ds_gen N. 7 – 2008 – Contributi

 

PieroSanna-piccolaPatria e Lumi nella crisi dell’antico regime.

L’esperienza civile e intellettuale del medico naturalista

sardo Pietro ANTONIO leo

(Arbus 1766 - Parigi 1805)*

 

Piero Sanna

Università di Sassari

 

 

Sommario: 1 «E chi ci resta ora in quel genere di studi?». – 2. Una formazione scientifica all’insegna degli ideali del «Rifiorimento». – 3. Le novità della Lezione fisico-medica e le ragioni del suo interesse. – 4. La lettera del capitano Magnon e l’Histoire di Domenico Alberto Azuni. – 5. Il viaggio a Parigi, le nuove scienze, la nascita del mito ottocentesco.

 

 

1. – «E chi ci resta ora in quel genere di studi?»

 

L’8 maggio 1805, a soli trentanove anni, si spegneva a Parigi, dopo una lunga agonia, Pietro Antonio Leo, sardo, professore di Materia medica nell’Università di Cagliari, clinico e studioso autorevole, che si era imposto all’attenzione dei connazionali come moderno riformatore della «sarda medicina»: «L’annunzio il più doloroso, che le reco, della morte immatura del di Lei marito […] costa troppo al mio cuore», scriveva alla vedova, a Cagliari, Michele Obino, profugo nella capitale francese dopo i moti antifeudali sardi di fine secolo.

Obino lo aveva premurosamente assistito negli ultimi mesi del suo penoso soggiorno parigino: «Fin da molto tempo prima – dichiarava il sacerdote amico – credeva inevitabile, come spesso mi diceva, la sua morte, che aspettò intrepidamente esternando il solo dispiacere di morir lontano e di lasciar desolata una moglie e due teneri pargoletti che amava estremamente. Le prime cause della sua malattia datano da lungo tempo: fin da quando arrivò a Parigi si sentiva tormentato da una tosse secca e continua, che gli faceva passare dell’intiere notti senza dormire. La tosse andò sempre crescendo finché gli sopraggiunse la febbre, che lo prostrò nel letto della morte»[1].

Ma al di là del lutto dei familiari e degli amici, la morte di Leo era destinata a destare un profondo sgomento tra i connazionali anche per il vuoto che lasciava in quella «repubblica delle sarde lettere» che faticosamente si stava ricostituendo a quasi un decennio dal fallimento della rivoluzione patriottica del 1793-96 [2]. Così l’idea via via accreditata che un fatale destino lo avesse prematuramente rapito alle scienze mediche, privando la patria delle «più grandi speranze» in lui riposte, avrebbe contribuito a mitizzarne il ricordo e a farne, contemporaneamente, una delle figure più emblematiche delle inquietudini identitarie e delle ansie di modernizzazione dei ceti dirigenti sardi nei primi decenni del nuovo secolo[3].

La notizia della scomparsa di Leo, prontamente rifluita nella fitta rete degli scambi epistolari dei compatrioti fuori dal Regno, non tardò ad arrivare agli amici e ai conoscenti sparsi in diversi centri dell’isola, e rimbalzò ben presto anche in Toscana, dove aveva soggiornato anni addietro per lunghi periodi. A Firenze uno dei suoi amici più cari, l’abate e letterato algherese Gian Francesco Simon, ne ricevette la notizia da una lettera del fratello Matteo Luigi, già magistrato a Cagliari ed esule a Parigi, che fino a poco tempo prima aveva convissuto con Leo nella stessa locanda: «La Sardegna ha perduto uno dei suoi migliori scienziati – considerava a caldo Gian Francesco in un’accorata lettera al fratello Giambattista –. E chi ci resta ora in quel genere di studi? Nessuno. Io ne sono afflittissimo perché lo amavo»[4].

Pochi mesi dopo, nel riflettere sulla scomparsa del celebre scienziato toscano Felice Fontana, fondatore e direttore del museo fiorentino di scienze naturali ed eccentrico esponente della nuova chimica pneumatica, con il quale Simon aveva stretto una cordiale amicizia, l’emozione per l’autorevole amico perduto faceva riemergere la nostalgia per Leo: «Mi riuscì anche sensibilissima la morte di Leo […] – confidava Simon al fratello residente in Sardegna –. Io lo amavo moltissimo e lo stimavo infinitamente perché, a dir il vero, era l’unico sardo che facesse onore alle scienze fisiche e naturali»[5].

Così, l’abate algherese coglieva lucidamente, dal suo osservatorio fiorentino, il grave contraccolpo che la scomparsa dell’amico avrebbe determinato nel mondo scientifico isolano. In Sardegna, infatti, nei primi anni dell’Ottocento, il prestigio e la fama di Leo si erano diffusi ben al di là degli ambienti universitari, e nell’estate del 1804, quando il professore cagliaritano aveva abbandonato l’isola per l’ultima volta, diretto in Francia, la sua nomea di clinico e scienziato di valore aveva già ricevuto numerosi riconoscimenti.

Pochi anni prima, nel 1801, era apparsa, presso la Reale stamperia di Cagliari, la sua Lezione fisico-medica sulle febbri autunnali e sulla malaria, che lo aveva rapidamente accreditato come scienziato insigne e moderno riformatore della «sarda medicina»[6]. La vigorosa dissertazione, significativamente intitolata Di alcuni antichi pregiudizii sulla così detta sarda intemperie, non si limitava infatti a confutare i principali preconcetti sulla natura e le cause del più insidioso flagello dell’isola[7], ma affrontando alla luce delle recenti acquisizioni delle scienze fisico-chimiche anche le vaste problematiche della diagnosi e della terapia delle diverse patologie febbrili si configurava, in realtà, come l’appassionato manifesto di una nuova, illuminata clinica medica[8].

Leo si era inoltre distinto nell’esercizio della professione e nell’organizzazione dell’assistenza sanitaria a Cagliari, non solo come clinico dell’ospedale di Sant’Antonio e medico delle carceri, ma anche come responsabile della sanità pubblica e dell’assistenza agli infermi nel popoloso quartiere di Stampace, all’interno del nuovo servizio del «medico dei poveri», istituito da Carlo Felice nel 1802 [9].

Leo si era soprattutto messo in luce sia come fautore di una nuova concezione della sanità pubblica, sia come promotore di terapie mediche d’avanguardia: con sorprendente tempestività, anche rispetto ad altre realtà italiane sanitariamente più evolute, si era impegnato a introdurre in Sardegna la sperimentazione della nuova medicina preventiva contro il vaiolo, e nel settembre del 1801 aveva richiesto l’autorizzazione al governo per poter avviare sui neonati abbandonati dell’ospedale di Sant’Antonio i primi esperimenti di vaccinazione, secondo il metodo messo a punto pochi anni prima dall’inglese Edward Jenner[10]. Per quei tempi si trattava in effetti di una proposta pionieristica, soprattutto se si considera che negli spazi italiani le prime sperimentazioni della metodica jenneriana erano state realizzate soltanto un anno prima, da Onofrio Sauli Scassi a Genova e da Luigi Sacco in Lombardia e da Michele Antonio Buniva e Ignazio Edoardo Calvo in Piemonte. Anche nel Regno di Napoli le prime vaccinazioni erano state relativamente precoci, ma in quel caso la spinta iniziale era venuta dall’esterno, quando nel marzo del 1801 era arrivata la spedizione medica partita dalla Gran Bretagna proprio con l’obiettivo di diffondere nel Mediterraneo la nuova pratica della vaccinazione[11]. Può anche darsi che le confortanti notizie provenienti dal Regno di Napoli e la speranza di ottenere rapidamente il vaccino avessero incoraggiato lo stesso Leo a rompere ogni indugio e a prendersi la responsabilità di avviare i primi esperimenti. E tuttavia il progetto di Leo si arenò ben presto, anche, probabilmente, per la difficoltà di approvvigionamento dei «fili vaccinici»[12].

Ciononostante, la sua iniziativa ebbe il merito di sensibilizzare l’opinione pubblica locale e di coinvolgere contemporaneamente le autorità accademiche, l’amministrazione viceregia e il ministero. A poche settimane dalla richiesta di autorizzazione per poter avviare gli esperimenti sugli esposti, anche il Collegio della facoltà di medicina, di cui Leo era autorevole componente, interpellato dal viceré Carlo Felice sull’opportunità d’introdurre nell’isola il «nuovo ritrovato della vaccinazione», assicurava il suo avallo alla scelta della metodica jenneriana e ne auspicava l’adozione. Il parere indirizzato al viceré poggiava su due punti principali: da un lato il riconoscimento della comprovata efficacia preventiva del «vajolo innestato con la vaccina», ormai ampiamente documentata da «scrittori degni di fede»; dall’altro, la ferma convinzione che non c’era nell’isola nessuna particolare causa d’incompatibilità che potesse sconsigliare d’introdurvi l’«inoculazione»[13].

Non c’è traccia, nel conciso parere del Collegio medico, dei dubbi di carattere sanitario, e soprattutto etico-religioso, che da più parti venivano sollevati nei riguardi di una profilassi inedita e inquietante, che contemplava l’inoculazione di pus animale in un individuo sano. In realtà il Collegio, in linea con i dettami delle dottrine aeriste e neo-ippocratiche prevalenti nella medicina tardo-settecentesca, concentrava la sua attenzione sulle caratteristiche fisico-climatiche dell’ambiente isolano, con l’intento di poter escludere eventuali controindicazioni[14]. È in quest’ottica che il Collegio concludeva le sue argomentazioni con un singolare, succinto ragionamento sul clima della Sardegna nel quale non è difficile intravedere il riferimento alle coeve polemiche sull’insalubrità dell’isola.

Nel parere del Collegio riecheggiavano, in particolare, le appassionate argomentazioni con cui in quei mesi Pietro Antonio Leo rilanciava, dalla sua cattedra universitaria, la «tesi patriottica» della normale salubrità del clima di gran parte del territorio dell’isola, puntando a confutare sul piano scientifico la falsa e ingenerosa immagine, incautamente divulgata da alcuni «scrittori forestieri», di una Sardegna «pestilenziale», totalmente immersa in un’aria perniciosa e malsana[15]. Non a caso l’assenza di controindicazioni alla vaccinazione jenneriana trovava conforto nell’asserzione della sostanziale affinità del clima dell’isola con quello dei principali paesi nei quali la nuova metodica si era già affermata («né può sospettarsi nel clima sardo particolarità alcuna – sostenevano i medici cagliaritani –, per la quale possa dubitarsi del felice esito della tanto decantata inoculazione, senza dire, che esso clima sia cotanto stravagante da non potersi con verun altro paese, ove con ottimo successo è stata praticata, paragonare»).

D’altra parte, anche in Sardegna, come in altre realtà italiane ed europee, la battaglia culturale per l’adozione su larga scala del nuovo ritrovato si era subito configurata come scelta filantropica e umanitaria, che si accompagnava a un rinnovato patriottismo civile e alla richiesta di un massiccio impegno del potere pubblico. Non meraviglia perciò l’accorato appello con cui il Collegio medico cagliaritano auspicava che «tutti i cittadini» si scuotessero dall’inerzia, e «animati dalla turba d’illustri esempi» si sottoponessero al «sicuro benefizio» della vaccinazione, «potente soccorso contro un male inevitabile e frequentemente mortale». Così, quando, sul finire del 1801, iniziò a circolare la Lezione fisico-medica, la battaglia per la sperimentazione del vaccino aveva già accreditato il suo autore come scienziato filantropo, impegnato a promuovere nel campo medico ogni innovazione che potesse recare beneficio alla patria e all’umanità.

Negli anni successivi l’attenzione e le polemiche suscitate dalla sua dissertazione avevano contribuito ad accrescere la notorietà di Leo e a farne conoscere il nome anche al di fuori dell’isola. Era già socio di diverse accademie scientifiche italiane e straniere, quando, nel gennaio del 1805, durante il suo soggiorno a Parigi, la neonata Reale Società Agraria ed Economica di Cagliari deliberò di cooptarlo fra i soci ordinari, riconoscendo l’ottima fama e la pubblica stima che già da anni lo accompagnavano[16]. Nella comunicazione ufficiale il segretario dell’accademia cagliaritana, il suo amico Lodovico Baille, lo informava che l’assemblea aveva approvato «con unanime plauso» la sua cooptazione, lusingata di poter annoverare tra i suoi soci «un soggetto benemerito, già noto alla Repubblica letteraria pei suoi talenti e per le sue erudite produzioni, e cognito altronde per il suo attaccamento alla Patria e per l’amore del pubblico bene»[17].

La particolare reputazione che Leo si era conquistato era anche il frutto di un percorso di studi rigoroso e di una nutrita serie di esperienze di specializzazione professionale, che gli avevano permesso d’imprimere un taglio largamente innovativo al suo insegnamento universitario, alle sue ricerche naturalistiche, alle sue molteplici attività medico-sanitarie. Non deve dunque meravigliare che il mondo letterario sardo avesse preso a riconoscere nella sua Lezione il segno di quel rinnovamento degli studi che, avviato dalle riforme universitarie degli anni sessanta del Settecento, dopo un lungo periodo d’incubazione aveva finalmente investito anche la «sarda medicina». È significativo, per esempio, che nella seconda edizione del poema didascalico I tonni, apparsa a Cagliari nel 1802, il suo autore, il sacerdote Raimondo Valle, membro del Collegio di filosofia e belle arti dell’Università cagliaritana, si fosse premurato d’inserire un lusinghiero riferimento alla Lezione di Leo «giovane che unisce ad una buona Teorica un indefesso esercizio»[18]. E poco tempo dopo, un altro letterato, Giovanni Andrea Massala, insegnante di retorica nelle regie scuole di Alghero, nella sua Dissertazione sul progresso delle scienze e della letteratura in Sardegna non esitava a celebrare la modernità della Lezione fisico-medica indicandola come testimonianza del moto di rinnovamento che anche in Sardegna aveva ormai nettamente caratterizzato il più recente sviluppo delle scienze mediche: «Un esempio preclarissimo recentemente – osservava Massala – ne abbiamo nella dotta dissertazione sulla Sarda intemperie con profondità di medico-fisiche cognizioni, e con eleganza singolare di stile scritta nella lingua italiana dal valente professore di materia medica nella Regia Università di Cagliari, Pietro Antonio Leo, cui la Patria riconoscente augurar dee lunga vita e salute per illustrarla a conforto dell’umanità sofferente»[19].

 

 

2. – Una formazione scientifica all’insegna degli ideali del «Rifiorimento»

 

Pietro Antonio Leo proveniva da una modesta famiglia contadina. Era nato nel 1766 ad Arbus, un piccolo villaggio della Sardegna sud-occidentale; aveva compiuto gli studi inferiori presso gli scolopi e si era formato nell’Università di Cagliari. Si era iscritto nella facoltà di Filosofia ed arti, poco meno che ventenne, a metà degli anni ottanta del Settecento, quando nel mondo intellettuale e nella vita pubblica del Regno iniziavano a maturare i primi frutti della riforma degli studi varata negli anni sessanta. Nella sua brillante carriera di studente – nel 1785-87 nella facoltà di Filosofia e arti e nel 1787-90 nella facoltà di Medicina, dove gli fu concesso di saltare un anno – poté studiare su programmi aggiornati e avvalersi dell’insegnamento di diversi buoni maestri[20]. Tra questi spiccavano alcuni docenti particolarmente preparati, che erano approdati nell’Ateneo cagliaritano con il radicale rinnovamento del corpo docente voluto dal ministro Bogino: vi era per esempio l’ex gesuita, letterato e filosofo torinese Giuseppe Gagliardi, professore di Fisica sperimentale, proveniente dall’Università di Sassari, dove aveva avuto allievo il giovane poeta Francesco Carboni, autore di un impegnato e acuto poemetto in esametri latini, De Sardoa intemperie (Cagliari 1772), dedicato alla malaria e alle risorse naturali della Sardegna[21]. Come docente di Medicina teorico-pratica ebbe Giacomo Giuseppe Paglietti, protomedico del Regno, autore di un’interessante Pharmacopea Sardoa (Cagliari 1773), e come professore di Materia medica Pietro Francesco De Gioanni, il «valente medico e naturalista» di cui Leo non esitava a dichiararsi discepolo, ricordandone nella sua Lezione «con animo grato e rispettoso» l’alto magistero scientifico[22].

Tra i docenti della facoltà di Medicina spiccava inoltre il piemontese Michele Antonio Plazza, professore di Chirurgia e primo titolare di questa cattedra istituita nel 1759: un ricercatore pieno di curiosità e d’interessi scientifici, appassionato studioso di botanica e di storia naturale, che da quando si era definitivamente trasferito a Cagliari, alla fine degli anni cinquanta, si era sempre mantenuto in stretto rapporto con lo scienziato torinese Carlo Allioni, al quale aveva trasmesso, oltre a diverse informazioni sulla flora e sui fossili della Sardegna, anche i risultati di un’interessante indagine da lui svolta tra i medici locali «sopra le febbri migliarie», principale oggetto delle ricerche scientifiche del suo interlocutore piemontese. Plazza era inoltre l’autore delle pionieristiche «Riflessioni intorno ai mezzi per rendere migliore l’Isola di Sardegna»: un’ampia e originale memoria medico-sanitaria e tecnico-economica che, prendendo le mosse dallo «spopolamento» dell’isola, analizzava lo stato generale della salute pubblica nel Regno passando in rassegna le molteplici cause della «trascurata conservazione degli individui». In particolare si soffermava sui costumi alimentari delle popolazioni locali e sulle gravi carenze della medicina isolana, sugli effetti del paludismo, sulla presenza della cosiddetta «sarda intemperie» in relazione alle stagioni e alle zone geografiche, sull’erronea convinzione che essa costituisse l’unica causa dell’impoverimento demografico del Regno e che l’intera popolazione ne fosse uniformemente colpita[23].

A Leo non erano dunque mancate le opportunità per fare dei buoni studi, per coltivare i suoi interessi medico-naturalistici, per cogliere l’importanza di un costante aggiornamento scientifico.

All’indomani della laurea il giovane Leo era ritornato al paese natale e aveva iniziato a esercitarvi la professione. Ma qualche tempo dopo, in quella vivace fase della vita pubblica del Regno che si era aperta nel 1794 con la sollevazione cagliaritana e con l’espulsione dei piemontesi dall’isola[24], Leo aveva riallacciato i rapporti con gli ambienti accademici della capitale presentando la sua candidatura alla cattedra di Istituzioni mediche, resasi vacante in seguito alla promozione del professore titolare, il sardo Salvatore Cappai, chiamato alla cattedra di Medicina teorico-pratica. La necessità di reclutare un nuovo docente per l’insegnamento delle Istituzioni mediche scaturiva, dunque, da un più ampio riassetto del corpo docente della Facoltà maturato in quel particolare periodo in cui, in assenza del viceré piemontese, la direzione politica della vita dell’Ateneo era passata alla Reale Udienza, la suprema magistratura del Regno che costituiva temporaneamente la più alta autorità di governo nell’isola. Il giovane Leo si era aggiudicato la cattedra prevalendo brillantemente, col voto unanime del Collegio, sugli altri due concorrenti. La sua nomina era stata rapidamente decretata dal sovrano con le regie patenti del 7 dicembre 1794 [25]. Ma al di là delle procedure accademiche la sua ascesa alla cattedra universitaria fu percepita dai connazionali come un concreto riflesso del rinnovamento culturale e del fervore patriottico scaturiti dal moto antipiemontese.

Un anno dopo, nel settembre del 1795, la richiesta del neoprofessore di poter accedere, per trasferimento o per concorso, alla prestigiosa cattedra di Materia medica, liberatasi in seguito alla scomparsa del titolare, Marco Sini, protomedico del Regno, era destinata a provocare una clamorosa e prolungata spaccatura nel mondo accademico locale. L’istanza di Leo si contrapponeva infatti a un’analoga richiesta dell’anziano medico collegiato Giovanni Antonio Castagna, che rivendicava l’assegnazione diretta della cattedra[26]. Le ambizioni accademiche di Leo, per quanto autorevolmente assecondate dal Magistrato sopra gli studi, suscitarono l’opposizione del prefetto del Collegio medico della Facoltà, che caldeggiava invece la richiesta dell’anziano collega. Intorno a questo, infatti, aveva naturalmente fatto quadrato gran parte dei dottori del Collegio, sicché il viceré, nel prendere atto della situazione di stallo, si era limitato a suggerire al ministero di evitare temporaneamente l’apertura del concorso che, a suo avviso, non avrebbe raccolto altre candidature oltre a quella di Leo e avrebbe invece suscitato l’aperta ostilità degli «antichi dottori di Collegio»[27].

Ma al di là delle vicende personali la contrapposizione tra le due candidature era ormai riconducibile a più ampie polarizzazioni di carattere culturale, scientifico, generazionale. In realtà Leo faceva parte di quella nuova generazione di giovani laureati che, consapevoli dell’impegno profuso negli studi universitari e incoraggiati dalle promesse governative di impieghi e sbocchi professionali attribuiti per merito, si faceva avanti a reclamare concorsi e carriere.

Nella primavera del 1796, mentre la vita pubblica del Regno si avviava verso conflitti sempre più drammatici, l’ormai trentenne professore decideva di spendersi in un’impegnativa esperienza di studio: perciò chiedeva alle autorità accademiche di poter usufruire di un congedo con adeguato «sussidio pubblico» per affrontare un intenso periodo di specializzazione presso «una celebre e ben stabilita Università d’Italia», dove contava di perfezionare la sua preparazione nel campo della botanica e dell’anatomia. Nell’Università di Cagliari era la prima volta che un docente proponeva di concordare con le autorità accademiche, secondo una formula già sperimentata in diversi atenei, un percorso di specializzazione da realizzare presso altre istituzioni universitarie, ma la proposta presentava diversi aspetti particolarmente utili per il futuro della Facoltà medica: non a caso le autorità accademiche colsero al balzo l’occasione e l’approvarono entusiasticamente, sottolineando che non si doveva perdere l’opportunità di assecondare la buona inclinazione del giovane professore «dotato di grande e perspicace talento» e capace di «acquistare quei lumi che sono necessari per formare un buon professore botanico ed anatomico, di cui abbisogna nelle presenti circostanze la predetta Regia Università». Parallelamente anche il Magistrato sopra gli studi riconosceva che le nuove competenze scientifiche avrebbero reso Leo «vieppiù idoneo ad occupare la cattedra vacante di Materia medica», il cui concorso veniva perciò rinviato fino al suo ritorno[28]. Non stupisce dunque che la stessa delibera sottolineasse l’importanza e l’interesse generale del progetto di Leo, considerandolo «vantaggioso e proficuo non solo all’Università e alla gioventù studiosa, ma altresì alla Patria e alla Nazione».

