Responsabilità:
una nuova virtù
per l'era
postmoderna
Università di Sassari
Sommario: 1. Un’ambigua
virtù. – 2. Nuove metafore: la rete.
– 3. Dal
dovere alla responsabilità. – 4. Responsabilità
semplice e complessa.
Tra
le stranezze che affollano l’insieme di credenze
dell’umanità, Winston Davis cita il culto di una piccola
comunità cristiana statunitense, devota a Nostra Signora della Responsabilità Perpetua[1]. Se la prospettiva di una
responsabilità perpetua somiglia più a un incubo che a una serena
visione cristiana, Davis nota che il fatto riflette un paradosso della nostra
cultura contemporanea.
Se da
un lato siamo pronti a inginocchiarci di fronte alla responsabilità, e a
farne una divinità dell’era postmoderna, dall’altro siamo
del tutto incerti sul suo significato e i suoi scopi. Per quale ragione
riponiamo tanta fiducia e aspettative etiche in un concetto dai confini
così fluidi e dai contenuti così indeterminati?
In
questi ultimi decenni dell’umanità, la responsabilità
sembra essere la più invocata delle qualità umane, delle doti
istituzionali e dei principi morali, tanto da venire ormai considerata come la
nuova virtù dell’età tecnologica[2]. Nel suo processo di
affermazione concettuale, sembra aver lentamente assorbito quell’insieme
di termini tradizionali di approvazione che denotavano bontà,
rettitudine, prudenza e giustizia, per divenire, come scrive Davis, una
virtù sempre più inclusiva e tuttavia sempre più ambigua,
che racchiude un insieme di significati contraddittori[3].
Il
dovere di rispondere come garanti di un debito o promessa altrui,
l’obbligo di subire una sanzione o una punizione, il considerare
preventivamente le possibili conseguenze delle proprie azioni, fino al dovere
di prendersi cura di chi è più fragile e vulnerabile, sono solo
alcuni dei modelli di responsabilità elaborati dall’etica e dal
diritto della civiltà occidentale[4].
Le
parole che oggi usiamo per esprimere le nostre idee sull’agire
responsabile sopportano il carico di credenze e pratiche antiche, che hanno
lasciato tracce – ora lievi ora marcate – nel nostro sistema di
pensiero[5]. Queste tracce sono
rinvenibili nell’ambiguità che caratterizza i termini della
famiglia della responsabilità: le espressioni «essere ritenuto
responsabile», «avere la responsabilità di»,
«assumersi la responsabilità», «sentirsi
responsabile», «essere dichiarato responsabile», esprimono
infatti differenti e contraddittori significati che, se da un lato indicano la
capacità umana di rispettare le regole e adeguarsi ai doveri che esse ci
impongono, dall’altro mostrano l’esigenza di andare oltre quei
doveri, di esercitare la nostra capacità di scelta e di riflessione, che
può condurre al rifiuto dell’autorità, della tradizione e
dello stesso dovere[6].
Se da una parte esaltano il valore dell’individuo e delle sue prerogative
di identità e libertà, dall’altro reclamano le esigenze di
solidarietà e sicurezza di un gruppo sociale organizzato.
La
responsabilità può essere raffigurata come quello spazio
dell’agire pratico attraversato da molteplici significati, che talvolta
si presentano in contraddizione fra loro. Finora l’etica moderna che
chiameremo tradizionale, nata dal pensiero cristiano e giusnaturalista, ha
‘normalizzato’ il concetto di responsabilità, racchiudendolo
nella categoria normativa del dovere[7].
La
responsabilità è stata assoggettata, nella sua elaborazione
concettuale, ad una serie di regole e codici, di norme e di vincoli,
imbrigliata nelle maglie della normatività, e rappresentata come
l’antitesi della libertà. Alla ‘leggerezza’ della
libertà è stata contrapposta nelle analisi filosofiche e nello
stesso immaginario collettivo, la ‘gravità’ della
responsabilità, come se la seconda fosse la garanzia contro le
anarchiche tendenze della prima, la certezza dell’ordine contro i
pericoli di una morale assoluta.
Sia
nel diritto che nella morale, essere responsabili significa essere punibili,
assoggettabili a una pena o a una sanzione, in modo che l’ordine turbato
dal gesto compiuto contro le norme della comunità venga ripristinato.
Per questo possiamo dire che alla responsabilità è stata
assegnata finora una funzione ‘normalizzatrice’, di conservazione
di un equilibrio sociale ed economico, come emerge in modo particolare dal
dibattito giuridico ottocentesco europeo e statunitense[8].
La
tendenza alla normalizzazione della responsabilità si rinviene anche nei
tentativi di ricostruzione del concetto, che organizzano i significati in un
sistema coerente, intorno al principio della sanzionabilità e della
colpevolezza. Fin dall’Ottocento responsabilità significa
punizione, e fra le due, come disse Bradley, non vi è differenza nel
linguaggio comune[9].
Ma
è in questi ultimi cinquant’anni, dopo
Il
concetto di punizione è stato affiancato da quello di cura e di
relazione, la rigida idea di reciprocità è stata avvicinata a
quella di asimmetria e vulnerabilità e il significato etico della
responsabilità si è progressivamente allontanato dal mondo dei
diritti.
