ds_gen N. 7 – 2008 – Contributi

 

chessa-piccolaL’autonomia locale nelle regioni

speciali. Dalla clausola di

adeguamento automatico

alle prospettive di riforma*

 

Omar Chessa

Università di Sassari

 

Sommario: 1. L’autonomia locale e la clausola di adeguamento automatico nella giurisprudenza costituzionale. – 2. La clausola di maggior favore e i “principi di sistema”. – 3. Uno schema operazionale per il concetto di autonomia. – 4. L’autonomia come rivendicazione verso l’alto. – 5. Segue: le conseguenze applicative. – 6. La regula indotta dalla giurisprudenza costituzionale e il “doppio binario”. – 7. L’insostenibilità del “doppio binario”. – 8. Le prospettive di riforma.

 

 

1. – L’autonomia locale e la clausola di adeguamento automatico nella giurisprudenza costituzionale

 

È affermazione ricorrente in dottrina che il nuovo quadro costituzionale delle autonomie locali, quale risulta dalla riforma del Titolo V, sia più approfondito e articolato di quanto non fosse in passato.

Beninteso, non sono mancate le interpretazioni svalutative, talune tendenti a sminuire la portata delle novità, altre – più radicali – ad escludere che di autentiche novità si tratti. Tuttavia, l’impressione generale è che qualcosa sia cambiato e anche in modo significativo.

Gli esempi più importanti sono: il superamento della riserva generale di legge statale in materia di ordinamento degli enti locali[1] e la sua sostituzione con una riserva limitata agli organi di governo, le funzioni fondamentali e la legislazione elettorale degli enti locali, come disposto dall’art. 117, comma secondo lett. p; l’abbandono della regola del parallelismo tra funzioni legislative e funzioni amministrative, per fare luogo al principio di sussidiarietà ex art. 118; il nuovo art. 114, che non solo distingue tra Repubblica e Stato (sicché quest’ultimo non è più il tutto ma una parte) ma dice altresì che, oltre alle Regioni, anche i Comuni, le Province e le Città metropolitane sono enti autonomi, con propri statuti, poteri e funzioni, secondo i principi fissati dalla Costituzione; e infine, l’espresso riconoscimento costituzionale delle competenze regolamentari locali contenuto nell’art. 117, sesto comma.

Dunque ci troviamo di fronte a uno sviluppo ulteriore del principio autonomistico di cui all’art. 5 Cost.; e di conseguenza, le nuove disposizioni in tema di autonomia locale debbono interpretarsi in modo da trarne conseguenze più ampie rispetto a quelle che si potevano dedurre dal quadro previgente.

Resta però un elemento di profonda incertezza: quanto di tutto ciò è estendibile alle regioni speciali?

Tutte le disposizioni del Titolo V sopra richiamate derivano, con l’eccezione dell’art. 5 Cost., dalla l. cost. n. 3 del 2001 e, perciò, in tanto possono applicarsi alle regioni ad autonomia differenziata in quanto riescano a passare attraverso la strettoia della clausola di adeguamento automatico prevista all’art. 10 della summenzionata legge costituzionale.

Ebbene, stando all’interpretazione che la giurisprudenza costituzionale ha dato finora del suddetto art. 10, è presumibile che ben poco di quanto si è elencato prima possa estendersi alle regioni speciali[2]. È noto infatti che il giudice costituzionale ha preferito intendere la «condizione di maggiore autonomia» come se si riferisse alla sola autonomia regionale, escludendo perciò quella degli enti locali minori.

Gli argomenti che hanno guidato la decisione della Corte sono essenzialmente due: uno letterale, l’altro sistematico[3].

Secondo il primo, l’art. 10 dice che le disposizioni del Titolo V novellato si applicano alle e non nelle regioni speciali e, pertanto, «il meccanismo di estensione di cui al citato art. 10 (può) funzionare soltanto quando esso miri a garantire, all’esito di una valutazione complessiva, maggiore autonomia all’ente regione e non anche all’ente locale»[4].

Il secondo argomento, di tipo sistematico, fa leva sull’impossibilità di ottimizzare contemporaneamente l’autonomia di tutti i livelli di governo, perché rafforzare gli uni equivale logicamente a indebolire gli altri, e viceversa. Vale a dire: riconoscere o aggiungere competenze agli uni equivale a sottrarre o ridurre competenze agli altri[5]. Ergo, secondo la Corte occorre scegliere e di fronte all’alternativa se la clausola di maggior favore si riferisca all’autonomia regionale ovvero a quella locale – non potendo, per le ragioni testé illustrate, riferirsi ad entrambe – si dovrebbe optare per la prima.

 

 

2. – La clausola di maggior favore e i “principi di sistema”

 

Contro l’orientamento della Corte si sono mosse diverse obiezioni, che hanno riguardato sia l’argomento letterale che quello sistematico.

Al primo si è opposto che nel testo costituzionale la Regione talvolta viene in rilievo come “ente” e talvolta come “ordinamento” (comprensivo del sistema degli enti territoriali minori); e che, nel caso dell’art. 10 della l. cost. 3 del 2001, l’espressione «si applicano alle Regioni speciali» assume queste nella seconda accezione[6].

Al secondo si è opposto un diverso argomento sistematico. Si è cioè affermato che il «pluralismo istituzionale paritario», previsto dall’art. 114 Cost., e il principio di sussidiarietà ex art. 118 Cost. rappresentano «principi di sistema» (o «vincoli di sistema» o «principi di struttura»), che dispiegherebbero la loro portata nell’intero sistema costituzionale e alla cui presa – pertanto – le regioni speciali non potrebbero sottrarsi[7].