Nella storia dell’Università di Cagliari il provvedimento adottato per Leo rappresentò quindi un importante elemento di novità, i cui precedenti potevano esser rintracciati soltanto in alcune esperienze di specializzazione di docenti sardi promosse dal ministro Bogino nel quadro dei radicali interventi per il ricambio del corpo docente negli anni della rifondazione dell’Ateneo cagliaritano[29].

La soluzione adottata per Leo inaugurò così un modello d’intervento che le autorità accademiche seguirono anche negli anni successivi facendovi ricorso con l’obiettivo di colmare i ritardi che l’ateneo cagliaritano aveva accumulato rispetto ad altre università italiane ed europee. Già poche settimane dopo si riproponeva lo stesso tipo d’intervento per sopperire allo «stato di notabile decadenza» della scuola di Chirurgia: il Magistrato sopra gli studi riteneva pertanto «esser cosa utilissima lo spedire a Napoli» un valido chirurgo del Collegio cagliaritano che opportunamente sovvenzionato potesse acquistare «quei lumi di cui non si è avuto ancor notizia o si sono ben rado osservati nel Paese»[30].

A più riprese, tra l’estate del 1796 e l’autunno del 1800, Leo soggiornò lungamente a Pisa e a Firenze e visitò diverse città dell’Italia settentrionale, dove ebbe modo di esercitare la professione medica sotto la guida d’insigni maestri, di maturare nuove esperienze cliniche con la pratica al letto del malato e di frequentare i grandi ospedali di Santa Chiara a Pisa e di Santa Maria Nuova a Firenze, e quelli di Bologna, di Milano, di Torino e di Genova[31].

Com’egli stesso riconosceva quegli anni rappresentarono una tappa fondamentale nella sua formazione di medico e scienziato. «Fu questa l’epoca per me fortunata, in cui – sottolineava Leo –, oltre molti altri pregiudizii, che mi guastavano lo spirito, deposi anche quello che ripeter mi faceva da vizio dell’aria tutte quasi le febbri autunnali. E qual uomo per tenace che fosse ed ostinato nelle false concepite idee, non l’avrebbe mai deposto veggendo migliaia di persone abitanti di terre, che godono del clima più temperato e d’un aria affatto priva di velenate esalazioni paludose […] languire pur nondimeno miseramente in letto per le stesse stessissime malattie febbrili, sì continue che intermittenti, che io avevo per l’addietro conosciuto per febbri d’intemperie?»[32].

Tra la primavera e l’estate del 1796, quando Leo giunse a Pisa, le armate francesi erano già dilagate in Piemonte e in Lombardia, Napoleone faceva il suo ingresso trionfale a Milano, le Legazioni pontificie di Bologna e Ferrara e le Romagne erano sull’orlo della capitolazione e un corpo di spedizione francese stava ormai per occupare Livorno. La vita pubblica del Granducato si avviava verso un periodo di grande fermento: mentre la neutralità di Ferdinando III di Lorena appariva sempre più fragile, i circoli patriottici intensificavano le loro iniziative per l’avvio di un processo di democratizzazione e di radicale rinnovamento della società[33].

Nella seconda metà dell’anno iniziò ad affluire in Toscana una parte dei patrioti sardi esuli dopo la sconfitta della sollevazione antifeudale guidata dal giudice Giovanni Maria Angioy: nel luglio andarono a stabilirsi a Pisa anche Gian Francesco e Giambattista Simon, che riallacciarono con Leo l’antico sodalizio cagliaritano[34].

Sotto il profilo scientifico, Pisa, era una sede universitaria di prim’ordine, e in particolare la facoltà di Medicina costituiva l’espressione più viva del mondo universitario toscano. La città ospitava prestigiose istituzioni culturali e scientifiche che rappresentavano per l’epoca importanti punti di riferimento per il mondo accademico italiano ed europeo. Un ruolo di primo piano svolgevano nel campo medico-naturalistico l’Orto botanico e il Teatro anatomico[35]. D’altra parte, nella medicina toscana la dissezione del cadavere e l’accurata osservazione del malato in ospedale si erano affermate come momenti indispensabili della formazione del medico già nella seconda metà del Settecento, qualche decennio prima che diventassero i capisaldi delle nuove dottrine mediche francesi. Inoltre, in Toscana, anche per i laureati che avevano già svolto attività di «pratica in ospedale» presso il Santa Chiara, l’autorizzazione all’esercizio della professione era subordinata alla frequenza di un corso di specializzazione presso la rinomata Scuola medico-chirurgica dell’ospedale di Santa Maria Nuova di Firenze, nella quale insegnavano diversi professori dell’Università di Pisa.

Ma il punto di forza della Facoltà medica pisana era costituito soprattutto da un corpo docente dotato di una notevole capacità di aggiornamento e largamente partecipe dei dibattiti intorno alle nuove dottrine mediche. Una delle figure più autorevoli di quel mondo era certamente Francesco Vaccà Berlinghieri, medico e scienziato di grande fama, docente di Chirurgia teoretica, considerato il vero fondatore della Clinica medica nell’Ateneo di Pisa, del quale fu anche provveditore. Studioso di solida cultura illuministica e di spiccata apertura cosmopolita, Francesco Vaccà, oltre al corso ufficiale nella Sapienza pisana, teneva presso la sua abitazione, com’era consuetudine dei docenti di quell’ateneo, un corso privato parallelo d’Istituzioni mediche che ogni anno culminava in un tirocinio estivo di pratica medica «al letto dell’infermo» presso l’ospedale di Santa Chiara. Capostipite di un’agiata famiglia pisana, Vaccà non nascondeva le sue simpatie per gli ideali repubblicani ed era al centro di un sistema di relazioni che saldavano la dimensione accademica e l’impegno nella vita pubblica, del quale facevano parte gli stessi figli, tutti e tre professori universitari, due dei quali, i maggiori, con grande lungimiranza aveva mandato a studiare all’estero, a Parigi e in Inghilterra dal 1787 al 1791 [36].

Al professor Vaccà Leo arrivò segnalato da una lettera di presentazione dell’Università di Cagliari, e nello stimolante contesto politico e culturale che faceva capo all’insigne maestro maturò le sue esperienze e visse la sua «epoca fortunata», accolto e incoraggiato da lui. Il suo insegnamento e la sua filosofia segnarono intensamente la formazione e la stessa personalità di studioso di Leo che da quella scuola trasse le coordinate tematiche e metodologiche a cui avrebbe fatto costante riferimento nella sua attività successiva[37].

Per Leo il periodo toscano coincise quindi con il primo incontro con la nuova Clinica medica, caratterizzata da una medicina preventiva già aperta alle nuove acquisizioni della fisica e della chimica e che guardava con vivo interesse allo studio dell’igiene e all’influsso dei fattori ambientali e alimentari sulla salute. Purtroppo anche del soggiorno in Toscana abbiamo pochissime testimonianze: da esse si evince però che approfittò di ogni occasione per ampliare i suoi orizzonti scientifici, gettandosi a capofitto nello studio, frequentando le dissezioni anatomiche presso l’ospedale di Santa Chiara, seguendo con entusiasmo un corso di Chimica sperimentale, partecipando assiduamente alla lezioni di Chirurgia che il figlio di Francesco Vaccà, Andrea, teneva, con grande partecipazione di studenti, nella sua abitazione; e perfino intraprendendo lo studio della lingua greca, necessario alla comprensione della terminologia medica[38].

Al suo ritorno a Cagliari, nell’estate del 1797, la buona reputazione che si era conquistato in Toscana e l’apprezzamento degli ambienti accademici e governativi gli propiziarono l’attesa nomina alla cattedra di Materia medica, che gli fu conferita con patenti regie del 20 febbraio del 1798 [39].

Pochi mesi dopo, alla fine dei corsi universitari, Leo intraprese un nuovo viaggio di studio. Fu, di passaggio, a Firenze, dove a quel tempo risiedeva il suo amico Gian Francesco Simon, e alla fine di luglio era a Torino, dove si trattenne per tutta l’estate. Proprio nel luglio del 1798 la cittadella di Torino era stata ceduta ai francesi dietro la promessa della cessazione di ogni ostilità. Ma la sopravvivenza dello stato sabaudo era appesa a un filo sottile che si sarebbe definitivamente spezzato, nel dicembre, con la dichiarazione di guerra del Direttorio, l’occupazione dell’Armata d’Italia e la resa sottoscritta da Carlo Emanuele IV.

Al di là del clima d’inquietudine e d’incertezza politica che caratterizzava la vita pubblica torinese Leo poté comunque prendere contatto con una realtà medico-sanitaria evoluta e ben organizzata: da alcuni decenni gli ospedali torinesi si erano trasformati in luoghi di cura di patologie acute e avevano da tempo abbandonato la loro originaria natura di ospizi e di ricoveri per poveri; l’Università, l’Accademia delle Scienze e l’Accademia di Agricoltura facevano di Torino uno dei crocevia della cultura scientifica europea. Quando Leo giunse nella capitale sabauda vi era ancora attivo il Comitato galvanico che raggruppava il meglio della scienza torinese, impegnato a difendere le tesi del medico bolognese contro quelle di Alessandro Volta. Da alcuni lustri la «nuova chimica lavoisieriana» aveva fatto breccia negli ambienti dell’Accademia delle Scienze, che ne aveva incentivato lo studio promuovendo nuove ricerche orientate verso le potenzialità applicative. Un ruolo d’avanguardia avevano assunto in questo campo le indagini chimiche per l’analisi delle acque come componente essenziale di una politica sanitaria e dell’igiene pubblica[40].

Ma il tratto forse più significativo della cultura medico-scientifica piemontese era la straordinaria fioritura di studi e ricerche di topografia medica, cioè di lavori che analizzavano le condizioni climatico-ambientali ed economico-sanitarie di singoli territori o limitate zone geografiche. Tra le pubblicazioni di questo genere figurava, per esempio, la singolare opera del «medico patrizio» Lorenzo Vacchini, apparsa nel 1789 a Carmagnola, intitolata Della salubrità del clima di Tortona in confutazione dell’opinione contraria di alcuni, scritta per contestare la voce pubblica sulla nocività dell’aria della cittadina. Si faceva sentire in questa tradizione sia l’eredità della Biblioteca Oltremontana, con la sua spinta verso i risvolti sociali della medicina, sia l’influsso della politica francese della salute, che con Vicq d’Azyr aveva dato avvio alle inchieste territoriali sotto l’egida della Société Royale de Médecine. Appare inoltre significativo che a ispirare e ad incoraggiare queste ricerche di topografia medica fosse spesso proprio l’Accademia di Agricoltura, che già nel 1788-89 aveva presentato l’importante Corografia georgico-iatrica d’Acqui di Vincenzo Malacarne. Le ricerche e i dibattiti si erano in particolare concentrati sulle cause della epidemia di «febbri putride intermittenti» scoppiata nel Biellese, di cui si riteneva responsabile il sistema utilizzato per macerare la fibra tessile[41].

Leo trovò un’accoglienza particolarmente calorosa negli ambienti dell’Accademia di Agricoltura, che nell’adunanza del 19 settembre 1798 lo cooptò tra i suoi «soci liberi corrispondenti». Era un riconoscimento importante anche perché, tra i sardi, solo tre personaggi di particolare spicco avevano ottenuto diversi anni addietro un titolo analogo: il censore generale dell’agricoltura Giuseppe Cossu, il giudice della Reale Udienza Giovanni Maria Angioy e il giurista Domenico Alberto Azuni, che aveva da poco pubblicato il primo tomo del Dizionario della Giurisprudenza mercantile ed era stato eletto socio onorario[42].

Leo compì infine un altro viaggio di studio nell’estate-autunno del 1800 toccando le città di Bologna, Milano e Firenze, ma dal 1801 al 1804 visse stabilmente a Cagliari, dedicandosi all’insegnamento universitario, svolgendo una generosa assistenza medica e impegnandosi in una serie di sperimentazioni scientifiche e sanitarie. Ma l’elemento che più di ogni altro contribuì a imporlo all’attenzione dei connazionali fu la pubblicazione della sua battagliera dissertazione sulla malaria, l’unico suo scritto che ci sia pervenuto[43].

La dissertazione aveva avuto inoltre un autorevole, appassionato suggeritore: era stata infatti ispirata, e in realtà quasi commissionata, da Gian Francesco Simon, il vulcanico e poliedrico letterato algherese che proprio nell’autunno del 1801, mentre curava l’edizione di diverse altre opere, dava alle stampe la sua brillante Lettera sugli illustri coltivatori della giurisprudenza in Sardegna. Egli non solo aveva esortato l’amico scienziato a cimentarsi con il cruciale problema della sarda intemperie, ma aveva anche, col suo consenso, ampiamente limato, e in parte rimaneggiato, il testo della Lezione. Aveva infine rinunciato, ma soltanto per le difficoltà incontrate nella ricerca, ad affiancare alla dissertazione un suo scritto complementare e integrativo, che avrebbe illustrato il tema sotto il profilo storico e letterario: «La Lezione la so quasi a memoria, ond’è non occorre che le ne parli – confidava Simon a Baille nell’autunno del 1801 – [...]. Alla suddetta Lezione io facevo conto di aggiungervi un mio lavoro letterario sulla stessa materia, quasi per mantissa [a integrazione], ma la mancanza di qualche monumento di cui abbisognava mi fece sospendere il lavoro. E con ciò veda – dichiarava con amara ironia – ch’io cerco di uccidere il tempo come meglio posso in un paese ove esseri di lettere e di ragione sono fenomeni più rari della fenice d’Arabia. Ella riderebbe se mi vedesse nelle mie stanze assediato or d’uno or d’altro senza lasciarmi solo un momento, e chi per chiedermi lumi su d’una cosa, chi su d’un’altra, ed io intanto far da ciarlatano di lettere e di scienze enciclopedicamente»[44].

È probabile che Baille, nella sua risposta, mettesse in dubbio le competenze dell’erudito algherese; sicché questi, ritornando sulla specifica natura del progettato contributo letterario, rivendicava la rilevanza del suo segreto ma incisivo apporto alla Lezione: «Ho avuto sempre presente il ne, sutor, ultra crepidam [iudicet: nessuno emetta giudizi su cose di cui non è competente] – replicava Simon il 12 ottobre 1801 –, e l’ho inculcato le migliaia di volte a chi si è a me indirizzato; ma il lavoro ch’io meditai sulla sarda intemperie non era medico ma puramente letterario, e mai ultra crepidam. Se ho voglia di distenderlo Ella non mi rinfaccerà il noto detto. E poi, Ella sa che un filologo deve aver cognizioni d’ogni materia; e sul concreto della sarda intemperie potrei ancor io parlarne da fisiologo, come ne ho largamente parlato col dottor Fois [il medico Pietro Fois], cui prima d’ogni altro ne incaricai di scriver sulla materia, come il feci posteriormente col dottor Leo (la di cui Lezione, come parmi d’averle scritto altra volta in confidenza, è di qualche mio dritto in moltissime parti per la libertà ch’Egli mi diede sulla medesima allorché sin dal principio del corrente anno la soggettò al mio giudizio)»[45].

Risalgono probabilmente a questo periodo gli appunti lasciatici da Gian Francesco Simon «Sul clima della Sardegna e sugli scrittori che ne hanno parlato fino a questo momento»: una serie di brevi annotazioni con cui l’erudito abate aveva iniziato a raccogliere, insieme ad alcune schede su autori antichi e moderni (da Silio Italico fino a Chaptal, passando per Petrarca), alcune riflessioni sui progressi e le nuove scoperte delle scienze naturali in ordine al clima e alla salubrità dell’aria, in cui spicca il lusinghiero giudizio sul coraggioso contributo della Lezione fisico-medica e sulla figura di Leo: «Un genio filosofico come quello del dottor Pietro Antonio Leo, franco, sagace, ingegnoso e filantropo, ha osato [corretto su ardì], il primo, di annunziare, dalla cattedra ch’egli regge nell’Università di Cagliari, delle verità forti e utilissime nel bene dell’umanità»[46].

 

 

3. – Le novità della Lezione fisico-medica e le ragioni del suo interesse

 

L’ampia dissertazione di Leo – un’ottantina di pagine, precedute da un’appassionata prefazione e arricchite da consistenti note esplicative e integrative – era suddivisa in due parti. Nella prima l’autore confutava le principali argomentazioni della tesi dell’insalubrità del clima della Sardegna, soffermandosi sulle caratteristiche geografiche, fisiche e ambientali dell’isola e sulla loro incidenza sulla flora, sulla fauna e sulla salute delle popolazioni. Le considerazioni di Leo non solo contrastavano l’idea che l’intemperie fosse una malattia peculiare della Sardegna, indissolubilmente legata al suo clima e al suo ambiente naturale, ma mettevano anche in luce la molteplicità di patologie febbrili, che venivano spesso confuse con la malaria o erroneamente ricondotte alla «cattiva temperie dell’aria».

Nella seconda parte la critica impietosa della superficialità con cui molti medici erano soliti affrontare, con un massiccio ricorso a salassi, emetici e purganti, le «febbri autunnali», offriva lo spunto per una puntuale contestazione degli assiomi della cosiddetta «polifarmacia»: ad essa veniva contrapposta una convinta esaltazione delle virtù terapeutiche della china, dell’oppio e di pochi altri presidi farmaceutici fondamentali; si profilava, in sostanza, un’argomentata rassegna delle moderne teorie di diagnosi e terapia delle patologie febbrili e delle «regole della buona clinica». Nel campo delle indicazioni medico-sanitarie la dissertazione insisteva, infatti, su due obiettivi principali: da un lato la necessità di combattere la tradizionale tendenza dei medici sardi a curare come febbri malariche tutta la gamma delle patologie febbrili; dall’altro l’esigenza di adottare terapie differenziate, evitando d’indebolire il malato con l’abituale abuso di purghe e salassi, ma ricorrendo, eventualmente, a opportune cure ricostituenti accompagnate da farmaci universalmente apprezzati come l’oppio e la china[47].

La dissertazione, anche per il piglio polemico con cui denunciava l’inadeguatezza scientifica, se non la ciarlataneria, di molti medici locali[48], suscitò resistenze e ostilità negli ambienti accademici e professionali, ma diede una vigorosa scossa al mondo intellettuale isolano: fu infatti soprattutto la nuova ottica con cui veniva analizzata la complessa problematica delle cause e della natura dell’intemperie ad attirare l’interesse dei medici sardi e di un pubblico più ampio di lettori colti.

In realtà, l’opera di Leo affrontava di petto uno dei nodi più spinosi dell’annosa querelle sulla Sardegna come isola «pestilente», irrimediabilmente penalizzata da un clima ovunque «intemperioso». Sotto questo profilo la Lezione di Leo s’inseriva nel robusto filone delle accese polemiche tardo-settecentesche, che avevano visto il fior fiore dei letterati sardi impegnati a difendere la reputazione della Sardegna dagli offensivi giudizi sul clima dell’isola e sui costumi dei sardi, affrettatamente espressi da viaggiatori e geografi che talvolta non l’avevano neppure visitata[49]. In particolare, negli anni ottanta del Settecento le polemiche sulle caratteristiche della «sarda intemperie» e sul clima dell’isola avevano costituito un formidabile incubatore dei sentimenti di appartenenza e di identità patria, successivamente confluiti nell’ampio moto patriottico del triennio rivoluzionario sardo. L’opera di Leo rilanciava i fasti di un patriottismo letterario e scientifico rapidamente caduto in disgrazia con la sconfitta della «sarda rivoluzione» e la normalizzazione assolutistica degli ultimi anni del secolo[50].

Così, nella sua battagliera prefazione indirizzata agli «ornatissimi» studenti dell’Università di Cagliari, Pietro Leo non esitava a rivendicare il carattere militante della sua dissertazione, affermando il «sacro dovere» per lo scienziato «filopatrida» di difendere e «vindicare» la patria dalle «ingiuste imputazioni» che le venivano rivolte a proposito del clima e dell’intemperie. E d’altra parte, quale «impresa», si domandava Leo, poteva rivelarsi più degna per un «medico filantropo» che confutare i «perniciosissimi errori» in base ai quali da un lato i forestieri consideravano l’intemperie come una patologia endemica della Sardegna, e dall’altro la medicina sarda, trascurandone la dimensione pressoché universale, finiva per affrontarla come «supposta malattia» specificamente locale[51]? Certo, le classificazioni scientifiche dei più autorevoli trattati clinici tardo-settecenteschi non lasciavano dubbi sulla necessità di considerare come «endemiche» o «patriotiche» soltanto quelle patologie che fossero realmente caratteristiche ed esclusive di alcuni paesi e non trovassero riscontro in altre zone geografiche[52]. Non si trattava, però, di riaffermare verità astratte o evidenze in parte scontate: smentire che in Sardegna le febbri malariche colpissero uniformemente, in ogni tempo e in ogni luogo, tutta la popolazione, o che presentassero caratteristiche così particolari da trasformarle in una «malattia patriotica», significava infatti per Leo mettere le basi di un nuovo approccio metodologico che ricollocava la «sarda intemperie» nel più vasto contesto delle patologie febbrili e permetteva di far tesoro dei progressi scientifici compiuti in tutti i campi delle scienze della natura.

L’interesse dell’opera di Leo non deriva infatti dall’originalità della confutazione dei molti luoghi comuni sull’onnipresenza della malaria nell’isola, bensì dalla novità delle riflessioni e dei riferimenti medico-scientifici. Certo, nell’analisi delle caratteristiche delle zone malariche dell’isola non c’erano, nella Lezione di Leo, novità sostanziali, ma le argomentazioni chimico-fisiche sulle modalità di trasmissione della malaria e la confutazione della tesi della «pretesa naturale insalubrità della Sardegna» prospettavano interrogativi di sconcertante originalità. In effetti, per gli aspetti geografico-ambientali, la Lezione di Leo era di gran lunga debitrice di una consolidata tradizione di studi che aveva trovato compiuta e autorevole sistemazione nel Rifiorimento della Sardegna di Francesco Gemelli[53], il testo classico del riformismo settecentesco sabaudo, ma le argomentazioni e l’ottica con cui venivano affrontate le problematiche di carattere generale erano decisamente innovative e in parte inedite.

Colpisce, per esempio, la coraggiosa critica con cui Leo metteva in dubbio una delle certezze più consolidate sulle cause delle febbri malariche, cioè il ruolo determinante che veniva attribuito alle esalazioni delle «acque stagnanti» nella insorgenza della malattia: «Se io non temessi di essere tacciato di pirronismo oserei persino dubitare – dichiarava Leo – della tanto temuta indole mortifera e pestilente delle palustri esalazioni. Né privo affatto di fondamento parrebbe questo mio dubbio a coloro che lasciando per un momento di giurare sulle asserzioni de’ lor maggiori e guidati soltanto dagli inconcussi principi della Chimica moderna, volessero una volta esaminare le cose da filosofi spassionati»[54].

