Democrazia e qualità dei cittadini*
Preside della
Facoltà di Scienze Politiche
Università di Sassari
1. –
Secondo la revisione della teoria classica operata da Schumpeter, la democrazia
si configura non come governo del popolo, bensì come governo
approvato dal popolo. In una tale prospettiva il valore della democrazia risiede
non nell’essere, alla lettera, un sistema di autogoverno, ma un metodo di
scelta dei governanti basato sul consenso liberamente espresso dalla
maggioranza dei cittadini in funzione della selezione di una leadership all’interno di una rosa di
candidati che competono per il voto popolare, impegnandosi a realizzare, se
eletti, un determinato programma politico[1].
Ridotto
all’essenziale, il fondamento assiologico e la base di giustificazione
della democrazia risiedono dunque nella libertà-potere dei cittadini di
scegliersi i governanti, ergendosi ad arbitri della competizione elettorale[2].
In questo principio guida della
democrazia rappresentativa consiste la differenza fra
elitismo democratico ed elitismo tout court. Un conto è, infatti,
come aveva giustamente rilevato Filippo Burzio, un’élite
che si impone, altro è un’élite che si propone[3].
Nel far derivare dal basso il potere di legittimazione dei governanti,
nell’istituire l’unica relazione possibile di tipo ascendente di un
potere formale e istituzionalizzato, è questo principio a segnare
storicamente il passaggio dallo status di
suddito a quello di cittadino. Le elezioni, libere e periodiche, costituiscono
infatti il momento dell’investitura, l’atto solenne che conferisce
l’autorizzazione a comandare, che fonda, per gli eletti, il diritto di
legiferare e governare e da cui consegue, per i cittadini-elettori,
l’obbligo politico, cioè il dovere di osservare e rispettare le
leggi e gli outputs governativi.
Ma
questo meccanismo ha senso se al centro del processo di legittimazione si
colloca la categoria dell’interesse generale. Per quanto a molti
osservatori appaia come una nozione ormai anacronistica, un valore posticcio
legato alla retorica del buon governo, un residuo enfatico della cultura politica
veteroccidentale - a fronte di una realtà caratterizzata dagli sfrenati
particolarismi dei gruppi, da dinamiche di tipo corporativo e settoriale, da
procedure legittimanti anonime e impersonali - la nozione di interesse generale
svolge ancora un ruolo essenziale nella definizione della grammatica dei
sistemi democratici. Non a caso è un concetto continuamente evocato,
specie in occasione delle campagne elettorali, come elemento che qualifica il
punto di congiunzione nel rapporto fra governanti e governati. E non solo
perché tradizionalmente - da Aristotele in poi – è la
categoria che serve a discriminare fra le forme buone e le forme corrotte di
governo. Il che, sia detto per inciso sarebbe di per sé sufficiente ad
escludere dal novero delle azioni razionali il conferimento del potere di
governare a chi, tramite quel potere, intendesse perseguire non gli interessi
della Città, ma i propri o quelli del gruppo di appartenenza. Ma anche
perché è la categoria che fornisce il contenuto materiale ai
processi di legittimazione del potere politico e ne stabilisce, al contempo, i
limiti invalicabili. L’interesse generale, inoltre, segnala e registra la
disponibilità o la propensione di un determinato aggregato
politico-sociale a superare il particolarismo e i conflitti ad esso connessi e,
quindi, a rappresentarsi in modo unitario. Per queste ragioni,
l’individuazione e il perseguimento dell’interesse generale
è l’unico obiettivo che giustifica l’autorizzazione a
prendere decisioni sugli altri (in nome e per conto loro), e, perciò,
sorregge in ultima analisi l’intera impalcatura logico-funzionale della
democrazia. In altre parole, è la categoria dell’interesse
generale a costituire il nucleo centrale sulla base del quale si struttura
l’etica pubblica e il fulcro intorno al quale ruotano i processi
elettorali e decisionali del sistema democratico, di cui, peraltro, rende
intelligibili i postulati fondamentali.
