non che di Sardegna, ma forse anche dell’Europa, statoci
fatalmente rapito pochi anni sono da morte immatura in Parigi, portatosi quivi
per migliorarsi nella sua vacillante sanità, e perfezionarsi
vieppiù nell’arte medica»[97].
Non meraviglia dunque che di lì poco
anche la documentata e penetrante Histoire
de la Sardaigne di Jean François Mimaut, console francese a
Cagliari, riflettesse la lusinghiera immagine che si stava ormai radicando
nella coscienza dei sardi: «Il est
vrai que cette île, avant l’établissement des ses deux
universités, qui a été pour elle une sorte de
régénération morale, avait fourni un bien petit nombre
d’hommes distingués dans ces diverses parties des connaissances
humaines; mais depuis cette époque – osservava il colto
diplomatico – on a compté un
assez grand nombre pour assigner maintenant aux sardes une place parmi les
nations instruits et civilisées […]. La science médicale a aussi trouvé des auteurs sardes.
Outre Farina et Aquenza, qui ont écrit sur l’intemperie, un
docteur plus moderne, don Antonio Leo, a publié sur cette matière
une savante dissertation […]»[98]. E
nel 1827 Stanislao Caboni, nel recensire il primo fascicolo della «Flora
generale» della Sardegna a cui lavorava il piemontese Giuseppe Giacinto
Moris, professore di Clinica medica nell’Università di Cagliari,
dopo aver sottolineato che quasi tutte le isole mediterranee potevano vantare
valide descrizioni scientifiche del loro patrimonio botanico, osservava che
«a compiere la storia delle piante dell’intiero cratere del
Mediterraneo non rimaneva quasi che la sola Sardegna, poco finora curata dagli
stranieri, né dai suoi figli abbastanza rischiarata, sia perché
l’emulazione languiva […], sia perché dei loro lumi poco
poté giovarsi la patria, ora per lontananza ora per morte»: e il
primo esempio era proprio quello di Leo, che «ben addentro avea penetrato
i segreti della Chimica e della Botanica», ma era scomparso «nel fiore
dell’età sua in Parigi»[99].
È
peraltro singolare che il mito del medico naturalista e moderno riformatore
della medicina sarda continuasse a perpetuarsi[100],
mentre la sua Lezione, che non poteva
dare per quell’epoca nessuna attendibile spiegazione scientifica delle
febbri malariche, finiva per entrare nel cono d’ombra provocato dal
rapido e contraddittorio alternarsi di nuove ipotesi e vecchie teorie[101].
Sarà però soprattutto negli anni venti e trenta
dell’Ottocento che la saldatura tra i meriti scientifici di Leo e le sue
benemerenze verso la patria inizierà a trovare coerente espressione nel
nuovo contesto dell’età feliciana e carloalbertina profondamente
segnato dalla riscoperta degli ideali del «Rifiorimento» e dalla
reinvenzione del mito della «sarda nazione». Ne sono
un’anticipazione, e insieme un’efficace testimonianza le parole
conclusive dell’elogio recitato, nell’anno accademico 1827-28, da
Giovanni Zucca, professore d’Istituzioni mediche nell’Università
di Cagliari, che per primo ne aveva raccolto le notizie biografiche: «La
patria gli è debitrice del massimo tra i benefizii, d’aver
ricondotto ai suoi principii ed indirizzato all’altissimo suo fine la
scienza della salute. Ma quanti altri non potea sperarne da un Genio così
straordinario se non fosse mancato fra le comuni lagrime prematuramente ai
viventi?»[102].
* Articolo destinato
all’opera Tra Diritto e Storia. Studi in onore
di Luigi Berlinguer promossi dalle Università di Siena e di Sassari, tomo II, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2008, 753-810.
[1] La lettera di Obino, datata Parigi, 13 maggio 1805 e indirizzata
alla «signora Antonica Leo nata Brundu», edita da R. Di Tucci, in «Il giornale
d’Italia», ediz. sarda, 3 agosto 1926, è stata ripubblicata
da F. Cherchi Paba, Don Michele Obino e i moti antifeudali
lussurgesi (1796-1803), Fossataro, Cagliari 1969, da cui sono tratte le
citazioni, 234-35. Altre tre lettere scritte da Obino tra il 1803 e il 1805 e
inviate da Parigi al profugo corso Giuseppe Peretti residente ad Alghero sono
state pubblicate da A. Boi, Napoleone e lo sbarco in Inghilterra, in
«Studi sassaresi», serie II, XIX-2, 1942, 33-53. Una lettera di
Obino all’avvocato Pietro Leo, figlio di Pietro Antonio Leo, spedita da
Parigi nel 1837, è stata inoltre pubblicata da P. Leo, Su Michele
Obino, in «Studi sassaresi», serie II, XIX-3-4, 1941, 147-48.
Per un efficace profilo biografico di Obino, ex professore di Decretali
nell’Università di Sassari, accusato di essere tra i capi della
sollevazione antifeudale del Logudoro, sospeso dalla cattedra universitaria nel
1796 e definitivamente destituito nel 1799, cfr. V. Del Piano, Giacobini
moderati e reazionari in Sardegna. Saggio di un dizionario biografico 1793-1812,
Edizioni Castello, Cagliari 1996, 347-49.
[2] Per un primo inquadramento della figura e dell’opera di
Leo cfr. P. Sanna, Leo, Pietro Antonio, in Dizionario biografico degli italiani,
LXIV, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 2005, ad vocem. Il suo importante lavoro sulla
malaria è ora disponibile in un’accurata edizione critica arricchita
da diversi contributi sulla sua vita e sulla sua attività sanitaria:
cfr. Pietro Antonio Leo. Di alcuni
antichi pregiudizii sulla così detta sarda intemperie e sulla malattia
conosciuta con questo nome, G. Marci
(a cura di), presentazione di A. Riva e G. Dodero, profilo biografico di P. Leo
Porcu, Centro di Studi Filologici Sardi/Cuec, Cagliari 2005.
[3] L’archetipo delle biografie ottocentesche è
costituito dalle preziose, seppur frammentarie Notizie biografiche del professore Pietro Leo pubblicate dal «Giornale
di Cagliari», sett. 1827, e tratte dal coevo elogio De laudibus Petri Leonis medicinae antecessoris offerto da Giovanni
Zucca, docente d’Istituzioni mediche nell’Università di
Cagliari, per l’inaugurazione dei corsi dell’anno 1827-28.
L’essenziale scheda biografica del «Giornale di Cagliari» fu
poi ripubblicata, con alcune significative integrazioni, in S. Caboni, Saggi diversi letterari e scientifici. Ritratti poetico-storici
d’illustri sardi moderni, Paucheville, Cagliari 1833, 45-50. Un
rapido ricordo di Leo è inoltre in L.
Baille, Discorso pronunziato nella
solenne pubblica adunanza della Reale Società Agraria ed Economica di
Cagliari, Stamperia arciv. G. Bonaudo, Genova 1821, III, VIII. Le
testimonianze raggranellate da Zucca furono poi la fonte principale degli
organici medaglioni composti da P. Tola,
Dizionario biografico degli uomini
illustri di Sardegna, II, Chirio e Mina, Torino 1838 (ora anche a cura di
M. Brigaglia, Ilisso, Nuoro 2001), 181-84, e da P. Martini, Biografia
sarda, II, Reale stamperia, Cagliari 1838, 223-34. Sono di poco successive
le interessanti riflessioni critiche sulla personalità e
sull’opera di Leo proposte da G.
Siotto Pintor, Storia letteraria
di Sardegna, 4 voll., I, Timon, Cagliari 1843, 311-20, 325-32, 350-51.
[4] Lettera al fratello Giambattista, Firenze 2 giugno
Desidero
rivolgere un pensiero riconoscente alla memoria del compianto dott. Matteo
Guillot, che mi ha guidato e pazientemente assistito nella consultazione delle
preziose carte dei suoi illustri antenati, di cui è stato, per tutta la
sua vita, conservatore sensibile e scrupoloso.
[5] Lettera al fratello Giambattista, Firenze 25 settembre
[6] Cfr. Di alcuni antichi
pregiudizii sulla così detta sarda intemperie e sulla malattia
conosciuta con questo nome. Lezione fisico-medica del dottore Pietro Antonio
Leo, pubblico professore di medicina nella Regia università di Cagliari,
Reale stamperia, Cagliari 1801, ora disponibile nell’edizione sopra
richiamata (Centro di Studi Filologici Sardi/Cuec, Cagliari 2005), che di
seguito si utilizza. Dai torchi della stampa l’opera di Leo uscì,
probabilmente, alla fine del 1801: risale infatti al mese di settembre, secondo
una coeva annotazione di Matteo Luigi Simon, il «manifesto» fatto
circolare dal proto della stamperia cagliaritana, Giacomo Paucheville,
«per trovare associati alla stampa d’una lezione fisico-medica del
dottore Pietro Antonio Leo». La notizia si ricava da un libriccino di
appunti su libri, documenti e pubblicazioni di autori sardi via via raccolti
fino al 1803 dall’ex magistrato sardo allora in esilio tra
[7] Sulla malaria come costante storica che ha pesantemente condizionato
la vita e la civiltà dei Sardi cfr. le suggestive riflessioni di M. Le Lannou, Pâtres et paysans de
[8] «Ma è mai possibile – osservava Leo –
che in tempi così illuminati, dietro a tante luminose scoperte nella
Fisica, dopo una successiva catena di verità che anche ai più
ostinati e caparbi han fatto conoscere gl’infiniti assurdi adottati dagli
antichi come assiomi inconcussi […], che non siansi per anco spezzate del
tutto quelle servili catene che tanto avviliscono la natura umana e tanto
ritardarono mai sempre il progresso de’ lumi e delle scienze! Io non
niego – aggiungeva – che anche fra gli antichi sianvi stati
moltissimi d’un merito singolare e che debitori noi siamo a costoro di
mille verità in medicina; ma bisogna pur confessare che mille errori
sono stati dai medesimi abbracciati e difesi, attesa la scarsezza ed
erroneità delle fisiche cognizioni di quei tempi» (Pietro Antonio Leo. Di alcuni antichi, cit., 52-53).