Tuttavia, non è chiaro che cosa debba intendersi per «principio di sistema» e quale sia il rapporto che deve intrattenere con la norma che si ricava dall’art. 10 l. cost. 3 del 2001. Per quanto attiene a questo secondo profilo, non si capisce se i principi di sistema siano tali perché a essi deve darsi applicazione nonostante l’art. 10 – nel senso che l’obbligo di scegliere la norma costituzionale più favorevole non può inibirne l’applicazione, quale che sia il grado e il tipo di autonomia che essi esprimono – o se invece a essi debba darsi applicazione integrale nelle regioni speciali perché in sé esprimono una condizione di maggior autonomia.

Si tratta di due letture radicalmente alternative, tra cui non c’è possibilità di conciliazione. O i suddetti principi si estendono alle regioni speciali in virtù della loro “sistematicità”, e quindi prescindendo dal fatto che soddisfino o meno i criteri posti dall’art. 10; o la loro estensione è giustificata dal fatto di offrire una maggiore autonomia, e quindi in virtù non già della loro sistematicità, ma della loro rispondenza al criterio dell’art. 10: tertium non datur[8].

 La prima lettura è indubbiamente quella che meglio rappresenta il punto di vista qui discusso[9]. In effetti, si fa leva sul carattere “sistematico” delle norme di cui si argomenta l’onnipervasiva estensione, tralasciando di considerare il profilo relativo alla precisazione del concetto di autonomia cui farebbe riferimento l’art. 10 [10].

Chiarito quale sia il rapporto tra l’argomento dei “principi di sistema” e l’art. 10 della l. cost. 3 del 2001, non resta che interrogarsi più a fondo sulla nozione di “principio di sistema”, anche al fine di valutare se la sua consistenza sia tale da permettere la derogabilità dello stesso art. 10 [11].

È forte l’impressione che “principio di sistema” equivalga a “principio supremo”: diversamente, come potrebbe argomentarsi l’impossibilità per le regioni speciali di derogarvi, stante l’art. 10? E difatti, il proprium di un principio supremo dell’ordinamento repubblicano è quello di tenere avvinto a sé tutto ciò che – appunto – dentro l’ordinamento repubblicano si colloca: non possono esistere zone franche rispetto alla sua presa o zone d’ombra rispetto al suo fascio luminoso.

Tuttavia, il «pluralismo istituzionale paritario» e la sussidiarietà non sono principi supremi ma articolazioni organizzative di principi supremi quali quello di sovranità popolare (art. 1) e quello autonomistico (art. 5)[12]. Anche le regioni speciali incorporano il principio democratico e quello autonomistico. Forse ne sono una traduzione meno avanzata rispetto a quanto introdotto dalla l. cost. 3 del 2001: ma questa non è ancora una buona ragione per fare assurgere l’impianto di questa legge costituzionale a principio supremo e per darne applicazione nelle regioni speciali come principio di sistema, a prescindere da quanto disposto dall’art. 10 [13].

In altre parole, è sempre attraverso la strettoia della clausola di maggior favore che bisogna passare, lavorando soprattutto sulla nozione di autonomia e di maggiore autonomia. È su questi due concetti che si debbono adoperare le risorse dell’interpretazione sistematica e/o conforme: ma solo al fine di argomentare norma per norma il passaggio della l. cost. 3 del 2001 nelle regioni speciali e non certo al fine di affermarne l’applicabilità in blocco, quale regola generale valevole per tutte le esperienze regionalistiche del nostro ordinamento.

 

 

3. – Uno schema operazionale per il concetto di autonomia

 

Etimologicamente l’autonomia è il dare leggi a sé stessi, l’autogoverno che si rivendica nei confronti di chi vorrebbe e avrebbe il potere di imporre l’eterogoverno (cioè, è il contrario dell’eteronomia)[14]. Pertanto, essa è in primo luogo la garanzia di uno spazio protetto dalle intromissioni di un potere sovraordinato; cioè, la richiesta di un ambito entro il quale autodeterminarsi liberamente, differenziando il proprio ordinamento da quello, tendenzialmente onnipervasivo, di un ente sovrastante[15].

Questa accezione esclusiva dell’autonomia di tipo garantistico-separatistica, costruita sul modello della libertà negativa, non ne esaurisce però la portata[16]. Nella sua evoluzione successiva, legata alle esperienze del federalismo e del regionalismo cooperativo, da garanzia di un processo decisionale separato diviene garanzia di partecipazione a processi decisionali che pur essendo esterni rispetto al soggetto che si vorrebbe autonomo, tuttavia finiscono con il riguardarlo[17].

Analogamente, pure questa seconda accezione di autonomia, che possiamo – per comodità espositiva – definire inclusiva[18], si rivendica nei confronti di un potere più esteso e tendenzialmente più comprensivo: il destinatario della richiesta di codecisione è sempre un ente sovrastante.

Ebbene, come si colloca la giurisprudenza costituzionale relativa all’art. 10 della l. cost. 3 del 2001, e in particolare la sent. 370 del 2006, rispetto alle premesse concettuali appena illustrate? Non le accoglie integralmente ma solo in parte.

L’elemento di convergenza è dato dal fatto che la sent. 370 del 2006 sembra recepire il concetto di autonomia nelle due accezioni chiave (esclusiva e inclusiva).

