N. 7 – 2008
– Contributi//Autonomie-e-Riforme
La questione di fondo anche per la
Autonomia
e lo Statuto “speciali”
della
Regione Sardegna: sapere e
volere
darsi una “forma di
governo”
democratica*
Preside Facoltà Giurisprudenza
Università di Sassari
Sommario. Premessa.
– I. «Terminologia
prima dommatica giuridica» e terminologia/dogmatica “statutaria”
(in particolare) sarda. – II.
Natura
anti-costituzionale di tale terminologia/dogmatica. – III. Natura anti-democratica di
tale terminologia/dogmatica. – IV.
Una rivoluzione
culturale: ripartiamo dalla questione della “forma di governo”.
– V. Per una
specialità insulare espansiva.
La
riforma o, meglio, la ri-scrittura, da parte della Regione Sardegna, dello
Statuto della Autonomia, redatto e assegnatole nel 1948 dallo Stato italiano,
è una esigenza che i cittadini sardi hanno riconosciuto come prioritaria
oramai da molti anni ma che i governi sardi sono stati impotenti a soddisfare.
Il governo odierno è giunto a conclusione della propria legislatura
senza fare eccezione; anzi (dopo la impennata della proposta di legge
costituzionale n. 5, approvata dal Consiglio regionale il 31 luglio 2001, di
«adozione del nuovo Statuto speciale per la Sardegna mediante istituzione
dell’Assemblea Costituente sarda») la ‘produzione’ da
parte di questo ultimo governo regionale di una cosiddetta “legge
statutaria” anziché del nuovo Statuto è, sia dal punto di
vista procedurale sia dal punto di vista sostanziale, il livello più
basso toccato dal lungo processo di – tentate – riforme e,
più in generale, dalla politica autonomistica sarda.
La
validità di questa “legge statutaria” è sub iudice. Il 30 giugno 2008, la Corte
di Appello di Cagliari ne ha giudicato il referendum
confermativo «invalido per il mancato raggiungimento del quorum».
Si è aperto così, in Sardegna, un fronte ulteriore di discussione
sulla legge, tra coloro i quali (ad iniziare dal presidente della Regione)
hanno sostenuto che tale sentenza ne abbia reso possibile/doverosa la
promulgazione[1]
(quindi effettuata il 10 luglio) e coloro i quali credono il contrario[2].
Mi colloco, con la massima convinzione, tra i secondi e, in attesa del prossimo
pronunciamento della Corte costituzionale[3],
è, intanto, necessario e, anzi, urgente fare il punto della complessa
questione, per una ri-considerazione essenziale e di sintesi, in vista del
“che fare” che comunque ci attende.
Ciò
che rende particolarmente complessa la questione della riforma statutaria, in
una Regione – come la Sardegna – ad “autonomia
speciale” sono i modi specifici
del ‘concorso’ di due legislatori, statale e regionale. Il
dibattito connesso appare dominato, al di là delle diverse posizioni e
dei diversi orientamenti, dalla concezione infelice – e se non comune
certamente diffusa – del rapporto
tra questi legislatori. Tale concezione (la quale è parte della
più generale concezione della autonomia: vedi, infra, prgf. III) si manifesta nella terminologia che – in
proposito – si è ed è stata imposta – in particolare
– nella Regione Autonoma della Sardegna.
La
‘scelta’ della terminologia, così come la determinazione di
tutti i “principi”[4],
è punto di partenza e, al tempo stesso, punto di arrivo di ogni
‘discorso’, specialmente se ‘scientifico’.
Ciò
appare evidente in questa fase della vicenda statutaria sarda. Anzi, questa
vicenda costituisce un esempio particolarmente interessante di applicazione
operativa a questioni di diritto positivo della tesi romanistica, secondo la
quale la terminologia è la prima dogmatica giuridica[5].
L’elemento
caratterizzante della terminologia adoperata (e che condiziona sia il dibattito
giuridico/politico sia la attività normativa in materia di riforma dello
Statuto regionale sardo in maniera gravemente negativa e complessiva,
‘prima’ cioè di qualsiasi altra distinzione e scelta operate
al loro interno) è (come
ricordato in “Premessa”) la divisione
della materia tra “Statuto” e “legge statutaria”.
Le
caratteristiche essenziali di tale terminologia sono facili da individuare.
Il
nome e, con il nome, anche il rango e la dignità di
“Statuto” sono stati riservati a indicare e a qualificare la legge
(costituzionale) dello Stato italiano di ‘disciplina’ (uso qui,
interlocutoriamente, una espressione volutamente anodina) della Autonomia
sarda.
Corrispondentemente,
la legge regionale di determinazione della “forma di governo” della
Regione sarda è stata denominata (e, con ciò, de-classata,
dequalificata) come –mera– “legge statutaria”.