Così, sulla base di un rigoroso ragionamento fondato sulle principali nozioni, sperimentalmente acquisite, della fisica e della chimica tardo settecentesche, il medico cagliaritano escludeva che la semplice evaporazione delle acque palustri potesse liberare quei nocivi «principii» che si riteneva costituissero la causa immediata della malaria: «s’egli è dunque dimostrato […] che dessa [l’acqua] è composta di gaz ossigeno e di gaz idrogeno, non altro certamente tramanderà all’atmosfera che questi due fluidi elastici». E se anche si volessero prendere in esame le «pestilenti esalazioni» della putrefazione delle «sostanze vegetabili e animali, che trovansi quasi sempre coll’acqua mischiate», quali prove, domandava Leo, potrebbero dimostrare che «tutti o alcuni di questi fluidi aeriformi» siano capaci di determinare «la supposta infezione dell’aria che respiriamo»? Gli esperimenti sulla composizione dell’aria atmosferica avevano ormai dimostrato che alcuni dei gas più nocivi risultavano solitamente «mischiati coll’aria vitale» e venivano respirati «in grandissima quantità» senza causare alcun danno. E d’altronde era ormai accertato che alcune «spezie d’arie» si rivelavano letali soltanto «perché incapaci di sostenere quella nobile vitale funzione che può essere soltanto mantenuta dall’aria vitale o gaz ossigeno; ma non già perché, come si suppone, insinuatesi nelle macchine nostre ne infettino i liquidi circolanti e ne promuovano la putrida dissoluzione e le così dette putride malattie»[55].

Si trattava dunque di ipotesi e di considerazioni nient’affatto scontate che puntavano a mettere a frutto alcune delle più recenti scoperte sulla composizione chimico-fisica dell’aria atmosferica, sui processi di dissoluzione delle sostanze organiche, sulla metabolizzazione dei cibi e sulle caratteristiche delle «malattie putride»[56].

In realtà la caratteristica più interessante (e la vera modernità) dell’opera di Leo consiste proprio in quel suo procedere non solo smentendo i pregiudizi e i luoghi comuni, ma anche mettendo in discussione le certezze e i capisaldi di alcune delle più accreditate interpretazioni scientifiche tradizionali. D’altra parte, per quasi un secolo, fino alla scoperta del ruolo della zanzara anophele come vettore della malaria, si continuò a ritenere che a determinare l’insorgere della malattia fossero i «miasmi» e l’aria malsana, che si producevano al di sopra delle acque stagnanti. Non deve pertanto meravigliare che anche le argomentazioni con cui Leo confutava i pregiudizi relativi alle modalità di trasmissione e di contagio della malattia si collochino all’interno di una lettura complessiva del fenomeno che continuava a individuare nelle condizioni climatiche e ambientali il fattore determinante dell’epidemiologia della malaria.

È in questa chiave che Leo contestava l’idea che anche le febbri che si manifestavano in zone lontane dai «virulenti miasmi della terra e delle acque palustri» potessero essere attribuite alla «depravazione dell’aria», determinata dalle esalazioni nocive trasportate dai venti a grande distanza dai luoghi dove originariamente si producevano. Analogamente, non esitava a contrastare l’idea che anche l’insolazione potesse essere annoverata tra le cause delle febbri malariche[57].

Per Leo era infine un vero sproposito l’idea assai diffusa che la malaria potesse essere contratta con l’assunzione di cibi provenienti da luoghi malsani. Quell’opinione gli appariva un attentato «alle leggi della fisica esatta». Lo scienziato cagliaritano non esitava a richiamare quanto era stato «osservato, scritto e sperimentato dall’immortale Spallanzani» circa le proprietà antisettiche dei «sughi gastrici», e ad evocare, oltre alla grande tradizione scientifica toscana delle ricerche sul veleno della vipera[58], i più recenti studi di Francesco Chiarenti sui processi fisico-chimici della digestione, che, apparsi a Firenze tra il 1792 e il 1797, avevano animato un intenso dibattito medico-scientifico durante il suo soggiorno in Toscana[59]. «Né starò io ad aggiungere molte parole su questo particolare – osservava Leo –, essendo oggimai una verità dimostrata, che qualunque sostanza, per virulenta che sia e nociva alla specie umana, digerita una volta dagli animali bruti […], cambia affatto natura […]. Egli è dunque falso, falsissimo – incalzava Leo –, che si diano sostanze alimentizie le quali perché provenienti da paesi infetti d’aria palustre vagliano a produrre la vera febbre d’intemperie»[60].

L’opera di Leo si presentava quindi come una moderna, autorevole smentita, sul piano scientifico, degli offensivi pregiudizi che per secoli avevano deformato l’immagine e la reputazione dell’isola. Agli occhi dei letterati sardi, poi, la dissertazione era espressione dei lumi delle nuove scienze; era il frutto del sapere e degli studi di un medico sardo sapiente patriota; aveva le caratteristiche e le qualità per essere spesa al di fuori dell’isola. Di qui l’apprezzamento con cui essa venne accolta da quella generazione di letterati che, formatisi negli ultimi decenni del Settecento, avevano fatto propri i criteri di uno studio metodologicamente rigoroso e che da diverse angolazioni civili e culturali avevano ripreso a coltivare gli ideali del Rifiorimento della Sardegna. Non a caso la Lezione di Leo entrò rapidamente a far parte delle conversazioni scientifico-letterarie che univano gli eruditi sardi, all’interno e fuori dell’isola, in quella ideale ricomposizione della «repubblica delle sarde lettere» che in gran parte sarebbe sfociata nella nascita della Reale Società Agraria ed Economica di Cagliari.

 

 

4. – La lettera del capitano Magnon e l’Histoire di Domenico Alberto Azuni

 

Una viva testimonianza di come l’opera di Leo venne recepita e riletta anche al di fuori degli ambienti medici e universitari ci viene offerta dalla lunga lettera – quasi una memoria ragionata –, che un ufficiale savoiardo, Francesco Maria Magnon, comandante della guarnigione dei Cacciatori esteri di stanza presso la torre di Longonsardo, sulla costa nord-orientale della Sardegna, indirizzava, nel marzo del 1803, al medico cagliaritano[61]. Magnon si era trasferito in Sardegna, con la corte sabauda, nel 1799, dopo essersi rifiutato di proseguire la carriera di ufficiale in Piemonte sotto il governo francese; aveva scelto la Sardegna come sua seconda patria e nel febbraio del 1803 aveva finito di predisporre il progetto di fondazione del nuovo centro abitato che sarebbe sorto nei pressi di Longonsardo e che avrebbe preso il nome di Santa Teresa[62]. Personaggio poliedrico ed eclettico, ma anche di ampia cultura agronomica e tecnico-scientifica[63], Magnon mostra di sapersi accostare alla Lezione di Leo cogliendone gli aspetti più originali e apprezzandone in particolare il puntuale ricorso ai principi della chimica lavoiseriana per contestare i numerosi pregiudizi sul fenomeno della «sarda intemperie».

La sua formazione nelle scuole militari sabaude e la sua esperienza di ufficiale negli stati di terraferma gli avevano consentito di acquisire una buona conoscenza dei principi delle moderne scienze fisiche e chimiche[64]. Non a caso nella lettera a Leo si presentava con ironia come «un incognito militare», che, per amore delle scienze, abbandonava «le strepitose scuole di Marte» per spingere il suo «curioso sguardo nel santuario delle chimiche nozioni». Aveva avuto l’idea di rivolgersi direttamente all’autore della Lezione sull’onda della vivissima emozione che la sua lettura gli aveva suscitato: «un amico mi comunicò per due giorni soltanto il dotto di lei scritto sull’intemperie; ho dovuto divorarlo e restituirlo con sommo mio rammarico perché perdevo un delizioso letterario trattenimento in questa deserta terra isolata per così dire da ogni commercio coi viventi». L’ufficiale dichiarava inoltre la sua ammirazione per lo slancio che il «profondo» lavoro del professore cagliaritano aveva dato alle «fisiche scienze» nella sua «patria», sicché, se «i fautori dei pregiudizi ed usanze antiche» avessero voluto controbattere alle sue «luminose proposizioni», se non altro sarebbero stati costretti a documentarsi sull’«ammirabile sistema di Lavoisier», di cui fino ad allora non conoscevano «neppure il nome immortale»[65].

Magnon dichiarava di condividere pienamente l’opinione di Leo secondo cui «la malattia così detta d’intemperie» non poteva esser considerata «endemica della Sardegna»; osservava però che, comunque la si volesse definire, essa imperversava indubbiamente in diverse zone dell’isola, sicché occorreva studiarne le cause: era proprio questo lo «scopo del vero patriottismo», a cui Leo avrebbe potuto dedicarsi «con più probabile successo», avendo tutti i requisiti per «un travaglio sì glorioso per il letterato e cotanto utile all’umanità».

Pur condividendo diverse premesse del discorso di Leo, Magnon avanzava comunque una serie di obiezioni che prefiguravano una sostanziale riproposizione, seppure creativamente aggiornata, della tesi classica della trasmissione della malattia attraverso le esalazioni dei miasmi palustri. D’altra parte, alcune osservazioni empiriche e alcuni esperimenti da lui stesso condotti – sosteneva –, lo avevano convinto che l’aria e le esalazioni potevano essere il mezzo di trasmissione dei «principii di putrefazione». Di qui la confermata idea che il contagio avvenisse per via aerea nel contatto atmosferico con sostanze in corruzione: «Non sarebbe […] possibile – si domandava – che dei miasmi pericolosi, delle particelle dei corpi fradici, con l’introdursi nelle fauci per mezzo dell’inspirazione, introducessero con loro nella macchina umana quel lievito di putrida fermentazione, che potrebbe cagionare la febbre autunnale?»[66]. Ma l’antica tesi dell’origine miasmatica della malaria si vestiva, nell’opinione di Magnon, dei panni della modernità, rimodellandosi, alla luce delle teorie fisiche e chimiche di Chaptal, sui fenomeni atmosferici e sui processi di evaporazione legati al ciclo dell’acqua: «L’autorità di quell’immortale chimico – scriveva Magnon – mi ha indotto a pensare che i miasmi del sereno, come quelli che s’alzano con l’azione del sole potrebbero essere una vera cagione e forse la più generale di tante febbri autunnali»[67].

La lettera di Magnon sollevava questioni di notevole rilevanza, che toccavano alcuni dei punti più discussi nel dibattito suscitato nell’isola dalla dissertazione di Leo. Sappiamo che tra gli scritti inediti del professore cagliaritano, che risultavano perduti già a metà dell’Ottocento, figurava, secondo i suoi primi biografi, anche una «difesa» della Lezione fisico-medica «in risposta ad un dotto savoiardo» che ne aveva criticato alcune tesi[68]: si tratta, verosimilmente, dello scritto che il medico cagliaritano aveva composto per rispondere alle garbate ma puntuali critiche di Magnon e con tutta probabilità la fonte della notizia è Lodovico Baille che, amico sia di Leo che di Magnon, era al corrente del prezioso scambio epistolare intercorso tra i due. È certo che Baille, nella sua qualità di segretario della Reale Società Agraria ed Economica di Cagliari, il 2 novembre del 1805, a pochi mesi dalla scomparsa di Leo, scriveva a Magnon, e dopo essersi con lui congratulato per la sua «bellissima dissertazione sulla coltivazione delle patate»[69], gli chiedeva di poter leggere la memoria che lo stesso Leo gli aveva a suo tempo inviato in risposta agli «eccitamenti» da lui rivoltigli nella lettera del marzo 1803. È anche certo che Baille, poche settimane dopo, rispediva l’originale di quella memoria a Magnon, vivamente incoraggiandolo a metter per iscritto le sue ulteriori considerazioni[70]. La memoria con cui Leo rispondeva alle obiezioni di Magnon non ci è pervenuta, né sappiamo se questi abbia dato seguito alle esortazioni di Baille, ma è chiaro che l’interesse suscitato dalle tesi di Leo andava ormai ben al di là della stessa figura del medico cagliaritano, già scomparso da alcuni mesi: l’adunanza del 27 giugno della Reale Società Agraria si era aperta con un breve ricordo del socio deceduto a Parigi e quella dell’8 ottobre aveva provveduto a surrogarlo con Felice Podda Pisano, avvocato dei poveri[71].

D’altra parte non cessavano di giungere notizie delle vivaci reazioni suscitate dall’opera di Leo negli ambienti più tradizionalisti. Con un certo sarcasmo lo stesso Baille comunicava a Magnon che a Cagliari perfino «un fraticello» aveva composto «una dissertazione latina» per controbattere alla Lezione fisico-medica: «procurerò di fargliela leggere», gli prometteva, nella stessa lettera del 23 novembre 1805.

Con particolare insistenza, fin dal 1802, circolò inoltre la notizia che a Sassari il letterato e poeta di origine siciliana Domenico Rossetti lavorava a un’organica memoria o forse a un pamphlet o a un’operetta polemica, per confutare le tesi di Leo. Rossetti stesso, nel corso di un viaggio in Francia, aveva incontrato a Marsiglia, nell’estate di quell’anno, l’esule sardo Matteo Luigi Simon e gli aveva detto che «aveva da stampare la critica del libro di Leo»[72]. Ma lo scritto di Rossetti non fu mai pubblicato, e lo stesso Magnon, che era a conoscenza del preannunciato progetto, ne riferiva con ironia a Leo, ridicolizzandone il dilettantismo scientifico: «Mi era rinvenuto che il signor improvvisatore avvocato Domenico Rossetti avesse progettata una confutazione del precitato di lei scritto, volendo, s’aggiungeva, combatterlo colli stessi principi della nuova chimica; siccome però non ho più sentito che l’avesse data alla luce, mi do a pensare che il medesimo avrà più maturamente riflettuto sull’importanza del cimento […]»[73]. Acutamente l’ufficiale savoiardo attribuiva agli ambienti culturali più tradizionalisti l’ispirazione dell’iniziativa di Rossetti, che «poteva essergli suggerita dai seguaci della tanto venerata antica usanza».

Proprio per il suo carattere innovativo e per il suo patriottismo militante la Lezione di Leo era destinata a ricevere invece un’accoglienza particolarmente calorosa tra gli esuli sardi rifugiatisi nella penisola italiana e nella repubblica francese.

La Lezione di Leo era arrivata in Francia già nella primavera del 1802: «Si bramerebbero molte copie del libro di Leo, buono, ma in stile declamatorio»[74], scriveva da Marsiglia, nel giugno di quell’anno, Matteo Luigi Simon, di ritorno da Parigi, dove aveva potuto incontrare i compatrioti Michele Obino e Giovanni Maria Angioy[75]. La richiesta di Simon era rivolta al fratello Giambattista, residente ad Alghero, che d’intesa con l’autore, di cui era buon amico, avrebbe dovuto provvedere alla spedizione. Non sappiamo se la proposta abbia avuto un seguito, ma la lettera dimostra che il libro era già entrato nel circuito dei patrioti sardi in Francia e che Simon non solo lo aveva letto e apprezzato, ma si era forse convinto che l’opera, sebbene in italiano e sebbene incentrata su un tema così particolare com’era quello della «sarda intemperie», avrebbe potuto avere dei suoi lettori anche in Francia o più in generale fuori dell’isola.

In quel tempo Simon meditava di scrivere un’opera storico-geografica sulla Sardegna per confutare i molti errori e spropositi contenuti nell’Essai sur l’histoire géografique, politique et naturelle du Royaume de Sardaigne, pubblicato a Parigi nel 1799 da Domenico Alberto Azuni. E proprio in quei mesi, tra la primavera e l’estate del 1802, aveva avuto conferma dell’ormai compiuta trasformazione dell’Essai nella nuova e più corposa Histoire géografique, politique et naturelle de Sardaigne, che avrebbe visto la luce di lì a poco. In questo quadro appariva prioritario a Matteo Luigi Simon svelare il disinvolto saccheggio compiuto da Azuni della Storia naturale di Sardegna di Francesco Cetti[76]. Si prefiggeva perciò di dare alle stampe una traduzione francese dell’opera di Cetti, a cui pensava di unire «una più accurata Geografica descrizione» dell’isola, che facesse giustizia dei molti luoghi comuni sulla Sardegna, e smentisse in particolare i frequenti spropositi sulla malaria e sull’insalubrità del clima. È nell’ottica di questo progetto che Simon pensava di poter contare sulla preziosa collaborazione dello stesso Leo, che sulla «sarda intemperie» avrebbe potuto fornirgli il contributo più aggiornato e più autorevole: «siccome in questa descrizione vi sarà confutato l’errore della sarda intemperie – affermava in una lettera indirizzata da Alassio al fratello Giambattista e al letterato algherese Giannandrea Massala –, pregovi caldamente che scriviate al dottor Fois [Pietro Fois, medico a Oristano, anch’egli, come Leo, allievo del professor De Gioanni] e al dottor Leo a distendere un articolo sull’intemperie, che poi voi altri rivedrete, aggiungendovi quei riflessi che stimerete necessari ed avrete la cura di trasmettermi»[77].

L’idea di un’edizione francese del Cetti sfumò ben presto e perse probabilmente di attualità dopo la pubblicazione della nuova opera di Azuni. L’Histoire, infatti, pur conservando agli occhi di Simon tutti i difetti culturali e ideologici dell’Essai, ne emendava gli errori più macroscopici e per alcuni temi aggiornava sensibilmente anche i contenuti. Anzi, proprio sul tema della malaria, Azuni aveva nettamente corretto il tiro. Se nell’Essai si era limitato a segnalare, quasi di sfuggita, che in alcune località dell’isola la presenza di acque stagnanti produceva durante l’estate «un air mal sain»[78], nell’Histoire il problema dell’intemperie e dell’insalubrità del clima sardo era affrontato con riferimenti puntuali ai pregiudizi antichi e alle polemiche che avevano animato la tradizione settecentesca: «Il y a, à la vérité, dans la Sardaigne – osservava Azuni – des endroits où les eaux stagnantes produisent dans les chaleurs de l’été, un air malsain, qui occasionne à ce qui séjournent dans ces parages des fièvres putrides très violentes, connues dans le pays sous le nom de intemperie; mais le reste de l’île jouit de la plus grande salubrité. D’après la première observation, quelques historiens ont jugé le climat de la Sardaigne malsain, sans distinction. Des écrivains modernes prenant ces exagérations pour des faits réels, ont décidé que le pays était inhabitable, sans se douter qu’ils ne faisaient que copier des assertions erronées et sans réfléchir que sur la terre il n’y a pas une seule contrée qui n’ait quelque canton sujet aux même accidents que quelque parties de la Sardaigne. Y aurait-il du bon sens à dire que le climat de la Toscane est malsain, parce qu’on ne peut habiter en été les environs de Grossetto et la Maremma sans être attaqué de la fièvre?»[79].

Certo, le considerazioni dell’Histoire non potevano dar conto delle interessanti novità contenute nella Lezione di Leo, ma il giudizio sulla diffusione della malaria nell’isola non era più così generico e sommario come quello dell’Essai; si era inoltre aggiunta l’aperta contestazione delle tesi sull’insalubrità e sull’inabitabilità della Sardegna, che impediva il perpetuarsi di quegli «errori» ed «equivoci madornali», che i profughi sardi a Parigi avevano a lungo stigmatizzato e che Simon aveva pensato di confutare nella sua progettata «descrizione» geografica della Sardegna. Si capisce, dunque, il vivo interesse che l’opera di Leo aveva subito suscitato presso gli esuli sardi in Francia: finalmente gli errori e i pregiudizi sull’ambiente naturale della Sardegna venivano rintuzzati attraverso coerenti argomentazioni scientifiche capaci di far breccia in un vasto pubblico di lettori grazie alla forza persuasiva dei lumi e delle moderne scienze chimiche e medico-naturalistiche. Sotto questo profilo l’opera di Leo segnava, per gli esuli sardi, una svolta fondamentale, che essi, a contatto con la vivace cultura francese, sembravano percepire ancor più lucidamente che i loro connazionali residenti nell’isola.

Ce ne offrono una testimonianza significativa le lucide riflessioni dedicate al problema della «sarda intemperie» da Matteo Luigi Simon nel suo documentato «Mémoire» sullo stato della Sardegna predisposto per Napoleone nella tarda primavera del 1803. In esso all’«air et intemperie» della Sardegna era riservato uno specifico paragrafo: il letterato sardo, dopo aver messo a fuoco il radicale cambiamento che le moderne interpretazioni scientifiche del fenomeno della malaria avevano determinato nell’immagine della Sardegna, sottolineava, con il pensiero chiaramente rivolto all’opera di Leo, l’importanza del contributo che una nuova leva di medici illuminati aveva iniziato a dare, anche nell’isola, allo smantellamento dei molti preconcetti accumulatisi nel corso del tempo e alla conoscenza di un fenomeno naturale che riguardava non solo l’isola ma la gran parte dei paesi di tutti i continenti: «On sait qu’après les lumières répandues par tout par la chimie, physique, médecine, on commence déjà se désabuser à une erreur qui a causé tant de préjudice à la renommé de cette isle. Ainsi selon l’opinion des modernes savants médecins sardes l’isle de Sardaigne à l’égard de l’air n’a rien plus que tous les autres pays de l’univers, où selon la différente exposition et selon le nombre de marais et de terres incultes, il y a plus au moins d’air malsain et cet fantôme commence déjà à disparaître parmi les habitants même de la Sardaigne»[80].

 

 

5. – Il viaggio a Parigi, le nuove scienze, la nascita del mito ottocentesco

 

Sui motivi che indussero Leo ad abbandonare l’isola e a recarsi a Parigi si sono accumulate, fin dai primi decenni dell’Ottocento, varie congetture che spaziano dalle ipotesi dei dissapori familiari a quelle del dissenso politico, dalle ragioni di salute al desiderio di sviluppare le sue ricerche in un ambiente più evoluto e stimolante[81]. In realtà, se si escludono le ragioni del dissenso politico con l’élite al governo, che non trovano alcun realistico riscontro[82], tutti gli altri motivi appaiono invece plausibili e suffragati da attendibili indizi e testimonianze.