Secondo la Corte l’art. 123. u. c., Cost., cioè la previsione obbligatoria del Consiglio delle autonomie locali (CdAL), rafforzerebbe l’autonomia degli enti locali minori ma limiterebbe quella della regione. Ebbene, è evidente che in questo caso il concetto di autonomia viene in rilievo in entrambi i significati: mentre l’autonomia locale che risulterebbe favorita è di tipo inclusivo, l’autonomia regionale che risulterebbe sfavorita è invece di tipo esclusivo. La prima, infatti, coincide con la richiesta di leale collaborazione da parte di chi, in assenza di meccanismi collaborativi, subirebbe l’esercizio di una competenza altrui, senza potervi incidere in alcun modo; la seconda, al contrario, coincide con la richiesta di non subire compressioni dell’estensione di potestà legislativa attribuita: compressione che, in effetti, si realizzerebbe laddove si perdesse la libertà di scegliere se istituire oppure no il CdAL. E dunque, nel descrivere gli effetti della eventuale estensione alle regioni speciali dell’art. 123, u. c., Cost. la Corte si vale di entrambi i significati di autonomia, dimostrando così di ritenerli a pari titolo rilevanti[19].

 

 

4. – L’autonomia come rivendicazione verso l’alto

 

Sin qui il discorso della Corte converge con le osservazioni poste in premessa. Inizia a divergere quando identifica implicitamente l’autonomia con la “competenza”, senza tenere conto del fatto che nella semantica e origine del concetto v’è incorporata l’idea di una rivendicazione che si rivolge verso l’alto non già verso il basso: si è autonomi nei confronti di un potere sovrastante e dall’ambito più comprensivo, non già rispetto ad un potere sottostante e di estensione inferiore.

Ha senso, quindi, ipotizzare che l’autonomia dell’ente territoriale più esteso (in questo caso la regione) sia minacciata dal rafforzamento dell’autonomia degli enti territoriali minori (in questo caso le province e i comuni)?

In realtà, bisognerebbe rovesciare lo schema e accedere alla conclusione che se il rafforzamento del livello di governo superiore si traduce giocoforza nell’indebolimento dell’autonomia del livello di governo inferiore, non vale però l’inverso. Si propone perciò una definizione stipulativa di questo tenore: l’autonomia ricomprende solo tutto ciò che deve essere garantito nei confronti delle potestà spettanti ai livelli di governo superiori, ma non tutto ciò che permette di comprimere l’autonomia del livello di governo inferiore.

Quali ragioni militano a favore della definizione stipulativa qui proposta? Perché dobbiamo assumerla come schema operazionale dell’art. 10 l. cost. 3 del 2001 e precisamente come modello teorico cui attingere per isolare e filtrare volta per volta le norme espressive di maggiore autonomia?

Perché è quello che meglio di altri soddisfa i vincoli testuali e sistematici cui soggiace l’interpretazione dell’art. 10. Ma procediamo con ordine.

In modo speculare rispetto alle argomentazioni della Corte, è possibile sommare un argomento letterale e uno sistematico.

Quanto al primo, c’è un dato testuale preciso: quando l’art. 10 accenna alle «forme di autonomia più ampie» non specifica di quale autonomia si tratta, cioè se sia quella della regione o degli enti locali minori (o di entrambi)[20]. In base al testo sono perciò astrattamente ricavabili tre norme diverse: 1) le disposizioni della l. cost. 3/2001 si applicano nelle parti in cui prevedono più ampie forme di autonomia regionale; o 2) nelle parti in cui prevedono più ampie forme di autonomia locale; ovvero 3) nelle parti in cui prevedono più ampie forme di autonomia regionale e locale. Quale delle tre è la right answer?

Già così, la soluzione più lineare dovrebbe essere la terza, in base al brocardo ubi lex dixit. Ma viene in soccorso pure un argomento sistematico difficilmente resistibile: accedendo a una soluzione diversa si parcellizza il principio autonomistico che l’art. 5 Cost. enuncia e che l’art. 114 Cost. riferisce non solo all’ente regione ma pure a province, comuni e città metropolitane, tutti inequivocabilmente definiti come «enti autonomi»[21]. Interpretare la condizione di maggiore autonomia in modo da riferirla soltanto all’ultima significa ignorare un preciso vincolo di sistema.

Ma come respingere, allora, l’obiezione della Corte secondo cui è logicamente impossibile soddisfare il suddetto vincolo, dato che – per usare le stesse parole del giudice costituzionale – «si potrebbe verificare il caso in cui ad una ipotetica maggiore autonomia dell’ente locale corrisponda una minore autonomia dell’ente regionale» e, quindi, il caso «che una stessa norma costituzionale, introdotta attraverso il meccanismo previsto dalla legge costituzionale n. 3 del 2001, sia idonea ad incrementare gli spazi di autonomia degli enti territoriali minori e contestualmente ad incidere in negativo sull’autonomia regionale»?[22]

Per respingere questo argomento logico si deve contestare l’implicita identificazione dell’autonomia con la mera “competenza”. Intendendola così, infatti, non c’è modo di riferire la maggiore autonomia tanto alle regioni quanto agli enti locali minori, proprio perché in un sistema integrato le competenze dei diversi soggetti dell’ordinamento (siano essi organi o enti) sempre interferiscono e si limitano a vicenda[23]. Per fuoriuscire da questo cul de sac occorre recuperare la semantica originaria del lemma, identificando l’autonomia non già con qualsiasi competenza astrattamente esercitabile, ma soltanto con quelle competenze che non possono essere irragionevolmente limitate da poteri sovraordinati.