[9] L’incarico di «medico delle carceri della
città di Cagliari» gli fu conferito nell’autunno del 1802,
dopo la scomparsa del predecessore Giovanni Antonio Oppo: cfr. le patenti
regie, Roma 21 novembre
[10] Cfr. ASC, Regia segreteria
di Stato e di Guerra, 2ª serie, vol. 800, Cagliari 3 settembre 1801.
Nel richiedere di poter «tentare su qualche esposito il nuovo metodo di
preservare dal vajuolo confluente per mezzo della vaccinatura», il medico cagliaritano sottolineava la
rilevanza della «scoperta recente delli Inglesi, colà felicemente
tentata e già eseguita con prospero successo sopra 30 mila e più
individui». La sua richiesta, indirizzata al ministro de Quesada, puntava
a ottenere, inoltre, una speciale protezione del governo per superare, da un
lato, «alcuni pregiudizi nazionali che si oppongono a questi
tentativi» e dall’altro le resistenze che si aspettava «per
parte delle balie istesse, cui lo Spedale affida gli esposti».
[11] Sulla rapida diffusione della metodica jenneriana in Italia cfr.
gli studi ormai classici di L. Belloni,
Luigi Sacco e la diffusione del vaccino
in Italia, in «Annales cisalpines d’histoire sociale»,
IV, 1973, 39-48; B. Fadda, L’innesto del vaiolo. Un dibattito
scientifico e culturale nell’Italia del Settecento, Angeli, Milano
1983; U. Tucci, Il vaiolo tra epidemia e prevenzione, in
Storia d’Italia. Annali 7. Malattia
e Medicina, Einaudi, Torino 1984, 391-428. Cfr. inoltre l’ampia
panoramica di B.M. Assael, Il favoloso innesto. Storia sociale della
vaccinazione, Laterza, Roma-Bari 1995, 36-45 e gli studi sui circuiti di
comunicazione europea di Y.M.
Bercé, Le chaudron et la lancette. Croyances
populaires et médecine préventive 1798-1830, Presses de
[12] Del
progetto si perse ogni traccia nell’arco di pochi anni: cfr. S. PERRA, Sullo stato della vaccina in Sardegna,
Reale stamperia, Cagliari 1808, che riferisce dei numerosi tentativi falliti di
ottenere il pus vaccino da Livorno, Genova, Firenze e Marsiglia. A parte
l’isolata esperienza del medico di corte Giuseppe Audiberti, che nel 1806
riuscì a procurarsi dalla Toscana la linfa per vaccinare le figlie,
un’azione sistematica prese forma soltanto nel 1808: cfr. V. ATZENI, Ricerche e documenti sulle vicende della
profilassi antivaiolosa in Sardegna, Tip. Assistenziario, Cagliari 1951; G.
TORE, Dalle epidemie alle vaccinazioni di
massa, in Sanità e
società, cit., 286-296, e
E. TOGNOTTI, Il vaiolo in Sardegna tra
prevenzione e ventate epidemiche nei secoli XVIII e XIX, in Il vaiolo e la vaccinazione in Italia,
atti del Convegno di studi, A. Tagarelli, A. Piro, W. Pasini (a cura di),
Consiglio Nazionale delle Ricerche, Roma
2004, III, 925-44. Sul contributo di Leo cfr. inoltre G. SORGIA, Fautore del progresso, in
«Sardegna fieristica», aprile-maggio 1991; G. DODERO, Storia della medicina e della sanità
pubblica in Sardegna: medici, malati, medicine attraverso i secoli, Aipsa,
Cagliari 1999, 312-13 e E. FANNI, Sebastiano
Perra (Sinnai 1772 - Cagliari 1826). Un medico ippocratico nell’Ottocento
cagliaritano. Contributo alla conoscenza della storia della medicina in
Sardegna, Aipsa, Cagliari 2002, 86-95 e 129-30.
[13] ASC, Regia segreteria di
Stato e di Guerra, 2ª serie, vol. 800, Parere espresso dal Collegio di
Medicina dell’Università di Cagliari, Cagliari 28 settembre 1801.
Il testo del parere è ora in G.
Sorgia, Lo Studio generale
cagliaritano. Storia di una Università, Università degli
studi di Cagliari, Cagliari 1986, 158.
[14] Sull’aerismo e sull’originale rilancio della
tradizione ippocratica che fu alla base della nuova topografia medica
settecentesca cfr. R. Rey, Anamorphose d’Hippocrate au XVIIIe
siècle, in Maladie et
maladies. Histoire et conceptualisation, Mélanges en l’honneur de Mirko Grmek, D. Gourevitch (a
cura di), Librairie Droz, Genève 1992, 257-76 e gli interessanti
contributi di G. Legée, D. Grmek, Th. Vetter e A. Bouchet,
in Hippocrate et son héritage,
Colloque franco-hellénique
d’histoire de la médecine, Lyon 9-12 octobre 1985, Fondation
Marcel Mérieux, Lyon 1986, 91-105 e 131-147. Sulla lunga durata della riscoperta ippocratica settecentesca
cfr. inoltre L’invention
scientifique de
[15] Vale la pena richiamare un passo della Lezione di Leo per cogliere l’influsso che il suo pensiero
esercitò sul parere del Collegio: «E chi di fatti oserà
oggigiorno – affermava Leo – porre in dubbio che siano
costantemente sanissimi i due terzi e più della Sardegna, ove mancano
affatto paludi, bassi fondi, e pantani? […] Che se per soli quei luoghi
veramente sospetti, e che a ben pochi debbonsi ridurre, si ha dritto di
chiamare malsana l’Isola intiera […], io non vedo perché
questa medesima imputazione non s’abbi pure a dare a tutto quasi il mondo
abitato. La Toscana, il Regno di Napoli, la Romagna, la Lombardia, molte
province della Spagna, il Brabante e Fiandra olandese, la Zelanda, tutti i
Paesi Bassi ed altri molti abbondano pure di paludi, d’acque morte e
putrefatte […]. Se dunque a lor non compete la naturale
insalubrità de’ loro climi, perché la sola Sardegna
riterrà il nome antonomastico di malsana e sarà dall’estere
nazioni mostrata a dito per la sola pestilente contrada delle isole
italiane?» (Pietro Antonio Leo.
Di alcuni antichi, cit., 10).
[16] Sull’accademia cagliaritana, istituita da Vittorio
Emanuele I il 14 luglio 1804, e sul suo ruolo nella Sardegna del primo
Ottocento cfr. M.L. Di Felice, La Società Agraria ed Economica di
Cagliari: la scienza economica nei dibattiti accademici, in Gli archivi per la storia della scienza e
della tecnica, Atti del Convegno internazionale, Desenzano del Garda,
4-8-giugno 1991, II, Ministero dei Beni Culturali e Ambientali, Ufficio
Centrale per i Beni Archivistici, Roma 1995, 947-1017. Cfr., inoltre, L. Sannia Nowé, Dai «lumi» alla patria italiana.
Cultura letteraria sarda, Mucchi, Modena 1996, 92-97 e Memorie della Reale società agraria ed economica di Cagliari,
P. Maurandi (a cura di), Carocci, Roma 2001.
[17] Biblioteca della Camera di Commercio Industria e Agricoltura di
Cagliari (d’ora in poi BCCIA), Atti
della Reale Società Agraria ed Economica di Cagliari, Registro n. 9, Lettere 1804-1835, Lettera del segretario Lodovico Baille al
professor Leo a Parigi, Cagliari 6 febbraio 1805. «Tutti i soci –
concludeva Baille – affrettano coi più sinceri voti il di lei
ritorno, ed io fra tutti lo desidero […]». Il nome di Leo
«professore di Medicina, membro di varie accademie», apriva
l’elenco dei dodici soci ordinari approvati nella seduta del 31 gennaio
1805, cfr. Registro della memorie
accademiche, vol. 10-1 (1804-1816),
c. 3. Certo, se si considera che la cooptazione di Leo in quell’esclusivo
sodalizio accademico rigorosamente controllato dal viceré Carlo Felice
fu deliberata mentre egli era a Parigi, e che perfino la comunicazione
ufficiale gli veniva indirizzata al suo domicilio nella capitale francese, non
può che apparire inattendibile l’ipotesi che nell’estate del
1804 lo stesso Leo avesse clandestinamente abbandonato l’isola,
all’insaputa delle autorità sabaude o addirittura in contrasto con
gli ambienti viceregi, e che avesse calcolatamente scelto di arrivare in
Francia passando per
[18] R. Valle,
I tonni, Stamperia reale, Cagliari
1802, 44. Il poemetto era stato composto e recitato dall’autore in
occasione della sua aggregazione al Collegio di Belle arti
dell’Università di Cagliari il 12 febbraio 1800, ed era stato
pubblicato nello stesso anno, presso
[19] G.A. Massala, Dissertazione sul
progresso delle scienze e della letteratura in Sardegna dal ristabilimento
delle due Regie Università, Antonio Azzati, Sassari 1803, 27.
[20] Cfr. Archivio storico dell’Università di Cagliari,
Sezione I (1763-1858), Studenti,
Admittatur (1768-1847). Ringrazio la dott. Cecilia Tasca e la dott.
Giuseppina De Giudici che mi hanno fornito i dati sulla carriera studentesca di
Leo. Incrociando i dati dei libri
matricularum con le titolarità degli insegnamenti risulta che Leo
frequentò nel 1785 i corsi di Logica e metafisica e di Geometria e
aritmetica, tenuti rispettivamente da Giovanni Stefano Carta e da Ignazio
Cadello; nel 1786 i corsi di Fisica sperimentale e di Etica, tenuti entrambi da
Giuseppe Gagliardi; nel 1787 il corso di Istituzioni mediche tenuto da Giuseppe
Corte; nel 1787-88 i corsi di Medicina, non meglio specificati, del secondo e
del quarto anno, che certamente comprendevano l’insegnamento di Materia
medica impartito da Pietro Francesco De Gioanni e quello di Medicina
teorico-pratica tenuto da Giacomo Giuseppe Paglietti. Desidero inoltre
ringraziare don Francesco Tuveri e monsignor Tonino Cabizzosu per la generosa
collaborazione assicuratami nella consultazione degli archivi ecclesiastici di
Arbus e di Cagliari.
