N. 7 – 2008 –
Contributi//Autonomie-e-Riforme
La Revisione degli statuti speciali
nel
sistema delle fonti*
Università di Sassari
Sommario: 1. Premessa.
– 2. Prima ipotesi. – 3. Seconda
ipotesi. – 4. Problemi. – 5. Terza
ipotesi. – 6 Perché
è preferibile la terza ipotesi.
– 7. L’approccio
valutativo nell’interpretazione del sistema delle fonti. – 8. Il pluralismo istituzionale
paritario e la collaborazione tra gli enti che compongono la Repubblica nella
decisione circa la loro posizione costituzionale.
Come è noto, la legge costituzionale 31 gennaio 2001, n.
2 (Disposizioni concernenti
l’elezione diretta dei presidenti delle regioni a statuto speciale e
delle province autonome di Trento e di Bolzano) ha inserito nello statuto
di ciascuna delle Regioni ad autonomia speciale alcune disposizioni volte a
regolare le successive modifiche del medesimo.
Esse introducono mutamenti di tre tipi al procedimento di
revisione statutaria. In sintesi: a)
prevedono la possibilità di presentare proposte anche per i consigli
regionali; b) dispongono che i
progetti di modificazione degli Statuti di iniziativa parlamentare o
governativa siano comunicati al relativo Consiglio regionale o provinciale
affinché quest’ultimo esprima un parere al riguardo; c) escludono la possibilità di
sottoporre le modifiche allo Statuto a referendum
nazionale.
Come è agevole rilevare, la prima di tali modifiche
è priva di autonomo contenuto precettivo, stante la possibilità
di presentare proposte di legge costituzionale che doveva comunque ritenersi
sussistente in capo ai consigli regionali in virtù dell’art. 121
Cost.[1].
La seconda modifica, invece, ha introdotto un aggravamento – sia pur debole,
in ragione del carattere solo obbligatorio del parere – del procedimento
di revisione, mentre la terza ha configurato tale procedimento come “meno
aggravato” rispetto al procedimento “ordinario” di revisione
costituzionale.
La disciplina brevemente illustrata è stata peraltro
oggetto di vistose critiche, motivate evidenziando:
a)
l’inopportunità di una legge che consideri questione non rilevante
per il «popolo italiano nella sua interezza» la posizione
costituzionale delle Regioni speciali[2].
Una valutazione nel complesso positiva proviene invece da Antonio
D’Atena, il quale tuttavia non risparmia anche notazioni critiche[3];
b) il
possibile contrasto con l’art. 138 Cost., in base ad una interpretazione di
questa disposizione che ne impedirebbe una revisione tale da modificarne il
“nucleo essenziale”, nel quale sarebbe compresa anche la
possibilità dello svolgimento del referendum
nazionale[4].
L’esclusione del referendum
nazionale costituisce dunque un nodo problematico da subito rilevato in
dottrina. Ci sono state, come si è accennato, critiche che si collocano
sul piano della politica del diritto, e rilievi di incostituzionalità
della norma in questione. Non sono molti, però, i tentativi di offrire
una collocazione sistematica a tale fonte, soprattutto in relazione ai suoi
rapporti con la legge costituzionale che continua ad essere disciplinata
dall’art. 138. È invece importante discutere tale nodo
perché solo così ci si potrà fare un’idea un
po’ più consapevole sul significato della citata esclusione del referendum nazionale.
Il primo tentativo di un inquadramento sistematico della fonte
di revisione statutaria proviene da
Tale impostazione, prendendo in considerazione le esposte
caratteristiche del procedimento di revisione statutaria, considera
determinante l’aggravamento rappresentato dall’accoglimento (sia
pure solo parziale) del principio collaborativo.
Alla luce di tale approccio quella disciplinata dalla legge
costituzionale n. 2 del 2001 sarebbe una legge costituzionale atipica, sul
modello delle numerose leggi (ordinarie) atipiche che il nostro ordinamento
costituzionale conosce. Questa ricostruzione presuppone che la “legge
costituzionale” (tuttora) menzionata nell’art. 116 sia quella
caratterizzata dalle peculiarità su cui ci si è soffermati nel
paragrafo precedente.
In base a tale approccio è necessario costruire i
rapporti tra legge costituzionale tipica ed atipica alla luce del principio di
competenza.
In un quadro di questo genere si dovrebbe ritenere che
l’ambito della riserva competenziale derivi dalla limitazione
dell’ambito territoriale di applicazione delle norme in questione.
Ciò in quanto non è possibile dedurre dalla formula “forme
e condizioni particolari di autonomia” limiti inerenti le materie sulle
quali la normazione statutaria può svolgersi. Questa prospettiva,
ovviamente, è frutto di un punto di vista che respinge la (più
diffusa) tesi secondo la quale il limite che gli statuti speciali incontrerebbe
sarebbe essenzialmente un limite competenziale (implicato dalla formula
“forme e condizioni particolari di autonomia”), talvolta
identificato con le materie disciplinate dal Titolo V della Parte seconda della
Costituzione[6].
La conseguenza di un simile modo di ragionare è che
l’esistenza di un procedimento atipico produrrebbe l’effetto di
rendere incostituzionale una legge costituzionale tipica che disponesse con
effetti territorialmente circoscritti ad una singola Regione speciale. E
viceversa, sarebbe incostituzionale (ovviamente) una legge costituzionale
atipica che disponesse con effetti territorialmente non limitati alla Regione
speciale in questione.