La
tesi che io qui formulo e sostengo è che la natura di questa
terminologia (e, quindi, della dogmatica che la ha prodotta e che da essa
è ‘veicolata’) è –e si è rivelata–
giuridicamente anti-costituzionale e politicamente anti-democratica.
La
anti-costituzionalità di questa terminologia si manifesta nella
assurdità (da essa ‘significata’ come ‘dato’
fuori-discussione) della negazione, ad una Regione – quale la Sardegna
– dotata di autonomia speciale, del potere tipico e qualificante di ogni Regione autonoma, anzi di ogni
Autonomia locale o funzionale; la negazione – cioè – del
potere autonomistico per definizione: il potere statuente[6].
La
assurdità, però, non può avere e, infatti, non ha
fondamento costituzionale, sebbene le formulazioni recenti della legislazione
costituzionale (almeno in questa materia) non siano esempi di chiarezza
precettiva.
L’art.
123 della Costituzione (riformato con la l.c.
1/1999) che fornisce la definizione degli Statuti regionali (senza
operare distinzioni tra Regioni ad autonomia ordinaria e Regioni ad autonomia
speciale)[7]
contiene essenzialmente due affermazioni e un inciso di
‘precisazione’, che sono tre veri e propri assiomi. La prima affermazione/assioma è che lo Statuto
regionale “determina la forma di governo” della stessa Regione; la
seconda affermazione/assioma è che lo Statuto è una “legge
regionale”; la precisazione/assioma è che lo Statuto / legge
regionale di determinazione della forma di governo regionale deve essere
“in armonia con
La
l.c. 2/2001, che innova i sistemi elettorali delle Regioni a Statuto speciale
(e, in particolare, della Regione Sardegna: art. 3) non può fornire e
non fornisce prescrizioni diverse. Essa, allo status quo, costituito da ciascuno “Statuto” approvato
con legge costituzionale (il 26 febbraio 1948, per la Sardegna),
“aggiunge” che “la forma di governo della Regione”
(sino al momento oggetto di disciplina da parte di quello “Statuto”) è (oramai) oggetto di
disciplina da parte della “legge regionale”; ovviamente, “in
armonia con la Costituzione”[8].
La ‘disposizione’ della l.c. 2/2001, a parte la
‘registrazione’ del dato ‘storico’ della natura di
norma costituzionale degli Statuti originari delle Regioni ad autonomia
speciale, coincide dunque
sostanzialmente con il dettato dell’art. 123 Cost.: anche le Regioni ad autonomia speciale determinano, con legge
regionale e in armonia con
E’
vero che le due norme (l’art. 123 Cost. e la l.c. 2/2001 [in particolare,
per la Sardegna, l’art. 3]) non sono perfettamente uguali tra loro, ma le
differenze sono per niente sostanziali. La differenza più rilevante
può apparire la mancata
menzione presso la l.c. 2/2001 (laddove questa definisce il potere legislativo
di auto-organizzazione delle Regioni ad autonomia speciale) della
«determinazione dei principi fondamentali di organizzazione e
funzionamento» accanto alla menzione comune ad entrambe le norme della
«determinazione della forma di governo». Ma, come è stato
osservato, la menzione assente presso la l.c. 2/2001 è comunque ininfluente, in quanto essa nulla
aggiunge alla “ordinaria potestà legislativa” del
“patrimonio autonomistico” di ogni Regione[9].
Né ha maggiore portata differenziante la menzione – presente,
invece, nella l.c. 2/2001 e non nell’art. 123 Cost. – degli
obblighi – a carico, quindi, delle Regioni ad autonomia speciale –
della “armonia con i principi dell’ordinamento della
Repubblica” (oltre che “con
La
terminologia specifica introdotta per le Regioni ad autonomia speciale, con la
dicotomia e, anzi, con la vera e propria contrapposizione terminologica e
concettuale tra “Statuto” e “legge statutaria” (e con
tutta la connessa dialettica, anche procedimentale, tra le due
‘categorie’)[11]
è soltanto una (pessima) ‘invenzione’ linguistica, diffusa
in dottrina sebbene sia difficile attribuirle una compiuta paternità
dottrinale[12];
essa è stata adottata legislativamente
dalla Regione Sardegna, la quale (ad onta delle vacue dichiarazioni di
“sovranità del popolo sardo”)[13]
ha ‘stabilito’ di non potersi/doversi dare uno
“Statuto” ma soltanto una “legge regionale statutaria” [14].