2. –
Un sistema che, come sottolinea lo stesso Schumpeter, tanto meglio funziona
quanto più è elevata la qualità della leadership
selezionata[4].
Il che significa che l’ideale della democrazia possibile e realizzabile dovrebbe
corrispondere ad un sistema
nel quale i cittadini conferiscono il diritto di governare ai migliori
(i più illuminati, affidabili e disinteressati sul piano personale)[5].
Nella concezione di Schumpeter non
c’è, però, spazio per analoghe raccomandazioni riguardo
alla qualità dei cittadini. Anzi, al contrario, si dà per
acquisito che l’uomo medio, quando entra nel raggio della politica,
subisca una sorta di decremento del proprio rendimento mentale. Ne risulta non
solo il paradosso che agli incapaci è demandato il compito di
selezionare i capaci, ma soprattutto un’incomprensibile sottovalutazione
della delicata (e cruciale) funzione che i cittadini svolgono nel momento
elettorale, il punto focale della ratio
e del funzionamento della democrazia rappresentativa, ossia dell’unica
forma di democrazia conosciuta e sperimentata nell’età moderna.
Il fatto è che l’elevata
qualità della leadership
è una variabile dipendente dall’elevata qualità dei
cittadini. Ma, anche, viceversa. La bassa qualità dei cittadini
può essere l’effetto dell’azione diseducativa svolta dai codici di comportamento della classe
politica. Comunque sia, la questione dell’educazione alla cittadinanza, che Norberto Bobbio annoverava fra le
promesse non mantenute della democrazia[6],
è una questione di vitale importanza, perché è proprio dal
deficit di senso civico che nascono
le principali distorsioni strutturali e le più evidenti deviazioni funzionali
delle democrazie contemporanee.
Il
problema del cittadino senza qualità si riflette sull’intero
tessuto della convivenza organizzata, ma si rivela in maniera particolarmente
acuta nelle fasi elettorali, che rappresentano il momento nel quale si invera
visibilmente il principio della sovranità popolare, l’atto
fondamentale nel quale si consuma il processo di partecipazione attiva dei
cittadini alla determinazione, ancorché mediata, degli indirizzi
politici del sistema di governo.
L’osservazione
spregiudicata dei fatti porta, infatti, ad individuare la molla
dell’agire politico nel particolarismo degli interessi di cui sia gli
elettori che gli eligendi si fanno portatori. Interessi che vengono perseguiti
nel mercato politico attraverso lo scambio del voto con la promessa di benefici
personali e vantaggi immediati, la qual cosa riduce il rapporto politico ad una
sorta di contratto di tipo privatistico. Nel risolvere la politica in una
enorme ragnatela di scambi reciproci, non si fa altro che prendere atto,
realisticamente, di una delle caratteristiche peculiari della democrazia
pluralistica, che appunto funziona, per dirla con Bobbio, sul «continuo
scambio tra produttori e consumatori di consenso» o, il che è lo
stesso, sul continuo scambio «tra consumatori e produttori di
potere»[7].
Si configuri come meccanismo interno al
momento elettorale, oppure come una rete di rapporti, più o meno
istituzionalizzati, che si sviluppano nei periodi infra-elettorali in forma
bilaterale, come transazione fra singoli gruppi organizzati e il governo, o in
forma trilaterale (il c.d. «neo-corporativismo»), o in modi
multilaterali e multilivello (il c.d. fenomeno della governance) lo scambio politico costituisce la modalità
principale della dinamica politica delle democrazie pluralistiche. Questo
è ormai un dato acquisito nella letteratura specialistica[8].