Si
è disegnato lentamente, con le analisi di Weber, Levinas, Arendt, Jonas,
Bauman, Gilligan, di Apel e Ricoeur, un nuovo orizzonte concettuale della
responsabilità, che ha innescato un grande dibattito su questa idea
così problematica del nostro corredo morale. Le tesi accennate hanno
avuto l’effetto di problematizzare un concetto che fino ad ora è
stato presentato come coerente e lineare nel linguaggio dei doveri, rilevandone
le aspre contraddizioni, esaltando, a lato della punibilità, la
riflessione e la ponderatezza, accanto alla sanzione la prevenzione, e alle
norme che devono orientare l’agire responsabile, l’irrequietezza di
un impulso morale non codificabile.
Uno
degli elementi che accomuna prospettive e soluzioni così differenti
è l’abbandono dell’approccio metodologico che ha
caratterizzato le analisi tradizionali della responsabilità.
L’alternativa tra determinismo e libero arbitrio non costituisce
più condizione di pensabilità della responsabilità, non
rappresenta la condizione teorica che dev’essere soddisfatta per poter
affrontare i dilemmi dell’agire responsabile[11].
Se la
maggior parte dei filosofi della responsabilità esprime una posizione
compatibilista, che concilia la prospettiva di un cauto determinismo con una
relativa possibilità di scelta, non è tuttavia questa la
condizione a cui sottopone l’analisi del concetto di
responsabilità. Come dice Schwartländer, l’esperienza della
responsabilità è il nuovo «fatto della ragione», qui
sta il suo fondamento[12].
La
ricerca di un fondamento della responsabilità, che Apel ha definito allo
stesso tempo necessario e impossibile[13], impone l'adozione di una
nuova prospettiva teorica, sollecitata dall'emergenza tecnologica e
produttivistica che ha sovvertito gli equilibri naturali portando
all'attenzione dell'umanità nuovi oggetti di responsabilità, come
le generazioni future[14].
Così,
di fronte alle inconciliabili divisioni teoriche che si contendono la
legittimazione filosofica della responsabilità, Ricoeur distingue tra
'concezioni di primo piano' e 'concezioni di sfondo': se le teorie che fanno da
sfondo alla responsabilità si presentano inconciliabilmente divise, le
idee di responsabilità che propongono non sono, a ben vedere,
così distanti, ma anzi presentano numerosi elementi comuni[15]. Il nuovo imperativo della
responsabilità deve nascere dalla condivisione dei problemi, non - o
almeno non solo - dal confronto delle teorie[16].
Tuttavia,
la definizione dei caratteri di un nuovo modello di agire responsabile si
scontra con la difficoltà di una rete ampia e flessibile di significati,
norme, regole e principi, caratterizzata da tensioni, contraddizioni e
ambiguità.
La
responsabilità non ha un centro, un solido cuore concettuale che funga
da principio intorno a cui si organizzano tutti i suoi significati, almeno non
più. Fino alla prima metà del Novecento, gli studi sul tema
mostrano un sistema coerente di significati che ruota intorno a quello di
colpevolezza.
Nelle
indagini sull’affermazione del concetto nel panorama moderno e sui significati
dei termini della famiglia semantica della responsabilità, apprendiamo
che responsibility compare per la
prima volta nei discorsi che animano gli accesi dibattiti parlamentari inglesi,
e che responsabilité fa la sua
irruzione nella lingua francese negli stessi anni, in riferimento alla
responsabilità politica dei funzionari e ministri, così come risponsibilità entra di soppiatto
nella lingua italiana, per diffondersi nel linguaggio comune solo
nell’Ottocento, come un termine non elegante, ma efficace, che non ha
sinonimi e che presto conquista una sua precisa area di impiego[17].
Il
nucleo di significato comune ai tre termini è quello di ‘dover
rendere conto a qualcuno degli atti compiuti in violazione di una norma
giuridica o morale’.
La
loro radice etimologica rinvia al verbo latino respondeo, che significa ‘garantire a propria volta’,
‘promettere in risposta’. La ‘garanzia’ e il
‘dovere di rendere conto dei propri atti’ slitteranno verso i
significati di punibilità e colpevolezza, veicolati dal concetto
d’imputazione, che rappresenta il vero antenato concettuale
dell’idea moderna di responsabilità[18].
I
sistemi giuridici ottocenteschi rifletteranno, pur nel complesso panorama dei
diversi ordinamenti e tradizioni, questa idea di agire responsabile, traducendola
con l’idea di colpevolezza e di capacità di orientare il proprio
agire in base a un quadro prefissato di doveri.
Anche
la morale assorbe e plasma questo concetto di responsabilità, come il
dovere di rendere conto di fronte a Dio o alla propria coscienza degli atti
compiuti contro le norme morali. Il pensiero kantiano rappresenta il modello di
agire responsabile, fondato sull’autonomia della coscienza morale e sulla
libertà individuale[19].
Nel
panorama contemporaneo questo sistema concettuale entra in crisi, sia in campo
giuridico, sia in ambito morale. Una crisi lenta e progressiva, che ha mostrato
la sua imponenza e profondità di fronte agli inediti problemi e dilemmi
posti dalla bioetica e dall’emergenza ecologica. Il tradizionale concetto
di responsabilità ha rivelato la sua inadeguatezza e i suoi limiti,
imponendo una nuova riflessione. Nell’attuale panorama culturale
cominciano ad emergere i tratti di un nuovo concetto di responsabilità
che si differenzia per alcuni rilevanti aspetti da quello nato dalla
Rivoluzione francese e dal pensiero kantiano[20].