Tali
terminologia e dogmatica, adottate dalla Regione sarda, negano rotondamente
entrambe le affermazioni/assiomi costituzionali, che abbiamo visto nel
confronto tra l’art. 123 Cost. e la l.c. 2/2001. Secondo tali
terminologia e dogmatica: 1) lo
“Statuto” non determina
la forma di governo della Regione ma
determina (o meglio ex art. 117 Cost. 4° comma [modificato con la l.c.
3/2001 di riforma del Titolo V della Parte seconda] ‘delimita’) le
competenze della Regione; 2) lo
“Statuto” non è
una legge regionale ma è una
legge dello Stato.
In
realtà, il ‘riconoscimento’ (semplicemente doveroso) anche alle Regioni ad autonomia speciale
(avvenuto con la l.c. 2/2001) del potere (già
attribuito generalmente alle Regioni dall’art. 123 Cost.) di
“determinare” (“in armonia con
Una
terminologia/dogmatica rispettosa del dettato costituzionale (e della logica)
può e deve distinguere non tra
Statuto e “legge statutaria” ma
tra vecchio (e autonomisticamente
imperfetto) Statuto - legge costituzionale e nuovo (e autonomisticamente perfezionato) Statuto - legge
regionale.
La
terminologia/dogmatica invece preferita – in particolare – dalla
Regione sarda, ha inoltre rivelato e continua a rivelare, sia nell’uso
che fa della parola “Statuto” sia – corrispondentemente e
complementariamente – nell’uso che fa della espressione
“legge statutaria”, la propria natura anti-democratica, la quale
è la vera ratio politica di
questa preferenza.
La
negazione del nome, del rango e della dignità di “Statuto”
alla legge regionale di determinazione della – nuova – forma di
governo regionale (nel corso del dibattito per la scrittura di tale legge) e le
sue denominazione e de-qualificazione come “legge statutaria” hanno
ingannato gravemente i cittadini sardi, i quali non hanno potuto capire la portata e la importanza della legge in discussione
e se ne sono disinteressati sostanzialmente, come si è evidenziato sia
durante l’iter di redazione
della “legge statutaria”, ‘snobbato’ anche dai mezzi di
comunicazione di massa, sia in occasione del referendum confermativo, cui ha partecipato una percentuale molto
bassa[15]
dei cittadini. Poiché la partecipazione o meno dei cittadini alla
redazione della legge, che determina la loro
forma di governo, è decisiva per i contenuti di quella stessa legge, la
assenza del protagonismo civico ha permesso all’apparato regionale
(giunta e consiglio) la redazione e l’approvazione di una legge (la
“legge statutaria”), che ha determinato una forma di governo
regionale fortemente autoritaria e centralistica, come è stato
ampiamente e ‘trasversalmente’ osservato. Un autorevole esponente
della medesima forza politica del presidente della Regione sarda, ha definito
la “legge statutaria” sarda, dal punto di vista delle aperture del
governo regionale alla partecipazione democratica: «più che
deludente [...] una clamorosa occasione perduta»[16].
Corrispondentemente
e complementariamente, la assegnazione del nome “Statuto” anche
alla futura
legge costituzionale di determinazione/delimitazione delle competenze regionali
da parte dello Stato si basa sulla- e alimenta la idea riduttiva e falsa che la
questione di fondo del rapporto Stato–Regioni (la quale, in uno Stato che
si caratterizza come “regionale”[17],
è la questione di fondo
‘tout court’) sia soltanto la questione – in sé
giuridicamente e politicamente bieca – del
decentramento/“devolution”[18]
anziché la – grande – questione giuridica e politica della
“forma di governo”[19].
Questa (la riduzione/falsificazione della autonomia in
decentramento/“devolution”) è, precisamente, la nozione di
‘autonomia’ (cui ho fatto riferimento in “Premessa”)
che alligna in una cultura giuridica e politica, la quale non sa pensare e (comunque) non
vuole realizzare forme di governo democratiche. Tale
riduzione-falsificazione della nozione di autonomia (che, con il nome di
“federalismo [fiscale]”, propugna non forme di democratizzazione ma
forme di centralismo politico e di frammentazione amministrativa)[20]
è foriera di conseguenze disastrosamente negative: in generale e sui
tempi lunghi per tutte le Regioni dello Stato italiano e per lo stesso Stato
italiano nel suo complesso ma in particolare e immediatamente per Regioni come
la Sardegna, in situazione contingente di svantaggio, ciò che anche
già è stato e resta oggetto di osservazione condivisa[21].