[21] Gagliardi inoltre aveva pubblicato un’interessante saggio
di filosofia morale, L’onest’uomo
filosofo (Cagliari 1772), e diversi scritti a uso didattico. Sulla sua
opera e sull’impianto dei suoi corsi di Fisica sperimentale cfr. A. Mattone, P. Sanna, Settecento sardo e cultura europea,
cit., 59-60 e passim.
Sull’insegnamento della Fisica a Cagliari cfr., inoltre, G. Nonnoi, Introduzione e recepimento delle scienze fisiche e naturali nella
Sardegna del Settecento, in Parcours
interculturels. Langues, Littératures,
sociocultures, présentés par Jean Chiorboli, Circulation, des idées,
des hommes, des livres et des cultures, Université de Corse, Corte
2005, 316-42 e P. Sanna, Marchi Alberto, in Dizionario biografico degli italiani, LXIX, Istituto
dell’Enciclopedia Italiana, Roma 2007, 667-69.
[22] De Gioanni era il maestro che gli aveva consentito di
«acquistar quel criterio che esser dee ne’ seguaci di
Esculapio» e che un’«immatura morte» aveva precocemente
sottratto «alla gloria delle scienze, all’ornamento di questo
Liceo, all’utilità della patria, al bene e al presidio della
languente umanità» (Pietro
Antonio Leo. Di alcuni antichi, cit., 5). Su De Gioanni, nativo di
Saorgio (Alba), chiamato a insegnare nell’Ateneo cagliaritano fin dal
1764, protomedico del Regno dal 1792, scomparso nel 1794, cfr. F. Loddo Canepa, Chirurghi, medici, flebotomi, in «Archivio Storico
Sardo», XXI, 1939, 187 e n., e G.
Dodero, Storia della medicina, cit., 204. Su Giacomo Giuseppe
Paglietti, dottore collegiato dell’Università di Torino chiamato a
insegnare a Cagliari anch’egli nel 1764, cfr. G. Paglietti, Giacomo
Giuseppe Paglietti e il suo tempo, premessa alla ristampa anastatica della Pharmacopea Sardoa, Delfino, Sassari
1990, 3-5.
[23] Cfr. Archivio di Stato di Torino (d’ora in poi AST), Sardegna, Politico, cat. VI, m. 1, fasc.
2, «Riflessioni intorno ad alcuni mezzi per rendere migliore
l’Isola di Sardegna», s.l., s.d. [ma 1754-55], ff. 68-77. Come ho
dimostrato in altra sede, alle «Riflessioni» medico-sanitarie di
Plazza («un manoscritto capitatomi nelle mani senza saperne
l’autore») attinse largamente l’avvocato collegiato
dell’Ateneo torinese Carlo Felice Leprotti, funzionario dal 1765 al 1760
presso la Segreteria di stato e di guerra di Cagliari, nella sua ampia memoria
sulle «cagioni dello spopolamento dell’isola» indirizzata al
sovrano sabaudo nei primi anni sessanta (cfr. C.F.
Leprotti, Delle cagioni dello
spopolamento della Sardegna, in Il
riformismo settecentesco in Sardegna, L. Bulferetti (a cura di), I,
Fossataro, Cagliari 1966, 49 ss.), in cui le tesi di Plazza, attribuite a
«un dotto viaggiatore che scrisse, non ha gran tempo, le sue riflessioni
sulla Sardegna», venivano sistematicamente riproposte.
Sull’attribuzione della memoria anonima al Plazza e sul suo influsso
nella successiva elaborazione del pensiero riformatore cfr. P. Sanna, La vite e il vino nella cultura agronomica del Settecento, in Storia della vite e del vino in Sardegna,
M.L. Di Felice, A. Mattone (a cura di), Laterza, Roma-Bari 1999, 152-57 e
188-91.
[24] Per una documentata ricostruzione della sollevazione
antipiemontese e della successiva fase di governo della Reale Udienza e delle
rappresentanze degli Stamenti cfr., oltre all’ancor valido contributo di G. Sotgiu, La insurrezione di Cagliari del
[25] Per la nomina di Leo alla cattedra di Istituzioni mediche cfr.
ASC, Reale Udienza, classe 1ª, 2/1-2,
Atti giudiziari cat. I – Regie patenti (carte senza numerazione interna).
Sulla promozione di Cappai cfr. A.
Guzzoni degli Ancarani, Alcune
notizie sull’Università di Cagliari, cit., 58.
[26] ASC, Segreteria di Stato e
di Guerra, serie 1ª, vol. 313, Dispaccio del viceré Vivalda,
Cagliari 15 giugno 1795, cc. 130-32.
[27] Il viceré paventava addirittura che si sarebbero
rifiutati di assistere alle prove «per esser stati all’occorrenza
delle vacanti cattedre poco o niente considerati, né essere in
circostanze per la loro avanzata età di esporsi ad un pubblico
esperimento in confronto coi giovani recentemente usciti dalla scuola» (Ivi, Dispaccio del viceré
Vivalda, Cagliari 18 settembre 1795, cc. 183-84). L’insegnamento di
Materia medica, che per oltre trent’anni era stato tenuto dal professor
De Gioanni, fu provvisoriamente affidato al professore di Medicina
teorico-pratica, Salvatore Cappai, ma la cattedra rimase scoperta fino al
febbraio del 1798, quando, appunto, fu assegnata a Pietro Leo. Per le regie
patenti cfr. ASC, Reale Udienza, classe
1ª, 2/1-2. Il documento mi è stato segnalato dalla dott.
Alessandra Argiolas, che ringrazio anche per la pazienza con cui mi ha
assistito nelle ricerche presso l’Archivio.
[28] ASC, Segreteria di Stato e
di Guerra, serie 2ª, vol. 800, Parere del Magistrato sopra gli studi,
Cagliari 10 aprile 1796.
[29] I due casi più significativi erano stati quelli del
sacerdote Francesco Maria Corongiu e del servita Giovanni Antonio Cossu,
chiamati a perfezionarsi a Torino, rispettivamente presso il canonista Carlo
Sebastiano Berardi e presso l’eminente studioso dell’elettricismo
Giambattista Beccaria, e successivamente rispediti nell’Università
di Cagliari a ricoprirvi le cattedre di Diritto canonico e di Fisica
sperimentale: cfr. A. Mattone, P. Sanna,
Settecento sardo e cultura europea,
cit., 24.
[30] ASC, Segreteria di Stato e
di Guerra, serie 2ª, vol. 800, Parere del Magistrato sopra gli studi, Cagliari
24 aprile 1796. Il chirurgo collegiato inviato a Napoli era Francesco Murgia.
Il successivo caso fu quello del giovane professore Francesco Antonio Boi che,
chiamato a ricoprire nel 1799 la nuova cattedra di Anatomia, fu autorizzato a
specializzarsi a Firenze, dove fu allievo di Paolo Mascagni: cfr. L. Castaldi, Francesco Boi (1767-1860), primo cattedratico di Anatomia umana a
Cagliari e le cere anatomiche fiorentine di Clemente Susini, Olschki,
Firenze 1947 e G. Dodero, Storia della medicina, cit., 347-56.
[31] «Volle la sorte – ricordava nella sua Lezione – che recatomi nel
continente coll’unica mira di dirozzarmi nella medicina e nelle sue
scienze ausiliarie, abbia per lo spazio di tre anni in circa avuto tutto
l’agio possibile di vedere grandi e popolati ospedali, di farvi delle
replicate osservazioni per quattro intere stagioni autunnali, di conferire con
professori insigni pel loro fino discernimento e sperimentata dottrina nella
clinica medica» (Pietro Antonio
Leo. Di alcuni antichi, cit., 24).
[32] Ivi, 24-25. Nel 1792 era apparsa (Torino, Iac. Fea) una nuova
edizione dell’importante lavoro di C.
Allioni, Tractatio de miliarium,
origine, progressu, natura, curatione (1ª ed. Avondus, Torino 1758), che esaminava la situazione di diverse
regioni italiane e che Leo certamente conosceva, specialmente nei passi in cui
prendeva in considerazione la realtà osservata da alcuni piemontesi che
avevano soggiornato in Sardegna (cfr. 32-33).
[33] Per un quadro della situazione toscana nel triennio repubblicano
cfr. C. Mangio, I patrioti toscani fra «Repubblica
Etrusca» e restaurazione, Olschki, Firenze 1991; Id., Politica toscana e rivoluzione. Momenti di storia livornese, 1790-1801,
Pacini, Firenze 1974; Id., Tra conservazione e rivoluzione, in F. Diaz, L. Mascilli Migliorini, C. Mangio,
Il Granducato di Toscana. I Lorena dalla
reggenza agli anni rivoluzionari, Utet, Torino 1997, 423-509.
[34] È del 27 dicembre del 1796 un certificato sullo stato di
salute di Giambattista Simon sottoscritto da Leo a Pisa. Il documento, di cui
non conosciamo le finalità, figura tra le carte Simon pervenute alla
Biblioteca del Comune di Alghero (cfr. Ms. 47, fasc. 16). I due Simon si
sarebbero trattenuti a Pisa fino all’inizio del 1797, quando tentarono,
fra molte peripezie, di rientrare stabilmente in Sardegna. Dovettero
però ripartire subito dall’isola e ritornarono a Pisa
nell’estate del 1797: soggiornarono in Toscana fino al giugno del 1799,
quando fecero ritorno in Sardegna, insieme al fratello Matteo Luigi, con la
vana speranza di ottenere la riabilitazione politica e il reintegro negli
impieghi. Giambattista vi rimase stabilmente, Matteo Luigi ripartì
all’inizio del 1800 alla volta della Liguria, e Gian Francesco si sarebbe
trasferito a Firenze nell’autunno del 1802 e avrebbe fatto ritorno in
Sardegna soltanto nel 1817: cfr. A.
Mattone, P. Sanna, I Simon, cit., 842-43.