Tale approccio, però, deve essere messo alla prova con
una domanda: se la legge costituzionale rispettasse l’aggravamento
collaborativo, ma fosse anche “dotata” del referendum? Come si
collocherebbe una fonte siffatta nel sistema? La risposta non è agevole
da fornire, poiché non soccorrono i consueti esempi di legge atipica. In
quei casi, infatti, la peculiarità “aggravante” non si
combina con una orientata in senso opposto.
Forse si potrebbe considerare la legge costituzionale ex art. 138 preceduta da una fase
collaborativa con la Regione interessata non solo abilitata ad intervenire, ma
anzi in grado di prevalere sulle norme dettate mediante la legge di revisione
statutaria in base al principio gerarchico.
Tale conclusione potrebbe però essere contestata in base
alla affermazione secondo la quale «l’esclusione del referendum
è un elemento dell’aggravamento procedurale, poiché
impedisce che alla deliberazione approvata col consenso regionale possa essere
opposto il corpo elettorale nazionale»[7].
Il nodo è della massima importanza. Per scioglierlo,
però, bisogna confrontarsi con quella che è la questione centrale
di tutto il discorso, ossia, come si accennava, il peso della esclusione del referendum nella questione concernente
la collocazione della legge di revisione statutaria nel sistema delle fonti. Su
tale tema ci si concentrerà più avanti, dopo aver preso in
considerazione altre due possibili ipotesi.
Pietro Pinna ha offerto una differente sistemazione del rapporto
tra legge costituzionale e fonte di revisione statutaria nella seconda edizione
de Il diritto costituzionale della
Sardegna[8].
Anche in questo caso la legge di revisione statutaria è
una legge costituzionale atipica. Anche in questo caso la relazione con la
fonte tipica è imperniata sul criterio della competenza: sulla materia
riservata «non può intervenire la legge costituzionale
tipica»[9].
Le differenze maggiori sono legate alle modalità di
identificazione dell’oggetto riservato al procedimento atipico.
La legge costituzionale (come mostra il testo dell’art.
116 Cost.) è «la fonte abilitata a disporre il regime
costituzionale speciale di ciascuna regione differenziata (lo Statuto-legge
costituzionale)»[10].
La legge di revisione statutaria (legge costituzionale atipica) è volta
invece alla revisione di quel regime. Dunque, «la materia riservata al
procedimento atipico (…) coincide con la disciplina statutaria
vigente»[11].
Quindi «comprende (…) non ogni previsione speciale che dovesse
riguardare la regione, ma più precisamente le deroghe disposte dallo
statuto di ciascuna regione differenziata»[12].
In conclusione, «è riservato al procedimento atipico la revisione
dello Statuto e non la deliberazione di ogni altra norma costituzionale che
preveda forme e condizioni particolari di autonomia»[13].
Ciò, invece, si può fare con le leggi costituzionali tipiche.
Quindi, «ricalcando la distinzione tra le leggi di revisione
costituzionale e le altre leggi costituzionali, si può dire che il procedimento
atipico è riservato alle leggi di revisione statutaria, ma non alle
altre leggi costituzionali previste dall’art. 116 Cost.»[14].
Questa impostazione ha alcune implicazioni problematiche. In
particolare, il parallelo con la distinzione tra leggi costituzionali e leggi
di revisione costituzionale crea una serie di difficoltà quando da esso
si voglia fare derivare un riparto di competenza tra le due fonti. Ad esse ci
si dedicherà nel paragrafo che segue.
Innanzi tutto, non è facile identificare con chiarezza
l’ambito riservato.
1a) Una prima
possibilità potrebbe essere quella di intendere la
“revisione” in senso formale. In quest’ottica deve ritenersi
riservato alla legge statutaria tutto ciò che incide sul testo dello statuto vigente. In tal modo
però si giungerebbe alla indesiderabile conclusione secondo la quale la
legge costituzionale tipica sarebbe fonte competente ovvero incompetente, nel
caso in cui aggiungesse una nuova norma, a seconda delle tecnica normativa
utilizzata: competente se si limitasse a disporre per la Regione speciale;
incompetente se inserisse una nuova disposizione nel testo dello statuto.
1b) Si potrebbe invece
ritenere che la “revisione (formale)” alluda a modifiche delle
disposizioni esistenti. Quindi si potrebbe aggiungere
con la fonte tipica, ma modificare
solo con la fonte atipica.
Un primo problema di questa impostazione però sarebbe il
seguente: come si modifica ciò
che è stato aggiunto? Il rinvio
alle norme statutarie vigenti deve essere inteso come rinvio fisso o mobile, al
fine di delimitare l’ambito di competenza della fonte? Ed ancora, se
ciò che è riservato è la modifica, ciò non dovrebbe comportare
l’impossibilità di aggiungere
per la fonte atipica?
Ma soprattutto, se l’ambito riservato fosse individuato
mediante l’approccio “formale”, la revisione statutaria modificativa della disciplina esistente
sarebbe solo quella caratterizzata dalla abrogazione espressa. Se così
fosse basterebbe alla fonte tipica limitarsi a disporre in contrasto con lo
statuto per divenire fonte competente.