In
questa nostra Regione, ricca di potenzialità ma afflitta da tanti
problemi attuali – tra i quali, da ultimo ma non per ultimo, la prassi
deplorevole di affrontarli con la ‘scorciatoia’ rozza e
inefficiente/inefficace del “governatorato”[22]
– serve, dunque, una rivoluzione culturale: noi, cittadini sardi,
dobbiamo togliere la testa dal sacco di un sistema semantico e concettuale
ingannevole per riappropriarci della capacità di ragionare
giuridicamente e politicamente. Per farlo, dobbiamo ripartire dalla
terminologia e dalla dogmatica costituzionali, secondo le quali lo Statuto (anche per le Regioni ad autonomia
speciale) è la legge regionale che, in armonia con
Dobbiamo
– in altri termini – ri-assumere la questione della forma di
governo sia come questione statutaria centrale sia come questione
costituzionale centrale, nonché come terreno di scontro e di incontro di
discontinuità e di continuità tra Costituzione e Statuto o meglio
(come dirò subito) tra Statuto e Costituzione.
Occorre
una precisazione in limine. Una volta
rilevato che la espressione “determinazione della forma di governo”
qualifica esaurientemente il potere
statuente delle Regioni, sia ad autonomia ordinaria sia ad autonomia speciale[23],
non possiamo[24]
applicare alla formula costituzionale (di definizione del potere statuente
regionale come potere di determinazione della “forma di governo”)
la distinzione della “forma di governo” dalla “forma di
Stato”, adducendo che la seconda e più importante
“forma” sarebbe evocata dalla espressione “principi
fondamentali di organizzazione e funzionamento” e, quindi, soltanto a
proposito del potere statuente delle Regioni ad Autonomia e Statuto ordinari[25].
Resta,
invece, il problema della portata da attribuire alla espressione “forma
di governo” nel contesto autonomistico in generale e questo problema
è risolto dalle stesse norme costituzionali fino qui considerate:
l’art. 123 Cost., integrato dagli artt. 121 e 122, e la l.c. 2/2001 (in
particolare, per
Se il
quantum di potere statuente,
assegnato dal legislatore costituzionale al legislatore regionale per la
determinazione della forma di governo regionale, è, dunque,
tutt’altro che insignificante o angusto, resta però
–ovviamente– la obbligazione degli Statuti (leggi) regionali alla
«armonia» con
Se
noi, in Sardegna, facciamo la scelta di una forma di governo caratterizzata
dalla concentrazione autoritaria del potere decisionale (come, sciaguratamente, è stato fatto
con la “legge statutaria”, anche se poi questa legge non ha avuto
la necessaria conferma referendaria)[29]
certamente non abbiamo né titolo soggettivo né possibilità
oggettiva di chiedere una forma di governo caratterizzata dalla partecipazione
a livello statale. Viceversa, è necessario/sufficiente che
Abbiamo,
quindi, una ragione ulteriore per dedicare grande attenzione alle scelte
statutarie che noi Sardi facciamo nella Regione sarda: perché stiamo
– contestualmente –
concorrendo alle scelte costituzionali che saranno fatte per noi e – forse – contro
di noi nello e dallo Stato italiano.
Occorre,
in conclusione, rovesciare la
concezione vecchia (e, a seconda del punto di vista, furbesca/ottusa) della
autonomia, di tipo difensivo,
ovverosia volta soltanto a
ritagliarsi spazi protetti rispetto alla volontà dello Stato, e adottare
– invece – una concezione nuova della autonomia, di tipo espansivo, ovverosia volta anche a concorrere alla formazione di
quella volontà (nonché di volontà più ampie, in una
prospettiva sia europea sia mediterranea).
Per
fare ciò, la specialità deve trasformarsi da luogo (come è
oggi) di applicazione ultima (se non ‘estrema’) delle logiche
dominanti in materia di autonomia (vedi, supra,
prgf. III) a luogo di ri-elaborazione propositiva della nozione stessa di
autonomia.
Allora:
la nuova frontiera della specialità della Autonomia sarda sta nella
capacità (sapienza giuridica e volontà politica) che avrà
– o meno – la Sardegna di prefigurare al proprio interno e –
pertanto – di esportare al
proprio esterno una forma di governo ‘democratica’. Del resto, la
nostra specialità è fondata essenzialmente – se non
esclusivamente – sulla nostra “insularità” e i
grandissimi teorici delle ‘forme di governo’[30]
del nascente diritto pubblico costituzionale, Montesquieu e Rousseau,
convenivano sulla vocazione affatto speciale delle Isole alla forma di governo
contrassegnata dalla libertà[31].
Si tratta – finalmente! – di una specialità che non dobbiamo
chiedere ad altri ma che dobbiamo dimostrare noi stessi.
Sono
essenzialmente due i terreni sui
quali non può non misurarsi una riforma democratica della forma di
governo: i processi di formazione della volontà pubblica e i mezzi di
difesa della libertà dal potere. Faccio, allora, due esempi di riforme assolutamente necessarie per uno Statuto che
aspiri alla democrazia. Il primo esempio riguarda i processi di formazione
della volontà pubblica: mi riferisco alla necessità di potenziare il Consiglio delle autonomie
locali, la istituzione introdotta in Italia dalla riforma costituzionale del
2001 sull’onda di una crescita mondiale del ruolo ‘politico’
delle Città, come strumento di inserimento effettivo del sistema delle
Autonomie locali nel circuito decisionale regionale[32].