Quel che può trasformare la categoria dello scambio politico, intesa
come una «combinazione fra la logica del mercato e la logica
dell’autorità»[9],
in un sottoprodotto degenerativo della democrazia contemporanea è il
contenuto specifico, l’oggetto dello scambio. Un conto è infatti
lo scambio fra i gruppi e il governo, che sfocia nella stipulazione di
contratti collettivi di rilevanza generale, o lo scambio fra i partiti politici,
che struttura i rapporti del «grande mercato», altro è lo
scambio che avviene nel «piccolo mercato» tra singoli individui,
tra elettori ed eletti, governati e governanti. È soprattutto questo
secondo tipo di scambio che appare esposto ai rischi della degenerazione, al
punto da risultare il più delle volte niente più che un volgare
baratto, e, talvolta, un mero mercimonio. Beninteso, tutto dipende dal
contenuto, perché perfino il voto di opinione, valutato universalmente
in senso positivo in quanto identifica una parte dell’elettorato
normalmente qualificata come razionale e matura, può essere interpretato
come una specie (una delle specie nobili) del voto di scambio, dal momento che
accordare sostegno, critico e selettivo, ad un determinato programma di governo
equivale in ultima analisi a scambiare consenso con la promessa di una
prestazione futura. Ed anche il voto di appartenenza, caratterizzato da una
miscela di elementi di tipo emotivo, fideistico e tradizionale, può
configurarsi come una specie (pur essa nobile) del voto di scambio, in quanto
punta ad ottenere, attraverso una sorta di investimento fiduciario, la
conservazione o il rafforzamento di ambiti di solidarietà e di
identità di tipo collettivo. Voto di scambio in senso deteriore è
invece quello che porta a svendere il voto, il diritto-potere di selezionare la
leadership e dunque il potere di legittimazione dei governanti, per
interessi particolaristici o favori personali. In questo caso il cittadino si
spoglia delle proprie prerogative «sovrane», abdica al proprio
ruolo di «produttore» dell’autorità costituita,
trasforma una funzione pubblica in una merce messa all’asta per il
migliore offerente. È questa specie di voto di scambio, che, fra
l’altro, presenta anche profili penalmente rilevanti, a trasformare i
cittadini-elettori in clientes di patronati personali o di partito e a
mantenerli in uno stato di perenne sudditanza[10].
3. –
La responsabilità del ricorso a questo tipo deteriore di voto di scambio
va naturalmente divisa in parti uguali. Se si pretende, giustamente, che i
governanti abbiano senso dello Stato e cura della cosa pubblica, non si vede
perché non si debba esigere altrettanto dai cittadini. Ciò non
toglie, però, che il deficit di coscienza civile possa essere letto come
il risultato dell’azione diseducatrice svolta da una classe politica i
cui codici di comportamento sono l’effetto di processi di formazione e di
modi di selezione che rinviano alla profonda involuzione che ha gradualmente trasformato
la natura e il ruolo dei partiti politici.
Due
tipiche funzioni dei partiti politici, in particolare, hanno subito negli
ultimi trent’anni una radicale trasformazione. Il riferimento è
all’articolazione, aggregazione e trasmissione delle domande e alla
selezione (o reclutamento) della classe politica[11].
Per quanto riguarda il versante delle domande, i principali compiti normalmente
attribuiti ai partiti sono, da un lato, quello di definire i problemi della
società, ordinandoli secondo la gerarchia dei valori che è
propria di ciascun partito, e, dall’altro, quello di indicare i
provvedimenti necessari (le politiche) per risolverli. In questo modo i partiti
individuano e recepiscono i bisogni o i desideri, li articolano, li convertono
in domande generali (o generalizzabili), che poi combinano o aggregano. Su
queste proposte richiedono, ricercano, raccolgono (o organizzano) il consenso,
supporto indispensabile per rendere possibile la conversione delle domande in
risposte da parte degli apparati di governo, composti normalmente –
tranne nel caso, piuttosto raro, dei governi puramente tecnici – da
esponenti degli stessi partiti. C’è da aggiungere che è
attraverso l’elaborazione di programmi generali che i partiti producono
processi di identificazione collettiva. Per quel che attiene al reclutamento
del personale politico, la insostituibile funzione dei partiti, che sono gli
attori principali nel processo di strutturazione del voto, si configura come
selezione dei candidati proposti per l’elezione nelle diverse istituzioni
rappresentative. La formazione delle liste elettorali assume così il
significato di una predeterminazione (e di una semplificazione) del quadro
delle scelte possibili da parte del cittadino-elettore.