[35] In particolare, l’Orto botanico viveva, verso la fine del
Settecento, una fase di profondo rilancio grazie all’iniziativa del suo praefectus Giorgio Santi, che aveva
rivoluzionato la distribuzione degli spazi passando dallo schema delle aiuole
rinascimentali all’organizzazione per settori, allineati e strutturati in
base all’ordinamento sistematico, concepito da Linneo per il regno
vegetale. Il Teatro anatomico, che nel 1782 era stato trasferito
nell’ospedale di Santa Chiara, accoglieva le lezioni di scienziati
prestigiosi ed era il simbolo di una solida tradizione scientifica che sarebbe
culminata nell’insegnamento di Antonio Catellacci (1782-1826). Cfr. M. Verga, L’Università di Pisa nel Settecento delle riforme, e A. Dini, La Medicina, in Storia
dell’Università di Pisa (1737-1861), Edizioni Plus, Pisa 2000,
rispettivamente vol. 2, tomo 3, 1129-66 e 2, tomo 2, 663-97. Cfr. inoltre Arte e scienza nei musei
dell’Università di Pisa, Edizioni Plus, Pisa 2002, 27 ss. Per
un inquadramento storico del ruolo e della vita accademica dell’ateneo
pisano cfr. E. Panicucci, Dall’avvento dei Lorena al Regno
d’Etruria (1737-1807), in Storia
dell’Università di Pisa, cit., in particolare 20-21 e 80-91;
cfr. inoltre G.G. Neri Serneri, D. Lippi,
La scuola medica
dell’Università di Firenze, in L’Università degli studi di Firenze, 1924-2004, I, Olschki, Firenze 2004,
254-61.
[36] Un ricordo particolarmente vivo di Francesco Vaccà
Berlinghieri, del suo stile di vita e del suo insegnamento è
nell’elogio tracciatone da F.
Tantini, Pensieri, reminiscenze ed
elogj, Campe, Amburgo 1833, 193-209. Su Francesco e sui principali
esponenti della famiglia cfr. M.
Montorzi, I Vaccà Berlinghieri:
una laica famiglia della borghesia accademica pisana tra scienza, politica e
cultura nell’Europa della restaurazione, in L’Università di Napoleone. La riforma del sapere a Pisa,
R.P. Coppini, A. Tosi, A. Volpi (a cura di), Edizioni Plus, Pisa 2004, 81-91.
Cfr., inoltre, nello stesso volume il contributo di A. Panaja, Nobili,
“dame” e ussari a Pisa nel periodo napoleonico, 101-105 e 109.
Sull’orientamento patriottico e repubblicano del clan Vaccà
Berlinghieri cfr., inoltre, R.P. Coppini,
Alberi della libertà e stipendi
non pagati: Pisa, l’Università e i giacobini, in Il Settecento di Furio Diaz, C. Mangio e
M. Verga (a cura di), Edizioni Plus, Pisa 2006, 96-106.
[37] Nel 1795 Vaccà, pubblicando la seconda edizione,
notevolmente aggiornata e ampliata, del suo manuale di «Fisica
medica», aveva espresso compiutamente la sua concezione di una disciplina
che doveva integrare l’«osservazione clinica»
dell’organismo malato con le conoscenze offerte dall’anatomia,
dalla fisica e dalla chimica, mettendo a frutto, per esempio, le scoperte di
Spallanzani sui meccanismi della digestione o gli studi di Priestley e della
medicina illuminista inglese sull’aria espirata. Nello stesso anno aveva
anche pubblicato le Meditazioni
sull’uomo malato e sulla nuova dottrina medica di Brown, che lo
avevano proiettato sulla ribalta internazionale, essendo stato tra i primi in
Italia a criticare il brownismo. Cfr. G.
Cosmacini, Il medico giacobino, cit., 79-80.
[38] È finora risultato vano ogni tentativo di ritrovare traccia
del soggiorno pisano di Leo negli archivi toscani e nella ricca memorialistica
ottocentesca: cfr., per esempio, Andrea
Vaccà e la sua famiglia. Biografie e memorie raccolte da Laura
Vaccà Giusti, Mariotti, Pisa 1878. Sono state infruttuose anche le
ricerche effettuate a Montefoscoli nell’antica dimora saccheggiata nel
1799 dai Viva Maria,
dov’è conservato ciò che resta delle carte della famiglia
Vaccà Berlinghieri. E anche dal fondo archivistico dell’ospedale
di Santa Chiara, conservato presso l’Archivio di Stato di Pisa, non
è emersa alcuna traccia della permanenza di Leo e del suo tirocinio
medico, sebbene, risulti segnalata, nel 1796-97, l’attività oltre
che di Francesco anche Andrea Vaccà di cui si riferisce che «detta
in casa Istituzioni chirurgiche [...] mezz’ora dopo la cena dei
malati» (Inv. 16, n. 151, fasc. 95). Sui corsi frequentati da Leo a Pisa
cfr. P. Leo Porcu, Profilo biografico, in Pietro Antonio
Leo, Di alcuni antichi pregiudizi,
cit., LXXXII.
[39] La delibera del Magistrato sopra gli studi che proponeva il
«passaggio» di Leo alla cattedra, ancora vacante, di Materia medica
fu trasmessa dal viceré al ministero torinese con il dispaccio del 5
gennaio 1798: cfr. ASC, Segreteria di
Stato e di Guerra, serie 1ª, vol. 314, c. 124.
[40] Sul contesto medico-scientifico torinese cfr. C. Cagliero, Teoria e pratica medica nel Piemonte settecentesco, in
«Sanità, scienza e storia», 1986-1, 43-81; D. Carpanetto, Professione medica e università nel Piemonte del Settecento,
e B. Maffiodo, Medicina, scienza e cultura delle riforme in
Piemonte tra la fine dell’antico regime e l’età napoleonica,
entrambi in L’arte di guarire.
Aspetti della professione medica tra medioevo ed età contemporanea,
M.L. Betri e A. Pastore (a cura di), Clueb, Bologna 1993, 85-103 e 119-33; A. Plataroti, L’albero della povertà. L’assistenza nella Torino
napoleonica, Carocci, Torino 2000; E.
Christillin, Gli ospedali e
l’assistenza, in Storia di
Torino, V. Dalla città
razionale alla crisi dello Stato d’Antico Regime (1730-1798), G. Ricuperati
(a cura di), Einaudi, Torino 2002, 343-65; e inoltre gli interessanti
contributi di D. Carpanetto, Gli allievi dell’arte di Esculapio. Da
speziali a farmacisti e di G.
Forneris, La pratica dei semplici,
in Professioni non togate nel Piemonte di
Antico Regime, D. Balani e D. Carpanetto (a cura di), Centro Studi per
[41] Sugli studi di topografia medica negli stati sabaudi di
Terraferma cfr. B. Maffiodo, I borghesi taumaturghi, cit., 184-95 e passim. Sul ruolo dell’Accademia
di agricoltura e sul gruppo di studiosi di agronomia, di chimica, di medicina e
di architettura che negli anni novanta si coagularono intorno a essa (Dana,
Giobert, Giulio, Buniva ecc.) cfr. G.
Torcellan, Giuseppe Nuvolone,
agronomo piemontese, in Miscellanea
Walter Maturi, Università degli studi, Torino 1966, ora in Settecento veneto e altri scritti storici,
Giappichelli, Torino 1969, 361-89. Sullo sviluppo degli studi di
«medicina ambientale» e sull’affermazione della
«polizia medica» cfr. G.
Panseri, La nascita della polizia
medica, in Storia d’Italia. Annali
3. Scienza e tecnica nella cultura e nella società dal Rinascimento ad
oggi, Einaudi, Torino 1980, 157
ss., e Politica e salute. Dalla polizia
medica all’igiene, C. Pancino (a cura di), Clueb, Bologna 2003. Nel
1798 era inoltre particolarmente vivo nella capitale sabauda il dibattito
medico-scientifico intorno alla gestione dell’epidemia di febbri esplosa
nella città di Susa tra l’inverno e la primavera del 1797.
[42] Per la cooptazione di Leo nell’adunanza del 19 settembre
1798, cfr. O. Mattirolo, E. Mussa,
Cronistoria della Reale accademia di
agricoltura di Torino, Reale Accademia di Agricoltura di Torino, Torino
1939, 120. Dieci anni prima, nell’adunanza del 4 gennaio 1788, il
segretario dell’accademia, l’intendente Bissati, aveva presentato
«il primo e il secondo volume del Dizionario Mercantile donato alla
Società dall’autore, signor avvocato Azuni di Nizza, socio onorario»,
cioè il primo e il secondo tomo del Dizionario
universale ragionato della giurisprudenza mercantile del sassarese D.A.
Azuni, apparsi, rispettivamente, nel 1786 e nel 1787 presso
[43] Giovanni Zucca, professore d’Istituzioni mediche
nell’Università di Cagliari, che per primo raccolse, nel 1827, le
notizie biografiche di Leo, elencava tra i suoi scritti, oltre alla Lezione fisico-medica, anche altri tre
lavori ora perduti: «una difesa della medesima [Lezione] in risposta ad un dotto Savoiardo che la impugnò;
la storia delle stesse febbri d’intemperie, e l’analisi delle acque
di Sardara» (Notizie biografiche
del professore Pietro Leo, cit., 26). L’informazione fu poi,
puntualmente ripresa da Tola, Martini e Siotto Pintor, ma non sappiamo se
almeno Zucca abbia potuto consultare i suddetti lavori, che da Parigi lo stesso
Leo, come Obino riferiva alla vedova, aveva disposto che fossero distrutti. E
peraltro era stato proprio il compatriota amico, che ne aveva raccolto le
ultime volontà, a consigliare, nella stessa lettera, la massima cautela:
«Quanto però a dover bruciare i manoscritti […]. Ella veda –
suggeriva Obino – se ciò potrà esser convenientemente
eseguito. Il di Lei marito avea costì degli amici virtuosi, come il
signor Baille, Garau [il coetaneo e cugino giurista Raimondo Garau] ed altri,
ai quali potrà Lei raccomandare l’esame di tali manoscritti e vedere
se debbasi o no eseguire un ordine sì rigoroso, detta[to] forse dalla
modestia» (F. Cherchi Paba,
Don Michele Obino, cit., 239).