Il secondo esempio concerne gli strumenti di garanzia del rapporto tra i
cittadini e l’apparato regionale: mi riferisco alla necessità di potenziare il Difensore civico,
l’altra istituzione che, in questi ultimi decenni, si è proposta,
sempre a livello mondiale, come strumento di difesa dei cittadini contro gli
abusi del potere[33].
Sia detto per inciso, nella “legge statutaria” prodotta dalla
Regione essenzialmente per assicurare il potere del ‘governatore’,
il Consiglio delle autonomie continua a non contare nulla e il Difensore civico
è semplicemente “dimenticato”.
I
risultati delle ultime elezioni politiche, con il rientro al governo della
Repubblica Italiana di un partito che si chiama “Lega Nord” (sic!) rendono particolarmente urgente
queste nostre scelte statutarie; anzi, a causa del tempo perso con la
cosiddetta “legge statutaria”, siamo già pesantemente in
ritardo. Gli esiti elettorali statali comportano, infatti, una accelerazione
del processo di riforma costituzionale, precisamente (dobbiamo credere) [34]
secondo la vecchia logica
‘devoluzionistica’ gia espressa nel 2006. E’ assolutamente
ovvio che, a fronte di una – rinnovata – spinta per la riforma
costituzionale nel senso del centralismo politico non limitato ma
‘esaltato’ dal decentramento amministrativo (spinta che si
preannuncia molto forte per il crescere del numero – se non della
qualità – di sostenitori e di argomentazioni) la Sardegna non
potrà più confidare nella reazione conservatrice, come è
stato in occasione del referendum del
2006, con il quale abbiamo bocciato – giustamente – la riforma
costituzionale coeva.
Così
come lo Statuto, anche
*
Scritto in onore del collega ed amico, Claude Olivesi, ‘Maître de
conférences en Sciences Politiques’
presso la Università di Corsica “Pasquale Paoli”, Sindaco
della Commune de San-Nicolao e ‘Conseiller général de
Haute-Corse’, deceduto improvvisamente e prematuramente il 7 giugno 2007.
[1] Vedi
esemplarmente G. Demuro, “Una impeccabile
inammissibilità: nota a Corte costituzionale n. 164/2008”
in Forum dei
Quaderni Costituzionali, 2008.
[2] Vedi,
sempre esemplarmente, P. Pinna, “L’esito del referendum confermativo
impedisce la promulgazione della legge statutaria” in O. Chessa – P. Pinna, a cura di, La riforma della Regione: dalla legge statutaria al nuovo Statuto
speciale, Torino 2008, 219 ss.; cfr. Id.,
“Sulla
promulgazione della legge statutaria sarda non approvata dal referendum” in Forum dei
Quaderni Costituzionali,
2008, con un apparato argomentativo perfino esorbitante per sostenere una tesi
la cui correttezza mi appare evidente.
[3] Questa
la sequenza degli avvenimenti: 7 marzo 2007, approvazione della “legge
statutaria” da parte del Consiglio regionale, con maggioranza assoluta ma
inferiore ai due terzi dei consiglieri in carica; 18 giugno 2007, deposito, da
parte di diciannove consiglieri regionali, a norma dell’art. 15 dello
Statuto sardo, della richiesta di referendum sulla “legge
statutaria”, presso la cancelleria della Corte d'Appello di Cagliari; 21
ottobre 2007, votazione referendaria, con la partecipazione del 15,7% degli
aventi diritto, di cui il 67,9 % contrari alla conferma; 30 ottobre 2007,
proposta di questione di legittimità costituzionale (da parte della
Corte d’Appello di Cagliari, in sede di dichiarazione dei risultati
referendari) della norma che fissa per la validità del referendum il
quorum del 33% dei votanti (art. 15, comma 1, della l.r. sarda 21/2002 [disciplina del referendum sulle
leggi statutarie] che rinvia all’articolo 14 della l.r. sarda
n. 20/1957 [Norme in
materia di referendum popolare regionale]); 7 maggio 2008, sentenza
n. 164 della Corte costituzionale di dichiarazione della inammissibilità
di tale questione; 30 giugno 2008, conseguente dichiarazione di
invalidità del referendum da parte della Corte d’appello di
Cagliari; 10 luglio 2008, promulgazione della “legge statutaria” da
parte del presidente della RAS (vedi BURAS [Bollettino Ufficiale della regione
Autonoma della Sardegna] del 18 luglio 2008); 11 settembre 2008, impugnazione
della promulgazione da parte del Governo italiano davanti alla Corte costituzionale.