Uno
di questi è la frammentarietà che si oppone alla solidità
e – apparente – coerenza concettuale ottocentesca. Quando diciamo
‘responsabilità’ e ‘responsabile’ esprimiamo una
serie di significati differenti, sia riguardo all’oggetto della
responsabilità, il chi o cosa verso cui si rivolge il nostro
agire, sia riguardo al soggetto, singolare o plurale, individuale o
istituzionale, sia riguardo al ruolo che svolgiamo. «La
responsabilità, dice Leccardi, si disegna oggi grazie a un diverso
vocabolario. I suoi termini chiave diventano scelta, autonomia,
soggettività, riflessività, creatività; risposta,
relazione, intersoggettività; e anche ambivalenza e conflitto»[21].
Accanto
a parole come volontà, colpa, imputazione, giudizio, sanzione e pena, si
affiancano gli orizzonti semantici della relazionalità e della
vulnerabilità, della cura e della prevenzione. I confini della
responsabilità appaiono mobili e in un continuo processo di definizione,
l’insieme dei suoi significati risulta a tratti incoerente e
contraddittorio, ma ampio e flessibile, capace di estendersi a nuovi ambiti
dell’agire. L’immagine della rete, in cui ogni nodo rappresenta un
punto di forza, che tuttavia può venir meno senza per questo compromettere
la funzionalità dell’insieme, evoca il modo in cui nuove regole,
pratiche e significati si dispongono a formare l’idea di agire
responsabile. Manca un nucleo fondamentale e originario che definisce
l’ordine di senso del concetto, in base al quale comporre le
contraddizioni ed eliminare le ambiguità, al suo posto compaiono tanti
centri significanti, unificati dall’insieme di funzioni che il concetto
è chiamato a svolgere.
La sciolta
alleanza con il concetto di dovere è un altro dei tratti che segnalano
il rinnovamento della responsabilità.
«È evidente,
scrive Schwartländer, che nella generale coscienza morale la
responsabilità subentra al posto finora occupato dal dovere, e forse il
cambiamento dell’ethos storico
non si esprime in nessun altro caso più chiaramente che nella crescente
limitazione, anzi nel ridimensionamento del concetto di dovere e nella
contemporanea accentuazione e approfondimento del concetto di responsabilità»[22]. Il dovere, chiarisce
Schwartländer, richiama l’idea di imposizione, di coercizione
esterna che si contrappone alla spontaneità della volontà e della
libertà morale. La dottrina dei doveri non sembra fornire nell’attuale
panorama filosofico un’adeguata giustificazione teorica alla
responsabilità.
A questo argomento, che
esprime un pensiero diffuso[23], bisogna tuttavia
aggiungere alcune precisazioni. Il concetto di dovere continua ad essere una
componente necessaria della responsabilità, tuttavia non è
più il concetto intorno al quale si organizzano tutti i significati
dell’agire responsabile. Ad esso si contrappone infatti, in una nuova e
feconda contraddizione, il senso di responsabilità, che definiremo come
un impulso morale non codificato.
Dovere e senso di
responsabilità esprimono le due opposte tendenze della
responsabilità: il primo esalta una forma di acritica obbedienza alle
norme giuridiche e morali che regolano la condotta individuale, il secondo
implica la scelta ponderata tra una serie di opzioni, sulla base della
valutazione delle probabili conseguenze, commisurate alle norme di
comportamento[24].
I due significati, sebbene
relati, sono distinti: il primo considera una responsabilità retrospettiva, che deriva da un giudizio
sul comportamento tenuto e sulle conseguenze dell’agire, il secondo
riguarda una forma di responsabilità prospettica,
che riguarda la deliberazione del soggetto che valuta le possibili conseguenze
della sua azione[25].
Mentre nel primo è preponderante l’aspetto della soggezione a un
obbligo, nel secondo emerge quello della libera scelta del soggetto.
Nelle analisi più
recenti questi due significati sono stati considerati come potenzialmente
contraddittori: al senso ‘normalizzatore’ di un dovere di
responsabilità come obbedienza alle norme, è stato opposto il
senso innovatore di un atto di responsabilità che va contro quelle
norme, che, sulla base di una valutazione critica, rifiuta il quadro di doveri
imposto.
Le numerose variazioni e
sfumature di questa importante coppia di concetti, trovano una più
adeguata collocazione all’interno della distinzione tra filosofie
normative e filosofie emotiviste della responsabilità, che qui è
possibile solo accennare.
Le prime sono quelle che
ricostruiscono la responsabilità a partire dal suo fondamento: Jonas e
Apel rappresentano due esempi paradigmatici nella filosofia contemporanea: il
primo rinviene il fondamento della responsabilità nell’ontologia
della natura[26];
il secondo nell’etica del discorso[27]. Il primo ricorre alla
metafisica di ispirazione aristotelica per elaborare l’imperativo di
responsabilità[28]; il secondo
s’ispira alla filosofia kantiana, riformulando il principio di
universalizzazione secondo le regole della comunicazione[29]. Entrambi cercano un
fondamento razionale per la responsabilità e traducono il relativo
principio in norme e regole universali[30].