Queste due funzioni – strettamente
collegate, in quanto si esplicano l’una nella formulazione dei programmi
di governo e l’altra nell’indicazione delle persone proposte per
realizzarlo – identificano i partiti come strumenti indispensabili
per il processo decisionale democratico. Ed è inutile sottolineare che
la qualità del processo o il grado di funzionamento di una democrazia
dipende, in buona misura, dalle modalità di espletamento di queste
funzioni. Ebbene, a partire dagli inizi degli anni Settanta, queste due
insopprimibili funzioni subiscono delle profonde modifiche in connessione con
le trasformazioni sociali indotte dallo sviluppo economico (si compie il
processo di industrializzazione) e dalla nascita dello Stato sociale. Il primo
fenomeno produce il frazionamento e il particolarismo degli interessi, e quindi
delle domande, che risultano sempre più difficili da aggregare e
comporre. Di conseguenza i programmi dei partiti diventano sempre più
vaghi e generici – essendo ormai l’imperativo funzionale quello di
intercettare il maggior numero possibile di voti – e le risposte sempre
più particolaristiche e specifiche (proliferano le c.d. leggine ed i
provvedimenti ad hoc). Il secondo fenomeno, che in Italia assume la
forma caricaturale o deteriore dello Stato assistenziale, provoca la dilatazione
della sfera del pubblico, effetto dell’interventismo crescente dello
Stato, e la conseguente istituzione di una grande varietà di enti
parastatali e comunque strumentali alle nuove politiche ispirate al welfarismo.
Si verifica così una crescita ipertrofica del sottogoverno, una
ramificata e capillare rete di istituzioni deputate, in teoria, ad assicurare
efficacia agli outputs, garantendo i collegamenti funzionali fra il
centro e la periferia. La «risposta» del settore privato (la c.d.
società civile) si concreta, d’altra parte, nell’incremento
del pluralismo organizzativo, nella crescita dell’associazionismo dei
più vari tipi, nel moltiplicarsi dei gruppi di pressione.
Compressi
dalla concorrenza dei gruppi di interesse, i partiti di fatto abdicano al loro
ruolo: abbandonano il terreno della formulazione dei programmi generali, che
risultano sempre più generici e indistinti, e trasmettono domande sempre
più specifiche e particolaristiche. E subiscono una metamorfosi
strutturale perché, sfumate le differenze ideologiche, si trasformano in
macchine elettorali (in all catch parties), organizzandosi in gruppi
interni, in correnti più o meno ufficiali, in fazioni più o meno
riconosciute o tollerate. Insomma, sul versante delle domande i partiti perdono
ogni funzione specifica o esclusiva. Dietro la facciata delle sigle e dei
simboli, ormai non più storici, appaiono per quello che sono: gruppi di
interesse fra i gruppi di interesse.
Sul versante del reclutamento del personale
politico, la proliferazione degli enti strumentali comporta un rafforzamento
del potere di nomina dei partiti ad ogni livello di governo (nazionale,
regionale, provinciale, comunale). Impotenti sul piano dell’elaborazione
di programmi generali, i partiti agiscono in regime di pressoché totale
monopolio nel distribuire cariche e nell’esercitare il potere di nomina
del personale del sottogoverno. Una ragnatela fittissima di enti e consorzi,
qualche volta inutili, altre volte fasulli, in genere non direttamente
né funzionalmente collegati e coordinati con gli indirizzi programmatici
e gli orientamenti delle istituzioni madri. In questo modo il potere di nomina,
esercitato nel chiuso delle segreterie dei partiti, si risolve prevalentemente
in una pratica di tipo clientelare, che segue logiche spartitorie ed è
rivolta alla mera occupazione di posti di potere, secondo precisi criteri di
lottizzazione, ossia è rivolta a produrre, attraverso lo scambio
deteriore, quel consenso che i partiti non riescono più a raccogliere in
base ai loro evanescenti (e posticci) programmi generali. La c.d.