[5] A
metà del secolo scorso, un romanista italiano (applicando al diritto le
dottrine semantiche del Corso di linguistica generale [1906-11; 1916-22] di Ferdinand de Saussure e del Tractatus
Logico-Philosophicus [1918; 1922] di Ludwig Wittgenstein) ha scritto un saggio, molto noto (almeno tra
i romanisti) per dimostrare che la prima e fondamentale dogmatica giuridica
consiste precisamente nella terminologia che si adopera: “La terminologia
romana come prima dommatica giuridica” (B. Biondi, in Studi in
onore di V. Arangio-Ruiz II, Napoli, 1953. 73 ss.).
[6] In un
documento (relativamente recente) della Università Carlo Cattaneo
– LIUC e della Unione Nazionale Comuni Comunità Enti Montani
– UNCEM,
a cura di G. Saponaro e in collaborazione
con l’Ufficio Studi UNCEM, consultabile nel sito
‘internet’ della UNCEM, I nuovi Statuti regionali. Monitoraggio al 31
maggio 2004, dopo essersi definito il “potere statuente”
regionale «Il diritto-dovere di darsi un proprio statuto [...]
espressione di sovranità del Popolo di ogni Regione» (p. 14) non
si hanno remore a distinguere «due categorie di Regioni: quelle dotate di
potere statuente, nelle quali la
sovranità popolare si manifesta a livello più alto (Regioni a
Statuto ordinario); e quelle prive di un vero e proprio potere statuente (Regioni a Statuto Speciale), dotate di mera
potestà propositiva essendo in esse il potere statuente assorbito dal potere costituente statale»
(p. 15). Saponaro e le istituzioni che si riconoscono nel documento si limitano
a esplicitare ciò che è assolutamente implicito nel linguaggio
adoperato anche da più accademica dottrina (vedi, da ultimo, la raccolta
di scritti R. Bin e L. Coen, a cura di, I nodi tecnici della revisione degli Statuti speciali [Atti
Convegno Udine, 12 ottobre 2007] Udine 2008, passim, in particolare, la “Introduzione” dello stesso
Bin) nonché da atti legislativi (v., infra,
la nt. 14).
Per
cogliere in maniera immediata la assurdità e il groviglio di
contraddizioni di questa terminologia/dogmatica, cfr. la affermazione di Saponaro
con la affermazione sulla “sovranità” della Regione sarda,
contenuta nella “Relazione al disegno di legge statutaria” sarda e
riportata, infra, alla nt. 13.
[7]
«Ciascuna Regione ha uno statuto che, in armonia con
[8]
«Allo Statuto speciale per
[9] M. Cecchetti, “La legge statutaria
come strumento di affermazione dell’autonomia e
dell’identità delle Regioni speciali” in Federalismi [rivista telematica] 3/2008,
10 (e in O. Chessa – P. Pinna, a cura di, La riforma della regione, cit.): «Se si considera il testo
dell’art. 123 Cost., sembra piuttosto agevole rilevare che la sola
previsione della “forma di governo” in senso stretto, per i soli
profili relativi al potere della regione di derogare alla disciplina stabilita
dalle disposizioni costituzionali in materia, continua a svolgere la funzione
di norma attributiva di una competenza che
Per
quanto poco probante, si deve – in ogni caso – non dimenticare che
a questa tesi accede la stessa “legge statutaria” sarda, la quale,
all’art 1, recita: «La presente legge, in attuazione dell'articolo
15, comma secondo, dello Statuto speciale della Sardegna, disciplina la forma
di governo e i rapporti fra gli organi, i principi
fondamentali di organizzazione e di funzionamento della Regione [etc.]».
[10] O
“stabilito nel presente Statuto” (così per la Regione
Sicilia) o “disposto nel presente Capo” (così per
[11] In
Sardegna, una delle ragioni del contendere a proposito del processo di riforma
statutaria è stato l’ordine crono-logico tra riforma della
“legge statutaria” e riforma dello “Statuto”.
[12] Ad
esempio, A. Ruggeri, “Elezione
diretta dei presidenti regionali, riforma degli statuti, prospettive della
specialità” in Id., Itinerari
di una ricerca sul sistema delle fonti, Torino 2000, 213 usa la espressione “legge
statutaria” per le Regioni a statuto speciale e per le Regioni a statuto
ordinario e anche P. Pinna, Il diritto costituzionale della Sardegna,
Torino 2007, 59 e 125, osserva che l’art 123 Cost. non fa differenza tra
statuti delle Regioni ordinarie e statuti - leggi regionali delle Regioni
speciali.