Le filosofie emotiviste
rifiutano un fondamento razionale per la responsabilità, sostenendo che
la responsabilità si traduce in un impulso verso l’altro non
razionalizzabile e non universalizzabile, che non deriva da una norma o da un
dovere, ma dall’io.
È la
responsabilità che fonda l’io morale, che qualifica
l’individuo come ente capace di moralità.
Nel suo breve saggio
sull’Etica e i problemi della
cultura moderna, Simmel si libera della scelta filosofica tra determinismo
e indeterminismo con un colpo di scena teorico: «La responsabilità
non si può dunque salvare né nel determinismo né
nell’indeterminismo. Quindi si può concludere che la questione in
quanto tale non era stata posta nel modo giusto. Ci si è chiesti sempre
come e se libertà o determinismo siano la base dell’etico, vale a
dire della responsabilità; noi vogliamo provare a capovolgere
l’ordine: fondare non la responsabilità nella libertà, ma
la libertà nella responsabilità. Noi diciamo: l’uomo non
è responsabile perché è libero, egli è invece
libero perché è responsabile»[31].
Ma cosa significa in questo
contesto, il termine responsabile? Siamo fuori dall’orizzonte del
significato puramente sanzionatorio. L’uomo è responsabile per Simmel
in quanto portatore di un talento naturale, di un principio morale innato, non
appreso: il senso di responsabilità. «Il senso di
responsabilità, chiarisce Simmel, è considerato l’apriori di tutta l’eticità
e della vita etica»[32].
Levinas e Bauman costituiscono,
pur con le rilevanti e note differenze, esempi di un approccio post-razionale
al nostro tema. In Levinas è l’etica e non l’ontologia a
fondare l’io morale. La responsabilità nasce dall’incontro
con l’altro, è una chiamata, un evento che, inaspettatamente,
accade. Non nasce da un dovere astratto, né da una norma, ma da un
impulso non codificato[33]. Nel pensiero di Levinas,
la responsabilità è un modo attraverso cui si costruisce la
soggettività. L’alterità e l’asimmetria sono i due
principali caratteri della sua filosofia che verranno ripresi da Jonas e
Bauman. Per entrambi la responsabilità nasce da un rapporto asimmetrico
e sbilanciato tra due soggetti. Ma, mentre Jonas racchiude la
responsabilità in un imperativo, Bauman preserva tutta l’anarchia
dell’io morale, lasciando indeterminati i contenuti della
responsabilità e soffermandosi sui suoi caratteri strutturali[34].
Per Bauman la
responsabilità è una dote che fa parte del nostro corredo di
umanità e ci fonda come esseri morali. Nessuno ce la può donare o
togliere, non la possiamo cedere o acquistare, ce la portiamo addosso,
inscritta nel nostro tessuto morale, e non possiamo disfarcene. La
responsabilità è un impulso ad agire e a prenderci cura degli
altri che resiste a ogni regola e norma, a ogni codificazione e a ogni
tentativo di normalizzazione[35].
«È il
“fatto bruto”, originario e primordiale dell’impulso morale,
della responsabilità morale, dell’intimità morale a
costituire la materia di cui è fatta la morale della convivenza
umana»[36].
Nella tesi di Bauman l’età postmoderna, nata dal disincanto del
mondo, ha il compito di «ripersonalizzare» la morale, riportando la
responsabilità, che rappresenta il concetto fondante dell’etica,
all’inizio del percorso morale e non alla sua conclusione, dove è
stata esiliata dall’etica illuminista[37].
Dopo il lungo esproprio
operato dalla morale del razionalismo moderno, i sentimenti riacquistano per
Bauman un ruolo determinante nella ricostruzione della moralità. Le
emozioni e le passioni che esprimono il nostro radicamento e il nostro amore
per il mondo sono i fili di cui è intessuta la moralità. Il
versante dell’emotività e dell’affettività viene
recuperato da Bauman, che non esita ad avventurarsi sul terreno sdrucciolevole
dei sentimenti e delle emozioni: «Delegittimare o “mettere tra
parentesi” gli impulsi e i sentimenti morali per poi cercare di
riedificare l’edificio dell’etica a partire da ragionamenti
accuratamente mondati dalle sfumature emotive e sciolti da ogni legame con
l’intimità umana non manipolata, equivale a dire (…) che se
noi solo potessimo levar di mezzo i muri, vedremmo meglio che cosa sorregge il
soffitto»[38].
Cambia la prospettiva del
soggetto morale: da una condizione di passività egli si trova proiettato
al centro della scena morale come soggetto chiamato a scegliere, a decidere, a
valutare e a soppesare le conseguenze del proprio agire.
Ma se finora abbiamo mostrato
la contraddizione in cui possono trovarsi un attento senso di
responsabilità e un coercitivo dovere di responsabilità, ora
dobbiamo considerare un nuovo contesto, quello in cui a disposizione del
soggetto morale non esiste il quadro consolidato di doveri, che possono essere
seguiti o rifiutati, ma solo un impulso morale in un nuovo mondo senza
istruzioni per l’uso.