Così intesa, l’autonomia diventa un favor che circonda le attribuzioni di un ente rispetto a quelle di un ente sovrastante: un favor, che però cade quando si entra in relazione con un ente sottostante. Insomma, è un concetto relazionale che guarda verso l’alto: nel momento in cui ciò che la sostanzia rivolge la propria azione verso il basso non è più autonomia ma è ciò che potenzialmente la minaccia.

 

 

5. – Segue: le conseguenze applicative

 

Applicando questo schema operazionale, ove una norma della l. cost. 3/2001 rafforzasse l’autonomia locale comprimendo competenze regionali, questa dovrebbe applicarsi alle regioni speciali, salvo che non implicasse altresì una compressione dell’autonomia regionale rispetto a competenze statali. Può dunque succedere che «a una ipotetica maggiore autonomia dell’ente locale corrisponda una minore autonomia dell’ente regionale»: ma ciò dovrebbe verificarsi solo nelle ipotesi in cui la «ipotetica maggiore autonomia dell’ente locale» indebolisca la posizione della regione rispetto allo stato. È in relazione alle accresciute competenze di quest’ultimo che si deve valutare la «minore autonomia dell’ente regionale».

Ritornando al caso deciso dalla sentenza 370 del 2006, se l’autonomia esclusiva dell’ente Regione è la possibilità di autogovernarsi e differenziare liberamente il proprio ordinamento attraverso l’esercizio di competenze non scalfibili da quelle statali (se non a determinate condizioni), è evidente che l’art. 123, u. c., Cost. non comprime l’autonomia dell’Ente Regione, ma semmai comprime le competenze che la Regione esercita nei confronti delle autonomie locali.

Beninteso, è indubbio che la previsione del CdAL limiti i poteri della regione e ne vincoli le modalità di esercizio, giacché introduce il principio secondo cui ciò che prima poteva essere deciso soltanto dalla regione ora deve, almeno in parte, essere concertato con i destinatari delle decisioni. Ciò nondimeno, in base al modello operazionale qui proposto, non ne limita l’autonomia.

Detto in modo meno preciso, ma forse più efficace: una cosa è la compressione del potere di decidere per altri (cioè del potere di negare l’autonomia altrui), un’altra è la compressione del potere di decidere per sé[24].

 

 

6. – La regula indotta dalla giurisprudenza costituzionale e il “doppio binario”

 

Quante probabilità ci sono che la Corte muti il suo atteggiamento, correggendolo nella direzione qui auspicata? Non disponendo di una sfera di cristallo, in attesa di eventuali revirement si deve prendere atto dell’orientamento consolidato e sforzarsi di dare coerenza generale alla giurisprudenza formatasi sul punto, in modo da trarne linearmente tutte le possibili conseguenze applicative.

Ancora una volta vengono in particolare rilievo le sentenze n. 236 del 2004 e n. 370 del 2006: quale regola si ricava dalla loro considerazione congiunta?

La regola del «doppio binario»[25], che può riassumersi in questi termini:

1) le disposizioni della l. cost. 3/2001 che esprimono un maggior favore per l’autonomia regionale trovano sempre applicazione nelle regioni speciali;

2) le disposizioni della medesima legge che non esprimono un maggior favore per l’autonomia regionale si applicano alle regioni speciali soltanto in riferimento a quelle materie ulteriori di competenza legislativa che la regione mutua dal Titolo V in virtù della clausola di adeguamento automatico.

Per effetto di questa regula, all’interno delle regioni speciali convivono due regimi eterogenei: quello speciale, nelle materie corrispondenti alle competenze legislative che la regione esercita in base allo Statuto, e quello comune, nelle materie corrispondenti alle competenze legislative che la regione esercita in base all’art. 117 Cost.[26] Ciò significa che nel primo binario troveremo il vecchio principio del parallelismo delle funzioni, ancora previsto dagli statuti speciali, mentre nel secondo viaggerà il nuovo principio di sussidiarietà ex art. 118 Cost.

Si tratta di un esito coerente con le premesse da cui muove la Corte?[27]

C’è chi ne dubita[28]. In particolare, si contesta che il parallelismo soddisfi la clausola di maggior favore regionale, poiché si salderebbe al limite statutario dell’interesse nazionale, sancendo così la prevalenza dell’indirizzo politico-amministrativo statale su quello regionale. Ebbene, questa circostanza – a giudizio della dottrina che si illustra[29] - dovrebbe revocare in dubbio l’orientamento giurisprudenziale del “doppio binario”, giacché al parallelismo si dovrebbe sempre preferire il principio di sussidiarietà quale condizione di maggiore autonomia regionale. In altre parole, il regime statutario dovrebbe conservarsi solo nella parte in cui prevede maggiori competenze legislative: le quali, però, dovrebbero comunque esercitarsi nel rispetto della sussidiarietà anziché del parallelismo.

A questa ricostruzione si obietta[30] che il problema non si pone laddove le materie di competenza statutaria dovessero coincidere con materie che per le regioni ordinarie sarebbero di competenza residuale: secondo la giurisprudenza costituzionale, infatti, prevarrebbero le condizioni di esercizio previste per le ultime e, quindi, in luogo del principio di parallelismo s’imporrebbe pacificamente – e in virtù del “doppio binario” – il limite della sussidiarietà.