[13] Nella
“Relazione al disegno di legge statutaria” era scritto «La
specialità sarda [...] non può ridursi a termine vuoto [...] Deve
viceversa trovare [...] quel “di più” di autonomia che
differenzia
[14] La
denominazione ufficiale, adottata nel BURAS del 18/07/2008, contenente la
promulgazione della legge di determinazione della forma di governo della stessa
Regione sarda, è “legge regionale statutaria”.
[16]
L’on Giorgio Macciotta ha scritto: «la legge
statutaria (la cui discussione si
è concentrata sul rapporto tra Presidente e Consiglio, ignorando i
rapporti con gli Enti locali, con le forze sociali, con le
professionalità esterne al circuito stretto della Regione istituzione) ha ripetuto, in
materia, le norme del vigente Statuto. Un’occasione sprecata» (Id., “Le spine del
governatore” in www.insardegna.eu
, 01/08/2007); cfr., dello stesso
Macciotta, “
Eppure,
si tratta di una questione politica e giuridica posta da lungo tempo. In un
seminario in onore di Paolo Dettori su Le
dimensioni dell’autonomismo e l’esperienza sarda (organizzato a
Sassari più di un quarto di secolo fa [nel 1980] dal romanista
Pierangelo Catalano e i cui atti sono stati pubblicati 10 anni dopo [Sassari
1990] da Pietro Soddu) due uomini politici sardi di formazione culturale assai
differente ma di uguale fede democratica e di uguale caratura istituzionale,
Luigi Berlinguer e Giuseppe Pisanu, concordavano sul «fatto che i comuni
sono stati soffocati da una seconda forma di accentramento successiva a quella
statuale, che è stato l’accentramento regionale»
(Berlinguer) e sulla necessità della «partecipazione reale alle
scelte nazionali» da parte dei comuni oltre che delle regioni (Pisanu).
[18] Vedi
esemplarmente, R. Bin,
“Introduzione: che cosa non deve essere scritto negli Statuti”
cit., supra, alla nt.6, ove
(poiché per “Statuti” delle Regioni ad autonomia speciale si
intende quelli ottriati dallo Stato) si assegna a tale sorta di
“Statuti” la sola funzione di determinare/delimitare le
“competenze” di quelle Regioni; cfr. G. Demuro, “Il nodo delle competenze. Come si scrivono gli
elenchi?” sempre in R. Bin
e L. Coen, a cura di, I nodi tecnici della revisione degli Statuti
speciali, cit., 63 ss.
[19] Vedi,
ancora esemplarmente, R. Bin,
“Autonomia statutaria e ‘spirito della costituzione’”
in Le Istituzioni del federalismo, n. 2/3 2004, anno XXV° -
marzo/aprile e maggio/giugno [Relazione al Convegno “La forma di governo
regionale alla luce della sentenza n. 2 del 2004 della Corte
costituzionale”, Facoltà di Scienze politiche
dell’Università della Calabria, 5 marzo 2004] § 6.: «Ho
sempre sostenuto che un rafforzamento dell’autonomia regionale non possa
che incominciare da un’ampia autonomia statutaria, ed in particolare dalla
possibilità di scegliersi forma di governo e sistema elettorale»;
cfr., tuttavia, supra, le ntt. 6 e
18.
[20] Che
riprendono e accentuano la storica deriva nord-americana della tradizione
federativa mediterranea ed europea; di “accentramento politico” e
“decentramento amministrativo” parla, infatti, a proposito del
federalismo statunitense, Tocqueville (A. De
Tocqueville, La democrazia in
America, ed. UTET, Torino 1981, 110; cfr., infra, la nt. seguente).
[21]
Rinvio per approfondimenti, a due miei interventi precedenti:
“Federalismo e de-centramento: i caratteri e le distinzioni” in Aa.Vv., Il Federalismo Sardo [= Quaderni
della Fondazione – Atti del Convegno Cagliari 6-7 dicembre 2001
– Ed. Fondazione Sardinia] Cagliari 2003, 107–116 e
“Costituzione italiana e Statuto sardo tra federalismo vero e federalismo
falso”, in Quaderni Bolotanesi,
n. 31, anno 2005, 29–45; cfr., più recentemente, il mio
“‘Modello’ romano e ‘costituzionalismo
latino’” in Teoria del
Diritto e dello Stato. Rivista europea di cultura e di scienza giuridica,
2007 n. 2, 250 s.