2. Si potrebbe invece ritenere che la “revisione
statutaria” vada intesa in senso sostanziale. In altre parole, ciò
che sarebbe riservato alla fonte atipica è l’insieme di materie già disciplinate dallo statuto
vigente.
Anche tale impostazione, però, non è priva di
punti problematici.
a) Una
sua prima conseguenza infatti dovrebbe essere quella secondo la quale norme
concernenti materie “nuove” dovrebbero venire aggiunte allo statuto
con la legge costituzionale tipica, mentre bisognerebbe ricorrere alla fonte
atipica per ridisciplinare oggetti già regolati. Con la conseguente
parziale incostituzionalità della legge costituzionale (tipica o atipica)
che contenesse norme dell’uno e dell’altro tipo[15].
b)
Ulteriori problemi, inoltre, pone la questione della approvazione di un
“nuovo” statuto, che ridisciplini nuovamente la posizione
costituzionale complessiva della Regione speciale. Ragionando in base alla
prospettiva accennata, esso – non potendo non intervenire in relazione a
materie già regolate – dovrebbe essere adottato mediante la fonte
atipica. Tuttavia ciò costituirebbe un limite per il “nuovo”
statuto, poiché il quid
già oggetto di regolazione rappresenterebbe anche il limite oltre il
quale non si potrebbe spingere. Per regolare nuovamente la posizione
costituzionale della Regione, disciplinando anche oggetti “nuovi”,
occorrerebbero due differenti atti normativi. Uno tipico, e l’altro
atipico.
c) In
senso inverso, si potrebbe invece ritenere la fonte tipica abilitata ad
adottare un nuovo statuto in quanto fonte abilitata a definire la posizione complessiva dello Regione speciale
nell’ordinamento costituzionale. Anche tale strada, però, pare
porre più problemi di quanti ne risolva.
Dinanzi ad una nuova normativa concernente oggetti già
disciplinati posta mediante la fonte atipica, per stabilire se si tratta di una
fonte competente o meno, bisognerebbe capire se con essa si è inteso
ridefinire nel complesso la posizione costituzionale della Regione, ovvero,
più modestamente, modificare alcuni aspetti di quest’ultima.
In alcuni casi tale opzione è certamente agevole. In
altri, però, può essere particolarmente complessa. Dinanzi ad una
sistematica nuova regolazione delle funzioni normative ed amministrative,
nonché dell’organizzazione della Regione, ci si dovrebbe chiedere
se eventuali disposizioni dello Statuto non contrastanti con esse rimangano in
vigore o meno. Certo, l’esistenza di norme di abrogazione espressa
risolverebbe il problema. Ma altrimenti? Ove si ritenesse che l’insieme
delle nuove norme regolano, nel suo complesso, la posizione costituzionale
della Regione, si dovrebbe rispondere negativamente. E viceversa. Si tratterebbe
dunque, di capire se vi è stata una abrogazione per “complessiva
regolazione della materia”. In un caso come nell’altro bisognerebbe
inoltre trarre le necessarie conseguenze sulla individuazione della fonte
competente. In sintesi, si potrebbe dire che la abrogazione mediante nuova
regolazione complessiva è consentita alla fonte tipica.
Altrove ho provato a proporre una differente ipotesi
ricostruttiva delle relazioni tra la “fonte di revisione
statutaria” disciplinata dalla legge cost. n. 2 del 2001 e la legge
costituzionale regolata dall’art. 138 sviluppando una analogia con i noti
meccanismi della delegificazione[16].
In sintesi, si può ritenere che mediante le richiamate
disposizioni della legge cost. n. 2 del 2001 sia stata istituita una ulteriore
fonte del diritto, subordinata alle fonti di rango costituzionale ma
sovraordinata rispetto al livello primario, e ciò in virtù di un
procedimento che – rispetto a quello della legge formale ordinaria
– si presenta sì aggravato, ma in “misura” inferiore a
quello che caratterizza le leggi costituzionali, e per di più in
relazione ad un passaggio procedurale particolarmente qualificante quale il referendum nazionale.
Tale tesi, peraltro – oltre a rispondere alle
perplessità avanzate in dottrina circa il novellato procedimento di
riforma degli statuti[17]
– può vantare a proprio sostegno un argomento testuale. Le
disposizioni della legge cost. n. 2 del 2001, infatti, non si spingono ad
affermare che la revisione statutaria avverrà mediante leggi
costituzionali non sottoponibili a referendum
nazionale: si limitano, invece, a disporre che per le modificazioni dello
Statuto «si applica il procedimento stabilito dalla Costituzione per le
leggi costituzionali», con l’ulteriore precisazione della sottrazione
al referendum. In altre parole, la
legge cost. n. 2 del 2001 si guarda bene dall’attribuire alla fonte
regolata il nomen iuris di
“legge costituzionale”, limitandosi a rinviare all’art. 138
Cost. per la individuazione del relativo procedimento per quanto in essa non
espressamente previsto.
Inoltre, in tal modo si riesce anche a recuperare il senso
dell’art. 116 Cost., il quale mantiene l’abilitazione alla legge
costituzionale a definire la posizione costituzionale complessiva delle Regioni
speciali.
La fonte di revisione statutaria, dunque, non sarebbe una legge
costituzionale, ma una fonte ad essa subordinata, caratterizzata da un
procedimento disciplinato (anche) mediante la tecnica del rinvio all’art.