[44] BUC, Fondo Baille, SP. 6
bis 1.6, Lettere di Gian
Francesco Simon (d’ora in poi Fondo
Baille), Alghero 28 settembre 1801. L’opera di G.F. Simon,
Sugli illustri coltivatori della giurisprudenza in Sardegna fino alla
metà del sec. XVIII. Lettera al cavalier don Tommaso De Quesada della
Regia Università di Sassari, Reale
stamperia, Cagliari 1801, reca la data 27
settembre, e fu composta in brevissimo tempo e quasi di getto. Sugli anni
dell’«ostracismo» dei Simon da Cagliari e
dell’«esilio» algherese di Gian Francesco cfr. A. Mattone, P. Sanna, I Simon, cit., 855-56.
[46] ASGA, fasc. 573, «Gian Francesco Simon. Sul clima della
Sardegna». Tra molteplici correzioni e ripensamenti si legge inoltre:
«[Leo ha osato] [...] scuotere il pedantesco giogo de’
medici casisti e sistematici; e pien di foco, di lumi e di umanità ha avuto
il coraggio di parlare coi suoi discepoli, dalla cattedra medica di Cagliari,
il linguaggio della filosofia, della verità [...]» (ibidem).
[47] La raccomandazione della china come febbrifugo e l’elogio
dell’oppio come analgesico non erano certo delle novità neppure
per la medicina sarda, ma le modalità dell’utilizzo dei due
fondamentali farmaci del tempo continuavano ad accendere accanite discussioni
tra i fautori di diverse teorie mediche, e Leo aveva ampiamente mutuato dalla
scuola di Vaccà l’incondizionata fiducia sia nella china, che
nell’oppio: «Un solo male si conosce fino ad ora – affermava
l’insigne medico pisano – che possa essere arrestato […] da
un sol rimedio in tempo brevissimo. Il dolore […] è il male e il
solo rimedio è l’oppio. E appunto il Brown – aggiungeva
polemicamente Vaccà – pretende di restringere la salubre azione di
questo gran rimedio a pochi casi»: F.
Vaccà Berlinghieri, Meditazioni
sull’uomo malato e sulla nuova dottrina medica di Brown, Pasquali,
Venezia 1801 (prima ed. 1795), 11-12.
[48] Vale la pena tener presente lo sprezzante giudizio espresso,
solo qualche decennio prima, dal ministro Bogino, secondo il quale i medici
sardi erano in larga parte «galénistes
impitoyables et imbus des toutes les plus fausses et vaines maximes de la
médecine» (Società Nazionale per
[49] I giudizi che avevano fatto più scalpore erano quelli
delle Lettere di viaggio di Giacomo
Giona Bjoernstaehl, professore di Filosofia nell’Università di
Uppsala, tradotte dallo svedese in tedesco e dal tedesco in italiano nel 1786:
ma le affermazioni che, per il prestigio dell’autore e per la
superficialità dei giudizi, apparivano più insidiose e brucianti,
erano contenute nella Nuova descrizione
storica e geografica d’Italia (Società letteraria e
tipografica, Napoli 1782, cap. VII, 308-23) di Giuseppe Maria Galanti, che in
effetti aveva acriticamente riportato una serie di notizie sommarie e
approssimative ricevute da Torino. Così il grande illuminista
meridionale, mentre definiva i sardi «rozzi e barbari» e dipingeva
[50] Sulla pesante repressione del 1796-99 e sulla successiva
liquidazione delle concessioni autonomistiche riconosciute nel giugno del 1796
cfr. G. Sotgiu, Storia della Sardegna sabauda, 1720-1847,
Laterza, Roma-Bari 1984, 213 ss.; M.G.
Sanjust, Tra Rivoluzione e
Restaurazione. Itinerario nella cultura di Sardegna, Mucchi, Modena 1993; A. Accardo, La nascita del mito della nazione sarda. Storiografia e politica nella
Sardegna del primo Ottocento, AM&D, Cagliari 1996; F. Francioni, Per una storia segreta della Sardegna fra Settecento e Ottocento,
Condaghes, Cagliari 1996, 61-164; L.
Carta, Riviviscenza e involuzione
dell’istituto parlamentare nella Sardegna di fine Settecento (1793-1799),
in L’attività degli Stamenti
nella “Sarda Rivoluzione”, voll. 4, Consiglio Regionale della
Sardegna, Cagliari 2000, I, 222-56; A.
Mattone, P. Sanna, Costituzionalismo
e patriottismo nella «sarda rivoluzione», in Universalismo e nazionalità
nell’esperienza del giacobinismo italiano, L. Lotti e R. Villari (a
cura di), Laterza, Roma-Bari 2002, ora in Settecento
sardo e cultura europea, cit., 197-240.
[52] «Or queste medesime febbri [quelle «scioccamente
definite d’intemperie»] formano il flagello
dell’umanità – osservava Leo – in tutti i paesi del
mondo; perché addunque saranno chiamate patriotiche della Sardegna?
Endemica o patriotica malattia, a parlare con esattezza, si deve denominare
quella che è molto familiare ad un paese a preferenza degli altri
[…]. Ma i mali febbrili autunnali, che qui chiamansi d’intemperie,
regnando come regnano in tutto il mondo abitato, non intendo come sino ad ora
siansi potuti riguardare come patriotici della Sardegna» (Pietro Antonio Leo. Di alcuni antichi, cit., 22-23). Ancora una volta
l’insegnamento di Vaccà Berlinghieri appare fondamentale:
«Credo che si abbia il diritto di asserire che i vapori palustri e dei
terreni bassi – aveva sostenuto il luminare pisano – nuocono con un
meccanismo incognito e solamente si vede che principalmente offendono […]
il sistema nervoso […]. Pur troppo fuori da queste maligne sorgenti ve ne
sono molte altre […]. Per questo alcuni paesi che non sono infestati da
palustri esalazioni sono soggetti ad alcuni dati e particolari mali, che fuor
di lì non si incontrano […] e perciò si chiamano malattie
patriottiche» (F. Vaccà
Berlinghieri, Meditazioni
sull’uomo malato, cit., 59-61).
[53] Cfr. F. Gemelli, Rifiorimento della Sardegna proposto nel
miglioramento di sua agricoltura, Briolo, Torino 1776, ripubblicato in Il riformismo settecentesco in Sardegna,
L. Bulferetti (a cura di), Fossataro, Cagliari 1966, 69-90. Nel solco del
celebre trattato di G.M. Lancisi,
De noxiis paludum effluviis eorumque
remediis libri duo, Romae 1717, l’opera dell’ex gesuita
piemontese, docente di eloquenza nell’Università di Sassari,
raccoglieva il meglio della spinta riformatrice toscana e lombarda e delle
teorie fisico-mediche del tempo, scrupolosamente richiamando, fra gli altri
lavori, gli unici due trattati scientifici sulla cosiddetta «sarda
intemperie»: G. Farina, Medicinale patrocinium ad tyrones Sardiniae
medicos in quo natura febris Sardiniae provincias vexantis cussae, signa,
prognostica, et medendi methodus iuxta Hippocratis, et Galeni doctrinam
describitur, Sargina, Venetiis 1651; P.
Aquenza Mossa, Tractatus de febre
intemperie, sive de mutaciones
vulgariter dicta Regni Sardiniae, Ruiz de Murga, Matriti 1702.
[55] Ibidem. Un formidabile contributo alla salubrità del clima
dell’isola gli pareva infine provenire dall’«acido
marino», che costituiva un «poderoso antisettico» e un
«efficacissimo correttivo della putrefazione […]. Bisogna dunque
confessare – sosteneva Leo – che ancor quando le palustri e putride
esalazioni fossero più abbondanti nella nostra atmosfera, saranno esse
in massima parte corrette, neutralizzate, o in massima parte rese innocenti dal
sovrabbondante acido marino» (Ivi, 21). Sul rapporto tra saline e
«intemperie» nella memorialistica e nel dibattito settecentesco
cfr. S. Pira, Medici, malaria e saline nella Sardegna del
Settecento, in «Archivio storico sardo», XXXVII, 1992, 199-209.
[56] Con vivo interesse guardava, infatti, non solo alle principali
scoperte delle scienze sperimentali settecentesche da quelle della fisica e
fisiologia vegetale a quelle della chimica pneumatica (nella Lezione erano in particolare richiamate
le «luminose sperienze» sulla funzione clorofilliana e
sull’aria vitale compiute dagli inglesi Priestley e Ingen-housz, dal ginevrino Senebier, dagli
svedesi Bergman e Sheele), ma anche ai più recenti esperimenti di
Chaptal, il «celebre chimico di Montpellier», e soprattutto agli
interessanti esiti dell’eudiometria e della cosiddetta «medicina
aerea» sviluppati e messi in luce da Landriani, Fontana, Spallanzani e
Volta: cfr. Marsilio Landriani. Ricerche
fisiche intorno alla salubrità dell’aria, con un articolo di
Alessandro Volta sull’eudiometria, introduzione e cura di M. Beretta,
Giunti, Firenze 1995 e La
«Mal-aria» di Lazzaro Spallanzani e la respirabilità
dell’aria nel Settecento, F. Capuano e P. Mansini (a cura di),
introduzione di F. Abbri e W. Bernardi, Olschki, Firenze 1996. Più in
generale sulle scoperte di Ingen-Housz e Priestley e sugli sviluppi della
chimica pneumatica settecentesca cfr. F.L.
Holmes, La chimica nell’età dei Lumi, in Storia delle scienze, 4. Natura e vita. Dall’antichità
all’illuminismo, Einaudi, Torino 1994, 510 ss., e Id., La scoperta dell’ossigeno, in Storia della scienza, VI. L’età
dei Lumi, cit., 186-93.
[57] Su questo punto («Come dal colpo di sole distinguesi
l’intemperie») insisteva, sebbene con diversi argomenti, anche Gemelli, Rifiorimento, cit.,
77-78. Per il medico cagliaritano non vi era dubbio che
«l’insolato» costituisse una della cause più frequenti
delle malattie febbrili che colpivano coloro che «nella calda
stagione» attraversavano le assolate «pianure della
Sardegna», ma «la violenta e continuata azione del sole» non
poteva essere la causa delle febbri malariche: «io dico e sostengo che a
tali malattie dassi erroneamente il nome d’intemperie, mentre desse non
riconoscono […] un vizio dell’atmosfera, o una degenerazione
dell’aria dalla sua temperie naturale» (Pietro Antonio Leo. Di alcuni
antichi, cit., 31-32 ss.).