La prima tappa del viaggio di Leo fu Montpellier, dove si trattenne in uno dei centri di ricerca più rinomati d’Europa, l’Università di Chaptal, ancora particolarmente apprezzata per gli studi di Medicina, di Chimica medica e di Storia naturale. Dalle corrispondenze epistolari dei fratelli Simon emergono diversi aspetti inediti dell’ultimo difficile periodo della vita di Leo. Nel 1803 la sua esistenza fu irreversibilmente segnata dal dolore per la perdita di una figlia naturale, come si apprende da una lettera di Gian Francesco Simon, che confessava al fratello Giambattista di essersi «intenerito» per le parole con cui Leo gli aveva parlato del suo profondo dispiacere[83]. In effetti questa morte sembra essere stata la causa prima della profonda depressione che avrebbe accompagnato il medico cagliaritano fino agli ultimi giorni della sua esistenza. Se ne ha un’ulteriore conferma dai pochi cenni con cui Matteo Luigi Simon comunicava da Parigi al padre Bartolomeo che il «bravo dottor Leo» si era da qualche tempo trasferito nella capitale francese «per istruirsi durante qualche mese e per distrarsi dalla melancolia che gli cagionò in Sardegna la morte di sua figlia»[84].

Ma fu proprio l’umore malinconico del medico cagliaritano a rendere quanto mai problematico il rapporto tra Matteo Luigi e Leo, che pure fino ad allora era stato caratterizzato da cordialità e reciproca stima, sebbene coltivate solo a distanza. «Leo è sempre qui – riferiva Simon quasi esasperato – malcontento all’ultimo segno, come dev’esserlo uno del suo umore e carattere nostalgico, non avente conoscenze, non prendente gusto neppure a leggere i giornali. Altro che compenso a me è stata questa sua venuta – si sfogava col fratello – e molto più l’alloggio nel mio stesso albergo! Sono divenuto senza parole stando con lui, con cui stiamo insieme al desinare e un’ora dopo. Egli poi da sei ore di sera si ritira in casa, si corica ed io me ne vado al caffè o al gabinetto, o altrove, e non mi ritiro che alle undici. Di giorno poi se ne va ordinariamente al Giardino delle piante. Ecco il solo profitto che trarrà da Parigi»[85].

Ma, al di là delle incompatibilità dei due caratteri e dello stato di depressione del medico cagliaritano, e al di là, soprattutto, dell’esasperata e forse ingenerosa insofferenza di Matteo Luigi Simon, è evidente che si profilava un radicale conflitto tra due diversi approcci alla vita pubblica e ai rapidi cambiamenti politici e culturali che attraversavano la realtà contemporanea. Non poteva non venire al pettine il controverso nodo della valutazione delle vicende politiche che avevano sconvolto la società sarda nel triennio 1793-96 fino alle più recenti esperienze di governo avviate nell’isola durante l’esilio della casa regnante, e che si erano concretizzate in quel singolare incrocio di feudalesimo aristocratico e dispotismo illuminato che era incarnato dal viceregno di Carlo Felice[86]. Di qui il glaciale scetticismo con cui lo stesso Gian Francesco Simon riferiva del lusinghiero giudizio sul governo sardo espresso da Leo che a Parigi andava raccontando, scriveva, «che in Sardegna si stan facendo buone cose e che i Thiesi [Stefano Manca di Thiesi, marchese di Villahermosa, segretario e primo scudiere di Carlo Felice], i De Quesada [il marchese Raimondo De Quesada, segretario di stato e di guerra presso il viceré] ed il principe viceré ascoltan Baille, il quale non fa che proporre cose nitidamente utili al regno, per la sua felicità e per la sua gloria»[87].

In realtà Gian Francesco, che dei quattro fratelli Simon era quello che meglio aveva conosciuto, anche attraverso il lungo rapporto epistolare, la personalità umbratile del medico cagliaritano, aveva intuito assai precocemente le difficoltà culturali e i problemi esistenziali a cui l’amico sarebbe andato incontro recandosi a Parigi, sia per il suo modo di vivere tutto sommato provinciale, sia per le sue esigue risorse economiche e patrimoniali, sia, infine, per la sua scarsa attitudine mondana. Così nell’estate del 1804, sebbene Leo, ormai giunto a Montpellier, avesse da più di un mese preannunciato la sua partenza per Parigi, Gian Francesco Simon da Firenze continuava a dubitare che l’amico vi sarebbe effettivamente andato: «Non so […] se avrà denari per quel viaggio e per quella permanenza; tanto più che non si può godere quel paese – considerava il cosmopolita abate algherese – senza avere de’ mezzi grandi e delle grandi protezioni e sublimità di sapere»[88].

Ma il peso delle difficoltà che Leo avrebbe incontrato nel suo soggiorno parigino sarebbe andato ben al di là dei lucidi presentimenti dell’amico: e si comprende, dunque, la rassegnata amarezza del Simon nel riferire i durissimi giudizi che iniziarono a pervenirgli da Parigi sulla personalità e sulla singolare abulia del medico cagliaritano: «Leo è in Parigi, ma ha, secondo mi scrive Matteo, tutti i difetti di sardo e di villano e […] ne ritornerà tal qual uscì, schizzinoso, diffidente, poco colto, avendo speso molto e senza frutto»[89].

Si resta effettivamente colpiti dall’immagine della prostrazione psicologica e dal disorientamento culturale che emergono dalla rappresentazione che di quel suo soggiorno parigino ci viene restituita da Matteo Luigi Simon[90]: la sua caustica critica andava al di là di un’insofferenza epidermica e sottolineava in realtà la profonda distanza che ormai separava quel mondo provinciale sardo, a cui Leo per alcuni versi continuava ad appartenere, dalla rutilante modernità della vita pubblica, dalla vivacità del dibattito culturale e dallo straordinario progresso delle tecniche e delle scienze che caratterizzavano invece la capitale dell’Europa napoleonica. Di qui l’imbarazzo con cui Matteo Luigi informava il fratello Giambattista dell’imprevedibile freddezza in cui era precipitato il suo rapporto con Leo: «non oso dirvi nulla di lui, perché né so né posso avere lo stesso umor suo, avendo diversa educazione, lumi, umore, abitudini ecc. Pure ci parliamo, e come sta nel mio alloggio mangiamo insieme. Di poco compenso mi fu la di lui venuta»[91].

Ma forse, per tentare di comprendere il disorientamento di Leo risulta preziosa la testimonianza di Matteo Luigi Simon sul travaglio intellettuale che lo aveva portato a prendere coscienza del provincialismo e del carattere antiquato della cultura di cui si era nutrita la sua generazione. Già nell’estate del 1801, durante il suo difficile soggiorno nella Repubblica ligure, aveva iniziato a maturare un giudizio amaramente critico sui limiti della formazione culturale ricevuta negli anni degli studi giovanili e sui rapidi cambiamenti degli orizzonti scientifici che rendevano superate e obsolete le competenze acquisite, di cui tanto andavano orgogliosi tutti i componenti della sua famiglia, dal padre Bartolomeo ai suoi tre fratelli, Domenico, Gian Francesco e Giambattista. «Dobbiam con confusione confessare – scriveva da Genova al fratello Giambattista ad Alghero – che di solido non si sa nulla […]; che né si è fatto, né potea, né potrà mai farsi nulla di sostanziale mancando i principi; che nel mondo odierno letterario significa nulla il saper fare qualche sonetto, il saper amplificare una cosa, il saper raccogliere cose altrui, il fare insomma il ciabattino letterario. Ma di noi chi saprà se non superficialmente parlare di Teologia, di Giurisprudenza, di Fisica, di Matematica, Storia Naturale, Chimica, Botanica, Agricoltura, Metafisica, Morale, Politica, Storia, Diritto Pubblico, Economia Politica?»[92].

L’idea che ormai le nuove scienze e la vitalità economica e politica della Francia del consolato e dell’impero rappresentassero la nuova frontiera che avrebbe permesso di far progredire gli studi e le conoscenze anche sulla storia naturale della Sardegna si era da tempo saldamente radicata nella coscienza di Matteo Luigi Simon, e fu probabilmente all’origine delle motivazioni che lo avevano spinto a incoraggiare Leo a recarsi a Parigi. La crisi dei saperi settecenteschi gli era apparsa ancor più dirompente e incalzante, dopo l’esperienza ligure, durante il suo secondo soggiorno a Parigi, quando, nella primavera del 1803, pensava di riallacciare qualche contatto con alcuni esponenti di punta del mondo accademico e letterario sardo, con i quali nel passato aveva condiviso amicizie e scambi culturali e dai quali aveva finito per ritrovarsi lontano, travolto dalla «crisi politica» che aveva avvelenato la vita pubblica del Regno.

Così all’amico di un tempo, l’autorevole letterato Lodovico Baille, che ora faceva parte dell’élite colta vicina agli ambienti governativi e di corte, aveva chiesto se il suo soggiorno nella Francia napoleonica avrebbe potuto procurargli qualche inconveniente, qualora nel futuro si fosse riaperta la possibilità di ritornare in Sardegna: «Avrei qui potuto far molto pel bene della nazione e delle lettere, se i Promotori me ne avessero data l’occasione – scriveva da Parigi, alludendo alle autorità di governo dell’isola e ai fautori delle nuove iniziative culturali –. Quanti acquisti di monumenti sulla Storia naturale, libri per la Biblioteca dell’università ecc. Ma per fatal caso la nostra Sardegna non ha mai saputo conoscere i momenti preziosi da prevalersi de’ suoi più affezionati figli. La Storia naturale fa molti progressi – asseriva lucidamente l’esule sardo –, è oggi la scienza più propagata, e vi sono uomini insigni. Io mi ci sono applicato per divertimento, al fine di sollevarmi dai pensieri più affannosi»[93].

Come si può dunque capire, il risentimento verso Leo era anche il riflesso del profondo travaglio personale che l’ex magistrato sardo aveva maturato durante l’esperienza dell’esilio e che lo aveva portato a prendere coscienza, anche attraverso una sofferta autocritica, del provincialismo e dei limiti culturali che caratterizzavano la formazione delle élite intellettuali e dei gruppi dirigenti sardi. Erano gli stessi limiti che gli pareva di vedere rispecchiati nella personalità di Leo, e che impedivano ai letterati sardi di rendersi conto dei danni che derivavano al Regno dall’isolamento diplomatico, politico e culturale a cui lo avevano ridotto non solo i calcoli dinastici della corte sabauda, ma anche la miopia politica di quei gruppi dirigenti isolani che per timore delle riforme politiche e sociali tenevano forzatamente avulso il Regno dai processi d’«incivilimento» e di modernizzazione tecnica e scientifica che investivano l’Europa napoleonica[94].

All’origine di tutto c’era per Simon, ancora una volta, un problema di natura culturale: lo spiazzamento di una formazione intellettuale datata e provinciale, come gli appariva anche la sua, e l’incapacità dei letterati sardi d’impadronirsi dei nuovi saperi necessari per partecipare ai vasti processi d’integrazione e modernizzazione che caratterizzavano lo scenario politico europeo. «In qualunque cambiamento che possa succedere […] – considerava rassegnato –, sempre andremo da un chaos all’altro, massime noi che siamo adulti e che abbiam fatti studi da pedanti, e non sappiam ciò che oggi è necessario […]. Neppure il francese lo sappiam con franchezza e con buon accento. In questo cambiamento di cose – concludeva – vi han guadagnato i Piemontesi perché vengon qua [a Parigi] e ritornano, brigano, hanno mezzi, lumi, buona lingua e tournure française». E perfino i Corsi, a differenza dei Sardi, riuscivano a farsi valere: «oggi anch’essi – osservava – coltivan le scienze, non sono pedanti; hanno accento naturale francese»[95].

Si sbaglierebbe, però, a voler misurare la complessa esperienza intellettuale di Leo sull’infelice soggiorno parigino e sull’impietosa testimonianza del compatriota Simon[96]. È chiaro, invece, che quando giunse a Parigi Leo era già un uomo malato e stanco, uno studioso che non aveva più le energie per affrontare la sfida culturale che nondimeno aveva coerentemente ricercato. Eppure, nel corso della sua vita, aveva ampiamente dimostrato di sapersi emancipare dalla provincia e di saper mettere proficuamente a frutto le esperienze maturate in ambienti scientifici e accademici più dinamici.

A buon diritto, dunque, Leo restava, per i suoi connazionali, il protagonista della riforma della medicina sarda. Anzi, per molti aspetti, proprio la sua precoce scomparsa nella lontana Parigi contribuì ad enfatizzare un’immagine che ben presto si radicò non solo tra i suoi estimatori ma anche tra coloro che apertamente avevano avversato le sue teorie più polemiche e problematiche. Il fatto è che nella «repubblica delle sarde lettere» la figura dello scienziato cagliaritano era percepita, dopo generazioni di studiosi sardi che si distinguevano quasi esclusivamente nel settore umanistico, come il primo frutto del rinnovamento degli studi nel campo delle scienze e il segno evidente dell’emergere di una nuova generazione di studiosi. E il fatto che egli incarnasse l’idea del ricercatore illuminato e dello scienziato patriota fece sì che la sua scomparsa venisse ben presto rielaborata come perdita della «sarda nazione».

Così, pur prendendo apertamente le distanze dalle tesi della Lezione fisico-medica, il padre scolopio Tommaso Napoli, letterato e geografo, ancora a quasi dieci anni dalla scomparsa di Leo, lo ricordava in modo lusinghiero, lamentando la perdita che la sua morte aveva rappresentato per la Sardegna: «giovine veramente di gran spirito e talento, e che dava le più grandi speranze di divenire col tempo uno dei più celebri medici non che di Sardegna, ma forse anche dell’Europa, statoci fatalmente rapito pochi anni sono da morte immatura in Parigi, portatosi quivi per migliorarsi nella sua vacillante sanità, e perfezionarsi vieppiù nell’arte medica»[97]. Non meraviglia dunque che di lì poco anche la documentata e penetrante Histoire de la Sardaigne di Jean François Mimaut, console francese a Cagliari, riflettesse la lusinghiera immagine che si stava ormai radicando nella coscienza dei sardi: «Il est vrai que cette île, avant l’établissement des ses deux universités, qui a été pour elle une sorte de régénération morale, avait fourni un bien petit nombre d’hommes distingués dans ces diverses parties des connaissances humaines; mais depuis cette époque – osservava il colto diplomatico – on a compté un assez grand nombre pour assigner maintenant aux sardes une place parmi les nations instruits et civilisées […]. La science médicale a aussi trouvé des auteurs sardes. Outre Farina et Aquenza, qui ont écrit sur l’intemperie, un docteur plus moderne, don Antonio Leo, a publié sur cette matière une savante dissertation […]»[98]. E nel 1827 Stanislao Caboni, nel recensire il primo fascicolo della «Flora generale» della Sardegna a cui lavorava il piemontese Giuseppe Giacinto Moris, professore di Clinica medica nell’Università di Cagliari, dopo aver sottolineato che quasi tutte le isole mediterranee potevano vantare valide descrizioni scientifiche del loro patrimonio botanico, osservava che «a compiere la storia delle piante dell’intiero cratere del Mediterraneo non rimaneva quasi che la sola Sardegna, poco finora curata dagli stranieri, né dai suoi figli abbastanza rischiarata, sia perché l’emulazione languiva […], sia perché dei loro lumi poco poté giovarsi la patria, ora per lontananza ora per morte»: e il primo esempio era proprio quello di Leo, che «ben addentro avea penetrato i segreti della Chimica e della Botanica», ma era scomparso «nel fiore dell’età sua in Parigi»[99].

È peraltro singolare che il mito del medico naturalista e moderno riformatore della medicina sarda continuasse a perpetuarsi[100], mentre la sua Lezione, che non poteva dare per quell’epoca nessuna attendibile spiegazione scientifica delle febbri malariche, finiva per entrare nel cono d’ombra provocato dal rapido e contraddittorio alternarsi di nuove ipotesi e vecchie teorie[101]. Sarà però soprattutto negli anni venti e trenta dell’Ottocento che la saldatura tra i meriti scientifici di Leo e le sue benemerenze verso la patria inizierà a trovare coerente espressione nel nuovo contesto dell’età feliciana e carloalbertina profondamente segnato dalla riscoperta degli ideali del «Rifiorimento» e dalla reinvenzione del mito della «sarda nazione». Ne sono un’anticipazione, e insieme un’efficace testimonianza le parole conclusive dell’elogio recitato, nell’anno accademico 1827-28, da Giovanni Zucca, professore d’Istituzioni mediche nell’Università di Cagliari, che per primo ne aveva raccolto le notizie biografiche: «La patria gli è debitrice del massimo tra i benefizii, d’aver ricondotto ai suoi principii ed indirizzato all’altissimo suo fine la scienza della salute. Ma quanti altri non potea sperarne da un Genio così straordinario se non fosse mancato fra le comuni lagrime prematuramente ai viventi?»[102].



 

* Articolo destinato all’opera Tra Diritto e Storia. Studi in onore di Luigi Berlinguer promossi dalle Università di Siena e di Sassari, tomo II, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2008, 753-810.

 

[1] La lettera di Obino, datata Parigi, 13 maggio 1805 e indirizzata alla «signora Antonica Leo nata Brundu», edita da R. Di Tucci, in «Il giornale d’Italia», ediz. sarda, 3 agosto 1926, è stata ripubblicata da F. Cherchi Paba, Don Michele Obino e i moti antifeudali lussurgesi (1796-1803), Fossataro, Cagliari 1969, da cui sono tratte le citazioni, 234-35. Altre tre lettere scritte da Obino tra il 1803 e il 1805 e inviate da Parigi al profugo corso Giuseppe Peretti residente ad Alghero sono state pubblicate da A. Boi, Napoleone e lo sbarco in Inghilterra, in «Studi sassaresi», serie II, XIX-2, 1942, 33-53. Una lettera di Obino all’avvocato Pietro Leo, figlio di Pietro Antonio Leo, spedita da Parigi nel 1837, è stata inoltre pubblicata da P. Leo, Su Michele Obino, in «Studi sassaresi», serie II, XIX-3-4, 1941, 147-48. Per un efficace profilo biografico di Obino, ex professore di Decretali nell’Università di Sassari, accusato di essere tra i capi della sollevazione antifeudale del Logudoro, sospeso dalla cattedra universitaria nel 1796 e definitivamente destituito nel 1799, cfr. V. Del Piano, Giacobini moderati e reazionari in Sardegna. Saggio di un dizionario biografico 1793-1812, Edizioni Castello, Cagliari 1996, 347-49.

 

[2] Per un primo inquadramento della figura e dell’opera di Leo cfr. P. Sanna, Leo, Pietro Antonio, in Dizionario biografico degli italiani, LXIV, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 2005, ad vocem. Il suo importante lavoro sulla malaria è ora disponibile in un’accurata edizione critica arricchita da diversi contributi sulla sua vita e sulla sua attività sanitaria: cfr. Pietro Antonio Leo. Di alcuni antichi pregiudizii sulla così detta sarda intemperie e sulla malattia conosciuta con questo nome, G. Marci (a cura di), presentazione di A. Riva e G. Dodero, profilo biografico di P. Leo Porcu, Centro di Studi Filologici Sardi/Cuec, Cagliari 2005.

 

[3] L’archetipo delle biografie ottocentesche è costituito dalle preziose, seppur frammentarie Notizie biografiche del professore Pietro Leo pubblicate dal «Giornale di Cagliari», sett. 1827, e tratte dal coevo elogio De laudibus Petri Leonis medicinae antecessoris offerto da Giovanni Zucca, docente d’Istituzioni mediche nell’Università di Cagliari, per l’inaugurazione dei corsi dell’anno 1827-28. L’essenziale scheda biografica del «Giornale di Cagliari» fu poi ripubblicata, con alcune significative integrazioni, in S. Caboni, Saggi diversi letterari e scientifici. Ritratti poetico-storici d’illustri sardi moderni, Paucheville, Cagliari 1833, 45-50. Un rapido ricordo di Leo è inoltre in L. Baille, Discorso pronunziato nella solenne pubblica adunanza della Reale Società Agraria ed Economica di Cagliari, Stamperia arciv. G. Bonaudo, Genova 1821, III, VIII. Le testimonianze raggranellate da Zucca furono poi la fonte principale degli organici medaglioni composti da P. Tola, Dizionario biografico degli uomini illustri di Sardegna, II, Chirio e Mina, Torino 1838 (ora anche a cura di M. Brigaglia, Ilisso, Nuoro 2001), 181-84, e da P. Martini, Biografia sarda, II, Reale stamperia, Cagliari 1838, 223-34. Sono di poco successive le interessanti riflessioni critiche sulla personalità e sull’opera di Leo proposte da G. Siotto Pintor, Storia letteraria di Sardegna, 4 voll., I, Timon, Cagliari 1843, 311-20, 325-32, 350-51.

 

[4] Lettera al fratello Giambattista, Firenze 2 giugno 1805, in Archivio Simon Guillot, Alghero (d’ora in poi ASGA), Lettere di Gian Francesco. Sui fratelli Simon e sull’intreccio delle loro vicende biografiche con le trasformazioni culturali e politiche della Sardegna tra Sette e Ottocento cfr. A. Mattone, P. Sanna, I Simon: una famiglia di intellettuali tra riformismo e restaurazione, in All’ombra dell’aquila imperiale. Trasformazioni e continuità istituzionali nei territori sabaudi in età napoleonica (1802-1814), Atti del convegno, Torino 15-18 ottobre 1990, II, Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, Roma 1994, 761-863.

Desidero rivolgere un pensiero riconoscente alla memoria del compianto dott. Matteo Guillot, che mi ha guidato e pazientemente assistito nella consultazione delle preziose carte dei suoi illustri antenati, di cui è stato, per tutta la sua vita, conservatore sensibile e scrupoloso.

 

[5] Lettera al fratello Giambattista, Firenze 25 settembre 1805, in ASGA, Lettere di Gian Francesco. Le persecuzioni politiche che Fontana subì per la sua adesione alla causa repubblicana durante l’occupazione francese del 1799 contribuirono a rinsaldare il suo sodalizio con l’esule sardo: per un profilo dello studioso toscano, impostosi all’attenzione degli scienziati italiani ed europei per le sue interessanti ricerche sui fluidi aeriformi e sulla composizione e salubrità delle arie, cfr. R.G. Mazzolini, Fontana Gasparo Ferdinando Felice, in Dizionario biografico degli italiani, XLVIII (1997), 663-69, e J.G. Mc Evoy, La pneumatica, in Storia della scienza, VI. L’età dei Lumi, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 2002, 113-21.