Davis,
nel considerare le dimensioni e i dilemmi di una nuova virtù, scrive che
non è più possibile parlare di un unico concetto di
responsabilità, ma che è necessario distinguere tra un modello
semplice ed uno complesso[39].
Il
primo racchiude il significato tradizionale, che abbiamo considerato nelle
pagine precedenti, come l’insieme dei doveri convenzionali prestabiliti,
ai quali riteniamo di doverci adeguare. Dire che una persona è
responsabile in questo senso significa dire che ha uno spiccato senso del
dovere, è affidabile, degna di fiducia e prudente.
Tuttavia
oggi questo modello di responsabilità rivela tutta la sua inadeguatezza.
Una persona coscienziosa, ligia al dovere e affidabile può arrivare a
comportarsi in modo altamente irresponsabile, non considerando le conseguenze
negative che possono derivare proprio dall’osservanza del dovere.
Nella
società contemporanea, osserva Davis, la responsabilità sembra
assumere il suo significato più adeguato quando va oltre il dovere,
quando si spinge nel territorio sconosciuto privo dei cartelli indicatori
dell’etica comune. Questo concetto di responsabilità è
definibile come «complesso» o «riflessivo»,
perché richiede un insieme di capacità critiche che da un lato
esaltano l’autonomia del soggetto morale, dall’altro ne mostrano la
solitudine nel panorama contemporaneo.
Essere
responsabili in tal senso significa essere capaci di prevedere le conseguenze
dei propri atti; saper valutare quando è il caso di consultare altre
persone o assumere le decisioni in modo del tutto autonomo; avere la
capacità di modificare i propri progetti di fronte a conseguenze
negative verso altri obiettivi ugualmente apprezzabili; avere la volontà
di dare un resoconto veritiero delle proprie azioni.
I
significati che ricorrono in questo concetto complesso di responsabilità
non sono la sanzione e il giudizio, ma la previsione, la flessibilità,
la capacità critica, la relazionalità, la sincerità e
infine la creatività, che sembra essere una grande risorsa per la nostra
vita morale. Davis estende questi principi anche alle istituzioni, mostrando
che la rete della responsabilità non implica solo un insieme di
significati, ma anche un insieme di soggetti che concorrono a produrre
comportamenti responsabili[40].
Se la
responsabilità semplice deriva il suo significato dal contesto normativo
nel quale viene impiegata, rivelandosi coerente con una concezione ordinata
della società, in cui esiste un’autorità a cui rendere
conto delle proprie azioni, quella complessa non può essere ricavata da
un insieme prestabilito di valori, interessi e doveri. La prima incorpora
concetti come giudizio, autorità, volontà norma e coercizione, la
seconda racchiude quelli di previsione, prudenza riflessione, capacità
critica, autonomia e rischio.
Mentre
la responsabilità semplice prospera sul solido terreno della
normatività e della certezza, la responsabilità complessa nasce
dalla morale rarefatta dell’incertezza.
L’incertezza,
scrive Bauman, è la nostra condizione naturale di esseri morali:
«L’incertezza dondola la culla della morale, la fragilità
l’accompagna per tutta la vita. Non c’è nulla di necessario
nell’essere morali. Essere morali è un’opportunità
che può essere colta, ma può anche essere persa, e con estrema
facilità»[41].
Tuttavia
nel mondo contemporaneo l’incertezza assume un nuovo carattere, si
incorpora in nuove modalità pratiche, connesse al fenomeno della crisi
dei valori.
Il
termine ‘crisi’ indica generalmente nel linguaggio ordinario uno
stato di incertezza e di dubbio, un momento in cui tutto è sospeso nel
caos mentale dell’indecisione. La crisi è quel momento in cui si
sgretolano le certezze, in cui un insieme di credenze si rivela inadeguato e
dev’essere ricostruito. Per questa ragione la crisi contiene in sé
il momento del suo superamento, perché pone le condizioni per una
riflessione, un giudizio e una decisione. Per decifrare la crisi abbiamo
bisogno di un modello di normalità con cui raffrontare quello attuale,
di uno stato originario dal quale siamo usciti e che vogliamo ricostruire. In
realtà, come nota Bauman, noi ricostruiamo la normalità, il
modello originario definitivamente incrinato, proprio quando percepiamo che non
funziona più, che si rivela inadeguato: «Quando parliamo di crisi
nel senso moderno di incomprensione e incertezza, il messaggio che trasmettiamo
– talvolta apertamente, ma più spesso implicitamente –
è questo: gli strumenti che un tempo usavamo senza neppure riflettere, e
con ottimi risultati, sono diventati poco maneggevoli e sembrano non
funzionare; così sentiamo il bisogno di scoprire quali fossero le
condizioni che in passato li rendevano efficaci, e che cosa occorra fare per
ripristinare quelle condizioni o per cambiare gli strumenti»[42]. In tal senso la crisi
è una condizione normale per l’umanità: in una società
in crisi, alla costante ricerca di strumenti per affrontare i cambiamenti che
ne garantiscono la sopravvivenza, non c’è niente di critico.