Per quanto attiene, invece, alla coincidenza tra competenze statutarie e competenze concorrenti, si obietta[31] che, pur mancando indicazioni giurisprudenziali univoche, vi sarebbero tuttavia buone ragioni per ritenere che sia più vantaggioso per l’autonomia regionale esercitare le suddette competenze alle condizioni del Titolo V anziché a quelle statutarie: il limite dei principi fondamentali sarebbe meno penetrante della somma tra i limiti statutari dell’interesse nazionale, dei principi generali dell’ordinamento repubblicano e delle norme fondamentali di riforma economico-sociale. E quindi, anche in questo caso, tali competenze dovrebbero esercitarsi alle condizioni del Titolo V, con tutto ciò che ne discende in base alla regola del doppio binario.

A ben vedere, però, sostenere che una potestà concorrente (e, prima ancora, una residuale) sia più vantaggiosa per l’autonomia regionale di una potestà primaria speciale sembra confermare, almeno in parte, la tesi criticata: se, per usare le parole della sent. 370 del 2006, «il meccanismo d’estensione di cui al(l’)art. 10 (può) funzionare soltanto quando esso miri a garantire, all’esito di una valutazione complessiva, maggiore autonomia all’ente regione e non all’ente locale (corsivo mio)», è evidente che, all’esito di una valutazione complessiva, una potestà concorrente è preferibile a una primaria, perché si porta dietro il limite della sussidiarietà anziché quello più penetrante dell’interesse nazionale[32].

Tuttavia, che alle competenze legislative primarie debbano sempre preferirsi le corrispondenti potestà residuali e concorrenti non è ancora lo smantellamento del “doppio binario”. Anzi, finora ne è la conferma, perché le competenze legislative in questione, anche se previste negli statuti, vengono esercitate come se fossero ulteriori e, quindi, secondo i limiti del Titolo V.

Piuttosto, per smantellare il doppio binario occorre dimostrare che la sussidiarietà debba sostituirsi al parallelismo anche nelle ipotesi in cui le competenze statutarie corrispondono a competenze che l’art. 117 Cost. riserva allo Stato. Posto che in questa ipotesi si applica la disciplina speciale, quale argomento si può portare per provare che non deve applicarsi integralmente il regime statutario? In questo caso, infatti, «l’alternativa non è tra esercitare una competenza alle condizioni dello statuto ovvero a quelle degli artt. 117 e 118 Cost., ma tra avere una competenza legislativa (e quindi esercitarla alle condizioni dello statuto speciale) e non averla affatto perché questa materia è riconducibile alla sfera di competenza statale. Di conseguenza, l’applicazione del regime statutario, ivi compreso l’impianto dei limiti verticali e del parallelismo delle funzioni, sarà comunque preferibile al regime del titolo V che quella materia attribuirebbe alla competenza statale»[33].

 

 

7. – L’insostenibilità del “doppio binario”

 

È giunto il momento di fare qualche bilancio, di ricostruire lo “stato dell’arte” e chiedersi, alla luce della regula del doppio binario, cosa transiti nelle regioni speciali del quadro costituzionale delle autonomie locali previsto per le regioni di diritto comune.

Nel primo binario ben poco: soltanto il principio estrapolabile, ed estrapolato, dall’art. 5 Cost. secondo cui deve essere comunque garantito un nucleo minimo non comprimibile di autonomia locale. Nel secondo binario, invece, passerà sicuramente il principio di sussidiarietà, quale criterio di distribuzione delle funzioni amministrative, e la riserva tendenziale di potestà regolamentare locale in relazione all’organizzazione e svolgimento delle funzioni conferite (art. 117, comma sesto, Cost.)[34].

Per quanto riguarda, invece, la riserva di legge statale in ordine agli organi di governo, le funzioni fondamentali e la legislazione elettorale degli enti locali (art. 117, comma secondo, lett. p), questa non può valere come limite generale alle potestà legislative delle regioni speciali (né del primo né del secondo binario), poiché queste sono titolari – come è noto – di una potestà esclusiva in materia di ordinamento degli enti locali[35].

Come si vede, il doppio binario determina una condizione paradossale: per quanto riguarda lo statuto costituzionale delle autonomie locali non abbiamo due sistemi, uno per le regioni ordinarie, l’altro per le speciali, ma invero ci sono alcune regioni, quelle speciali, all’interno delle quali convivono due regimi eterogenei, due modelli inconciliabili. È una sorta di sdoppiamento schizofrenico: i medesimi enti locali possono essere soggetti all’uno o l’altro regime, secondo l’ambito che di volta in volta viene in rilievo. E pertanto, col variare delle materie acquistano e perdono le garanzie della sussidiarietà amministrativa e della riserva di regolamento locale, con tutte le complicazioni che ne discendono sia in termini di certezza dei rapporti tra i livelli istituzionali, sia in termini di governabilità complessiva del sistema.

Occorre dunque fuoriuscire quanto prima dalla transizione. Resta da capire verso quale approdo e in che modo.

 

 

2. – Le prospettive di riforma

 

Per quanto riguarda l’approdo possibile, la questione è stabilire quale dovrà essere la fisionomia del sistema delle autonomie locali nelle regioni speciali: e precisamente, dovrà essere ancora un modello speciale o dovrà, invece, introiettare il modello già previsto per le regioni di diritto comune?

La risposta è articolata. Sicuramente dovranno transitare nelle regioni speciali i pilastri che reggono l’impianto del nuovo Titolo V: e cioè, la sussidiarietà amministrativa e la riserva tendenziale di regolamento locale. Non c’è nessuna ragione perché gli enti locali delle regioni speciali non debbano diventare pienamente “enti di governo”. Né tanto meno alcuna ragione per cui debba sopravvivere la supremazia regionale nelle forme del passato.