138, ed abilitata a disporre in contrasto con norme di rango costituzionale,
realizzando così un fenomeno di “decostituzionalizzazione”
in senso tecnico accostabile alla “delegificazione” disciplinata
dall’art. 17 della legge n. 400 del 1988.
Nel ragionamento che si è abbozzato più sopra ho
provato a porre in evidenza un gruppo di problemi, non facilmente superabili,
implicati dalla tesi che punta a inquadrare i rapporti tra la legge
costituzionale ex art. 138 e la legge
di revisione statutaria alla luce del principio di competenza. I problemi
derivano soprattutto dalla circostanza secondo la quale non è agevole
individuare l’ambito di competenza affidato alla “nuova”
fonte coordinandolo con la perdurante possibilità per la legge
costituzionale tipica di intervenire a disciplinare la posizione costituzionale
della Regione.
Quindi una prima ragione per preferire la tesi che impernia sul
principio gerarchico le relazioni tra le due fonti è legata alla
maggiore funzionalità che caratterizzerebbe, in tal modo, il sistema
delle fonti concernenti le Regioni speciali.
Questo argomento potrebbe però essere ritenuto valido nei
confronti dell’ipotesi 2, ma non nei confronti dell’ipotesi 1.
Bisogna dunque esaminare il presupposto su cui sia l’una che le altre
sono fondate. Bisogna, in altre parole, concentrare l’attenzione sul
significato che assume nel sistema la esclusione del referendum nazionale.
I rapporti di sovra e sotto ordinazione nel sistema delle fonti
sono talvolta definiti espressamente dalle norme sulla normazione.
L’esempio tipico è quello dell’art. 134 Cost., che esplicita
il rapporto gerarchico esistente tra Costituzione e legge.
In altre circostanze, però, ciò non avviene. In
questi casi i rapporti tra le fonti vanno ricostruiti attraverso procedimenti
interpretativi più complessi, imperniati su una valutazione assiologia
dei procedimenti normativi coinvolti. Così avviene, ad esempio, per la
questione dei limiti assoluti alla revisione costituzionale. Così
è necessario procedere anche nel caso in questa sede in discussione.
La nostra costituzione orienta le relazioni gerarchiche in
virtù della maggiore o minore approssimazione al miglior esplicarsi del
principio democratico (o quantomeno di una sua possibile declinazione).
È su tale assunto che è fondata la preferenza di legge[18],
nonché la superiorità della legge
Nonostante la conclusione che si intende sostenere in questo
scritto sia proprio questa, bisogna però evidenziare come la vicenda sia
molto più complessa rispetto a quanto potrebbe apparire da questi brevi
cenni. Tale approccio, infatti – per essere applicato al caso in
questione – deve essere depurato dalle venature organiciste o idealiste
da cui sovente è stato caratterizzato.
La teoria democratica costruita attorno al principio di
sovranità popolare sin dall’inizio individua il nuovo soggetto
sovrano e cerca le forme tramite le quali tale soggetto può trovare la
sua unità ed essere, quindi, capace di volontà. Queste forme sono
comunque costituite dalla rappresentanza politica, anche se il principio di
unità muta al mutare dei tempi. È meccanico nella lettura
utilitarista della rappresentanza politica: solo lo spazio ed il tempo
impediscono ai cittadini di riunirsi in assemblea, e solo la rappresentanza
riesce a superare questo ostacolo fisico[19];
è ideale nella teoria della rappresentanza della Nazione, o comunque in
quelle teorie che fanno leva sulla unità spirituale del soggetto sovrano[20];
è insieme valoriale e procedurale nello Stato dei partiti, nel quale la
volontà generale può essere individuata mediante una scansione
procedimentale, che trova i suoi momenti chiave nella relazione biunivoca tra
società civile e partiti (volta a far emergere interessi e istanze
valutative), nel momento elettorale, e nella decisione parlamentare (volta a
dare forma legislativa a tali interessi e istanze)[21].
Ciò che in questa sede rileva, ad ogni modo, è che
in tale sistema la volontà è democratica nella misura in cui
promana da un soggetto collettivo che – per il tramite delle prestazioni
offerte dalla rappresentanza politica – trova la sua unità al
livello centrale.
Tale approccio ha sostenuto anche la strutturazione delle
relazioni tra Stato e Regioni nell’esperienza costituzionale italiana. La
preminenza dell’indirizzo politico-amministrativo dello Stato rispetto a
quello che si produce al livello regionale – sotteso alle dinamiche
dell’interesse nazionale, e più in generale all’intero
sistema dei limiti alla funzione legislativa regionale, almeno così come
ricostruito dalla
Fondamento ed insieme compimento di tali caratteristiche
dell’esperienza costituzionale italiana è il convincimento
concernente la validità costituzionale. L’insegnamento mortatiano
secondo il quale la validità di una costituzione riposa sulle spalle
delle forze politiche dominanti ha connotato fortemente le ricostruzioni di
teoria costituzionale, e – depurato dal monismo che lo caratterizza
– ha rappresentato un tratto condiviso da gran parte della dottrina
costituzionalistica italiana[22].
In base ad una simile ricostruzione la preferenza per la fonte
che coinvolge anche il corpo elettorale nazionale – rispetto alla fonte
che non lo coinvolge – non può essere negata.