È
nel mondo contemporaneo che la crisi assume un nuovo significato, perché
perde la sua periodizzazione, il suo andamento ciclico, per diventare la
condizione permanente ed esplicativa della nostra società. Tra le
ragioni che hanno determinato la preoccupazione costante per la crisi in ogni
settore dell’ordine della convivenza umana vi è senza dubbio la
rapidità con cui avvengono i cambiamenti, che non consentono
l’attivazione di quei meccanismi di compensazione sociale e culturale
adottati per fronteggiare i mutamenti del sistema[43].
Tuttavia
questa non è l’unica ragione che spiega la condizione attuale
nella quale ci troviamo. Ve n’è un’altra legata al nuovo
significato della crisi, espressa dalla metafora della fluidità e della
liquidità, in cui nessuna forma si consolida, in cui nessuna figura
è stabile, in cui i legami interpersonali sono transitori e lo stesso io
morale è diviso tra i suoi ruoli[44]. È
l’immagine della modernità liquida, evocata da Bauman, che
conferisce alla crisi attuale il suo proprio e originale significato:
«Quella che noi oggi chiamiamo “crisi” non è soltanto
lo stato in cui si scontrano forze di natura contrastante (il futuro è
incerto e la vita sta per assumere una forma nuova, che tuttavia non ci si
può raffigurare in anticipo), ma soprattutto uno stato in cui nessuna
forma emergente sembra destinata a consolidarsi e a sopravvivere a lungo. In altri
termini, lo stato di crisi non equivale allo stato di indecisione, ma allo stato dell’impossibilità della decisione»[45].
Se
nelle concezioni precedenti la crisi poteva essere superata approntando nuovi
strumenti conoscitivi che evitassero il ripetersi degli errori e che
consentissero di fronteggiare le nuove situazioni, oggi la crisi è
prodotta dallo stesso processo conoscitivo. Quanto più aumenta la
consapevolezza delle nostre azioni e si raffinano le conoscenze tecniche e
scientifiche, tanto più aumenta l’incertezza. È lo stesso
sistema che produce gli elementi per la sua disgregazione[46].
In
questo contesto s’innesta la crisi dei valori, dei criteri che servono da
guida per le azioni. La frantumazione dei codici etici e della morale
tradizionale in una pluralità di scale di valori, se da un lato produce
una forma di incertezza morale, dall’altra rappresenta un fertile terreno
per la moralità, dice Bauman[47].
Lo
stesso concetto di crisi dei valori è infatti indice di un
"fondamentalismo etico", che raffronta la situazione di incertezza in
cui si trova l’io morale a quella ‘normale’ della morale
moderna, costruita in un sistema di norme e vincoli, che sottrae all’io
la capacità di scelta tra più opzioni egualmente valide, per
orientarlo verso un’acritica obbedienza.
La
crisi di quel codice etico, dal quale è stato esiliato il sentimento
morale, rappresenta il fertile terreno di crescita della responsabilità.
Lungi dal costituire una grave minaccia per la moralità, la crisi
è un luogo accogliente per la responsabilità, che si manifesta
nella sua vera natura proprio quando mancano le certezze: «È
quando vengono a mancare le regole conoscitive su cui fare affidamento,
è quando non sappiamo esattamente quello che dobbiamo fare, e non abbiamo
un luogo dove rivolgerci, …. Che incontriamo qualcosa come la
responsabilità»[48].
La
seducente teoria di Bauman, se da un lato porta un argomento convincente per la
spiegazione della centralità del nostro tema nel panorama
dell’agire contemporaneo, dall’altro non offre una risposta alle
questioni più urgenti che la nostra azione sul mondo ha suscitato. Se da
un lato viene esaltato il soggetto nella sua qualità morale,
dall’altro viene lasciato nella sua solitudine in un quadro privo di
riferimenti normativi per l’azione collettiva e individuale.
La
responsabilità che nasce da un impulso morale non manipolabile
costituisce una risorsa necessaria per l’agire morale, ma non sufficiente
per la civiltà tecnologica. Di fronte all’emergenza ecologica e ai
problemi derivanti dagli squilibri nelle condizioni di vita delle popolazioni
del pianeta, Jonas, Apel non sembrano volersi affidare unicamente all'impulso
morale individuale, ma ritengono che l’insopprimibile libertà
morale debba confrontarsi con la necessità di preservare le condizioni
di vita per l’umanità.
La
categoria normativa del dovere è affermata con forza da entrambi. Mentre
nelle tesi emotiviste della responsabilità, questa viene contrapposta al
dovere, percepito come un intollerabile giogo per l’io morale, nelle
fondazioni razionali di Jonas e Apel si cercano i difficili equilibri che
possano ricomporre l’incrinata armonia tra eteronomia dei fini collettivi
e autonomia delle ragioni individuali.
[1] Cfr.
[2] Cfr. G. Williams, Responsibility as a Virtue, in Ethical
Theory and Moral Practice, 2008 n. 4, vol. 11, 455-470.
[3]
[4] Cfr. W. Davis (ed.), Taking Responsibility, cit., affronta il tema della
responsabilità in una
prospettiva comparatistica,
trattando nella parte II Responsibility in the West, e nella parte III Responsibility
in the non-western World: «The
western concept of responsibility is never far removed from its etymological
root: the ability-to-respond, for example, to such questions as “why did
you do that?” When we turn to the other cultures, we find different emic notions of responsibility, each with its own history,
each encumbered by specific religious and philosophical conundrums. Each
language inevitably stamps responsibility with its own genius and limitations»,
(p. X); cfr. inoltre N.A. Nikam, Indian Thought and the Philosophic Bases of Responsibility of Man, in Revue
Internationale de Philosophie,
1957, n. 39, 75-87.