«occupazione» della società civile – sistematica e
pervasiva oltre ogni limite – costituisce quindi non soltanto
l’elemento «simbolico» della forza dei partiti, ma la
principale risorsa per la quale i partiti ormai competono[12].
Strettamente collegata al fenomeno del frazionamento e del particolarismo delle
domande, che comporta risposte altrettanto frazionate e particolaristiche,
l’occupazione dei posti – poiché ogni posto occupato vale
anche per gli ulteriori posti che permetterà di occupare, direttamente o
indirettamente – si pone come il fattore fondamentale della produzione
del consenso e dunque dell’accrescimento o della conservazione del potere
relativo dei partiti. In altre parole, il sottogoverno, proprio perché
costituisce la risorsa fondamentale per il loro automantenimento, è
diventato il fine primario e, spesso esclusivo, dei partiti.
Tutto
ciò implica un uso distorto delle istituzioni, in quanto funzionale non
all’interesse pubblico, bensì all’interesse privato dei
partiti e delle loro clientele. In questo quadro, in cui lo scambio degenera
nel “piccolo mercato”, dove si fa mercimonio della funzione
pubblica e si barattano voti con favori e privilegi, sia le opzioni elettorali
che le politiche pubbliche diventano “beni” messi all’asta
per il miglior offerente. Ma se il particolarismo degli interessi diventa la
molla esclusiva dell’agire politico, la materia che circola nei canali di
trasmissione delle domande e nei centri di conversione delle domande in risposte,
allora si inverte il circolo virtuoso della democrazia.
4. –
Pur evitando di scivolare nella retorica esaltazione delle antiche
«virtù repubblicane» o in vaghi e moralistici appelli al
senso civico, non si può non riconoscere che una democrazia che si regge
sulla diffusione capillare delle pratiche clientelari, spesso veicolate
attraverso gli apparati del sottogoverno, in cui si annidano i germi del
favoritismo e della corruzione, è una democrazia malata.
Un
vecchio adagio, degno del signor de La Palisse, recita che ogni società
ha i governanti che si merita. La classe politica non è né
migliore né peggiore della cosiddetta società civile:
semplicemente ne è lo specchio. Ciò porta a concludere che l’elevata
qualità della leadership, in
cui consiste, secondo Schumpeter, l’ideale di ogni democrazia, è
un obiettivo che può essere realizzato solo a condizione che sia elevata
la qualità di cittadini. Problema di non facile soluzione, ne convengo.
Inutile nascondersi che il tema delle virtù civiche difficilmente
può diventare un ideale di massa nelle poliarchie contemporanee, che
sono sistemi votati a produrre e consumare particolarismo, reticoli interattivi
congegnati soprattutto per canalizzare il pulviscolo degli interessi privati di
cui i vari micro-corporativismi sono portatori. Anzi, a giudicare dal
disinteresse che le principali agenzie di strutturazione del consenso (partiti,
gruppi di pressione, mass media) riservano al problema, si può
tranquillamente sostenere che sia un ideale destinato a rimanere decisamente
impopolare. Eppure, nonostante, ciò, è un ideale da coltivare. Il
realismo, che nel campo delle considerazioni politiche è pur sempre il
miglior consigliere, induce al pessimismo della ragione, non però
necessariamente pure al fatalismo. Anche perché non c’è
niente di più irrealistico del fatalismo.