Il problema, però, è che tali premesse non paiono
più corrispondere alla presente situazione costituzionale. La questione
è complessa, e – come è evidente – non può
essere affrontata ex professo in
questa sede[23].
Tre brevi notazioni, per tutte.
1. La accettazione della teoria dei limiti assoluti alla
revisione costituzionale – il riferimento alla sentenza della
2. Abbandonata l’idea secondo la quale la
democraticità dei processi di decisione politica dipende dalla loro
riconducibilità ad un soggetto collettivo, che trova la propria
unitarietà per il tramite delle prestazioni assicurate dalla
rappresentanza politica, cade l’argomento a favore del maggior pregio
dell’indirizzo politico statale. Anzi, l’argomento democratico può
essere utilizzato in senso inverso, poiché le deliberazioni pubbliche
adottate in comunità più piccole si avvicinano maggiormente
all’ideale dell’autonormazione rispetto a quanto non accada in
comunità più grandi[25].
3. Le logiche del principio di sussidiarietà (inteso in
senso lato) che innervano la riforma costituzionale del 2001 – sottese
sia alla clausola della residualità che alla sussidiarietà (in
senso stretto) di cui all’art. 118 – si inseriscono dunque in
questa logica, invertendo la direzione preferenziale che premiava la rappresentanza
politica nazionale a scapito di quella regionale (e locale)[26].
Questi argomenti bastano per evidenziare come il paradigma prima
illustrato non possa essere più riproposto. Esso non può quindi
fondare la preminenza della legge costituzionale rispetto alla legge di
revisione statutaria.
Viceversa, potrebbero essere individuate ragioni per ribaltare
la ipotizzata relazione preferenziale tra le due fonti. In particolare,
potrebbe essere valorizzato il riferimento all’autogoverno implicito
nella dimensione collaborativa della legge di revisione statutaria per
sostenere la “maggiore democraticità” di quest’ultima
rispetto alla legge costituzionale tradizionale.
È probabilmente un approccio di questo genere che
sorregge sia l’affermazione sopra riportata[27]
secondo cui l’assenza del referendum
nazionale rappresenterebbe un “aggravamento procedurale”, che,
più in generale, la lettura in termini competenziali del rapporto tra le
due fonti. La “maggiore democraticità” della autonormazione
troverebbe ovviamente esplicazione tramite il principio di competenza e non
attraverso il principio gerarchico.
Tali conclusioni vanno però vagliate in relazione al
contenuto che può effettivamente assumere la fonte statuto.
1. Ove si accolga la prima delle ipotesi delineate, è
evidente che lo Statuto può contenere qualunque tipo di norma, trovando
l’unico limite dei principi supremi dell’ordinamento costituzionale
(la cui tenuta, come è evidente, dovrà essere valutata non
soltanto in relazione al contenuto precettivo delle norme in questione, ma
anche in relazione alla circostanza secondo la quale esse hanno un ambito
territoriale di applicazione limitato alla singola Regione speciale:
ciò, naturalmente, ove si accolga la tesi secondo la quale il limite
agli statuti legge-costituzionale è solo materiale e non anche
competenziale).
In un quadro di tal genere, però, è evidente come
nello statuto possono penetrare norme che connotano il senso della vita
associata al livello ultraregionale. L’ipotesi, ad esempio, di norme
sostantive di principio contenute nello statuto, e dunque valide solo in
relazione all’ambito regionale, è idonea ad evidenziare come per
tale via si possa incidere su prestazioni di unità che la Costituzione
è in grado di fornire all’ordinamento. Un esempio concreto
potrebbe essere individuato pensando al c.d. NIMBY[28].
Una normazione di tal tipo non riguarda esclusivamente
L’argomento dell’autogoverno non può dunque
valere a sanzionare – per il tramite del principio di competenza –
la recessività della legge costituzionale tipica rispetto quella
atipica. Accogliendo tale punto di vista, dunque, non potrà non
concludersi nel senso della preferibilità “democratica”
della fonte che è in grado di coinvolgere anche il corpo elettorale
nazionale rispetto a quella che non lo è.
2. La medesima soluzione, però, deve essere accolta anche
nel caso in cui ci si ponga nella seconda delle prospettive illustrate.
È vero che, in quel contesto, alla legge di revisione statutaria
è affidato un compito più circoscritto, confinato entro gli
ambiti già “coperti” dallo Statuto vigente. Deve però
essere evidenziato come anche tali ambiti siano parecchio pregnanti e
soprattutto non coinvolgano soltanto l’ordinamento regionale. Ad esempio,
le norme sul riparto di competenze legislative incidono sul peso che la
rappresentanza politica nazionale ha nei processi di normazione. Analogamente
si può ragionare per il riparto di competenze amministrative. Come si
vede, neanche la decisione concernente le materie già regolate dagli
statuti riguardano esclusivamente l’ordinamento regionale. Riguardano
almeno allo stesso modo, infatti, anche l’ordinamento generale, incidendo
sul ruolo che ha in esso la rappresentanza politica.