 

[6] Cfr. Di alcuni antichi pregiudizii sulla così detta sarda intemperie e sulla malattia conosciuta con questo nome. Lezione fisico-medica del dottore Pietro Antonio Leo, pubblico professore di medicina nella Regia università di Cagliari, Reale stamperia, Cagliari 1801, ora disponibile nell’edizione sopra richiamata (Centro di Studi Filologici Sardi/Cuec, Cagliari 2005), che di seguito si utilizza. Dai torchi della stampa l’opera di Leo uscì, probabilmente, alla fine del 1801: risale infatti al mese di settembre, secondo una coeva annotazione di Matteo Luigi Simon, il «manifesto» fatto circolare dal proto della stamperia cagliaritana, Giacomo Paucheville, «per trovare associati alla stampa d’una lezione fisico-medica del dottore Pietro Antonio Leo». La notizia si ricava da un libriccino di appunti su libri, documenti e pubblicazioni di autori sardi via via raccolti fino al 1803 dall’ex magistrato sardo allora in esilio tra la Liguria e la Francia: cfr. ASGA, n. 938, libretto n. 2. «Ebbi da Leo l’avviso ai Filantropi [...] – scriveva da Alghero negli stessi giorni Gian Francesco Simon a Baille –. Se codesto professore ha vita sarà l’uomo più illustre della Sardegna nelle scienze esatte». E altrettanto entusiastico e deciso era il giudizio confidato a Baille un anno prima. «Codesto professore è il Genio della Sarda medicina e il flagello della medica impostura», dichiarava Gian Francesco: cfr. Biblioteca Universitaria di Cagliari (d’ora in poi BUC), Fondo Baille, S.P. 6 bis 1.6, Lettera di Gian Francesco Simon, Alghero, rispettivamente 28 settembre 1801 e 9 novembre 1800.

 

[7] Sulla malaria come costante storica che ha pesantemente condizionato la vita e la civiltà dei Sardi cfr. le suggestive riflessioni di M. Le Lannou, Pâtres et paysans de la Sardaigne, Arrault, Tours 1941, trad. it. e present. di M. Brigaglia, Pastori e contadini di Sardegna, Della Torre, Cagliari 1979. Per l’età moderna e contemporanea cfr. l’efficace quadro tracciato da A. Mattone, Le origini della questione sarda. Le strutture, le permanenze, le eredità, in Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità ad oggi. La Sardegna, L. Berlinguer e A. Mattone (a cura di), Einaudi, Torino 1998, 23-35 passim, e il pionieristico contributo di M. Brigaglia, L’eradicazione della malaria, in La Sardegna. Enciclopedia, M. Brigaglia (a cura di), con la collaborazione di A. Mattone e G. Melis, 3, Della Torre, Cagliari 1988, 53-57. Cfr. inoltre G. Tore, Malaria, territorio e popolazione, in Sanità e società. Sicilia e Sardegna. Secoli XVI-XX, C. Valenti e G. Tore (a cura di), Casamassima, Udine 1988, 306-17; F. MANCONI, La Sardegna d’Antico Regime: una terra pestilente?, in Sardegna, Mediterraneo e Atlantico tra Medioevo ed Età moderna. Studi storici in memoria di Alberto Boscolo, L. D’Arienzo (a cura di), I, Bulzoni, Roma 1993, 451-75; E. Tognotti, La malaria in Sardegna. Per una storia del paludismo nel Mezzogiorno (1880-1950), Angeli, Milano 1996, ora anche nella nuova edizione riveduta ed ampliata, Per una storia della malaria in Italia. Il caso della Sardegna, Angeli, Milano 2008, e Eadem, Il contributo del mondo medico-scientifico sassarese agli studi e alle ricerche sulla malaria (secc. XII-XIX), in «Sacer», n. 4, 1997, 43-57. Più in generale, sull’epopea novecentesca della malariologia italiana, cfr. F.M. Snowden, The conquest of malaria: Italy, 1900-1962, Yale University Press, London 2006, ora anche nella trad. it., La conquista della malaria: una modernizzazione italiana, 1900-1962, Einaudi, Torino 2008.

 

[8] «Ma è mai possibile – osservava Leo – che in tempi così illuminati, dietro a tante luminose scoperte nella Fisica, dopo una successiva catena di verità che anche ai più ostinati e caparbi han fatto conoscere gl’infiniti assurdi adottati dagli antichi come assiomi inconcussi […], che non siansi per anco spezzate del tutto quelle servili catene che tanto avviliscono la natura umana e tanto ritardarono mai sempre il progresso de’ lumi e delle scienze! Io non niego – aggiungeva – che anche fra gli antichi sianvi stati moltissimi d’un merito singolare e che debitori noi siamo a costoro di mille verità in medicina; ma bisogna pur confessare che mille errori sono stati dai medesimi abbracciati e difesi, attesa la scarsezza ed erroneità delle fisiche cognizioni di quei tempi» (Pietro Antonio Leo. Di alcuni antichi, cit., 52-53).

 

[9] L’incarico di «medico delle carceri della città di Cagliari» gli fu conferito nell’autunno del 1802, dopo la scomparsa del predecessore Giovanni Antonio Oppo: cfr. le patenti regie, Roma 21 novembre 1802, in Archivio di Stato di Cagliari (d’ora in poi ASC), Intendenza generale, vol. 54, c. 32. Sull’istituzione del «medico dei poveri» cfr. ASC, Regia segreteria di Stato e di Guerra, 2ª serie, vol. 114, Regolamento e nomina di Leo rispettivamente 17 agosto e 20 settembre 1802. Cfr. inoltre M. Argiolas, Medici e speziali in Sardegna nella prima metà del XIX secolo, in «Bollettino bibliografico e rassegna archivistica di studi storici della Sardegna», XII-2, 1995, 79-80.

 

[10] Cfr. ASC, Regia segreteria di Stato e di Guerra, 2ª serie, vol. 800, Cagliari 3 settembre 1801. Nel richiedere di poter «tentare su qualche esposito il nuovo metodo di preservare dal vajuolo confluente per mezzo della vaccinatura», il medico cagliaritano sottolineava la rilevanza della «scoperta recente delli Inglesi, colà felicemente tentata e già eseguita con prospero successo sopra 30 mila e più individui». La sua richiesta, indirizzata al ministro de Quesada, puntava a ottenere, inoltre, una speciale protezione del governo per superare, da un lato, «alcuni pregiudizi nazionali che si oppongono a questi tentativi» e dall’altro le resistenze che si aspettava «per parte delle balie istesse, cui lo Spedale affida gli esposti».

 

[11] Sulla rapida diffusione della metodica jenneriana in Italia cfr. gli studi ormai classici di L. Belloni, Luigi Sacco e la diffusione del vaccino in Italia, in «Annales cisalpines d’histoire sociale», IV, 1973, 39-48; B. Fadda, L’innesto del vaiolo. Un dibattito scientifico e culturale nell’Italia del Settecento, Angeli, Milano 1983; U. Tucci, Il vaiolo tra epidemia e prevenzione, in Storia d’Italia. Annali 7. Malattia e Medicina, Einaudi, Torino 1984, 391-428. Cfr. inoltre l’ampia panoramica di B.M. Assael, Il favoloso innesto. Storia sociale della vaccinazione, Laterza, Roma-Bari 1995, 36-45 e gli studi sui circuiti di comunicazione europea di Y.M. Bercé, Le chaudron et la lancette. Croyances populaires et médecine préventive 1798-1830, Presses de la Renaissance, Paris 1984; P. Darmon, La longue traque de la variole. Les pionniers de la médecine préventive, Librairie Perrin, Paris 1986; e L’aventure de la vaccination, sous la direction de A.-M. Moulin, Fayard, Paris 1996. Per il caso di Napoli cfr. P. Pierri, Le vaccinazioni antivaiolose nel Regno delle due Sicilie, in «Archivio storico per le province napoletane», CVI, 1988, 409-418 e C. Tisci, La vaccinazione vaiolosa nel Regno di Napoli (1801-1809): il ruolo del clero, in «Medicina e storia», III-5, 2003, 89-107; per il Piemonte e per la Lombardia cfr. inoltre B. Maffiodo, I borghesi taumaturghi. Medici, cultura scientifica e società in Piemonte fra crisi dell’antico regime ed età napoleonica, Olschki, Firenze 1996, 287-304; D. Carpanetto, Buniva riformatore della medicina e delle professioni sanitarie in età francese, in Michele Buniva introduttore della vaccinazione in Piemonte. Scienza e sanità tra rivoluzione e restaurazione, Atti del convegno di studi, Pinerolo 14 ottobre 2000, Università degli studi, Torino 2002, 27-71, e G. Cosmacini, Il medico giacobino. La vita e i tempi di Giovanni Rasori, Laterza, Roma-Bari 2002, 123-26.

 

[12] Del progetto si perse ogni traccia nell’arco di pochi anni: cfr. S. PERRA, Sullo stato della vaccina in Sardegna, Reale stamperia, Cagliari 1808, che riferisce dei numerosi tentativi falliti di ottenere il pus vaccino da Livorno, Genova, Firenze e Marsiglia. A parte l’isolata esperienza del medico di corte Giuseppe Audiberti, che nel 1806 riuscì a procurarsi dalla Toscana la linfa per vaccinare le figlie, un’azione sistematica prese forma soltanto nel 1808: cfr. V. ATZENI, Ricerche e documenti sulle vicende della profilassi antivaiolosa in Sardegna, Tip. Assistenziario, Cagliari 1951; G. TORE, Dalle epidemie alle vaccinazioni di massa, in Sanità e società, cit., 286-296, e E. TOGNOTTI, Il vaiolo in Sardegna tra prevenzione e ventate epidemiche nei secoli XVIII e XIX, in Il vaiolo e la vaccinazione in Italia, atti del Convegno di studi, A. Tagarelli, A. Piro, W. Pasini (a cura di), Consiglio Nazionale delle Ricerche, Roma 2004, III, 925-44. Sul contributo di Leo cfr. inoltre G. SORGIA, Fautore del progresso, in «Sardegna fieristica», aprile-maggio 1991; G. DODERO, Storia della medicina e della sanità pubblica in Sardegna: medici, malati, medicine attraverso i secoli, Aipsa, Cagliari 1999, 312-13 e E. FANNI, Sebastiano Perra (Sinnai 1772 - Cagliari 1826). Un medico ippocratico nell’Ottocento cagliaritano. Contributo alla conoscenza della storia della medicina in Sardegna, Aipsa, Cagliari 2002, 86-95 e 129-30.

 

[13] ASC, Regia segreteria di Stato e di Guerra, 2ª serie, vol. 800, Parere espresso dal Collegio di Medicina dell’Università di Cagliari, Cagliari 28 settembre 1801. Il testo del parere è ora in G. Sorgia, Lo Studio generale cagliaritano. Storia di una Università, Università degli studi di Cagliari, Cagliari 1986, 158.

 

[14] Sull’aerismo e sull’originale rilancio della tradizione ippocratica che fu alla base della nuova topografia medica settecentesca cfr. R. Rey, Anamorphose d’Hippocrate au XVIIIe siècle, in Maladie et maladies. Histoire et conceptualisation, Mélanges en l’honneur de Mirko Grmek, D. Gourevitch (a cura di), Librairie Droz, Genève 1992, 257-76 e gli interessanti contributi di G. Legée, D. Grmek, Th. Vetter e A. Bouchet, in Hippocrate et son héritage, Colloque franco-hellénique d’histoire de la médecine, Lyon 9-12 octobre 1985, Fondation Marcel Mérieux, Lyon 1986, 91-105 e 131-147. Sulla lunga durata della riscoperta ippocratica settecentesca cfr. inoltre L’invention scientifique de la Méditerranée. Égypte, Morée, Algérie, M.-N. Bourguet, B. Lepetit, D. Nordman, M. Sinarellis (a cura di), EHESS, Paris 1998 e il penetrante contributo di D. Nordman, Médecine et hygiène en Méditerranée au XVIIIe et au XIXe siècle: de la Provence à l’Algérie, in Il Mediterraneo nel Settecento. Identità e scambi, Atti del Convegno internazionale di studi, Alghero 19-21 maggio 2005, Ed. di Storia e Letteratura, Roma, in corso di stampa.

 

[15] Vale la pena richiamare un passo della Lezione di Leo per cogliere l’influsso che il suo pensiero esercitò sul parere del Collegio: «E chi di fatti oserà oggigiorno – affermava Leo – porre in dubbio che siano costantemente sanissimi i due terzi e più della Sardegna, ove mancano affatto paludi, bassi fondi, e pantani? […] Che se per soli quei luoghi veramente sospetti, e che a ben pochi debbonsi ridurre, si ha dritto di chiamare malsana l’Isola intiera […], io non vedo perché questa medesima imputazione non s’abbi pure a dare a tutto quasi il mondo abitato. La Toscana, il Regno di Napoli, la Romagna, la Lombardia, molte province della Spagna, il Brabante e Fiandra olandese, la Zelanda, tutti i Paesi Bassi ed altri molti abbondano pure di paludi, d’acque morte e putrefatte […]. Se dunque a lor non compete la naturale insalubrità de’ loro climi, perché la sola Sardegna riterrà il nome antonomastico di malsana e sarà dall’estere nazioni mostrata a dito per la sola pestilente contrada delle isole italiane?» (Pietro Antonio Leo. Di alcuni antichi, cit., 10).

 

[16] Sull’accademia cagliaritana, istituita da Vittorio Emanuele I il 14 luglio 1804, e sul suo ruolo nella Sardegna del primo Ottocento cfr. M.L. Di Felice, La Società Agraria ed Economica di Cagliari: la scienza economica nei dibattiti accademici, in Gli archivi per la storia della scienza e della tecnica, Atti del Convegno internazionale, Desenzano del Garda, 4-8-giugno 1991, II, Ministero dei Beni Culturali e Ambientali, Ufficio Centrale per i Beni Archivistici, Roma 1995, 947-1017. Cfr., inoltre, L. Sannia Nowé, Dai «lumi» alla patria italiana. Cultura letteraria sarda, Mucchi, Modena 1996, 92-97 e Memorie della Reale società agraria ed economica di Cagliari, P. Maurandi (a cura di), Carocci, Roma 2001.

 

[17] Biblioteca della Camera di Commercio Industria e Agricoltura di Cagliari (d’ora in poi BCCIA), Atti della Reale Società Agraria ed Economica di Cagliari, Registro n. 9, Lettere 1804-1835, Lettera del segretario Lodovico Baille al professor Leo a Parigi, Cagliari 6 febbraio 1805. «Tutti i soci – concludeva Baille – affrettano coi più sinceri voti il di lei ritorno, ed io fra tutti lo desidero […]». Il nome di Leo «professore di Medicina, membro di varie accademie», apriva l’elenco dei dodici soci ordinari approvati nella seduta del 31 gennaio 1805, cfr. Registro della memorie accademiche, vol. 10-1 (1804-1816), c. 3. Certo, se si considera che la cooptazione di Leo in quell’esclusivo sodalizio accademico rigorosamente controllato dal viceré Carlo Felice fu deliberata mentre egli era a Parigi, e che perfino la comunicazione ufficiale gli veniva indirizzata al suo domicilio nella capitale francese, non può che apparire inattendibile l’ipotesi che nell’estate del 1804 lo stesso Leo avesse clandestinamente abbandonato l’isola, all’insaputa delle autorità sabaude o addirittura in contrasto con gli ambienti viceregi, e che avesse calcolatamente scelto di arrivare in Francia passando per la Spagna «per sottrarre all’indagine della polizia sabauda i motivi del suo viaggio che probabilmente non gli avrebbe consentito se avesse dichiarato la giusta meta» (F. Cherchi Paba, Don Michele Obino, cit., 234).

 

[18] R. Valle, I tonni, Stamperia reale, Cagliari 1802, 44. Il poemetto era stato composto e recitato dall’autore in occasione della sua aggregazione al Collegio di Belle arti dell’Università di Cagliari il 12 febbraio 1800, ed era stato pubblicato nello stesso anno, presso la Stamperia reale, preceduto da un’ampollosa dedica a Carlo Felice, allora viceré di Sardegna. La seconda edizione apparve due anni dopo, integrata da un consistente apparato di note erudite (43-94), nelle quali l’autore poté tempestivamente inserire il puntuale riferimento ai «pregiudizi abbattuti sulla sarda intemperie» e al recente «parto» scientifico del giovane professore dell’Università di Cagliari. Sulla figura e sulla produzione letteraria di Valle, ecclesiastico addetto alla curia episcopale e poi canonico della cattedrale di Cagliari, amico del latinista Francesco Carboni e traduttore del suo poema I coralli, cfr. ad vocem, P. Tola, Dizionario, cit., e L. Sannia Nowé, Dai «lumi» alla patria italiana, cit., 78-79 e 105-109.

 

[19] G.A. Massala, Dissertazione sul progresso delle scienze e della letteratura in Sardegna dal ristabilimento delle due Regie Università, Antonio Azzati, Sassari 1803, 27. La Dissertazione era stata composta e recitata dal giovane Massala di fronte alle autorità accademiche in occasione dell’aggregazione al Collegio di Filosofia ed arti dell’Università di Sassari. Sulla figura e sull’opera di Massala cfr. P. Tola, Dizionario, cit., II, 240-45; S. Scandellari, P. Cuccuru, Un illuminista sardo tra il XVIII e il XIX secolo. Gian Andrea Massala, in «Archivio storico sardo di Sassari», n. 3, 1977, 213-35; V. Del Piano, Giacobini moderati reazionari, cit., 287-88; A. Accardo, Cronache della Restaurazione in Sardegna in un manoscritto del primo Ottocento, in Giovanni Andrea Massala. Giornale di Sardegna, prefazione di Aldo Accardo, Poliedro, Nuoro 2001, 11-33. Al nesso tra i progressi degli studi in Sardegna e le riforme universitarie volute dal Bogino, il giovane letterato algherese, amico dei Simon, avrebbe più tardi dedicato il sonetto sul «Ristabilimento delle Regie Università in Sardegna» pubblicato nella sua raccolta poetica, Sonetti storici sulla Sardegna, Reale stamperia, Cagliari 1808, 45. Sul tema cfr. A. Mattone, P. Sanna, La «rivoluzione delle idee»: la riforma delle due università sarde e la circolazione della cultura europea (1764-1790), in «Rivista storica italiana», CV, 1998-3, ora anche in Id., Settecento sardo e cultura europea. Lumi, società, istituzioni nella crisi dell’Antico Regime, Angeli, Milano 2007, 48-106.

 

[20] Cfr. Archivio storico dell’Università di Cagliari, Sezione I (1763-1858), Studenti, Admittatur (1768-1847). Ringrazio la dott. Cecilia Tasca e la dott. Giuseppina De Giudici che mi hanno fornito i dati sulla carriera studentesca di Leo. Incrociando i dati dei libri matricularum con le titolarità degli insegnamenti risulta che Leo frequentò nel 1785 i corsi di Logica e metafisica e di Geometria e aritmetica, tenuti rispettivamente da Giovanni Stefano Carta e da Ignazio Cadello; nel 1786 i corsi di Fisica sperimentale e di Etica, tenuti entrambi da Giuseppe Gagliardi; nel 1787 il corso di Istituzioni mediche tenuto da Giuseppe Corte; nel 1787-88 i corsi di Medicina, non meglio specificati, del secondo e del quarto anno, che certamente comprendevano l’insegnamento di Materia medica impartito da Pietro Francesco De Gioanni e quello di Medicina teorico-pratica tenuto da Giacomo Giuseppe Paglietti. Desidero inoltre ringraziare don Francesco Tuveri e monsignor Tonino Cabizzosu per la generosa collaborazione assicuratami nella consultazione degli archivi ecclesiastici di Arbus e di Cagliari.

 

[21] Gagliardi inoltre aveva pubblicato un’interessante saggio di filosofia morale, L’onest’uomo filosofo (Cagliari 1772), e diversi scritti a uso didattico. Sulla sua opera e sull’impianto dei suoi corsi di Fisica sperimentale cfr. A. Mattone, P. Sanna, Settecento sardo e cultura europea, cit., 59-60 e passim. Sull’insegnamento della Fisica a Cagliari cfr., inoltre, G. Nonnoi, Introduzione e recepimento delle scienze fisiche e naturali nella Sardegna del Settecento, in Parcours interculturels. Langues, Littératures, sociocultures, présentés par Jean Chiorboli, Circulation, des idées, des hommes, des livres et des cultures, Université de Corse, Corte 2005, 316-42 e P. Sanna, Marchi Alberto, in Dizionario biografico degli italiani, LXIX, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 2007, 667-69.

 

[22] De Gioanni era il maestro che gli aveva consentito di «acquistar quel criterio che esser dee ne’ seguaci di Esculapio» e che un’«immatura morte» aveva precocemente sottratto «alla gloria delle scienze, all’ornamento di questo Liceo, all’utilità della patria, al bene e al presidio della languente umanità» (Pietro Antonio Leo. Di alcuni antichi, cit., 5). Su De Gioanni, nativo di Saorgio (Alba), chiamato a insegnare nell’Ateneo cagliaritano fin dal 1764, protomedico del Regno dal 1792, scomparso nel 1794, cfr. F. Loddo Canepa, Chirurghi, medici, flebotomi, in «Archivio Storico Sardo», XXI, 1939, 187 e n., e G. Dodero, Storia della medicina, cit., 204. Su Giacomo Giuseppe Paglietti, dottore collegiato dell’Università di Torino chiamato a insegnare a Cagliari anch’egli nel 1764, cfr. G. Paglietti, Giacomo Giuseppe Paglietti e il suo tempo, premessa alla ristampa anastatica della Pharmacopea Sardoa, Delfino, Sassari 1990, 3-5.

 

[23] Cfr. Archivio di Stato di Torino (d’ora in poi AST), Sardegna, Politico, cat. VI, m. 1, fasc. 2, «Riflessioni intorno ad alcuni mezzi per rendere migliore l’Isola di Sardegna», s.l., s.d. [ma 1754-55], ff. 68-77. Come ho dimostrato in altra sede, alle «Riflessioni» medico-sanitarie di Plazza («un manoscritto capitatomi nelle mani senza saperne l’autore») attinse largamente l’avvocato collegiato dell’Ateneo torinese Carlo Felice Leprotti, funzionario dal 1765 al 1760 presso la Segreteria di stato e di guerra di Cagliari, nella sua ampia memoria sulle «cagioni dello spopolamento dell’isola» indirizzata al sovrano sabaudo nei primi anni sessanta (cfr. C.F. Leprotti, Delle cagioni dello spopolamento della Sardegna, in Il riformismo settecentesco in Sardegna, L. Bulferetti (a cura di), I, Fossataro, Cagliari 1966, 49 ss.), in cui le tesi di Plazza, attribuite a «un dotto viaggiatore che scrisse, non ha gran tempo, le sue riflessioni sulla Sardegna», venivano sistematicamente riproposte. Sull’attribuzione della memoria anonima al Plazza e sul suo influsso nella successiva elaborazione del pensiero riformatore cfr. P. Sanna, La vite e il vino nella cultura agronomica del Settecento, in Storia della vite e del vino in Sardegna, M.L. Di Felice, A. Mattone (a cura di), Laterza, Roma-Bari 1999, 152-57 e 188-91.