[58] Qui era implicito il riferimento alle Osservazioni intorno alle vipere (1664) di Francesco Redi, e
soprattutto alle Ricerche fisiche sopra
il veleno della vipera (1767) e al Traité
sur le vénin de la vipère (1781) di Felice Fontana. Sul
contributo della scuola medica toscana allo studio del veleno della vipera cfr.
A. Dini, Vita e organismo. Le origini della fisiologia sperimentale in Italia,
Olschki, Firenze 1991, 43-44 e Id., La medicina, cit., 664-65; e inoltre R.
Pasta, Scienza e istituzioni
nell’età Leopoldina. Riflessioni e comparazioni, in La politica della scienza. Toscana e stati
italiani nel tardo Settecento, G. Barsanti, V. Becagli, R. Pasta (a cura
di), Olschki, Firenze 1996, 18-23.
[59] «Tutto ciò è già stato luminosamente
dimostrato dal citato sagacissimo naturalista [Spallanzani] per mezzo
d’infinite esperienze da esso lui istituite dentro e fuori delle macchine
viventi, e ripetute col medesimo successo dal di lui bravo imitatore Dottor
Chiarenti. Rimetto gli increduli agli opuscoli dell’uno e
dell’altro ben noti all’Europa illuminata» (Pietro Antonio Leo. Di alcuni antichi,
cit., 33-34 e ss.). Negli anni degli studi universitari a Pisa, Francesco
Chiarenti, nipote di Francesco Vaccà Berlinghieri, aveva vissuto nella
casa dello zio, condividendo con i cugini Andrea e Leopoldo, amicizie,
attività di studio e progetti ideali. Dopo la laurea, ritornato a
Firenze, si dedicò alla professione e alla sperimentazione scientifica.
Cfr. E. Pii, Chiarenti Francesco, in Dizionario
biografico degli italiani, XXIV, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma
1980, 558-60.
[60] Pietro Antonio Leo. Di
alcuni antichi, cit., 32-34. «L’azione di questo male [la malaria]
è così forte – riferiva nel 1780 il pastore luterano
tedesco Joseph Fuos – che si estende anche sopra i frutti del Paese.
Quelli che vengono da regioni d’intemperie
sono tenuti come specialmente nocivi, e quando perciò vengono portati al
mercato i fichi da Capo di Pula, bisogna che il venditore pianti sul suo cesto
una testa di morto dipinta, ovvero un altro segno lugubre affinché
ciascuno sappia che cosa la sua merce nasconde» (J. Fuos, Nachrichten
aus Sardinien, von der gegerwärtingenVerfassung dieser Insel, Lebrecht Crusius, Leipzig 1780, trad.
it. di P. Gastaldi Millelire,
[61] L’interessante lettera a Leo, datata Longonsardo 2 marzo 1803,
conservata presso la Biblioteca Universitaria di Cagliari, Fondo manoscritti, Ms. 9/16, è stata meritoriamente
segnalata e recentemente pubblicata, Lettera
a Pietro Antonio Leo, con un’essenziale presentazione di E. Gessa, Un medicastro di necessità: il savoiardo Pietro Maria Magnon,
in «Nae.ricerche», n. 2006, 61-66. Nello stesso numero della
rivista figura inoltre una stimolante illustrazione del lessico e dei
principali temi della Lezione di Leo:
cfr. G. Marci, La Lezione fisico-medica di Pietro Antonio
Leo: il lessico di una cultura moderna, ivi, 57-60.
[62] Sulla figura di Magnon e sul ruolo che ebbe quale promotore
della fondazione della colonia di popolamento di S. Teresa di Gallura cfr. S. Rattu, Santa Teresa di Gallura, in Studi
storici in onore di Francesco Loddo Canepa, I, Sansoni, Firenze 1959,
253-309; e soprattutto i contributi di E.
Tognotti, La fondazione di Santa
Teresa di Gallura, e di C. Pillai,
Il «fondatore»: Pier
Francesco Maria Magnon, in La
rivoluzione sulle Bocche. Francesco Cilocco e Francesco Sanna Corda
«giacobini» in Gallura (1802), M. Brigaglia e L. Carta (a cura
di), Della Torre, Cagliari 2003, 193-223. Nella lettera a Leo vi è un
preciso riferimento all’ambizioso progetto della colonia di popolamento
che muoveva i primi passi e agli ostacoli frapposti dai «nemici
d’ogni nuovo sistema» che non avevano mancato di sollevare
«tutti i vecchi soffismi sull’aria […]. Felicemente –
dichiarava Magnon – il di lei luminosissimo scritto ha dato il crollo a
quei antichi errori, e credo che tutt’ora si pensi al progetto pel quale
ero stato qui spedito espressamente dalla felice memoria di sua illustrissima
signoria reale il signor Conte di Moriana» (Lettera a Pietro Antonio Leo, cit., 65-66).
[63] Magnon sarà uno dei primi «soci ordinari corrispondenti»
della Reale Società Agraria ed Economica di Cagliari, con la quale
iniziò a collaborare all’indomani della sua fondazione, quando fin
dal marzo del 1805 iniziò a inviare in dono alla neonata accademia, a
due quinterni per volta, la traduzione da lui stesso curata del «Trattato
teorico e pratico sulla coltura de’ grani e sull’arte di fare il
pane», estratto dall’enciclopedico Cours complet d’agriculture ou Dictionnaire universel
d’agriculture, di Parmentier, Rozier, Lasteyrie e Delalause, Montardier,
Paris A.X (1802). Cfr. BCCIAA, Registro
Lettere 1804-1835, n. 9, Lettera a Magnon, Cagliari 9 marzo 1805. Fu anche
autore di due memorie agronomiche Sulla
coltivazione delle patate e Sulla
coltura del grano detto saraceno: cfr. infra,
n. 70.
[64] Non si dimentichi peraltro che il chimico piemontese Giovanni
Antonio Giobert, autorevole membro dell’Accademia delle Scienze di Torino
e «segretario alla corrispondenza» della Accademia di Agricoltura,
si era già imposto all’attenzione del mondo scientifico italiano
come capofila della nuova chimica lavoisieriana. Sulla penetrazione della
cultura scientifica, della mineralogia e della chimica nei corpi tecnici e
nelle istituzioni militari sabaude cfr. V.
Ferrone,
[65] Lettera a Pietro
Antonio Leo, cit., 63. «Non mi
resta che desiderare – aggiungeva Magnon – di vedere un
patriottismo illuminato qual è quello di vostra signoria illustrissima,
continuare i suoi interessanti travagli per strappare la benda ai pregiudizi
invecchiati nel seno dell’inesperienza. Piacesse al Cielo che una
cattedra di Chimica fosse stabilita nella capitale e che si stabilisse una
piccola società letteraria ed agraria di quei probi e caldi filantropi,
i quali non tarderebbero di spargere nel Regno le più interessanti
cognizioni. [...] Non può che dare alle scienze e all’industria un
forte impulso il felice stabilimento del Gabinetto di Sua altezza reale il
signor Viceré [il riferimento è al “Museo o Gabinetto di
archeologia e storia naturale patria” voluto da Carlo Felice]. Già
si vede l’amore dei belli studi accendere vari brillanti talenti di cui
abbonda quest’isola felice. Su Sassari stesso / veda il di lei trionfo /
l’idea di confutare vostra signoria illustrissima ha fatto prendere in
mano gli ammirabili volumi di Dandolo, di Chaptal, sin ora riguardati come
scomunicati novatori e pertinaci seguaci dello stravagante Lavoisier» (Ivi, 66). Una viva testimonianza delle
aspettative di rinnovamento suscitate dal mecenatismo
paternalistico-autoritario di Carlo Felice e dall’istituzione, il 1°
agosto 1801, del Gabinetto di storia naturale è in R. Valle, I tonni, cit., 90-93; cfr. inoltre G. Lilliu, Origine e
storia del Museo Archeologico Nazionale di Cagliari, in Il Museo archeologico nazionale di Cagliari,
V. Santoni, Amilcare Pizzi (a cura di), Cinisello Balsamo 1989, 11-12. È
inoltre significativo il riferimento di Magnon al patriota veneziano Vincenzo
Dandolo che fu il traduttore ufficiale dei testi della nuova chimica
nell’Italia settentrionale e che ricoprì un ruolo di primo piano
nelle istituzioni della Repubblica Cisalpina e del Regno d’Italia. Sulle
implicazioni politico-culturali e sulle intricate vicende della penetrazione
della chimica antiflogistica lavoisieriana cfr. il denso e vivace contributo di
F. Abbri, La diffusione della
«chimie nouvelle» in Europa,
in Storia delle scienze, 4. Natura e vita, cit., 526-49.
[67] Dall’esperienza maturata nel suo eremo di Longonsardo, con
la guarnigione sottoposta al suo comando, l’ufficiale aveva inoltre
tratto ampia conferma della validità delle teorie mediche e delle
indicazioni terapeutiche esposte da Leo, e nella lettera gliene dava
apertamente atto. Riferiva infatti del successo che aveva ottenuto nella cura
dei soldati ammalati di malaria mettendo in pratica le indicazioni della
seconda parte della Lezione, assicurando agli infermi cibi
sostanziosi e ricorrendo, dopo aver rapidamente esaurito la scorta di
«china gialla», a un improvvisato febbrifugo ottenuto con la
«decozione» della centaurea, pianta che poteva raccogliere nei
pressi di uno stagno vicino, e che «la provvidenza», diceva,
«faceva nascere nei luoghi stessi che si crede essere il germe della
malattia» (ibidem).
[69] BCCIAA, Registro Lettere
1804-1835, n. 9, Lettera a Magnon, Cagliari 2 novembre 1805. Una memoria
anonima sulla Coltivazione delle patate e
loro usi particolari (forse quella di Magnon) fu poi pubblicata nelle Memorie della Reale Società Agraria
ed Economica di Cagliari, I, Società tipografica, Cagliari 1836,
fasc. 4, 331-55; nello stesso volume fu inoltre pubblicata la memoria
«del fu socio Magnon», Sulla
coltura del grano detto saraceno, 225-30.