Anche affrontando il problema da questo punto di vista, dunque,
la conclusione non può che essere nel senso della costruzione dei
rapporti tra legge costituzionale tipica e legge di revisione statutaria alla
luce del principio gerarchico. Non è la “bruta” preminenza del
momento di unificazione politica che si produce al livello statale rispetto a
quello regionale che giustifica la preferenza della legge costituzionale. Anzi,
come si è avuto modo di porre in evidenza, sono reperibili nel sistema
indizi in grado far invertire quella condizione di preminenza di cui godeva
l’indirizzo politico statale rispetto a quello prodotto al livello
regionale. È invece la circostanza secondo la quale le scelte che lo
Statuto speciale è destinato a compiere riguardano l’ordinamento
generale almeno quanto quello regionale.
Esse sono in grado di incidere sul senso della vita associata,
sui meccanismi solidaristici tra le diverse collettività stanziate sul
territorio nazionale, sui processi di unificazione della collettività
ultraregionale. Per questa ragione non può essere negata la preminenza
assiologia della fonte che è in grado di coinvolgere il corpo elettorale
nazionale, e dunque la sua superiorità gerarchica rispetto alla fonte
che non lo è.
Le osservazioni appena svolte potrebbero essere criticate da chi
evidenziasse come – in un assetto di tipo federale, e comunque nel
sistema costituzionale attualmente vigente, caratterizzato dal c.d. pluralismo
istituzionale paritario[29]
– la posizione costituzionale della Regione non possa essere stabilita
unilateralmente dallo Stato. Questa affermazione è senza dubbio
condivisibile. Tuttavia non pare poter condurre nella direzione auspicata.
Il problema è che la specialità risponde ad una
logica radicalmente opposta a quella del pluralismo istituzionale paritario. La
specialità presuppone lo Stato unitario, o almeno a forte
centralizzazione. È imperniata su una “elargizione”. Lo
Stato centrale concede, in considerazione delle peculiarità che
caratterizzano ogni singola Regione speciale, e dunque in base ad una
valutazione di opportunità politica, uno statuto di particolare
autonomia[30].
Le condizioni di autogoverno che esso implica, però, non
ineriscono alla posizione costituzionale del cittadino in quanto tale.
Altrimenti, non potrebbero essere declinate solo per coloro che fanno parte
delle Regioni speciali.
Esse, dunque, sono oggetto di una “concessione” che
la comunità politica statale – mediante lo strumento più
“alto” di cui dispone, ossia la legge costituzionale –
ritiene di accordare alla comunità politica regionale. Portando tale
logica sul piano delle fonti – che è quello che in questa sede
specificamente interessa – non si può non concludere nel senso
accennato più sopra. Ossia quello della necessaria preferenza della
fonte tipica rispetto alla legge di revisione statutaria.
La “logica” del pluralismo istituzionale paritario,
invece, è del tutto diversa. Essa non è basata su uno statuto di
privilegio concesso per ragioni di opportunità politica a determinate
comunità locali. È, viceversa, frutto di un complessivo ripensamento
delle relazioni tra cittadini e potere pubblico, tra governanti e governati.
Dunque, di un complessivo ripensamento dell’assetto della forma di stato,
nel senso più pregnante che a tale formula si suole dare.
Tale assetto, come è evidente, nel suo nucleo essenziale
non può essere differenziato tra Regione e Regione, tra cittadino e
cittadino. Il nucleo essenziale del “senso” delle relazioni tra
singoli e potere pubblico, delle modalità di partecipazione dei primi al
secondo, coinvolge tutti i soggetti dell’ordinamento. Fa parte del non
differenziabile.
L’affermazione secondo la quale il principio di pari
dignità tra gli enti che compongono
Tutti gli enti protagonisti del pluralismo istituzionale
dovrebbero concorrere, paritariamente, alla definizione della propria posizione
nel sistema costituzionale. La collaborazione non è rinunciabile.
È però evidente che essa dovrebbe assumere forme radicalmente
differenti da quelle del “rapporto singolo con lo Stato” che invece
hanno caratterizzato le vicende della specialità. In quel contesto il rapporto è singolo, poiché è
lo Stato che concede, in considerazione di peculiari ragioni di
opportunità politiche diverse per ciascuna Regione. Oggi non
c’è più spazio per il rapporto singolo, poiché il
pluralismo istituzionale connota la posizione del cittadino davanti al
complesso dei poteri pubblici. Ma allora le forme della collaborazione devono
essere in grado di coinvolgere l’insieme degli enti interessati. È
evidente, dunque, che la prospettiva è quella della seconda camera. Il
confronto con la camera bassa consente di interloquire con la rappresentanza
politica nazionale, come si è visto direttamente interessata dalla
decisione circa la posizione costituzionale degli enti substatali. Le dinamiche
interne alla camera alta, invece, consentono di coinvolgere – per mezzo
delle relative rappresentanze politiche – le collettività
regionali[31].
L’accordo della singola Regione speciale con lo Stato
circa la propria posizione costituzionale non rappresenta dunque una
“anticipazione” dell’assetto federale. Questo presuppone
necessariamente un approccio “globale”. Quello, come si è
visto, è figlio di una logica diversa. Il suo inserimento nel
regionalismo di oggi rappresenta una forzatura. Il tentativo di incastrare un
pezzo di un puzzle nella trama di un
altro.
Le sorti della specialità, in questo contesto, sono
estremamente incerte. Essa deve rinunciare all’idea di un rapporto
preferenziale con lo Stato centrale. Deve collocarsi in un sistema che ha
invertito la logica di cui essa era frutto. Deve compiere un atto di coraggio,
sentendosi partecipe di una rete di relazioni al pari degli altri soggetti
coinvolti, e provando semmai a sfruttare l’occasione dello Statuto
speciale per approfondire quella logica in cui, ormai, non può che
essere inserita.