Cittadini
si nasce, se si ha la fortuna di venire al mondo in una democrazia. Buoni
cittadini si diventa, se ci sono le condizioni. E la prima condizione è
che la classe politica non remi contro, non abbia, cioè, un preciso
interesse a operare sistematicamente per favorire la diseducazione civica, in
quanto ritenuta funzionale alla propria perpetuazione. In questo caso
l’impresa si fa più difficile, non, però, impossibile,
benché richieda soluzioni radicali che implicano la rottura del rapporto
fiduciario con i rappresentanti eletti, una decisa contrapposizione culturale
con i laudatores dello status quo, insomma una rivoluzione
etico-politica che parta dal basso e porti al rifiuto del voto di scambio
deteriore, delle pratiche clientelari, dell’uso del potere pubblico per
fini privati e personali.
Il
cittadino consapevole della dignità della propria funzione, rispettoso
dei doveri ed educato al responsabile esercizio dei diritti-poteri inerenti al
proprio ruolo, è una figura che rinvia ad una
“mentalità” che rifiuta come indegna ogni forma, sia pure
larvata, di sudditanza e che si colloca esattamente all’estremo opposto
di quella, tipicamente questuante, del cliente o di quella, avvilente,
dell’adulatore e del cortigiano di mestiere. Una simile figura
presuppone, ovviamente, identificazione con i valori basilari della democrazia
e saldi legami di appartenenza al sistema politico-istituzionale, che non deve
essere eroso da minacce di separatismi e secessionismi (per quanto incredibili
e folcloristici), né da transizioni che risultino incerte, ondeggianti e
perennemente incompiute.
In
definitiva, è l’elevata qualità dei cittadini, più
che i meccanismi ingegneristici dei politologi e gli espedienti tecnici dei
costituzionalisti, a costituire l’antidoto più efficace contro il
pericolo, in democrazia sempre incombente, delle derive populistiche e
plebiscitarie, per tacere delle insidie che provengono dagli inganni dei
demagoghi di turno, che attizzano torbidi umori per suscitare reazioni
viscerali, e dalle pratiche manipolatorie degli immarcescibili corifei del
paternalismo che continuano imperterriti, autentici residuati medioevali, ad
offrire protezione (in questo e nell’altro mondo, non importa) in cambio
di obbedienza incondizionata.
Ragione
ulteriore per riprendere e riproporre il discorso sull’educazione alla
cittadinanza, anche se, me ne rendo conto, oggi in Italia gli appelli al senso
civico rischiano di apparire velleitari, se non addirittura come declamazioni
puramente accademiche, vane esercitazioni di retorica o di arte predicatoria.
Ma il campionario delle ideologie contemporanee, fra i prodotti di più
largo consumo – fra quelli, beninteso, non scaduti - offre forse qualcosa
di meglio? O c’è, forse, una riforma più urgente e
necessaria per tentare di salvare il salvabile di quel che resta del nostro
sistema di convivenza disegnato dalla Costituzione repubblicana
sessant’anni fa?
* Relazione presentata
nel Convegno su: Stato democratico e
società civile in Europa. Luci e ombre. Fondazione Luigi Firpo
– Torino 23 giugno 2008.
[1] J. Schumpeter, Capitalism, Socialism and Democracy [1942], G. Allen & Unwin,
London 1954 (tr. it., Capitalismo,
socialismo e democrazia, Comunità, Milano 1964, 257 ss.).
[2] Per
una articolata disamina delle concezioni moderne della democrazia mi permetto
di rinviare a V. Mura, Categorie della politica. Elementi per una
teoria generale, Giappichelli,
Torino 2004, cap. 8, Democrazia,
313-433.
[5] Sotto
il profilo prescrittivo – sul piano del dover essere – la democrazia può essere definita, come
suggerisce G. Sartori (Democrazia. Cos’è, Rizzoli,
Milano 1993, 117; The Theory of Democracy
Revisited, Chatham House Publishers, Chatham [NJ] 1987, 167-69) alla
stregua di una “poliarchia selettiva” ovvero di una
“meritocrazia elettiva”.
[8] G. Rusconi, Scambio, minaccia, decisione. Elementi
di sociologia politica, Il Mulino, Bologna 1984, 19 ss.; A. Mastropaolo, Il ceto politico, Nuova Italia Scientifica, Roma 1993, 22 ss.