 

[24] Per una documentata ricostruzione della sollevazione antipiemontese e della successiva fase di governo della Reale Udienza e delle rappresentanze degli Stamenti cfr., oltre all’ancor valido contributo di G. Sotgiu, La insurrezione di Cagliari del 1794, in «Studi sardi», XXI, 1968-70, 263-482, ora L’insurrezione di Cagliari del 28 aprile 1794, AM&D, Cagliari 1995, il lavoro di T. Orrù, M. Ferrai Cocco Ortu, Dalla guerra all’autogoverno. La Sardegna del 1793-94: dalla difesa armata contro i francesi alla cacciata dei piemontesi. Saggi e documenti inediti, Condaghes, Cagliari 1996. Cfr., inoltre, Storia de’ torbidi occorsi nel Regno di Sardegna dall’anno 1792 in poi, L. Carta (a cura di), EdiSar, Cagliari 1994, 28 ss. e F. Francioni, Vespro sardo. Dagli esordi della dominazione piemontese all’insurrezione del 28 aprile 1794, Condaghes, Cagliari 2001, 253 ss.

 

[25] Per la nomina di Leo alla cattedra di Istituzioni mediche cfr. ASC, Reale Udienza, classe 1ª, 2/1-2, Atti giudiziari cat. I – Regie patenti (carte senza numerazione interna). Sulla promozione di Cappai cfr. A. Guzzoni degli Ancarani, Alcune notizie sull’Università di Cagliari, cit., 58.

 

[26] ASC, Segreteria di Stato e di Guerra, serie 1ª, vol. 313, Dispaccio del viceré Vivalda, Cagliari 15 giugno 1795, cc. 130-32.

 

[27] Il viceré paventava addirittura che si sarebbero rifiutati di assistere alle prove «per esser stati all’occorrenza delle vacanti cattedre poco o niente considerati, né essere in circostanze per la loro avanzata età di esporsi ad un pubblico esperimento in confronto coi giovani recentemente usciti dalla scuola» (Ivi, Dispaccio del viceré Vivalda, Cagliari 18 settembre 1795, cc. 183-84). L’insegnamento di Materia medica, che per oltre trent’anni era stato tenuto dal professor De Gioanni, fu provvisoriamente affidato al professore di Medicina teorico-pratica, Salvatore Cappai, ma la cattedra rimase scoperta fino al febbraio del 1798, quando, appunto, fu assegnata a Pietro Leo. Per le regie patenti cfr. ASC, Reale Udienza, classe 1ª, 2/1-2. Il documento mi è stato segnalato dalla dott. Alessandra Argiolas, che ringrazio anche per la pazienza con cui mi ha assistito nelle ricerche presso l’Archivio.

 

[28] ASC, Segreteria di Stato e di Guerra, serie 2ª, vol. 800, Parere del Magistrato sopra gli studi, Cagliari 10 aprile 1796.

 

[29] I due casi più significativi erano stati quelli del sacerdote Francesco Maria Corongiu e del servita Giovanni Antonio Cossu, chiamati a perfezionarsi a Torino, rispettivamente presso il canonista Carlo Sebastiano Berardi e presso l’eminente studioso dell’elettricismo Giambattista Beccaria, e successivamente rispediti nell’Università di Cagliari a ricoprirvi le cattedre di Diritto canonico e di Fisica sperimentale: cfr. A. Mattone, P. Sanna, Settecento sardo e cultura europea, cit., 24.

 

[30] ASC, Segreteria di Stato e di Guerra, serie 2ª, vol. 800, Parere del Magistrato sopra gli studi, Cagliari 24 aprile 1796. Il chirurgo collegiato inviato a Napoli era Francesco Murgia. Il successivo caso fu quello del giovane professore Francesco Antonio Boi che, chiamato a ricoprire nel 1799 la nuova cattedra di Anatomia, fu autorizzato a specializzarsi a Firenze, dove fu allievo di Paolo Mascagni: cfr. L. Castaldi, Francesco Boi (1767-1860), primo cattedratico di Anatomia umana a Cagliari e le cere anatomiche fiorentine di Clemente Susini, Olschki, Firenze 1947 e G. Dodero, Storia della medicina, cit., 347-56.

 

[31] «Volle la sorte – ricordava nella sua Lezione – che recatomi nel continente coll’unica mira di dirozzarmi nella medicina e nelle sue scienze ausiliarie, abbia per lo spazio di tre anni in circa avuto tutto l’agio possibile di vedere grandi e popolati ospedali, di farvi delle replicate osservazioni per quattro intere stagioni autunnali, di conferire con professori insigni pel loro fino discernimento e sperimentata dottrina nella clinica medica» (Pietro Antonio Leo. Di alcuni antichi, cit., 24).

 

[32] Ivi, 24-25. Nel 1792 era apparsa (Torino, Iac. Fea) una nuova edizione dell’importante lavoro di C. Allioni, Tractatio de miliarium, origine, progressu, natura, curatione (1ª ed. Avondus, Torino 1758), che esaminava la situazione di diverse regioni italiane e che Leo certamente conosceva, specialmente nei passi in cui prendeva in considerazione la realtà osservata da alcuni piemontesi che avevano soggiornato in Sardegna (cfr. 32-33).

 

[33] Per un quadro della situazione toscana nel triennio repubblicano cfr. C. Mangio, I patrioti toscani fra «Repubblica Etrusca» e restaurazione, Olschki, Firenze 1991; Id., Politica toscana e rivoluzione. Momenti di storia livornese, 1790-1801, Pacini, Firenze 1974; Id., Tra conservazione e rivoluzione, in F. Diaz, L. Mascilli Migliorini, C. Mangio, Il Granducato di Toscana. I Lorena dalla reggenza agli anni rivoluzionari, Utet, Torino 1997, 423-509.

 

[34] È del 27 dicembre del 1796 un certificato sullo stato di salute di Giambattista Simon sottoscritto da Leo a Pisa. Il documento, di cui non conosciamo le finalità, figura tra le carte Simon pervenute alla Biblioteca del Comune di Alghero (cfr. Ms. 47, fasc. 16). I due Simon si sarebbero trattenuti a Pisa fino all’inizio del 1797, quando tentarono, fra molte peripezie, di rientrare stabilmente in Sardegna. Dovettero però ripartire subito dall’isola e ritornarono a Pisa nell’estate del 1797: soggiornarono in Toscana fino al giugno del 1799, quando fecero ritorno in Sardegna, insieme al fratello Matteo Luigi, con la vana speranza di ottenere la riabilitazione politica e il reintegro negli impieghi. Giambattista vi rimase stabilmente, Matteo Luigi ripartì all’inizio del 1800 alla volta della Liguria, e Gian Francesco si sarebbe trasferito a Firenze nell’autunno del 1802 e avrebbe fatto ritorno in Sardegna soltanto nel 1817: cfr. A. Mattone, P. Sanna, I Simon, cit., 842-43.

 

[35] In particolare, l’Orto botanico viveva, verso la fine del Settecento, una fase di profondo rilancio grazie all’iniziativa del suo praefectus Giorgio Santi, che aveva rivoluzionato la distribuzione degli spazi passando dallo schema delle aiuole rinascimentali all’organizzazione per settori, allineati e strutturati in base all’ordinamento sistematico, concepito da Linneo per il regno vegetale. Il Teatro anatomico, che nel 1782 era stato trasferito nell’ospedale di Santa Chiara, accoglieva le lezioni di scienziati prestigiosi ed era il simbolo di una solida tradizione scientifica che sarebbe culminata nell’insegnamento di Antonio Catellacci (1782-1826). Cfr. M. Verga, L’Università di Pisa nel Settecento delle riforme, e A. Dini, La Medicina, in Storia dell’Università di Pisa (1737-1861), Edizioni Plus, Pisa 2000, rispettivamente vol. 2, tomo 3, 1129-66 e 2, tomo 2, 663-97. Cfr. inoltre Arte e scienza nei musei dell’Università di Pisa, Edizioni Plus, Pisa 2002, 27 ss. Per un inquadramento storico del ruolo e della vita accademica dell’ateneo pisano cfr. E. Panicucci, Dall’avvento dei Lorena al Regno d’Etruria (1737-1807), in Storia dell’Università di Pisa, cit., in particolare 20-21 e 80-91; cfr. inoltre G.G. Neri Serneri, D. Lippi, La scuola medica dell’Università di Firenze, in L’Università degli studi di Firenze, 1924-2004, I, Olschki, Firenze 2004, 254-61.

 

[36] Un ricordo particolarmente vivo di Francesco Vaccà Berlinghieri, del suo stile di vita e del suo insegnamento è nell’elogio tracciatone da F. Tantini, Pensieri, reminiscenze ed elogj, Campe, Amburgo 1833, 193-209. Su Francesco e sui principali esponenti della famiglia cfr. M. Montorzi, I Vaccà Berlinghieri: una laica famiglia della borghesia accademica pisana tra scienza, politica e cultura nell’Europa della restaurazione, in L’Università di Napoleone. La riforma del sapere a Pisa, R.P. Coppini, A. Tosi, A. Volpi (a cura di), Edizioni Plus, Pisa 2004, 81-91. Cfr., inoltre, nello stesso volume il contributo di A. Panaja, Nobili, “dame” e ussari a Pisa nel periodo napoleonico, 101-105 e 109. Sull’orientamento patriottico e repubblicano del clan Vaccà Berlinghieri cfr., inoltre, R.P. Coppini, Alberi della libertà e stipendi non pagati: Pisa, l’Università e i giacobini, in Il Settecento di Furio Diaz, C. Mangio e M. Verga (a cura di), Edizioni Plus, Pisa 2006, 96-106.

 

[37] Nel 1795 Vaccà, pubblicando la seconda edizione, notevolmente aggiornata e ampliata, del suo manuale di «Fisica medica», aveva espresso compiutamente la sua concezione di una disciplina che doveva integrare l’«osservazione clinica» dell’organismo malato con le conoscenze offerte dall’anatomia, dalla fisica e dalla chimica, mettendo a frutto, per esempio, le scoperte di Spallanzani sui meccanismi della digestione o gli studi di Priestley e della medicina illuminista inglese sull’aria espirata. Nello stesso anno aveva anche pubblicato le Meditazioni sull’uomo malato e sulla nuova dottrina medica di Brown, che lo avevano proiettato sulla ribalta internazionale, essendo stato tra i primi in Italia a criticare il brownismo. Cfr. G. Cosmacini, Il medico giacobino, cit., 79-80.

 

[38] È finora risultato vano ogni tentativo di ritrovare traccia del soggiorno pisano di Leo negli archivi toscani e nella ricca memorialistica ottocentesca: cfr., per esempio, Andrea Vaccà e la sua famiglia. Biografie e memorie raccolte da Laura Vaccà Giusti, Mariotti, Pisa 1878. Sono state infruttuose anche le ricerche effettuate a Montefoscoli nell’antica dimora saccheggiata nel 1799 dai Viva Maria, dov’è conservato ciò che resta delle carte della famiglia Vaccà Berlinghieri. E anche dal fondo archivistico dell’ospedale di Santa Chiara, conservato presso l’Archivio di Stato di Pisa, non è emersa alcuna traccia della permanenza di Leo e del suo tirocinio medico, sebbene, risulti segnalata, nel 1796-97, l’attività oltre che di Francesco anche Andrea Vaccà di cui si riferisce che «detta in casa Istituzioni chirurgiche [...] mezz’ora dopo la cena dei malati» (Inv. 16, n. 151, fasc. 95). Sui corsi frequentati da Leo a Pisa cfr. P. Leo Porcu, Profilo biografico, in Pietro Antonio Leo, Di alcuni antichi pregiudizi, cit., LXXXII.

 

[39] La delibera del Magistrato sopra gli studi che proponeva il «passaggio» di Leo alla cattedra, ancora vacante, di Materia medica fu trasmessa dal viceré al ministero torinese con il dispaccio del 5 gennaio 1798: cfr. ASC, Segreteria di Stato e di Guerra, serie 1ª, vol. 314, c. 124.

 

[40] Sul contesto medico-scientifico torinese cfr. C. Cagliero, Teoria e pratica medica nel Piemonte settecentesco, in «Sanità, scienza e storia», 1986-1, 43-81; D. Carpanetto, Professione medica e università nel Piemonte del Settecento, e B. Maffiodo, Medicina, scienza e cultura delle riforme in Piemonte tra la fine dell’antico regime e l’età napoleonica, entrambi in L’arte di guarire. Aspetti della professione medica tra medioevo ed età contemporanea, M.L. Betri e A. Pastore (a cura di), Clueb, Bologna 1993, 85-103 e 119-33; A. Plataroti, L’albero della povertà. L’assistenza nella Torino napoleonica, Carocci, Torino 2000; E. Christillin, Gli ospedali e l’assistenza, in Storia di Torino, V. Dalla città razionale alla crisi dello Stato d’Antico Regime (1730-1798), G. Ricuperati (a cura di), Einaudi, Torino 2002, 343-65; e inoltre gli interessanti contributi di D. Carpanetto, Gli allievi dell’arte di Esculapio. Da speziali a farmacisti e di G. Forneris, La pratica dei semplici, in Professioni non togate nel Piemonte di Antico Regime, D. Balani e D. Carpanetto (a cura di), Centro Studi per la Storia dell’Università di Torino, Torino 2003, 297-343 e 345-421.

 

[41] Sugli studi di topografia medica negli stati sabaudi di Terraferma cfr. B. Maffiodo, I borghesi taumaturghi, cit., 184-95 e passim. Sul ruolo dell’Accademia di agricoltura e sul gruppo di studiosi di agronomia, di chimica, di medicina e di architettura che negli anni novanta si coagularono intorno a essa (Dana, Giobert, Giulio, Buniva ecc.) cfr. G. Torcellan, Giuseppe Nuvolone, agronomo piemontese, in Miscellanea Walter Maturi, Università degli studi, Torino 1966, ora in Settecento veneto e altri scritti storici, Giappichelli, Torino 1969, 361-89. Sullo sviluppo degli studi di «medicina ambientale» e sull’affermazione della «polizia medica» cfr. G. Panseri, La nascita della polizia medica, in Storia d’Italia. Annali 3. Scienza e tecnica nella cultura e nella società dal Rinascimento ad oggi, Einaudi, Torino 1980, 157 ss., e Politica e salute. Dalla polizia medica all’igiene, C. Pancino (a cura di), Clueb, Bologna 2003. Nel 1798 era inoltre particolarmente vivo nella capitale sabauda il dibattito medico-scientifico intorno alla gestione dell’epidemia di febbri esplosa nella città di Susa tra l’inverno e la primavera del 1797.

 

[42] Per la cooptazione di Leo nell’adunanza del 19 settembre 1798, cfr. O. Mattirolo, E. Mussa, Cronistoria della Reale accademia di agricoltura di Torino, Reale Accademia di Agricoltura di Torino, Torino 1939, 120. Dieci anni prima, nell’adunanza del 4 gennaio 1788, il segretario dell’accademia, l’intendente Bissati, aveva presentato «il primo e il secondo volume del Dizionario Mercantile donato alla Società dall’autore, signor avvocato Azuni di Nizza, socio onorario», cioè il primo e il secondo tomo del Dizionario universale ragionato della giurisprudenza mercantile del sassarese D.A. Azuni, apparsi, rispettivamente, nel 1786 e nel 1787 presso la Società Tipografica di Nizza (cfr. L. Berlinguer, Domenico Alberto Azuni giurista e politico. 1749-1827, Giuffrè, Milano 1966, 75-86). Nella stessa adunanza l’avvocato Domenico Capriata, socio ordinario dell’Accademia ed ex funzionario della Regia segreteria di stato presso il viceré di Sardegna, aveva consegnato il Discorso georgico indicante i considerevoli vantaggi che si possono ricavare dalle pecore sarde, pubblicato a Cagliari, nel 1787, dal censore generale Cossu, che nell’occasione veniva eletto socio libero corrispondente. Cfr. Archivio dell’Accademia di Agricoltura di Torino, Scatola B., Registro della Società dal 1785 al 1795 (presso il segretario perpetuo), ff. 96-98. Giovanni Maria Angioy era stato cooptato nella seduta del 21 dicembre 1789 (ivi, ff. non numerati). Le annotazioni del Registro si fermano però all’adunanza del 6 aprile 1795, e anche il parallelo Registro della Società dal 1785 al 1798 (presso il direttore) s’interrompe prima della fine dell’anno, con l’adunanza del 16 giugno 1798, mentre il Registro dei verbali relativo al periodo successivo si apre con l’adunanza del 17 nevoso anno IX (7 gennaio 1801). Non è stato possibile rintracciare il verbale della seduta del 19 settembre 1798 tra quelli «in fogli sciolti contenuti nella Scatola E», di cui riferisce G. Torcellan, La Società agraria di Torino, in «Rivista storica italiana», LXX, 1964, 544-552, ora in Settecento veneto, cit., 349-59.

 

[43] Giovanni Zucca, professore d’Istituzioni mediche nell’Università di Cagliari, che per primo raccolse, nel 1827, le notizie biografiche di Leo, elencava tra i suoi scritti, oltre alla Lezione fisico-medica, anche altri tre lavori ora perduti: «una difesa della medesima [Lezione] in risposta ad un dotto Savoiardo che la impugnò; la storia delle stesse febbri d’intemperie, e l’analisi delle acque di Sardara» (Notizie biografiche del professore Pietro Leo, cit., 26). L’informazione fu poi, puntualmente ripresa da Tola, Martini e Siotto Pintor, ma non sappiamo se almeno Zucca abbia potuto consultare i suddetti lavori, che da Parigi lo stesso Leo, come Obino riferiva alla vedova, aveva disposto che fossero distrutti. E peraltro era stato proprio il compatriota amico, che ne aveva raccolto le ultime volontà, a consigliare, nella stessa lettera, la massima cautela: «Quanto però a dover bruciare i manoscritti […]. Ella veda – suggeriva Obino – se ciò potrà esser convenientemente eseguito. Il di Lei marito avea costì degli amici virtuosi, come il signor Baille, Garau [il coetaneo e cugino giurista Raimondo Garau] ed altri, ai quali potrà Lei raccomandare l’esame di tali manoscritti e vedere se debbasi o no eseguire un ordine sì rigoroso, detta[to] forse dalla modestia» (F. Cherchi Paba, Don Michele Obino, cit., 239).

 

[44] BUC, Fondo Baille, SP. 6 bis 1.6, Lettere di Gian Francesco Simon (d’ora in poi Fondo Baille), Alghero 28 settembre 1801. L’opera di G.F. Simon, Sugli illustri coltivatori della giurisprudenza in Sardegna fino alla metà del sec. XVIII. Lettera al cavalier don Tommaso De Quesada della Regia Università di Sassari, Reale stamperia, Cagliari 1801, reca la data 27 settembre, e fu composta in brevissimo tempo e quasi di getto. Sugli anni dell’«ostracismo» dei Simon da Cagliari e dell’«esilio» algherese di Gian Francesco cfr. A. Mattone, P. Sanna, I Simon, cit., 855-56.

 

[45] BUC, Fondo Baille, Alghero 12 ottobre 1801. Sul dottor Fois cfr. infra n. 78.

 

[46] ASGA, fasc. 573, «Gian Francesco Simon. Sul clima della Sardegna». Tra molteplici correzioni e ripensamenti si legge inoltre: «[Leo ha osato] [...] scuotere il pedantesco giogo de’ medici casisti e sistematici; e pien di foco, di lumi e di umanità ha avuto il coraggio di parlare coi suoi discepoli, dalla cattedra medica di Cagliari, il linguaggio della filosofia, della verità [...]» (ibidem).

 

[47] La raccomandazione della china come febbrifugo e l’elogio dell’oppio come analgesico non erano certo delle novità neppure per la medicina sarda, ma le modalità dell’utilizzo dei due fondamentali farmaci del tempo continuavano ad accendere accanite discussioni tra i fautori di diverse teorie mediche, e Leo aveva ampiamente mutuato dalla scuola di Vaccà l’incondizionata fiducia sia nella china, che nell’oppio: «Un solo male si conosce fino ad ora – affermava l’insigne medico pisano – che possa essere arrestato […] da un sol rimedio in tempo brevissimo. Il dolore […] è il male e il solo rimedio è l’oppio. E appunto il Brown – aggiungeva polemicamente Vaccà – pretende di restringere la salubre azione di questo gran rimedio a pochi casi»: F. Vaccà Berlinghieri, Meditazioni sull’uomo malato e sulla nuova dottrina medica di Brown, Pasquali, Venezia 1801 (prima ed. 1795), 11-12.

 

[48] Vale la pena tener presente lo sprezzante giudizio espresso, solo qualche decennio prima, dal ministro Bogino, secondo il quale i medici sardi erano in larga parte «galénistes impitoyables et imbus des toutes les plus fausses et vaines maximes de la médecine» (Società Nazionale per la Storia del Risorgimento, Dispacci di corte, ministeriali e viceregi concernenti gli affari politici, giuridici ed ecclesiastici del Regno di Sardegna, F. Loddo Canepa (a cura di), La Palatina, Roma 1934, 201).

 

[49] I giudizi che avevano fatto più scalpore erano quelli delle Lettere di viaggio di Giacomo Giona Bjoernstaehl, professore di Filosofia nell’Università di Uppsala, tradotte dallo svedese in tedesco e dal tedesco in italiano nel 1786: ma le affermazioni che, per il prestigio dell’autore e per la superficialità dei giudizi, apparivano più insidiose e brucianti, erano contenute nella Nuova descrizione storica e geografica d’Italia (Società letteraria e tipografica, Napoli 1782, cap. VII, 308-23) di Giuseppe Maria Galanti, che in effetti aveva acriticamente riportato una serie di notizie sommarie e approssimative ricevute da Torino. Così il grande illuminista meridionale, mentre definiva i sardi «rozzi e barbari» e dipingeva la Sardegna come un paese «senza piante, senza industria e senza alcun commercio attivo», insisteva sulla generale insalubrità del suo clima attribuendone la causa non solo alle «esalazioni putride e maligne» delle acque stagnanti, ma anche alla scarsa altitudine e all’insufficiente ventilazione di gran parte dell’isola: «Le acque paludose ed i luoghi piani ed umili – affermava – si trovano per tutto il regno, cosicché la contaminazione dell’aria vi è generale» (311-12). Sulla genesi dell’opera cfr. M. Mafrici, Introduzione a Giuseppe Maria Galanti. Scritti sull’Italia moderna, a cura della stessa, Di Mauro, Cava de’ Tirreni (SA) 2003, 7-81. Non si capirebbe dunque l’insistenza di Leo sul tema dei venti dominanti nell’isola senza tener presenti le incaute argomentazioni messe in campo da Galanti, il quale peraltro nella Lezione non è neppure nominato. È invece esplicita la polemica con Galanti nel cap. IV, «Dell’atmosfera che circonda il sardo globo volgarmente aria», di G. Cossu, Descrizione geografica della Sardegna, Olzati, Genova 1799, ora a cura di I. Zedda Macciò, Ilisso, Nuoro 2000, 279-81.