Ciò però non significa che debba senz’altro estendersi per intero il modello comune. Questo, infatti, per buona parte si regge ancora sull’idea che lo Stato sia il garante delle autonomie locali contro il centralismo regionale. È espressione di questa logica l’art. 117, comma secondo, lett. p, e cioè la competenza statale in materia di organi di governo, funzioni fondamentali e legislazione elettorale degli enti locali. È sbagliato perseverare nell’idea secondo cui l’autonomia locale si garantisce consentendo alla legge statale di comprimere l’ambito di quella regionale.

Di conseguenza, bisognerebbe non solo mantenere in capo alle regioni speciali la potestà legislativa in materia di ordinamento locale, ma occorre altresì rimuovere i limiti statutari dell’interesse nazionale, dei principi generali dell’ordinamento repubblicano e delle norme fondamentali di riforma economico-sociale e compensare il venir meno delle “garanzie statali” con il rafforzamento sensibile dei raccordi collaborativi tra regione ed enti locali, soprattutto nel procedimento di formazione della legge regionale ordinamentale.

Resta, infine, da capire in che modo si debba procedere, cioè attraverso quali atti: interrogandosi soprattutto su quanto si può fare con legge statutaria senza azionare la leva della riforma dello statuto speciale.

Ebbene, purtroppo se ne deve concludere che i margini di intervento della legge statutaria non sono granché estesi[36].

È dubbio, infatti, che tale atto possa introdurre la sussidiarietà amministrativa, sulla falsariga dell’art. 118 Cost., e la riserva (tendenziale) di regolamento locale, sul modello dell’art. 117, comma sesto. Per tre ragioni:

1) si tratta di contenuti ulteriori rispetto a quelli che, secondo quanto dispongono gli statuti speciali, sostanziano l’oggetto della legge statutaria; e anche se la Corte costituzionale sembra orientata a sottolineare le differenze anziché le somiglianze tra legge statutaria di regione speciale e statuto di regione ordinaria[37], tuttavia in questo frangente potrebbe ragionare per analogia ed estendere alle leggi statutarie quanto già asserito a proposito degli statuti ordinari: e cioè che trattasi di fonti a competenza riservata e specializzata[38].

2) È dubbio che la legge statutaria possa disciplinare le modalità di esercizio delle competenze legislative fondate sullo statuto speciale, ponendo vincoli ulteriori rispetto ai principi generali dell’ordinamento della Repubblica, alle norme fondamentali di riforma economico-sociale e all’interesse nazionale[39].

3) L’introduzione, con legge statutaria, del principio di sussidiarietà amministrativa allo scopo di vincolare il legislatore regionale futuro sarebbe vanificato dalle disposizioni dello Statuto speciale che prevedono il parallelismo: questo principio infatti consente proprio ciò che il principio di sussidiarietà vieta (e cioè permette al legislatore regionale di allocare le funzioni amministrative, senza dover sottostare al favor per i livelli di governo inferiori)[40].

In conclusione, per ridisegnare il sistema delle autonomie locali valevole per le regioni speciali non rimane altra strada che la revisione degli statuti speciali.

 

 



 

* Relazione presentata al convegno organizzato dall’I.S.G.Re. sui nodi tecnici della revisione degli Statuti speciali, Udine, 12 ottobre 2007; il testo è pubblicato nel volume ISGRE (a cura di R. Bin e L. Coen) I nodi tecnici della revisione degli statuti speciali, Padova, 2008.

 

[1] Materia che, per effetto della riforma, avrebbe perso unitarietà e uniformità, come sottolineato da F. Merloni, Il destino dell’ordinamento degli enti locali (e del relativo testo unico) nel nuovo Titolo V della Costituzione, in Le Regioni, n. 2/3, 2002, 409.

 

[2] Si fa riferimento soprattutto alle sentenze 236 del 2004 e 370 del 2006.

 

[3] Che ricalcano sostanzialmente quelli elaborati da A. D’Atena, Le regioni speciali ed i “loro” enti locali, in Studi in onore di G. Ferrara, Torino, 2005, 147 ss., spec. 149.

 

[4] Punto 4.2.2. del Considerato in diritto.

 

[5] Così la sent. 370 del 2006: «si potrebbe verificare il caso in cui ad una ipotetica maggiore autonomia dell’ente locale corrisponda una minore autonomia dell’ente regionale. Potrebbe, infatti, accadere che una stessa norma costituzionale, introdotta attraverso il meccanismo previsto dalla legge costituzionale n. 3 del 2001, sia idonea ad incrementare gli spazi di autonomia degli enti territoriali minori e contestualmente ad incidere in negativo sull’autonomia regionale». A. D’Atena, op. cit., 149, formula l’argomento in questo modo: «è (…) estremamente dubbia la stessa configurabilità di meccanismi suscettibili di avvantaggiare ecumenicamente l’intero complesso delle autonomie. Per la ragione che il complesso delle autonomie costituisce un sistema integrato, nel quale all’incremento di un livello di autonomia corrisponde frequentemente il decremento di un livello diverso, in un gioco di dare e avere al quale è difficile sfuggire».

 

[6] M. Armanno, Il principio di sussidiarietà nelle Regioni speciali tra giurisprudenza costituzionale e possibili interventi normativi, in O. Chessa - P. Pinna (a cura di), La riforma della Regione: dalla legge statutaria al nuovo statuto speciale, Cagliari, 2008.