* Il presente studio è
stato pubblicato nel volume La riforma della
regione speciale. Dalla legge statutaria al nuovo statuto speciale, a cura
di O. Chessa e P. Pinna, Torino, 2008.
[1] Si
tratta di un rilievo comune in dottrina. Cfr. R.
Tosi, La revisione dello Statuto
speciale del Friuli-Venezia Giulia: una disciplina incerta tra omologazione e
differenziazione, in Le Regioni,
2001, 511 ss., spec. 512-513. Cfr., inoltre, S.
Bartole, A proposito del disegno
di legge costituzionale n. 4368 (Senato della Repubblica-XIII legislatura) con
riguardo alla Regione Friuli-Venezia Giulia, in Rivista di diritto costituzionale, 1999, 197 e ss., in part. 200
(il quale, peraltro, fa riferimento specificamente all’art. 26 dello
Statuto friulano); T. Groppi, La modifica degli statuti delle regioni
speciali, in Giornale di diritto amministrativo,
2001, 442.
[2] S. Bartole, A proposito del disegno di l. cost. n. 4368, cit., spec. 201; T. Groppi, La modifica degli statuti delle regioni speciali, cit., 443.
Criticano la scelta della legge cost. n. 2 del 2001 anche A. Ruggeri, Elezione diretta dei Presidenti regionali, riforma degli statuti,
prospettive della «specialità», in Rivista di diritto costituzionale, 1999, 231 ss., spec. 257 ss., e C. Troisio, La recente riforma degli statuti speciali: un’occasione per una
nuova progettualità autonomistica, in Cooperazione mediterranea, 2001, 46 ss., spec. 52.
[3] Nello
scritto Dove va l’autonomia
regionale speciale? Prime riflessioni sulle tendenze evolutive in atto (con
particolare riguardo alla Sardegna ed alla Valle d’Aosta), in Rivista di diritto costituzionale, 1999,
208 ss., spec. 215 ss.
[4] S. Bartole, op. e loc. ult. cit. Cfr., in tal senso, anche R. Tosi, La revisione dello Statuto speciale, cit., 513-514, la quale
peraltro – prendendo le mosse dalla tesi dello Statuto speciale quale
fonte a competenza circoscritta – rileva come tale modifica esorbiterebbe
dalle “forme e condizioni particolari di autonomia” di cui
all’art. 116 Cost., di talché il risultato di sottrarre le
modifiche statutarie al referendum
nazionale avrebbe dovuto essere perseguito mediante una esplicita revisione di
tale disposizione costituzionale.
[6] La
tesi secondo la quale la materia attribuita agli statuti speciali non
coinciderebbe del tutto «con quella disponibile da parte delle comuni
leggi costituzionali» (L. Paladin,
Le fonti del diritto italiano,
Bologna, il Mulino, 1996 (rist. 2000), 170) è maggioritaria. In tal
senso, ad es., cfr. V. Crisafulli,
Lezioni di diritto costituzionale,
II, Padova, Cedam, 1984, 81-82; S.M. Cicconetti,
Legge costituzionale, in Enc. dir., XXIII, Milano,
Giuffrè, 1973, 939.
Una opinione differente è invece manifestata da U. De Siervo, Statuti regionali, in Enc.
dir., XLIII, Milano, Giuffrè, 1990, 998 ss. (spec. 1000). Ho provato
a fornire argomenti in favore della tesi secondo la quale gli statuti speciali
non soffrirebbero limiti diversi ed ulteriori rispetto alle comuni leggi
costituzionali in S. Pajno, G. Verde,
Gli Statuti-leggi costituzionali delle
Regioni speciali, in P. Caretti
(a cura di), Osservatorio sulle fonti
2005, Torino, Giappichelli, 2006, 299 e ss.
[7] Così P. Pinna, Il diritto
costituzionale della Sardegna, II ed., Torino, Giappichelli, 2007, 130.
[8]
È l’edizione citata alla nota precedente (Torino, Giappichelli,
2007). Si vedano, in part., le pag. 127-135.
[15]
Questo rilievo, peraltro, può essere calibrato, con i necessari
aggiustamenti, anche ove si intendesse la “revisione” in senso
formale, secondo quanto abbozzato più sopra.
[16] Si
veda S. Pajno, G. Verde, Gli Statuti-leggi costituzionali delle
Regioni speciali, cit., spec. 303 ss.
[18] Su
tale nodo, si veda, ad es., G. U. Rescigno,
Sul principio di legalità, in Diritto pubblico, 1995, 259 ss., ove si
legge che il principio di legalità «è incomprensibile se
non viene collegato con il principio della sovranità popolare e il
principio della divisione dei poteri» (ma vedi tuttavia la precisazione
contenuta nella nt. 28).
[19]
Questa giustificazione utilitaristica è molto ricorrente negli studi
concernenti la teoria della democrazia. Ad essa ha fatto ricorso, di recente,
anche un importante studioso come Robert Dahl (R. A. Dahl, Sulla democrazia,
trad. it. Roma-Bari, Laterza, 2000, 112 ss.).