 

[50] Sulla pesante repressione del 1796-99 e sulla successiva liquidazione delle concessioni autonomistiche riconosciute nel giugno del 1796 cfr. G. Sotgiu, Storia della Sardegna sabauda, 1720-1847, Laterza, Roma-Bari 1984, 213 ss.; M.G. Sanjust, Tra Rivoluzione e Restaurazione. Itinerario nella cultura di Sardegna, Mucchi, Modena 1993; A. Accardo, La nascita del mito della nazione sarda. Storiografia e politica nella Sardegna del primo Ottocento, AM&D, Cagliari 1996; F. Francioni, Per una storia segreta della Sardegna fra Settecento e Ottocento, Condaghes, Cagliari 1996, 61-164; L. Carta, Riviviscenza e involuzione dell’istituto parlamentare nella Sardegna di fine Settecento (1793-1799), in L’attività degli Stamenti nella “Sarda Rivoluzione”, voll. 4, Consiglio Regionale della Sardegna, Cagliari 2000, I, 222-56; A. Mattone, P. Sanna, Costituzionalismo e patriottismo nella «sarda rivoluzione», in Universalismo e nazionalità nell’esperienza del giacobinismo italiano, L. Lotti e R. Villari (a cura di), Laterza, Roma-Bari 2002, ora in Settecento sardo e cultura europea, cit., 197-240.

 

[51] Pietro Antonio Leo. Di alcuni antichi, cit., V-VI.

 

[52] «Or queste medesime febbri [quelle «scioccamente definite d’intemperie»] formano il flagello dell’umanità – osservava Leo – in tutti i paesi del mondo; perché addunque saranno chiamate patriotiche della Sardegna? Endemica o patriotica malattia, a parlare con esattezza, si deve denominare quella che è molto familiare ad un paese a preferenza degli altri […]. Ma i mali febbrili autunnali, che qui chiamansi d’intemperie, regnando come regnano in tutto il mondo abitato, non intendo come sino ad ora siansi potuti riguardare come patriotici della Sardegna» (Pietro Antonio Leo. Di alcuni antichi, cit., 22-23). Ancora una volta l’insegnamento di Vaccà Berlinghieri appare fondamentale: «Credo che si abbia il diritto di asserire che i vapori palustri e dei terreni bassi – aveva sostenuto il luminare pisano – nuocono con un meccanismo incognito e solamente si vede che principalmente offendono […] il sistema nervoso […]. Pur troppo fuori da queste maligne sorgenti ve ne sono molte altre […]. Per questo alcuni paesi che non sono infestati da palustri esalazioni sono soggetti ad alcuni dati e particolari mali, che fuor di lì non si incontrano […] e perciò si chiamano malattie patriottiche» (F. Vaccà Berlinghieri, Meditazioni sull’uomo malato, cit., 59-61).

 

[53] Cfr. F. Gemelli, Rifiorimento della Sardegna proposto nel miglioramento di sua agricoltura, Briolo, Torino 1776, ripubblicato in Il riformismo settecentesco in Sardegna, L. Bulferetti (a cura di), Fossataro, Cagliari 1966, 69-90. Nel solco del celebre trattato di G.M. Lancisi, De noxiis paludum effluviis eorumque remediis libri duo, Romae 1717, l’opera dell’ex gesuita piemontese, docente di eloquenza nell’Università di Sassari, raccoglieva il meglio della spinta riformatrice toscana e lombarda e delle teorie fisico-mediche del tempo, scrupolosamente richiamando, fra gli altri lavori, gli unici due trattati scientifici sulla cosiddetta «sarda intemperie»: G. Farina, Medicinale patrocinium ad tyrones Sardiniae medicos in quo natura febris Sardiniae provincias vexantis cussae, signa, prognostica, et medendi methodus iuxta Hippocratis, et Galeni doctrinam describitur, Sargina, Venetiis 1651; P. Aquenza Mossa, Tractatus de febre intemperie, sive de mutaciones vulgariter dicta Regni Sardiniae, Ruiz de Murga, Matriti 1702.

 

[54] Pietro Antonio Leo. Di alcuni antichi, cit., 11-12.

 

[55] Ibidem. Un formidabile contributo alla salubrità del clima dell’isola gli pareva infine provenire dall’«acido marino», che costituiva un «poderoso antisettico» e un «efficacissimo correttivo della putrefazione […]. Bisogna dunque confessare – sosteneva Leo – che ancor quando le palustri e putride esalazioni fossero più abbondanti nella nostra atmosfera, saranno esse in massima parte corrette, neutralizzate, o in massima parte rese innocenti dal sovrabbondante acido marino» (Ivi, 21). Sul rapporto tra saline e «intemperie» nella memorialistica e nel dibattito settecentesco cfr. S. Pira, Medici, malaria e saline nella Sardegna del Settecento, in «Archivio storico sardo», XXXVII, 1992, 199-209.

 

[56] Con vivo interesse guardava, infatti, non solo alle principali scoperte delle scienze sperimentali settecentesche da quelle della fisica e fisiologia vegetale a quelle della chimica pneumatica (nella Lezione erano in particolare richiamate le «luminose sperienze» sulla funzione clorofilliana e sull’aria vitale compiute dagli inglesi Priestley e Ingen-housz, dal ginevrino Senebier, dagli svedesi Bergman e Sheele), ma anche ai più recenti esperimenti di Chaptal, il «celebre chimico di Montpellier», e soprattutto agli interessanti esiti dell’eudiometria e della cosiddetta «medicina aerea» sviluppati e messi in luce da Landriani, Fontana, Spallanzani e Volta: cfr. Marsilio Landriani. Ricerche fisiche intorno alla salubrità dell’aria, con un articolo di Alessandro Volta sull’eudiometria, introduzione e cura di M. Beretta, Giunti, Firenze 1995 e La «Mal-aria» di Lazzaro Spallanzani e la respirabilità dell’aria nel Settecento, F. Capuano e P. Mansini (a cura di), introduzione di F. Abbri e W. Bernardi, Olschki, Firenze 1996. Più in generale sulle scoperte di Ingen-Housz e Priestley e sugli sviluppi della chimica pneumatica settecentesca cfr. F.L. Holmes, La chimica nell’età dei Lumi, in Storia delle scienze, 4. Natura e vita. Dall’antichità all’illuminismo, Einaudi, Torino 1994, 510 ss., e Id., La scoperta dell’ossigeno, in Storia della scienza, VI. L’età dei Lumi, cit., 186-93.

 

[57] Su questo punto («Come dal colpo di sole distinguesi l’intemperie») insisteva, sebbene con diversi argomenti, anche Gemelli, Rifiorimento, cit., 77-78. Per il medico cagliaritano non vi era dubbio che «l’insolato» costituisse una della cause più frequenti delle malattie febbrili che colpivano coloro che «nella calda stagione» attraversavano le assolate «pianure della Sardegna», ma «la violenta e continuata azione del sole» non poteva essere la causa delle febbri malariche: «io dico e sostengo che a tali malattie dassi erroneamente il nome d’intemperie, mentre desse non riconoscono […] un vizio dell’atmosfera, o una degenerazione dell’aria dalla sua temperie naturale» (Pietro Antonio Leo. Di alcuni antichi, cit., 31-32 ss.).

 

[58] Qui era implicito il riferimento alle Osservazioni intorno alle vipere (1664) di Francesco Redi, e soprattutto alle Ricerche fisiche sopra il veleno della vipera (1767) e al Traité sur le vénin de la vipère (1781) di Felice Fontana. Sul contributo della scuola medica toscana allo studio del veleno della vipera cfr. A. Dini, Vita e organismo. Le origini della fisiologia sperimentale in Italia, Olschki, Firenze 1991, 43-44 e Id., La medicina, cit., 664-65; e inoltre R. Pasta, Scienza e istituzioni nell’età Leopoldina. Riflessioni e comparazioni, in La politica della scienza. Toscana e stati italiani nel tardo Settecento, G. Barsanti, V. Becagli, R. Pasta (a cura di), Olschki, Firenze 1996, 18-23.

 

[59] «Tutto ciò è già stato luminosamente dimostrato dal citato sagacissimo naturalista [Spallanzani] per mezzo d’infinite esperienze da esso lui istituite dentro e fuori delle macchine viventi, e ripetute col medesimo successo dal di lui bravo imitatore Dottor Chiarenti. Rimetto gli increduli agli opuscoli dell’uno e dell’altro ben noti all’Europa illuminata» (Pietro Antonio Leo. Di alcuni antichi, cit., 33-34 e ss.). Negli anni degli studi universitari a Pisa, Francesco Chiarenti, nipote di Francesco Vaccà Berlinghieri, aveva vissuto nella casa dello zio, condividendo con i cugini Andrea e Leopoldo, amicizie, attività di studio e progetti ideali. Dopo la laurea, ritornato a Firenze, si dedicò alla professione e alla sperimentazione scientifica. Cfr. E. Pii, Chiarenti Francesco, in Dizionario biografico degli italiani, XXIV, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1980, 558-60.

 

[60] Pietro Antonio Leo. Di alcuni antichi, cit., 32-34. «L’azione di questo male [la malaria] è così forte – riferiva nel 1780 il pastore luterano tedesco Joseph Fuos – che si estende anche sopra i frutti del Paese. Quelli che vengono da regioni d’intemperie sono tenuti come specialmente nocivi, e quando perciò vengono portati al mercato i fichi da Capo di Pula, bisogna che il venditore pianti sul suo cesto una testa di morto dipinta, ovvero un altro segno lugubre affinché ciascuno sappia che cosa la sua merce nasconde» (J. Fuos, Nachrichten aus Sardinien, von der gegerwärtingenVerfassung dieser Insel, Lebrecht Crusius, Leipzig 1780, trad. it. di P. Gastaldi Millelire, La Sardegna nel 1773-1776 descritta da un contemporaneo, La Piccola Rivista, Cagliari 1899, 379. Qualche decennio prima l’idea che si potesse contrarre la malaria cibandosi di alimenti provenienti da luoghi «intemperiosi» o «sospetti» era riferita anche da Anonimo piemontese. Descrizione dell’isola di Sardegna, F. Manconi (a cura di), Comune di Cagliari, Cagliari 1985, 63; ma l’argomento non figura più nelle dettagliate raccomandazioni igienico-sanitarie riportate da F. D’Austria Este, Descrizione della Sardegna (1812), G. Bardanzellu (a cura di), Società Nazionale per la Storia del Risorgimento Italiano, Roma 1934, 198-201.

 

[61] L’interessante lettera a Leo, datata Longonsardo 2 marzo 1803, conservata presso la Biblioteca Universitaria di Cagliari, Fondo manoscritti, Ms. 9/16, è stata meritoriamente segnalata e recentemente pubblicata, Lettera a Pietro Antonio Leo, con un’essenziale presentazione di E. Gessa, Un medicastro di necessità: il savoiardo Pietro Maria Magnon, in «Nae.ricerche», n. 2006, 61-66. Nello stesso numero della rivista figura inoltre una stimolante illustrazione del lessico e dei principali temi della Lezione di Leo: cfr. G. Marci, La Lezione fisico-medica di Pietro Antonio Leo: il lessico di una cultura moderna, ivi, 57-60.

 

[62] Sulla figura di Magnon e sul ruolo che ebbe quale promotore della fondazione della colonia di popolamento di S. Teresa di Gallura cfr. S. Rattu, Santa Teresa di Gallura, in Studi storici in onore di Francesco Loddo Canepa, I, Sansoni, Firenze 1959, 253-309; e soprattutto i contributi di E. Tognotti, La fondazione di Santa Teresa di Gallura, e di C. Pillai, Il «fondatore»: Pier Francesco Maria Magnon, in La rivoluzione sulle Bocche. Francesco Cilocco e Francesco Sanna Corda «giacobini» in Gallura (1802), M. Brigaglia e L. Carta (a cura di), Della Torre, Cagliari 2003, 193-223. Nella lettera a Leo vi è un preciso riferimento all’ambizioso progetto della colonia di popolamento che muoveva i primi passi e agli ostacoli frapposti dai «nemici d’ogni nuovo sistema» che non avevano mancato di sollevare «tutti i vecchi soffismi sull’aria […]. Felicemente – dichiarava Magnon – il di lei luminosissimo scritto ha dato il crollo a quei antichi errori, e credo che tutt’ora si pensi al progetto pel quale ero stato qui spedito espressamente dalla felice memoria di sua illustrissima signoria reale il signor Conte di Moriana» (Lettera a Pietro Antonio Leo, cit., 65-66).

 

[63] Magnon sarà uno dei primi «soci ordinari corrispondenti» della Reale Società Agraria ed Economica di Cagliari, con la quale iniziò a collaborare all’indomani della sua fondazione, quando fin dal marzo del 1805 iniziò a inviare in dono alla neonata accademia, a due quinterni per volta, la traduzione da lui stesso curata del «Trattato teorico e pratico sulla coltura de’ grani e sull’arte di fare il pane», estratto dall’enciclopedico Cours complet d’agriculture ou Dictionnaire universel d’agriculture, di Parmentier, Rozier, Lasteyrie e Delalause, Montardier, Paris A.X (1802). Cfr. BCCIAA, Registro Lettere 1804-1835, n. 9, Lettera a Magnon, Cagliari 9 marzo 1805. Fu anche autore di due memorie agronomiche Sulla coltivazione delle patate e Sulla coltura del grano detto saraceno: cfr. infra, n. 70.

 

[64] Non si dimentichi peraltro che il chimico piemontese Giovanni Antonio Giobert, autorevole membro dell’Accademia delle Scienze di Torino e «segretario alla corrispondenza» della Accademia di Agricoltura, si era già imposto all’attenzione del mondo scientifico italiano come capofila della nuova chimica lavoisieriana. Sulla penetrazione della cultura scientifica, della mineralogia e della chimica nei corpi tecnici e nelle istituzioni militari sabaude cfr. V. Ferrone, La Reale Accademia delle Scienze di Torino: le premesse e la fondazione, e Tecnocrati militari e scienziati nel Piemonte dell’Antico Regime, in Id., La Nuova Atlantide e i lumi: scienza e politica nel Piemonte di Vittorio Amedeo III, Albert Meynier, Torino 1988, 15-135. Sulle scienze chimiche a Torino cfr. F. Abbri, «De utilitate chemiae in oeconomia reipublicae». La rivoluzione chimica nel Piemonte dell’Antico Regime, e P. DEL PIANO, I periodici scientifici nel Nord Italia alla fine del Settecento: studi e ipotesi di ricerca, in «Studi storici», 1989-2, 401-33 e 457-82. Cfr. inoltre V. Marchis, Ingegneri e soldati: l’Arsenale di Torino come baricentro di uno Stato tecnocratico, in Storia di Torino, V, Dalla città razionale, cit., 737-54.

 

[65] Lettera a Pietro Antonio Leo, cit., 63. «Non mi resta che desiderare – aggiungeva Magnon – di vedere un patriottismo illuminato qual è quello di vostra signoria illustrissima, continuare i suoi interessanti travagli per strappare la benda ai pregiudizi invecchiati nel seno dell’inesperienza. Piacesse al Cielo che una cattedra di Chimica fosse stabilita nella capitale e che si stabilisse una piccola società letteraria ed agraria di quei probi e caldi filantropi, i quali non tarderebbero di spargere nel Regno le più interessanti cognizioni. [...] Non può che dare alle scienze e all’industria un forte impulso il felice stabilimento del Gabinetto di Sua altezza reale il signor Viceré [il riferimento è al “Museo o Gabinetto di archeologia e storia naturale patria” voluto da Carlo Felice]. Già si vede l’amore dei belli studi accendere vari brillanti talenti di cui abbonda quest’isola felice. Su Sassari stesso / veda il di lei trionfo / l’idea di confutare vostra signoria illustrissima ha fatto prendere in mano gli ammirabili volumi di Dandolo, di Chaptal, sin ora riguardati come scomunicati novatori e pertinaci seguaci dello stravagante Lavoisier» (Ivi, 66). Una viva testimonianza delle aspettative di rinnovamento suscitate dal mecenatismo paternalistico-autoritario di Carlo Felice e dall’istituzione, il 1° agosto 1801, del Gabinetto di storia naturale è in R. Valle, I tonni, cit., 90-93; cfr. inoltre G. Lilliu, Origine e storia del Museo Archeologico Nazionale di Cagliari, in Il Museo archeologico nazionale di Cagliari, V. Santoni, Amilcare Pizzi (a cura di), Cinisello Balsamo 1989, 11-12. È inoltre significativo il riferimento di Magnon al patriota veneziano Vincenzo Dandolo che fu il traduttore ufficiale dei testi della nuova chimica nell’Italia settentrionale e che ricoprì un ruolo di primo piano nelle istituzioni della Repubblica Cisalpina e del Regno d’Italia. Sulle implicazioni politico-culturali e sulle intricate vicende della penetrazione della chimica antiflogistica lavoisieriana cfr. il denso e vivace contributo di F. Abbri, La diffusione della «chimie nouvelle» in Europa, in Storia delle scienze, 4. Natura e vita, cit., 526-49.

 

[66] Lettera a Pietro Antonio Leo, cit., 64.

 

[67] Dall’esperienza maturata nel suo eremo di Longonsardo, con la guarnigione sottoposta al suo comando, l’ufficiale aveva inoltre tratto ampia conferma della validità delle teorie mediche e delle indicazioni terapeutiche esposte da Leo, e nella lettera gliene dava apertamente atto. Riferiva infatti del successo che aveva ottenuto nella cura dei soldati ammalati di malaria mettendo in pratica le indicazioni della seconda parte della Lezione, assicurando agli infermi cibi sostanziosi e ricorrendo, dopo aver rapidamente esaurito la scorta di «china gialla», a un improvvisato febbrifugo ottenuto con la «decozione» della centaurea, pianta che poteva raccogliere nei pressi di uno stagno vicino, e che «la provvidenza», diceva, «faceva nascere nei luoghi stessi che si crede essere il germe della malattia» (ibidem).

 

[68] Cfr. supra, n. 44.

 

[69] BCCIAA, Registro Lettere 1804-1835, n. 9, Lettera a Magnon, Cagliari 2 novembre 1805. Una memoria anonima sulla Coltivazione delle patate e loro usi particolari (forse quella di Magnon) fu poi pubblicata nelle Memorie della Reale Società Agraria ed Economica di Cagliari, I, Società tipografica, Cagliari 1836, fasc. 4, 331-55; nello stesso volume fu inoltre pubblicata la memoria «del fu socio Magnon», Sulla coltura del grano detto saraceno, 225-30.

 

[70] «Ho l’onore di restituirle la lettera favoritami del fu professore Leo [probabilmente la «difesa» autografa inviata da Leo a Magnon] e di pregarla di mettere assieme i nuovi eccitamenti che ella voleva farli in contrario, all’oggetto di dilucidare sempre più un argomento tanto interessante» (BCCIAA, Registro Lettere 1804-1835, n. 9, Lettera a Magnon, Cagliari 23 novembre 1805).

 

[71] Cfr. BCCIAA, Registro delle adunanze periodiche, n. 11-1, 1805-1809, adunanza del 27 giugno 1805; Registro delle memorie, n. 10-1, 1804-1816, Cagliari 8 ottobre 1805.

 

[72] «Non so poi dove sia ito e che siasene fatto», riferiva Simon qualche mese dopo al fratello Gian Francesco (ASGA, Lettere di Matteo Luigi, Parigi 31 dicembre 1802). Su Domenico Rossetti abbiamo pochissime notizie: si sa però che compose una «cantica» filogovernativa e filofeudale sulla repressione del moto antibaronale di Thiesi, una comunità rurale della Sardegna settentrionale, La vittoria riportata sopra l’ingannato popolo del villaggio di Thiesi il giorno 6 ottobre 1800, Uzzati, Sassari 1800, e la tragedia San Gavino, Uzzati, Sassari 1801, poi apparsa in altra edizione, Arborense, Oristano 1885. «Sappiamo da Sassari – annotava con sottile ironia Giovanni Andrea Massala nel suo «Giornale di Sardegna» il 30 ottobre 1800 – che l’improvvisatore Domenico Rossetti ha fatto recitare nella chiesa di S. Giacomo de’ Cavalieri, con beneficio a suo profitto, da una società di nobili e borghesi la tragedia di S. Gavino da lui composta; e sta pensando a stamparla. Vi hanno recitato de’ primi signori del paese» (Giovanni Andrea Massala. Giornale di Sardegna, cit., 56). Altre testimonianze dell’attività di Rossetti lo indicano promotore di numerose «accademie poetiche», come quella che mise in scena a Cagliari nell’ottobre del 1799 «appena due giorni» dopo i funerali del duca di Monferrato: «Il poeta estemporaneo, mediante graziose buone mani, raccolse una abbastanza cospicua somma» (C. Manunta Bruno, Una regina e il confessore, Lettere inedite di Maria Clotilde di Francia Regina di Sardegna all’ex-gesuita G.B. Senes (1799-1802), La Nuova Italia, Firenze 1935, 177).

 

[73] Lettera a Pietro Antonio Leo, cit., 65.

 

[74] ASGA, Lettere di Matteo Luigi, Marsiglia 11 giugno 1802.

 

[75] Su Angioy e sugli altri esuli sardi a Parigi cfr. D. Scano, La vita e i tempi di Giommaria Angioy, con un saggio introduttivo di F. Francioni, Della Torre, Cagliari 1985 (prima ed. Gallizzi, Sassari 1962), 170-214; L. Berlinguer, Domenico Alberto Azuni, cit., 168 ss.; C. Sole, Giommaria Angioy nell’esilio, in La Sardegna e la Rivoluzione francese, M. Pinna (a cura di), Cooperativa Lavoro e Società, Sassari 1990, 111-22; I. Calia, Francia e Sardegna nel Settecento. Economia, politica e cultura, Giuffrè, Milano 1993, 244-53; A. Mattone, P. Sanna, Giovanni Maria Angioy e un progetto sulla storia del «diritto patrio» del Regno di Sardegna (1802), e Istruire nelle verità patrie. Il Prospetto dell’isola di Sardegna di Matteo Luigi Simon, ora in Settecento sardo e cultura europea, cit., 241-70 e 299-318. Per un inquadramento generale cfr. A.M. Rao, Esuli. L’emigrazione politica italiana in Francia (1792-1802), pref. di G. Galasso, Guida, Napoli 1992, 518-583.