[5] Sul ruolo che le idee
dell’antichità greca e del pensiero giuridico romano hanno svolto
nella formazione del concetto moderno di responsabilità, cfr. M.A. Foddai, Sulle tracce della responsabilità. Idee e norme dell’agire responsabile, Giappichelli, Torino
2005, cap. I.
[6] Cfr. U. Scarpelli, Riflessioni sulla responsabilità politica.
Responsabilità, libertà, visioni dell'uomo, in R. Orecchia (a cura di), La responsabilità politica. Diritto e
tempo, Atti del XIII Congresso nazionale della Società Italiana di
Filosofia Giuridica e Politica, Giuffrè, Milano 1982; cfr. inoltre, ivi,
l’intervento di L. Gianformaggio,
208 ss.
[7] Cfr. J. Schwartländer, Responsabilità, in H. Krings - H.M. Baumgartner - C. Wild
(a cura di), Concetti fondamentali di
filosofia, Editrice Queriniana, Roma 1982, 1809-1820.
[8] Cfr. G. Cazzetta, Responsabilità aquiliana e frammentazione del diritto comune
civilistico, Giuffrè, Milano 1991; G.
Viney, Traité du Droit
Civil. Introduction à la responsabilité, L.G.D.J., Paris 1995; O.W. Holmes, The Common Law, Little Brown & Company, Boston 1881.
[9] Cfr. F.H.
Bradley, Ethical Studies,
Oxford University Press, Oxford 1961 (1876), 5; sul pensiero di Bradley cfr. J. Glover, Responsibility, Routledge & Kegan Paul, London 1970, 13 s. ma
si veda anche J. Stuart Mill e la
sua celebre teoria medicinale della responsabilità, An examination of Sir William Hamilton’s Philosophy, (New
York 1884) in Collected Works of John
Stuart Mill, Routledge & Kegan Paul, Toronto - London 1963, vol. IX,
Cap. XXVI, 458.
[10] Cfr. K. Jaspers, La questione della colpa, Raffaello Cortina Editore, Milano 1996; G. Anders, Noi figli di Heichmann, Giuntina, Firenze 1995; H. Arendt, La banalità del male, Feltrinelli, Milano 1996; cfr. inoltre
J. Foard, The Mistake Will Not Be Repeated: Hiroshima and Japanese War
Responsibility, in W. Davis (ed.),
Taking Responsibility, cit., 213 ss.;
D. Barazzetti - C. Leccardi, Responsabilità e memoria,
[11] Per uno
sguardo d'insieme sul dibattito attuale in materia di determinismo e libero
arbitrio cfr. J. Feinberg - R. Shafer -
Landau (eds.), Reason and
Responsibility, Thomson Wadsworth, USA Belmont (CA) 2005, si veda in
particolare la parte IV Determinism, Free
Will and Responsibility.
[13] Il paradosso segnalato
da Apel deriva dalla necessità e impossibilità di fondare
razionalmente i valori che guidano le scelte individuali e collettive,
assumendo nel discorso quell'idea di razionalità avalutativa ricavabile
dagli esiti dell'epistemologia moderna che ha costruito un'idea di ragione
neutrale rispetto al valore: «In tal modo però la scienza viene a
configurarsi come quell'istanza della ragione che presenta la fondazione
razionale di un'etica della responsabilità allo stesso tempo come
necessaria e in linea di principio, impossibile» K.O. Apel, Etica della
comunicazione, Jaca Book, Milano 1992, 18.
[14] Cfr. H. Jonas, Il principio responsabilità, Einaudi, Torino 1990; in una
prospettiva teorica differente si veda sul tema G. Pontara, Etica e
generazioni future, Laterza, Roma-Bari 1995.
[15] Cfr. P. Ricoeur, Postfazione a F. Lenoir (a cura di), Il tempo della responsabilità,
SEI, Torino 1994, 250 ss.
[16] Si vedano sul tema le
considerazioni di S. Veca, La priorità del male e l'offerta
filosofica, Feltrinelli, Milano 2005, 148 ss.
[17] Per queste notizie
rinvio al mio Sulle tracce della
responsabilità, cit., e alla relativa bibliografia.
[19] Cfr. S. Goyard
Fabre, Responsabilité
morale et responsabilité juridique selon Kant, in Archives de Philosophie du droit, 1977,
n. 22, 113-130.
[20] Cfr. M. Cruz, Il dibattito che ci coinvolge: soggetto e responsabilità, in
Iride, 1997, n. 21, 271-280, (277).
[21] C. Leccardi, Responsabilità, in A.
Melucci (a cura di), Parole
chiave. Per un nuovo lessico delle scienze sociali, Carocci, Roma 2000,
157-168, (157). Cfr. Id., La memoria responsabile, in D. Barazzetti, C. Leccardi, Responsabilità e memoria, cit.,
30 ss.