[21] Cfr.
ad es., per la dottrina italiana, T. Martines,
Contributo ad una teoria giuridica delle
forze politiche, Milano, 1957, adesso in Id.,
Opere. I. Teoria generale, Milano,
2000, 109 ss.; Id., La democrazia pluralista, in Id., Opere, cit., 239 e segg.; G. Ferrara,
Alcune osservazioni su popolo, Stato e
sovranità nella Costituzione italiana, in Rass. dir. pubbl., 1965, 269 e segg.; Id., Il governo di coalizione, Milano, 1973.
Come è stato affermato, i costituzionalisti italiani
«non si sono mai più di tanto allontanati dall’idea-base che
la sovranità popolare (formalmente proclamata) diventa politica
essenzialmente per il tramite dei partiti politici, gli effettivi rappresentanti
della totalità del popolo»: totalità esprimentesi «in
Parlamenti altamente rappresentativi della pluralità dei partiti
politici e perciò da sistemi elettorali fortemente orientati in senso
proporzionale» (G. Volpe, Il costituzionalismo del novecento,
Roma-Bari, Laterza, 2000, 121).
[22] Pur
nel contesto delle numerose critiche che, come è noto, sono state
sovente, e sin dall’inizio, rivolte alla elaborazione del Maestro
calabrese. Si pensi ad esempio – e da differenti punti di vista – a
S. Romano, Principii di diritto costituzionale generale, Milano,
Giuffrè, 1947, 4; P. Barile, La costituzione come norma giuridica, Firenze, Barbera, 1951, 34
ss.; G. Balladore Pallieri, Diritto costituzionale, Milano,
Giuffrè, 1965, 48 ss.; T. Martines,
Contributo ad una teoria giuridica delle
forze politiche, cit., 22 ss.; G.
Guarino, Materia costituzionale,
costituzione materiale, leggi costituzionali, adesso in Id., Dalla Costituzione all’Unione europea (del fare diritto per
cinquant’anni), Napoli, Jovene, 1994, 171 ss.
[23] Sul
punto si veda O. Chessa,
[25]
L’argomento è “brutalmente numerico”: il peso
esercitato da ciascun cittadino nell’ambito delle procedure democratiche
di deliberazione pubblica mediante i propri diritti di partecipazione politica
è maggiore ove essi si svolgano in ambiti ristretti rispetto
all’eventualità in cui si svolgano in ambiti più ampi.
Semplicemente, infatti, i diritti politici dei singoli hanno una influenza
rispetto alle deliberazioni pubbliche che cresce inversamente al crescere del
corpo collettivo con il quale essi si confrontano.
[26]
È forse troppo da ciò inferire una razionalità del reale,
ma certo colpisce che proprio il 1988 sia stato l’anno in cui, oltre ad
accogliere esplicitamente la teoria dei limiti assoluti alla revisione
costituzionale, i giudici di Palazzo della Consulta – con la ben nota
sent. n. 177 – abbiano intrapreso un lungo percorso che li ha condotti a
reimpostare le relazioni tra Stato e Regioni, costruendo (tra l’altro) un
complesso test per valutare la
ragionevolezza della avocazione della funzione compiuta dal primo in nome
dell’interesse nazionale. Come è risaputo, tale test comprendeva (sia pure quale mera
“figura sintomatica” di una valutazione più generale, che
comunque non rinunziava alla preminenza dell’indirizzo politico statale)
l’ipotesi della inadeguatezza del livello regionale. Questo criterio
tendeva ad escludere la legittimità costituzionale dell’intervento
statale tutte le volte che una «adeguata soddisfazione, tenuto conto dei
valori costituzionali da rispettare o da garantire» dell’interesse
in questione potesse essere conseguita mediante gli strumenti di cui dispone
l’ordinamento regionale. A ciò va aggiunto che la inadeguatezza
del livello regionale era fatta dipendere solo dalla «dimensione o
complessità» dell’interesse de quo. Quanto accennato può essere letto come una parziale
anticipazione di quei criteri “funzionalisti” che saranno
successivamente recepiti dalla legge cost. n. 3 del 2001 (almeno nella lettura
che ne ha dato parte della
[28] Si
tratta, come è noto, dell’acronimo che sta per not in my backyard. Un caso che è
stato letto in questa chiave è quello risolto con la sentenza della
[29] Per
questa espressione cfr. M. Cammelli,
Amministrazione (e interpreti) davanti al
nuovo Titolo V della Costituzione, in Le
Regioni, 2001, 1273, spec. 1274 ss. Gran parte della dottrina, ormai,
aderisce come è noto a tale impostazione. Opinioni differenti
manifestano invece, ad esempio, A. Anzon,
I poteri delle Regioni, Torino,
Giappichelli, 2002, 212-213; R. Bifulco,
Art.
[30] Del
resto, del tutto priva di fondamento, da un punto di vista di storia
costituzionale, appare ad esempio la retorica sovente riproposta in Sicilia del
“patto” tra Regione e Stato che avrebbe sostenuto la redazione
dello Statuto del 1946. Al riguardo, dirimente in senso contrario è la
considerazione secondo la quale l’ordinamento di autonomia della Regione siciliana,
già nel periodo antecedente all’entrata in vigore della
Costituzione repubblicana, è divenuto efficace «in virtù di
atti di organi dello Stato» (C. Mortati, Istituzioni
di diritto pubblico, II, Padova, Cedam, 1976, 916, nt. 1). Ciò deve
dirsi anche per