 

[76] Sulle critiche di Simon all’opera di Azuni («Non ha fatto che copiare il Cetti […] ed appropriarsi del buono degli altri senza criterio […]. Non è possibile trovarsi sotto il globo un maggior impostore. Eppure il suo nome è conosciuto, mentre quello degli altri sardi è nella maggiore oscurità») cfr. L. Berlinguer, Domenico Alberto Azuni, cit., 194-95.

 

[77] ASGA, Lettere di Matteo Luigi Simon, Lettera al fratello Giambattista e a Giannandrea Massala, [Alassio] 5 settembre 1802. Il dottor Pietro Fois, «medico accreditatissimo ed allievo del fu prof. De Gioanni», aveva fatto parte del nutrito collegio dei sanitari chiamati al capezzale del duca di Monferrato, deceduto ad Alghero nel settembre del 1799, dopo pochi giorni di febbri fulminanti. Su Fois cfr. R. Valle, Al filopatrida Carboni, Valle patriotida. Sopra le acque naturali quasi miracolose della Sardegna, Timon, Cagliari 1836, 14-16; G. Manno, Note sarde e ricordi, Stamperia reale, Torino 1868, 225-29; C. Sole, Le «Carte Lavagna» e l’esilio di casa Savoia in Sardegna, Giuffrè, Milano, 60-61. L’infausta vicenda della morte del principe aveva destato grande sgomento non solo per la celebrità del defunto, ma anche perché alcuni avevano attribuito il decesso a «febbre d’intemperie», quando invece, secondo Leo, le osservazioni dei medici avevano dimostrato che la vera causa era stata un «insolato unito ad un violento esercizio a cavallo», e che nessuna incidenza vi aveva avuto «la supposta inclemenza od intemperie dell’aria». Cfr. Pietro Antonio Leo. Di alcuni antichi, cit., 21-22.

 

[78] «Le climat de toute l’île – si leggeva nell’Essai – est en général tempéré et très-bon, quoiqu’il y ait des endroits où, faute de pluie, les eaux des étangs et des rivières, n’ayant pas de cours, y produisent un air mal sain pendant les chaleurs de l’été» (D.A. Azuni, Essai sur l’histoire géographique, cit., 8).

 

[79] D.A. Azuni, Histoire géographique, politique et naturelle de la Sardaigne, Levrault, Paris 1802, 10-11. È tuttavia significativo che nei rinvii bibliografici non figurasse la dissertazione di Leo, probabilmente non ancora pervenuta nella disponibilità di Azuni, quando l’Histoire era andata in stampa, tra la primavera e l’estate del 1802. Oltre all’opera di Aquenza, il riferimento più convinto era al poema di Carboni, De Sardoa intemperie, cit., «ouvrage très estimé et écrit avec élégance», di cui Azuni richiamava anche la felice traduzione italiana in versi sciolti dell’abate Giacomo Pinna pubblicata nei tre volumi dell’edizione di Piattoli (Sassari 1774), ampiamente elogiata da Gemelli (Rifiorimento, cit., 79).

 

[80] M.L. Simon, Mémoire pour Napoléon (con altri documenti inediti o rari), introd. e note a cura di L. Neppi Modona, presentazione di P.M. Arcari, Giuffrè, Milano 1967, 61.

 

[81] A metà Ottocento sia Pietro Martini (Storia di Sardegna dall’anno 1799, cit., 77, 148), sia Giuseppe Manno accreditarono la tesi che il soggiorno di Leo in Francia fosse stato incoraggiato e sostenuto, come prima quello del Boi a Firenze, da Carlo Felice che aveva dato così un’ulteriore testimonianza del suo illuminato mecenatismo: «Aiutato parimenti da lui [Carlo Felice] recossi dapprima nelle scuole di Montpellier, e dappoi in quelle di Parigi uno dei più illustri professori della Sarda Università, il medico Pietro Leo, il quale negli studi suoi di clinica prometteva, anche con la data arra di accreditate pubbliche scritture, d’innalzarsi ai primi seggi della scienza. Il destino suo infelice gli aprì la tomba in terra straniera. Ma l’averlo giudicato pel valente che egli era, e l’averlo posto in grado di diventare valentissimo, è titolo di gloria pel Mecenate» (G. Manno, Note sarde e ricordi, cit., 193-93). Sulla necessità di cure e sulla malferma salute di Leo cfr. T. Napoli, Note illustrate e diffuse dell’opera intitolata compendiosa descrizione corografico-storica della Sardegna, Reale stamperia, Cagliari 1814, 48.

 

[82] Cfr. supra, n. 18. Per Madau Diaz «Pietro Leo, pur non avendo partecipato al movimento angioyno in Sardegna, era dovuto fuggire dall’isola perché perseguitato per le sue idee progressiste, rifugiandosi a Parigi assieme agli altri profughi sardi» (G. Madau Diaz, Un capo carismatico Giovanni Maria Angioy, Gasperini, Cagliari 1979, 477).

 

[83] ASGA, Lettere di Gian Francesco, Firenze 24 settembre 1803. In particolare, nei primi anni dell’Ottocento, sia Gian Francesco che Giambattista si mantennero in costante contatto con l’amico cagliaritano: «Scrivendo a Leo salutatelo e ditegli che già ebbi il suo piego […] con la sua dis.ne [dissertazione] e ditegli che lo amo», raccomandava Gian Francesco al fratello residente ad Alghero nell’autunno del 1803. Ma qualche mese prima, avendo saputo dallo stesso Leo che avrebbe incontrato il fratello di lì a poco a Oristano, si era affrettato a segnalargli di aver inviato con plico a parte all’amico cagliaritano «il 2° tomo del Rossi» [probabilmente l’opera dell’entomologo pisano Pietro Rossi]: ASGA, Lettere di Gian Francesco, rispettivamente Firenze 30 novembre e Genova 1° maggio 1803).

 

[84] «Compiacciasi – scriveva Matteo Luigi al padre in Sardegna – di dare corso alla inclusa del bravo dottor Leo, che carissimamente la saluta» (ASGA, Lettere di Matteo Luigi, Parigi s.d. [ma novembre] 1804).

 

[85] ASGA, Lettere di Gian Francesco, Firenze 24 ottobre 1804.

 

[86] Sul periodo dell’esilio della casa Savoia in Sardegna e sul viceregno di Carlo Felice, su cui occorrerebbe riprendere studi approfonditi, cfr. E. Pontieri, Carlo Felice al governo della Sardegna 1799-1806, in «Archivio Storico Italiano», LXI, 1935, 1-2, 49-82 e 187-231; LXIII, 1937, 1-2, 146-87 e 137-80; C. Sole, Le «Carte Lavagna» e l’esilio, cit., 80 ss.; G. Sotgiu, Storia della sardegna sabauda, cit., 213 ss.; gli atti del seminario Il soggiorno della corte sabauda a Cagliari (1799-1815), in «Bollettino bibliografico e rassegna archivistica e di studi storici della Sardegna», VIII, 1991, n. 14, 7-26; F. Francioni, Coscienza rivoluzionaria e ribellismo antistatuale: Francesco Cilocco e Francesco Sanna Corda di fronte al caso della Gallura, in Per una storia segreta della Sardegna fra Settecento e Ottocento, cit., 61-101.

 

[87] ASGA, Lettere di Gian Francesco, Firenze 9 ottobre 1804. Su Stefano Manca di Villahermosa cfr. I. Birocchi, Per la storia della proprietà perfetta in Sardegna, Giuffrè, Milano 1982, 237-38 e M.L. Di Felice, La Società agraria, cit., 953-977 e passim. Sugli incarichi di Raimondo De Quesada cfr. F. Loddo Canepa, Inventario della Regia Segreteria di Stato e di Guerra del Regno di Sardegna (1720-1848), Società Nazionale per la Storia del Risorgimento Italiano, Roma 1934, 311-12. Contro il De Quesada, resosi particolarmente inviso per il suo incarico e per la sua vicinanza alla famiglia reale, era circolata a Cagliari nell’autunno 1801 una significativa pasquinata: «Cagliari aflicta sine Rege, sine lege, sine duce, sine luce, a De Quesada libera nos Domine» (C. Manunta Bruno, Una regina, cit., 369).

 

[88] ASGA, Lettere di Gian Francesco, Firenze 29 agosto 1804.

 

[89] Ivi, Firenze 9 ottobre 1804. Certo, Gian Francesco è il più lucido assertore dell’opportunità del viaggio di Leo a Montpellier e a Parigi. L’abate ungherese, stabilitosi in Toscana alla fine del 1802, aveva progressivamente esteso i suoi interessi culturali e le sue curiosità di raffinato bibliofilo ai moderni filoni di ricerca della medicina, della storia naturale, della chimica e delle scienze esatte; sicché la sua biblioteca si era ben presto arricchita di una nutrita serie di testi scientifici che gli permettevano di tenersi culturalmente aggiornato e di seguire e incoraggiare con competente attenzione gli studi di Leo. Dall’elenco dei libri che gli furono trafugati nel 1808 emerge, per esempio, che egli possedeva le principali pubblicazioni di Giambattista Beccaria e di Marsilio Landriani sull’elettricismo; gli «Opuscoli chimici» di Felice Fontana; i dodici volumi dell’edizione settecentesca di Neuchatel delle opere, compresa l’Histoire naturelle, di Charles Bonnet; i quattro volumi dei Principes de physiologie di Charles Louis Dumas, pubblicati a Parigi tra il 1800 e il 1803; i due tomi del Trattato elementare di fisica di Antoine Libes (Paris 1801), pubblicati a Firenze nel 1803; il Saggio di statica chimica di Claude Louis Berthollet (Paris 1803), tradotto da Dandolo nel 1804; i sei volumi della Zoonomia (trad. e aggiunte di Rasori) e Gli amori delle piante di Erasmus Darwin, editi a Milano tra il 1803 e il 1805; e infine l’importante lavoro del celebre allievo di Lavoisier, Louis-Bernard Guyton de Morveau, Moyens de désinfecter l’air, nella terza edizione, arricchita delle planches, apparsa a Parigi nel 1805 (cfr. ASGA, fasc. 921, «Libri statimi rubati dalla gran cassa lasciata al libraio Miniati in Firenze nell’agosto del 1808»).

 

[90] Verso la fine di ottobre Leo aveva deciso perfino di ritornare in Sardegna: «Coll’occasione di dottor Leo che si rende nuovamente al suo destino, penso di farvi cosa grata – dichiarava Matteo Luigi a Giambattista –, scrivendovi con maggior estensione di quella che ho praticato in tante altre [lettere] che ho avventurato all’azzardo, e che credo per la maggior parte smarrite». Ma una postilla evidentemente aggiunta all’ultimo momento precisava: «detto dottor Leo ha contramandato la sua partenza, e dice di fermarsi qui qualche mese per istruzione, onde mando la lettera per altro canale» (ASGA, Lettere di Matteo Luigi, [Parigi] 1° novembre 1804). Qualche settimana dopo Leo lasciava la locanda dove abitava con Simon, in Rue Traversière, Hotel d’Arbois 51 e andava a vivere autonomamente: «Dottor Leo, che molto vi saluta – scriveva Matteo Luigi a Giambattista – starà qui tutto l’inverno, sebbene anch’egli attenda lettere e denari da sua casa. Vive in Rue S. Pierre Serrazin, Hotel Besançon près de l’Ecole de Médecine» (ASGA, Lettere di Matteo Luigi, Parigi 23 novembre 1804). E in altra lettera di data illeggibile, ma probabilmente spedita negli stessi giorni: «Dr. Leo vi saluta caramente, credo che passerà l’inverno qui, attende nuove e bezzi [soldi] da sua Casa». Del cambiamento dei programmi di Leo fu ben presto informato anche Domenico Simon a Torino: «[Ho paura] che Leo, di cui vidi finalmente la dissertazione sull’intemperie che qui si trovò buona, si trovi a Parigi e vi si fermi non poco – scriveva a Gian Francesco –, poiché così si perfezionerà e sarà più utile alla Patria» (ASGA, Lettere di Gian Francesco, [ma] lettera di Domenico, Torino 28 novembre 1804).

 

[91] ASGA, Lettere di Matteo Luigi, Parigi 20 ottobre 1804.

 

[92] ASGA, Lettere di Matteo Luigi, Genova 17 agosto 1801. In quei mesi anche Gian Francesco rifletteva, da una prospettiva ancora legata al riformismo assolutistico ed ai Lumi settecenteschi, sui grandi progressi compiuti dalle scienze naturali nel secolo che si era appena chiuso: «La felice rivoluzione che hanno fatto gli studi della natura nel già caduto secolo mercè le fatiche di tanti illustri filosofi e le più esatte esperienze nella chimica dovean ugualmente [prodursi] perfino nella Sardegna anche a traverso le folte nebbie che s’opposer sempre al miglior progresso de’ medesimi studi, l’ignoranza, i pregiudizi e la mancanza di mezzi nelle due università» (ASGA, fasc. 573, cit.). Considerazioni amare aveva inoltre espresso in una lettera a Baille dell’estate del 1801: «ma per nostra disgrazia mi par fin d’ora d’intravedere che tanto l’antica che la moderna letteratura sarda non può vantare che gran copia di panegirici e cose simili. Opere di genio e di erudizione, e di scienze esatte, pochissime. [...] Leo mi vide occupato a cercare libri di autori sardi [...]. E poi, non so, quanto potrebbe dirsi di glorioso per la Sardegna parlando ampiamente della sua letteratura tanto antica che moderna? Lo storico che in questa parte deve esser ugualmente severo che filosofo dovrebbe pennelleggiare quadri con tinte fosche ed io per esperienza ho visto che la sardegna ama d’esser adulata anche nei servizi e nella assoluta deficienza delle cose, e non di sentirsi dipinta, e qual è, e qual è stata, o per vizio degli abitanti, o più facilmente per vizio governativo (BUC, Fondo Baille, Alghero 27 luglio 1801).

 

[93] ASGA, Lettere di Matteo Luigi, lettera a Lodovico Baille, Parigi 4 marzo 1803. E del resto Parigi, divenuta la capitale dell’«internationale naturaliste», non tardò ad accreditarsi come il principale teatro dell’affermazione del «paradigma naturalistico» anche nei campi delle scienze sociali e politiche: cfr. in particolare il vivace, penetrante quadro tracciato da C. Blanckaert, 1800. Le moment «naturaliste» des sciences de l’homme, in «Revue des sciences humaines», II, 2000-3, 117-60.

 

[94] Cfr. il bel lavoro di L. Pepe, Istituti nazionali, accademie e società scientifiche nell’Europa di Napoleone, Olschki, Firenze 2005. D’altra parte anche l’erudito e cosmopolita abate Gian Francesco Simon era rimasto affascinato dalle conquiste civili dell’Europa napoleonica: «applaudo di tutto cuore – dichiarava a Baille alla fine del 1801 – al beneficio che rese all’umanità la nazione francese, ed il genio che la governa, coll’abolizione perpetua della pirateria e della schiavitù degli uomini (cosa che farebbe arrossire tutte le altre potenze d’Europa che giammai né l’ottennero, né la procurarono [...]», BUC, Fondo Baille, Alghero 7 dicembre 1801.

 

[95] ASGA, Lettere di Gian Francesco, Firenze 29 agosto 1804: il brano citato, appartenente a una lettera di Matteo Luigi a Gian Francesco, è stato da quest’ultimo ricopiato («altro articolo di Matteo: 5. PS») nella lettera indirizzata al fratello Giambattista.

 

[96] «Voglia il Cielo – considerava, nell’apprendere della morte di Leo, Domenico Simon – che non c’abbian contribuito le agrimonie di Matteo, che fu […] forse chi lo trasse a Parigi» (ASGA, Lettere di Gian Francesco, [ma] lettera di Domenico a Gian Francesco, Torino 2 luglio 1805. «[…] il povero prof. Leo cessò di vivere in Parigi – scriveva Gian Francesco a Giambattista – vittima delle sue antiche indisposizioni, della sua malinconia, dell’eccesso delle sue passioni sensibilissime. Me lo scrive Matteo da Compiègne ove si trovava ancora a maggio […]. Si compiace il medesimo di non esser stato spettatore della morte e fine dolorosa di detto Leo. Ma egli ne è afflitto, tuttoché non avesse alcuna ragione di lodarsi del temperamento e umore del detto defunto» (ASGA, Lettere di Gian Francesco, Firenze 2 giugno 1805).

 

[97] T. Napoli, Note illustrate, cit., 48. Vale però la pena riportare il giudizio scetticamente critico con cui Napoli liquidava l’opera di Leo: «alcuni […] niegano esservi nella Sardegna questa così detta intemperie, ed il prelodato signor Leo in una sua dissertazione […] s’ingegna con gran forza di argomenti e ragioni a sradicar, se potesse, la comune credenza. Ma per quanto belli, e ben ragionati sembrino i suoi argomenti, non arriveranno mai a persuadere chi non solo per la testimonianza d’innumerabili autori antichi e moderni, e sardi e forestieri, ma molto per la continua esperienza è obbligato a sentir il contrario». «Cambino pure il nome, come sogliono fare i moderni filosofi, alle cose, e i medici, alle malattie. Chiamino febbri autunnali, putride, infiammatorie ecc. quelle che noi coi nostri antichi chiamiamo intemperiose, ella è cosa innegabile, che nei tempi e luoghi che qui diconsi intemperiosi, ogni anno, fin degli assuefatti, cadono molte persone ammalate per ragion dell’intemperie» (ibidem).

 

[98] J.F. Mimaut, Histoire de la Sardaigne ou la Sardaigne ancienne et moderne, Blaise, Paris 1825, t. 2, 654 e 657. Sul diplomatico francese cfr. I. Calia, Francia e Sardegna nel Settecento, cit., 41-50 e 58-77.

 

[99] [S. CABONI], Stirpium Sardoarum Elencus. Autore Iosepho Hyacintho Moris in Regio Calaritano Atheneo Clinices Professore, Collegii Medicorum Taurinensis, et Regiae Societatis Agrariae, et Oeconomicae Caralitanae Socio, in «Giornale di Cagliari», I, 1827-2, 24-29. Ulteriori riscontri degli spiccati interessi di Leo per la botanica sono nel medaglione biografico di Zucca: «Fondò […] gli studi botanici e senza dipartirsi dal sistema di Linneo che chiamava il più filosofico, comunicò ai suoi allievi tutte le scoperte, ed i progressi che vi si eran fatti fino a quei giorni. Né di ciò contento formò nella sua casa un piccol orto botanico, da lui con somma cura arricchito di piante esotiche tratte non che dall’Italia anche dall’Anglia» (Notizie biografiche del professore Pietro Leo, cit., 25). Anche Matteo Luigi Simon, nella sua opera più ampia e articolata, De la Sardaigne ancienne et moderne ou aperçu d’un voyage statistique, critique et politique de l’île de Sardaigne, a cui lavorò fino agli ultimi anni della sua vita, accreditava l’idea che Leo intendesse pubblicare uno studio sulla flora sarda: «Senza la sua morte prematura in Parigi dove si era recato per approfondire i suoi studi egli, con la sua applicazione, avrebbe potuto fare delle scoperte utili su questa materia e rendere un importante servizio alla patria. Egli contava soprattutto di darci – asseriva Simon – una descrizione della Flora sarda, un’opera che manca alla Sardegna» (Matteo Luigi Simon. La Sardegna antica e moderna, C. Sole e V. Porceddu (a cura di), Ediz. AV, Cagliari 1995, 22).

 

[100] «Non ci dilungherem dunque dal vero in asserire doversi al Leo il rifiorimento della Sarda Medicina – scriveva l’anonimo autore di una scheda sull’opera e sulla personalità di Leo redatta prima della metà degli anni trenta dell’Ottocento [forse lo storico Pietro Martini] –, che in tal bisogna solo i primi passi egli calcò; lasciando però a quei suoi discepoli che or fregiano le nostre cattedre un’eredità di lumi non meno che di patrio zelo, l’opera intera direi quasi compiva» (BUC, Fondo manoscritti, Ms. 10.3.12: composto di 9 cc., il manoscritto fa parte del materiale pervenuto in epoca successiva alla donazione Baille del 1843, all’interno del quale sono compresi diversi manoscritti di Lodovico e Faustino Baille e di Pietro Martini che fu direttore della stessa Biblioteca dal 1842 al 1866. A un confronto sinottico il testo si presenta come una bozza della voce pubblicata da Martini nella sua Biografia sarda, cit., ma la calligrafia della scheda non è certamente del Martini). Ringrazio la dott. Maria Teresa Passiu che mi ha generosamente assistito nelle ricerche presso l’archivio della Biblioteca.

 

[101] Sono di particolare interesse sotto questo profilo sia la prelezione di Giuseppe Giacinto Moris, professore di Clinica medica nell’Università di Cagliari, De praecipuis morbis Sardiniae vel a loci, vel ab aere effluentibus, Chirio e Mina, Torino 1823, sia il trattato di Carlo Giacinto Sachero, professore di Medicina teorico-pratica nell’Università di Sassari, Dell’intemperie di Sardegna e delle febbri periodiche perniciose, Tipografia Fodratti, Torino 1833, significativamente dedicato allo storico Giuseppe Manno.

 

[102] Notizie biografiche del professore Pietro Leo, cit., 26. La stessa immagine è ripresa negli enfatici versi dedicatigli dal letterato e storico Pietro Martini: «O dolce Patria il venera/ In Leo diletto figlio,/ Che, due volte del pelago/ varcato già il periglio,/ Dalla maestra Italia/ ritorna in grembo a te./ […] Perché ti pasci o Patria/ Di lusinghiera speme?/ Avversa al merto Lachesi/ Fra poco all’ore estreme/ Da te lontan, nel viride/ Degli anni il menerà./ […] La Morte non placabile/ gli vibra alfin il telo:/ Ei, nel passaggio, il tremulo/ Guardo volgendo al cielo,/ La Patria, i Cari memora, fra l’onda de’ sospir» (P. Martini, Poesie in lode d’illustri sardi, Paucheville, Cagliari 1834, 77, 79, 80). La patria e l’arte medica sono al centro del sonetto composto negli stessi anni (ma rimasto inedito per oltre un secolo) da Stanislao Caboni, magistrato, letterato, promotore e principale artefice del «Giornale di Cagliari» (1827-29), futuro deputato nel Parlamento subalpino: «Caldo di patrio amor, d’ardente ingegno, /Vide d’antica ruggine macchiata/ Costui la Sarda medicina e sdegno/ N’ebbe grave e dolor l’alma onorata./ […]» (S. Caboni, Ritratti poetico-storici d’illustri sardi del secolo XVIII e XIX. Quaranta sonetti con prefazione e note di Antonio Scano, sei, Cagliari 1937, 25).