[23] Cfr. V. Franco, Etiche possibili, Donzelli, Roma 1996, individua due orientamenti
filosofici sulla responsabilità: il primo, che vede nel soggetto etico
libertà assoluta, esemplificato Nietzsche, Stirner e Sartre, considera
la responsabilità come liberazione dai doveri assoluti e categorici, il
secondo che vede il soggetto etico come ente relato, come nelle filosofie del
giovane Lukács, Habermas e Gilligan, considera la responsabilità
come concetto relazionale.
[25] Cfr. M.S. Moore, Law and Psychiatry, cit., 50; si veda inoltre E. Garzon Valdés, L’enunciato di responsabilità,
in Materiali per una storia della cultura
giuridica, 2000, n. 1, 171-202 (ora in Id.,
Tolleranza, responsabilità e Stato
di diritto, Il Mulino, Bologna 2003).
[26] H. Jonas, Il principio responsabilità, cit., 16; si veda inoltre Id., Organismo e libertà. Verso una biologia filosofica, Einaudi,
Torino 1999; sul pensiero di Jonas si veda la raccolta di saggi curata da P. Pellegrino, Hans Jonas: Natura e responsabilità, Milella, Lecce 1995.
[27] K.O. Apel, Comunità e comunicazione, Rosenberg e Sellier, Torino 1977,
205 ss.; Id., Il problema della fondazione di un'etica
della responsabilità nell'età della scienza, in E. Berti (a cura di), Tradizione attualità della filosofia
pratica, Marietti, Genova 1988. Da ultimo cfr. Id., Discorso,
verità, responsabilità, Guerini e Associati, Roma 1997.
[28] «Agisci in modo
che le conseguenze della tua azione siano compatibili con la permanenza di
un'autentica vita umana sulla terra», Il
principio responsabilità, cit., 16. Sull'aristotelismo di Jonas cfr.
M. Bertozzi, Dal dualismo gnostico all'etica della responsabilità, in Ragion pratica, 2000, n. 15, 75-87,
(79); si veda inoltre G. Hottois,
Un'analisi critica del neo-finalismo
nella filosofia di Hans Jonas, in Hans
Jonas: natura e responsabilità, cit., 81 ss. Contro l'aristotelismo
di Jonas cfr. B. Pastore, Etica della responsabilità e tutela
della natura: note sulla filosofia della crisi ecologica di Hans Jonas, in Ragion Pratica, 2000, n. 15, 109-130,
«Jonas, proponendo una fondazione metafisica dell'etica, si serve a piene
mani dell'ontologia e della metafisica aristotelica. Ma, in questo caso, non
può certo dirsi aristotelico o neoaristotelico, posto tra l'altro,
l'orizzonte postmetafisico nel quale si collocano le odierne posizioni
neoaristoteliche» (118).
[30] Per un confronto delle
teorie di Jonas e Apel cfr. P.P.
Portinaro, Il profeta e il
tiranno. Considerazioni sulla proposta filosofica di Hans Jonas, in Nuova civiltà delle macchine,
1992, n. 1, 100-111.
[34] Z. Bauman, Le sfide dell’etica, Feltrinelli, Milano 1998. Sul pensiero
di Bauman cfr. C. Leccardi, Responsabilità, cit., 163 ss.
[35] Cfr. V.
Jankélévitch, La
responsabilité dans son for intérieur, in Revue Internationale de Philosophie,
1957, n. 39, 69-74: «Le mystère déraisonnable et même
injuste de la responsabilité métempirique
réside en ceci qu’elle n’est pas une charge dont l’on
puisse se décharger sur l’autre, ni un service dont le responsable
puisse être dispensé par son voisin» (70).
[37] Ivi:
«Ri-personalizzare la morale significa riportare la responsabilità
morale dal punto di arrivo (dove è stata esiliata) al punto di partenza
(dove è a casa) del processo etico. Ora ci rendiamo conto – con un
misto di inquietudine e speranza – che se la responsabilità morale
non esistesse “dal principio”, se non fosse in qualche modo
radicata nella nostra stessa condizione di esseri umani, non apparirebbe grazie
a qualche tentativo nobile o dispotico» (40-41).
[40] Ivi, 7. Sul punto cfr. G. Williams, Infrastructures of
Responsibility. The Moral Tasks of Institutions, in Journal of
Applied Philosophy, 2006, n. 2, vol. 23, 207-221; sul
tema della responsabilità collettiva
e istituzionale cfr. inoltre R. Downie,
Government Action and Morality. Some
Principles and Concepts of Liberal-Democracy, Macmillan & Co LTD,
[44] Cfr. Z. Bauman, Modernità liquida, cit.: «I fluidi viaggiano con estrema
facilità. Essi “scorrono”, “traboccano”,
“si spargono”, “tracimano”, “colano”,
“gocciolano”, “trapelano”; a differenza dei solidi non
sono facili da fermare: possono aggirare gli ostacoli, scavalcarli, o ancora
infiltrarvisi. Dall’incontro con i corpi solidi escono immutati, laddove
questi ultimi, qualora restino tali, non sono più gli stessi, diventano
umidi o bagnati. La straordinaria mobilità dei fluidi è
ciò che li associa all’idea di “leggerezza”. (…)
Sono questi i motivi per considerare la “fluidità” o la
“liquidità” come metafore pertinenti allorché
intendiamo comprendere la natura dell’attuale e per molti aspetti nuova
fase nella storia della modernità» (VII).