[70] «Ho l’onore di restituirle la lettera favoritami del
fu professore Leo [probabilmente la «difesa» autografa inviata da
Leo a Magnon] e di pregarla di mettere assieme i nuovi eccitamenti che ella
voleva farli in contrario, all’oggetto di dilucidare sempre più un
argomento tanto interessante» (BCCIAA,
Registro Lettere 1804-1835, n. 9, Lettera a Magnon, Cagliari 23 novembre
1805).
[71] Cfr. BCCIAA, Registro
delle adunanze periodiche, n. 11-1, 1805-1809, adunanza del 27 giugno 1805; Registro
delle memorie, n. 10-1, 1804-1816, Cagliari 8 ottobre 1805.
[72] «Non so poi dove sia ito e che siasene fatto»,
riferiva Simon qualche mese dopo al fratello Gian Francesco (ASGA, Lettere di Matteo Luigi, Parigi 31
dicembre 1802). Su Domenico Rossetti abbiamo pochissime notizie: si sa
però che compose una «cantica» filogovernativa e filofeudale
sulla repressione del moto antibaronale di Thiesi, una comunità rurale
della Sardegna settentrionale, La
vittoria riportata sopra l’ingannato popolo del villaggio di Thiesi il
giorno 6 ottobre 1800, Uzzati, Sassari 1800, e la tragedia San Gavino, Uzzati, Sassari 1801, poi
apparsa in altra edizione, Arborense, Oristano 1885. «Sappiamo da Sassari
– annotava con sottile ironia Giovanni Andrea Massala nel suo
«Giornale di Sardegna» il
30 ottobre 1800 – che l’improvvisatore Domenico Rossetti ha fatto
recitare nella chiesa di S. Giacomo de’ Cavalieri, con beneficio a suo
profitto, da una società di nobili e borghesi la tragedia di S. Gavino
da lui composta; e sta pensando a stamparla. Vi hanno recitato de’ primi
signori del paese» (Giovanni Andrea
Massala. Giornale di Sardegna, cit.,
56). Altre testimonianze dell’attività di Rossetti lo indicano
promotore di numerose «accademie poetiche», come quella che mise in
scena a Cagliari nell’ottobre del 1799 «appena due giorni»
dopo i funerali del duca di Monferrato: «Il poeta estemporaneo, mediante
graziose buone mani, raccolse una abbastanza cospicua somma» (C. Manunta Bruno, Una regina e il confessore, Lettere
inedite di Maria Clotilde di Francia Regina di Sardegna all’ex-gesuita
G.B. Senes (1799-1802),
[75] Su Angioy e sugli altri esuli sardi a Parigi cfr. D. Scano, La vita e i tempi di Giommaria Angioy, con un saggio introduttivo di
F. Francioni, Della Torre, Cagliari 1985 (prima ed. Gallizzi, Sassari 1962),
170-214; L. Berlinguer, Domenico Alberto Azuni, cit., 168 ss.; C. Sole, Giommaria
Angioy nell’esilio, in
[76] Sulle critiche di Simon all’opera di Azuni («Non ha
fatto che copiare il Cetti […] ed appropriarsi del buono degli altri
senza criterio […]. Non è possibile trovarsi sotto il globo un
maggior impostore. Eppure il suo nome è conosciuto, mentre quello degli
altri sardi è nella maggiore oscurità») cfr. L. Berlinguer, Domenico Alberto Azuni, cit., 194-95.
[77] ASGA, Lettere di Matteo
Luigi Simon, Lettera al fratello Giambattista e a Giannandrea Massala,
[Alassio] 5 settembre 1802. Il dottor Pietro Fois, «medico
accreditatissimo ed allievo del fu prof. De Gioanni», aveva fatto parte
del nutrito collegio dei sanitari chiamati al capezzale del duca di Monferrato,
deceduto ad Alghero nel settembre del 1799, dopo pochi giorni di febbri
fulminanti. Su Fois cfr. R. Valle,
Al filopatrida Carboni, Valle patriotida.
Sopra le acque naturali quasi miracolose della Sardegna, Timon, Cagliari
1836, 14-16; G. Manno, Note sarde e ricordi, Stamperia reale, Torino
1868, 225-29; C. Sole, Le «Carte Lavagna» e
l’esilio di casa Savoia in Sardegna, Giuffrè, Milano, 60-61.
L’infausta vicenda della morte del principe aveva destato grande sgomento
non solo per la celebrità del defunto, ma anche perché alcuni
avevano attribuito il decesso a «febbre d’intemperie», quando
invece, secondo Leo, le osservazioni dei medici avevano dimostrato che la vera
causa era stata un «insolato unito ad un violento esercizio a
cavallo», e che nessuna incidenza vi aveva avuto «la supposta inclemenza
od intemperie dell’aria». Cfr. Pietro Antonio
Leo. Di alcuni antichi, cit., 21-22.
[78] «Le
climat de toute l’île – si leggeva nell’Essai –
est en général tempéré et très-bon,
quoiqu’il y ait des endroits où, faute de pluie, les eaux des
étangs et des rivières, n’ayant pas de cours, y produisent
un air mal sain pendant les chaleurs de l’été» (D.A. Azuni, Essai sur l’histoire géographique, cit., 8).
[79] D.A. Azuni, Histoire
géographique, politique et naturelle de
[80] M.L. Simon, Mémoire pour
Napoléon (con altri documenti inediti o rari), introd. e note a cura
di L. Neppi Modona, presentazione di P.M. Arcari, Giuffrè, Milano 1967,
61.
[81] A metà Ottocento sia Pietro Martini (Storia di Sardegna dall’anno 1799, cit., 77, 148), sia
Giuseppe Manno accreditarono la tesi che il soggiorno di Leo in Francia fosse
stato incoraggiato e sostenuto, come prima quello del Boi a Firenze, da Carlo
Felice che aveva dato così un’ulteriore testimonianza del suo
illuminato mecenatismo: «Aiutato parimenti da lui [Carlo Felice] recossi
dapprima nelle scuole di Montpellier, e dappoi in quelle di Parigi uno dei
più illustri professori della Sarda Università, il medico Pietro
Leo, il quale negli studi suoi di clinica prometteva, anche con la data arra di
accreditate pubbliche scritture, d’innalzarsi ai primi seggi della
scienza. Il destino suo infelice gli aprì la tomba in terra straniera.
Ma l’averlo giudicato pel valente che egli era, e l’averlo posto in
grado di diventare valentissimo, è titolo di gloria pel Mecenate»
(G. Manno, Note sarde e ricordi, cit., 193-93). Sulla necessità di cure
e sulla malferma salute di Leo cfr. T.
Napoli, Note illustrate e diffuse
dell’opera intitolata compendiosa descrizione corografico-storica della
Sardegna, Reale stamperia, Cagliari 1814, 48.
[82] Cfr. supra, n. 18. Per
Madau Diaz «Pietro Leo, pur non avendo partecipato al movimento angioyno
in Sardegna, era dovuto fuggire dall’isola perché perseguitato per
le sue idee progressiste, rifugiandosi a Parigi assieme agli altri profughi
sardi» (G. Madau Diaz, Un capo carismatico Giovanni Maria Angioy,
Gasperini, Cagliari 1979, 477).
[83] ASGA, Lettere di Gian
Francesco, Firenze 24 settembre
[84] «Compiacciasi – scriveva Matteo Luigi al padre in
Sardegna – di dare corso alla inclusa del bravo dottor Leo, che
carissimamente la saluta» (ASGA, Lettere
di Matteo Luigi, Parigi s.d. [ma novembre] 1804).
[86] Sul periodo dell’esilio della casa Savoia in Sardegna e
sul viceregno di Carlo Felice, su cui occorrerebbe riprendere studi
approfonditi, cfr. E. Pontieri, Carlo Felice al governo della Sardegna 1799-
[87] ASGA, Lettere di Gian
Francesco, Firenze 9 ottobre 1804. Su Stefano Manca di Villahermosa cfr. I. Birocchi, Per la storia della proprietà perfetta in Sardegna,
Giuffrè, Milano 1982, 237-38 e M.L.
Di Felice,
[89] Ivi, Firenze 9 ottobre 1804. Certo, Gian Francesco è il
più lucido assertore dell’opportunità del viaggio di Leo a
Montpellier e a Parigi. L’abate ungherese, stabilitosi in Toscana alla
fine del 1802, aveva progressivamente esteso i suoi interessi culturali e le
sue curiosità di raffinato bibliofilo ai moderni filoni di ricerca della
medicina, della storia naturale, della chimica e delle scienze esatte;
sicché la sua biblioteca si era ben presto arricchita di una nutrita
serie di testi scientifici che gli permettevano di tenersi culturalmente
aggiornato e di seguire e incoraggiare con competente attenzione gli studi di
Leo. Dall’elenco dei libri che gli furono trafugati nel 1808 emerge, per
esempio, che egli possedeva le principali pubblicazioni di Giambattista
Beccaria e di Marsilio Landriani sull’elettricismo; gli «Opuscoli
chimici» di Felice Fontana; i
dodici volumi dell’edizione settecentesca di Neuchatel delle opere,
compresa l’Histoire naturelle, di Charles Bonnet; i quattro volumi dei
Principes de physiologie di Charles
Louis Dumas, pubblicati a Parigi tra il 1800 e il 1803; i due tomi del Trattato elementare di fisica di Antoine
Libes (Paris 1801), pubblicati a Firenze nel 1803; il Saggio di statica chimica di Claude Louis Berthollet (Paris 1803),
tradotto da Dandolo nel 1804; i sei volumi della Zoonomia (trad. e aggiunte di Rasori) e Gli amori delle piante di
Erasmus Darwin, editi a Milano tra il 1803 e il 1805; e infine
l’importante lavoro del celebre allievo di Lavoisier, Louis-Bernard
Guyton de Morveau, Moyens de
désinfecter l’air, nella
terza edizione, arricchita delle planches, apparsa a Parigi nel 1805 (cfr. ASGA,
fasc. 921, «Libri statimi rubati dalla gran cassa lasciata al libraio
Miniati in Firenze nell’agosto del 1808»).