 

[7] A definirli «vincoli di sistema che non possono non valere per l’intero ordinamento» è A. Ruggeri, La legge La Loggia e le Regioni ad autonomia differenziata, tra «riserva di specialità» e clausola di maggior favore, in Le Regioni, n. 4, 2004, 817. Analogo punto di vista è in P. Pinna, Il diritto costituzionale della Sardegna, II ed., Torino, 2007, 151, il quale asserisce che l’art. 114 (ma con svolgimenti che involgono necessariamente pure l’art. 118) «si applica alle Regioni speciali in quanto principio di sistema, che definisce la struttura della Repubblica». Ciò perché «la riforma del 2003 ha stabilito che il Comune, la Provincia e la Regione sono enti costitutivi della Repubblica; e tali sono anche la Regione speciale, i Comuni e le Province della stessa Regione. La previsione dell’art. 114 Cost. è una parte essenziale dell’ordinamento della Repubblica, che non può essere circoscritta alle Regioni ordinarie, ai Comuni e alle Province di queste Regioni. Di fronte ad essa, non rileva la specialità regionale». Anche S. Pajno, Il potere sostitutivo nei confronti degli enti territoriali, ed. provv., Palermo, 2007, 174, sottolinea «la portata sistemica del pluralismo istituzionale paritario e del principio di sussidiarietà», in quanto «esplicazione del principio democratico nel nostro ordinamento costituzionale»: la qual cosa dovrebbe indurre la conclusione «nel senso dell’applicazione del principio di sussidiarietà anche nell’ambito dei rapporti interni alle Regioni ad autonomia particolare».

 

[8] Nella prima edizione de Il diritto costituzionale della Sardegna, Torino, 2003, 42, P. Pinna propose una tesi che, alla luce dell’alternativa secca ora prospettata, si poteva leggere come un tentativo di sintesi: usava, cioè, l’argomento sistematico qui criticato per orientare la lettura dell’art. 10; cioè, di questa disposizione si proponeva un’interpretazione conforme ai principi di sistema di cui agli artt. 114 e 118 Cost. Tuttavia, l’esito di quella operazione fu l’elaborazione di una norma che difficilmente avrebbe potuto ricondursi a quella disposizione: l’Autore, infatti, proponeva di leggere l’enunciato «le disposizioni della l. cost. 3 del 2001 si applicano alle regioni speciali nelle parti in cui prevedono forme di autonomia più ampie rispetto a quelle già attribuite» come se significasse “le disposizioni degli statuti speciali si applicano nelle parti in cui prevedono forme di autonomia più ampie”: in questo modo, però, si rovesciava il rapporto tra regola ed eccezione previsto dall’art. 10. In ogni modo, questa impostazione non viene riproposta nella II edizione de Il diritto costituzionale della Sardegna, Torino, 2007, anche perché il problema – alla luce della giurisprudenza costituzionale che nel frattempo si era formata sul punto – è diventato ormai quello di stabilire cosa debba intendersi per condizione di maggior autonomia.

 

[9] P. Pinna, op. ult. cit., 154, asserisce in modo netto che «l’art. 114 Cost. si applica alla Regione differenziata, senza alcuna considerazione delle disposizioni che attengono alla tutela della speciale autonomia di questa Regione». Più sfumata la posizione di S. Pajno, Sussidiarietà e adeguamento automatico, cit., il quale propone l’applicazione dei c.d. principi di sistema, di cui sopra, anche alle regioni speciali «sfruttando le potenzialità che sono contenute nel testo della clausola di adeguamento automatico». Parrebbe, cioè, che il ruolo di tali principi sia quello di orientare l’interpretazione dell’art. 10. A tale impostazione deve però obiettarsi – anticipando un profilo che verrà diffusamente sviluppato nel prosieguo – che allo scopo di individuare negli artt. 114 e 118 dei criteri di interpretazione della clausola di adeguamento automatico non è punto necessario qualificarli come norme di sistema. 

 

[10] Salvo contestare l’interpretazione letterale secondo cui per autonomia debba intendersi soltanto quella regionale.

 

[11] Derogabilità che, beninteso, non viene asserita esplicitamente nella tesi discussa. Ma ciò che rileva non sono le intenzioni soggettive di chi elabora una dottrina, bensì gli esiti oggettivi cui perviene: ebbene, asserire l’applicabilità alle regioni speciali di una data disposizione della l. cost. 3 del 2001, in quanto esprimente un vincolo di sistema, è obiettivamente altro dall’asserirne l’applicabilità in quanto rispondente al criterio di cui all’art. 10; così come è obiettivamente altro dall’asserirne la strumentalità quale criterio interpretativo dell’art. 10. E in ogni caso l’esito di questa interpretazione conforme e/o sistematica dell’art. 10 – come già accennato nella nt. 9 – non può certo essere la generalizzata applicabilità nelle regioni speciali del sistema del nuovo Titolo V, in veste di regola, appunto, generale anziché in veste di eccezione particolare: questa, ribadisco, non sarebbe una norma riconducibile a quella disposizione (di diverso avviso è, evidentemente, S. Pajno, op. ult. cit., 5, nt. 10, laddove contesta «l’affermazione, che pare desumibile nella giurisprudenza costituzionale, secondo la quale gli Statuti speciali continuano a rappresentare il quadro entro il quale definire la posizione costituzionale delle Regioni ad autonomia particolare, salve le “incursioni” di specifici istituti tratti dal Titolo V della Costituzione».