Da ultimo, anche secondo uno studio della CGIA
Mestre (Associazione Artigiani e Piccole Imprese), “il federalismo
fiscale al Sud non conviene”: «Al Sud, a fronte di misure
così pesanti da applicare ai propri cittadini, chi è favorevole
ad una eventuale riforma federale del nostro sistema fiscale? Oggettivamente
credo quasi nessuno [scrive il segretario, della CGIA, Giuseppe Bertolussi] … appare evidente
che per gli amministratori locali meridionali la strada del federalismo fiscale
sarà lastricata da forti tagli alla spesa corrente» (ASCA –
agenzia stampa quotidiana nazionale - Roma, 3 mag. 2008).
[22] Su
cui mi sono espresso già in tempi non sospetti: G. Lobrano, “La politica e le istituzioni.
Le fatiche della democrazia o la scorciatoia del governatore?” in Presenza. Periodico della CISL Sarda,
anno xx n. 102 Aprile 2004 [=
Atti del Seminario Il presente e le
frontiere dello sviluppo in Sardegna, Cagliari, 10 febbraio 2004]
12–19.
[23] E,
quindi, non si pone il problema di spiegare la menzione, per il potere
statuente di queste ultime Regioni, soltanto
della determinazione della forma di governo a fronte della menzione anche della determinazione dei principi
fondamentali di organizzazione e funzionamento, per il potere statuente delle
Regioni ad autonomia ordinaria; vedi, supra,
nt. 9.
[25] Vedi,
ad es., Lorenza Carlassare,
“La sent. N. 2 del 2004 tra forma di governo e forma di stato” in Le Regioni. Bimestrale di
analisi giuridica e istituzionale, 4, luglio-agosto
2004, 920-925.
[26]
Tralasciamo la nozione della “partecipazione” espressamente
formulata nel testo della “legge statutaria” sarda (art. 2), come
partecipazione dei cittadini alla ‘informazione informatica’;
nozione che sarebbe soltanto risibile se non provenisse da un
‘governatore’ impresario informatico.
[27]
Rousseau – che, ovviamente, tiene conto di Bodin – fa coincidere la
forma di Stato con la forma di sovranità e insegna che
[28] Vedi,
per una approssimazione allo stato del dibattito, M. Plutino, “La forma di governo regionale: (poche)
certezze e (molti) dubbi tra qualità della legislazione e riforma
‘federalista’ dello stato” in Cahiers européens, 2000; cfr. P. Passaglia, “La
problematica definizione della ‘forma di governo’ della Corte
ostituzionale” in Quaderni costituzionali Rivista italiana di diritto
costituzionale, N. 3, settembre
2004, 569-600 e G. E. Vigevani,
“Autonomia statutaria, voto consiliare sul programma e forma di governo
‘standard’ (Nota a Corte cost. 2 dicembre 2004, n. 372 e Corte
cost. 6 dicembre 2004 n. 379)” in Le
Regioni. Bimestrale di analisi giuridica e istituzionale,
4, luglio-agosto 2005, 606-618.
[30] In
senso ampio, perché (vedi, supra,
nt. 27) secondo Rousseau (con il quale convengo) per “governo” si
deve intendere esclusivamente l’esecutivo.
[31] Secondo Montesquieu, Esprit
des lois XVIII 5 “Des peuples des îles”: «Les
peuples des îles sont plus portés à la liberté que
les peuples du continent». Secondo Rousseau, Contrat social II 10: «Il est encore en Europe un pays
capable de législation; c'est l'Isle-de-Corse. La valeur et la constance
avec laquelle ce brave peuple a su recouvrer et défendre sa
liberté, mériteroit bien que quelque homme sage lui apprît
à la conserver».
[32] Vedi
G. Lobrano, “Città,
municipi, cabildos”, in Roma e
America. Diritto romano comune, n. 18, anno 2004 [ma pubblicata nel 2005],
169–191.
[33] Vedi
G. Lobrano, “Del Defensor
del Pueblo al Tribuno de
[34] E
puntualmente iniziamo a verificare: in un ‘workshop’ organizzato
l’8 novembre 2008, ad Asolo, in provincia di Treviso, dalle fondazioni
Farefuturo (di area An) e Italiani europei (di area Pd), Gianfranco Fini e
Massimo D’Alema sembrano aver trovato piena intesa sulla necessità
di procedere in maniera condivisa alla riforma federativa dello Stato italiano,
ricorrendo ancora allo strumento della Commissione parlamentare bicamerale. Ma
ciò che è qui interessante e preoccupante (e che tutte le agenzie
di stampa hanno evidenziato) è la affermazione di D’Alema, secondo
il quale, nel nuovo contesto federale, «Bisogna rafforzare la
capacità dello Stato centrale di svolgere tre funzioni: programmare,
controllare, valutare». Ora, se c’è una attività che,
in un rapporto federale vero, deve essere oggetto di partecipazione degli enti
federati è precisamente la programmazione. Per approfondimenti circa il
federalismo vero e il federalismo falso, vedi miei contributi citati, supra, alla nt. 22.