[90] Verso la fine di ottobre Leo aveva deciso perfino di ritornare
in Sardegna: «Coll’occasione di dottor Leo che si rende nuovamente
al suo destino, penso di farvi cosa grata – dichiarava Matteo Luigi a
Giambattista –, scrivendovi con maggior estensione di quella che ho
praticato in tante altre [lettere] che ho avventurato all’azzardo, e che
credo per la maggior parte smarrite». Ma una postilla evidentemente
aggiunta all’ultimo momento precisava: «detto dottor Leo ha
contramandato la sua partenza, e dice di fermarsi qui qualche mese per istruzione,
onde mando la lettera per altro canale» (ASGA, Lettere di Matteo Luigi, [Parigi] 1° novembre 1804). Qualche
settimana dopo Leo lasciava la locanda dove abitava con Simon, in Rue
Traversière, Hotel d’Arbois 51 e andava a vivere autonomamente:
«Dottor Leo, che molto vi saluta – scriveva Matteo Luigi a
Giambattista – starà qui tutto l’inverno, sebbene
anch’egli attenda lettere e denari da sua casa. Vive in Rue S. Pierre
Serrazin, Hotel Besançon près de l’Ecole de Médecine»
(ASGA, Lettere di Matteo Luigi,
Parigi 23 novembre 1804). E in altra lettera di data illeggibile, ma
probabilmente spedita negli stessi giorni: «Dr. Leo vi saluta caramente,
credo che passerà l’inverno qui, attende nuove e bezzi [soldi] da sua Casa». Del cambiamento dei
programmi di Leo fu ben presto informato anche Domenico Simon a Torino:
«[Ho paura] che Leo, di cui vidi finalmente la dissertazione
sull’intemperie che qui si trovò buona, si trovi a Parigi e vi si
fermi non poco – scriveva a Gian Francesco –, poiché così
si perfezionerà e sarà più utile alla Patria» (ASGA,
Lettere di Gian Francesco, [ma]
lettera di Domenico, Torino 28 novembre 1804).
[92] ASGA, Lettere di Matteo
Luigi, Genova 17 agosto
[93] ASGA, Lettere di Matteo
Luigi, lettera a Lodovico Baille, Parigi 4 marzo 1803. E del resto Parigi,
divenuta la capitale dell’«internationale
naturaliste», non tardò ad accreditarsi come il principale
teatro dell’affermazione del «paradigma naturalistico» anche
nei campi delle scienze sociali e politiche: cfr. in particolare il vivace,
penetrante quadro tracciato da C.
Blanckaert, 1800. Le moment «naturaliste» des sciences de
l’homme,
in «Revue des sciences humaines», II, 2000-3, 117-60.
[94] Cfr. il bel lavoro di L.
Pepe, Istituti nazionali,
accademie e società scientifiche nell’Europa di Napoleone,
Olschki, Firenze 2005. D’altra parte anche l’erudito e cosmopolita
abate Gian Francesco Simon era rimasto affascinato dalle conquiste civili dell’Europa
napoleonica: «applaudo di tutto cuore – dichiarava a Baille alla
fine del 1801 – al beneficio che rese all’umanità la nazione
francese, ed il genio che la governa, coll’abolizione perpetua della pirateria
e della schiavitù degli uomini (cosa che farebbe arrossire tutte le
altre potenze d’Europa che giammai né l’ottennero, né
la procurarono [...]», BUC, Fondo
Baille, Alghero 7 dicembre 1801.
[95] ASGA, Lettere di Gian
Francesco, Firenze 29 agosto 1804: il brano citato, appartenente a una
lettera di Matteo Luigi a Gian Francesco, è stato da quest’ultimo
ricopiato («altro articolo di Matteo: 5. PS») nella lettera
indirizzata al fratello Giambattista.
[96] «Voglia il Cielo – considerava,
nell’apprendere della morte di Leo, Domenico Simon – che non
c’abbian contribuito le agrimonie di Matteo, che fu […] forse chi
lo trasse a Parigi» (ASGA, Lettere
di Gian Francesco, [ma] lettera di Domenico a Gian Francesco, Torino 2
luglio 1805. «[…] il povero prof. Leo cessò di vivere in
Parigi – scriveva Gian Francesco a Giambattista – vittima delle sue
antiche indisposizioni, della sua malinconia, dell’eccesso delle sue
passioni sensibilissime. Me lo scrive Matteo da Compiègne ove si trovava
ancora a maggio […]. Si compiace il medesimo di non esser stato
spettatore della morte e fine dolorosa di detto Leo. Ma egli ne è
afflitto, tuttoché non avesse alcuna ragione di lodarsi del temperamento
e umore del detto defunto» (ASGA, Lettere
di Gian Francesco, Firenze 2 giugno 1805).
[97] T. Napoli,
Note illustrate, cit., 48. Vale però la pena riportare il giudizio
scetticamente critico con cui Napoli liquidava l’opera di Leo:
«alcuni […] niegano esservi nella Sardegna questa così detta
intemperie, ed il prelodato signor
Leo in una sua dissertazione […] s’ingegna con gran forza di
argomenti e ragioni a sradicar, se potesse, la comune credenza. Ma per quanto
belli, e ben ragionati sembrino i suoi argomenti, non arriveranno mai a
persuadere chi non solo per la testimonianza d’innumerabili autori
antichi e moderni, e sardi e forestieri, ma molto per la continua esperienza
è obbligato a sentir il contrario». «Cambino pure il nome,
come sogliono fare i moderni filosofi, alle cose, e i medici, alle malattie.
Chiamino febbri autunnali, putride, infiammatorie ecc. quelle che noi coi nostri antichi chiamiamo intemperiose, ella è cosa
innegabile, che nei tempi e luoghi che qui diconsi intemperiosi, ogni anno, fin
degli assuefatti, cadono molte persone ammalate per ragion dell’intemperie» (ibidem).
[98] J.F. Mimaut, Histoire de la Sardaigne
ou la Sardaigne ancienne et moderne, Blaise, Paris 1825, t. 2, 654 e 657. Sul diplomatico francese cfr. I.
Calia, Francia e Sardegna nel
Settecento, cit., 41-50 e 58-77.
[99] [S. CABONI], Stirpium
Sardoarum Elencus. Autore Iosepho Hyacintho Moris in Regio Calaritano Atheneo
Clinices Professore, Collegii Medicorum Taurinensis, et Regiae Societatis
Agrariae, et Oeconomicae Caralitanae Socio,
in «Giornale di Cagliari», I, 1827-2, 24-29. Ulteriori riscontri
degli spiccati interessi di Leo per la botanica sono nel medaglione biografico
di Zucca: «Fondò […] gli studi botanici e senza dipartirsi
dal sistema di Linneo che chiamava il più filosofico, comunicò ai
suoi allievi tutte le scoperte, ed i progressi che vi si eran fatti fino a quei
giorni. Né di ciò contento formò nella sua casa un piccol
orto botanico, da lui con somma cura arricchito di piante esotiche tratte non
che dall’Italia anche dall’Anglia» (Notizie biografiche del professore Pietro Leo, cit., 25). Anche Matteo Luigi Simon, nella sua
opera più ampia e articolata, De
[100] «Non ci dilungherem dunque dal vero in asserire doversi al
Leo il rifiorimento della Sarda Medicina – scriveva l’anonimo
autore di una scheda sull’opera e sulla personalità di Leo redatta
prima della metà degli anni trenta dell’Ottocento [forse lo
storico Pietro Martini] –, che in tal bisogna solo i primi passi egli
calcò; lasciando però a quei suoi discepoli che or fregiano le
nostre cattedre un’eredità di lumi non meno che di patrio zelo,
l’opera intera direi quasi compiva» (BUC, Fondo manoscritti, Ms. 10.3.12: composto di 9 cc., il manoscritto
fa parte del materiale pervenuto in epoca successiva alla donazione Baille del
1843, all’interno del quale sono compresi diversi manoscritti di Lodovico
e Faustino Baille e di Pietro Martini che fu direttore della stessa Biblioteca
dal 1842 al
[101] Sono di particolare interesse sotto questo profilo sia la
prelezione di Giuseppe Giacinto Moris, professore di Clinica medica
nell’Università di Cagliari, De
praecipuis morbis Sardiniae vel a loci, vel ab aere effluentibus, Chirio e
Mina, Torino 1823, sia il trattato di Carlo Giacinto Sachero, professore di
Medicina teorico-pratica nell’Università di Sassari, Dell’intemperie di Sardegna e delle
febbri periodiche perniciose, Tipografia Fodratti, Torino 1833,
significativamente dedicato allo storico Giuseppe Manno.
[102] Notizie biografiche
del professore Pietro Leo, cit., 26. La stessa
immagine è ripresa negli enfatici versi dedicatigli dal letterato e
storico Pietro Martini: «O dolce Patria il venera/ In Leo diletto
figlio,/ Che, due volte del pelago/ varcato già il periglio,/ Dalla
maestra Italia/ ritorna in grembo a te./ […] Perché ti pasci o
Patria/ Di lusinghiera speme?/ Avversa al merto Lachesi/ Fra poco all’ore
estreme/ Da te lontan, nel viride/ Degli anni il menerà./ […] La
Morte non placabile/ gli vibra alfin il telo:/ Ei, nel passaggio, il tremulo/
Guardo volgendo al cielo,/ La Patria, i Cari memora, fra l’onda de’
sospir» (P. Martini, Poesie in lode d’illustri sardi,
Paucheville, Cagliari 1834, 77, 79, 80). La patria e l’arte medica sono
al centro del sonetto composto negli stessi anni (ma rimasto inedito per oltre
un secolo) da Stanislao Caboni, magistrato, letterato, promotore e principale
artefice del «Giornale di Cagliari» (1827-29), futuro deputato nel
Parlamento subalpino: «Caldo di patrio amor, d’ardente ingegno,
/Vide d’antica ruggine macchiata/ Costui la Sarda medicina e sdegno/
N’ebbe grave e dolor l’alma onorata./ […]» (S. Caboni, Ritratti poetico-storici d’illustri sardi del secolo XVIII e XIX.
Quaranta sonetti con prefazione e note di Antonio Scano, sei,
Cagliari 1937, 25).