 

[12] Per ragioni di spazio non si può qui affrontare la complessa questione teorica che sta sullo sfondo e che può riassumersi nelle domande: “può una legge costituzionale essere fonte di principi supremi alla stregua della costituzione?”, “c’è una differenza sostantiva tra costituzione e legge costituzionale?”. 

 

[13] Ovviamente, tutto ciò non toglie che per descrivere la situazione costituzionale presente dell’ordinamento repubblicano italiano sia ormai più utile la formula di Repubblica multilevel in luogo di Stato di partiti (su cui vedi già il mio Corte costituzionale e trasformazioni della democrazia pluralistica, in V. Tondi della Mura, M. Carducci, R. G. Rodio, Corte costituzionale e processi di decisione politica, Atti del seminario di Otranto - Lecce, svoltosi il 4-5 giugno 2004, Torino, 2005, 69 ss.; pubblicato in forma ridotta anche su Diritto Pubblico, 3, 2004, 903 ss.). Ma così come il secondo non era un principio supremo, parimenti non lo è la prima, pena una confusione di piani e un errore di metodo.

 

[14] Per rimanere alla sola letteratura giuridica, questo uso linguistico è registrato da S. Romano, Autonomia (1945), in Frammenti di un dizionario giuridico, Milano, 1983 (rist.), 14 ss., secondo cui l’autonomia, «nel significato più ampio e generico, indica ogni possibilità di autodeterminazione» e «nel significato più specifico, che corrisponde alla sua etimologia (…), la potestà di darsi un ordinamento giuridico». Convergenti le definizioni proposte da M. S. Giannini, Autonomia (teoria generale e diritto pubblico), in Enc. dir., IV, Milano, 1959, 356 ss. E infine vedi anche A. Romano, Autonomia nel diritto pubblico, in Dig. dir. pubbl., II, 1987, 30 ss., il quale, assai chiaramente, definisce l’autonomia come «la possibilità di un soggetto di determinare con proprie decisioni il proprio comportamento; più semplicemente, di comportarsi secondo proprie scelte».   

 

[15] Ente sovrastante tradizionalmente definito come “sovrano” (cioè, in origine lo stato). Ma contro la possibilità di riproporre per la nostra Costituzione repubblicana il dittico sovranità/autonomia, vedi il mio La resurrezione della sovranità statale nella sentenza 365 del 2007, in corso di pubblicazione su Le Regioni, 2007.

 

[16] Sulla concezione garantistica dell’autonomia vedi L. Buffoni, Il Consiglio delle autonomie locali nelle Regioni speciali tra concezione garantistica e democratica dell’autonomia, in corso di pubblicazione su O. Chessa - P. Pinna (a cura di), La riforma della Regione: dalla legge statutaria al nuovo statuto speciale, Cagliari, 2008.

 

[17] Non v’è dubbio che il nostro ordinamento accolga entrambe le accezioni del lemma autonomia, sia quella – per così dire – esclusiva che quella inclusiva. Mentre sono riconducibili alla seconda tutte le istituzioni e i meccanismi che veicolano l’istanza e il principio della leale collaborazione e creano ambiti di codecisione e di esercizio comune o integrato di competenze, debbono invece ricondursi alla prima l’insieme delle competenze normative e amministrative isolatamente esercitate o esercitabili dalle regioni e dagli enti locali minori: è evidente che in questo ultimo caso gli strumenti dell’autonomia sono funzionali alla differenziazione anziché all’integrazione. Questa convivenza tra autonomia esclusiva e inclusiva riflette il carattere di fondo del nostro pluralismo, che è (o dovrebbe essere) insieme competitivo e discorsivo. Sul punto rinvio ancora al mio Corte costituzionale e trasformazioni della democrazia pluralistica, cit., spec. 60 ss.

 

[18] E che confluisce anch’essa – come è evidente – nell’idea di autonomia come autogoverno, cioè come obbedienza alle sole leggi che ci si è dati o che si è contribuito a formare.

 

[19] E difatti, non sceglie tra autonomia esclusiva e autonomia inclusiva, privilegiando la prima sulla seconda: ma semplicemente sceglie di privilegiare l’autonomia regionale a discapito di quella locale, a prescindere che sia esclusiva o inclusiva.

 

[20] Né, come si è detto, è risolutivo il fatto che sempre l’art. 10 dica che le disposizioni della l. cost. 3 del 2001 «si applicano alle regioni speciali», perché per regione, in questo caso, può pure intendersi la regione-ordinamento anziché la regione-ente (vedi nt. 7).

 

[21] Non c’è dubbio, infatti, che l’art. 114, alla pari di ogni altra disposizione costituzionale vigente e nel quadro di un’interpretazione sistematica, debba valere come criterio interpretativo del concetto di autonomia incorporato nell’art. 10 della l. cost. 3 del 2001 (trattasi, tra l’altro, di disposizioni contenute nel medesimo atto: il che accredita ulteriormente che la prima debba orientare la lettura della seconda). Ma ciò non significa negare quanto detto prima: e cioè, che norme eventualmente ricavabili dall’art. 114 possano fare ingresso nelle regioni speciali non in quanto aventi carattere strutturale e/o sistematico, ma solo a patto di soddisfare i requisiti della clausola di maggior favore.

 

[22] Di qui la scelta per quest’ultima, giustificata maldestramente in base al dato testuale non univoco contenuto nell’art. 10: e cioè, che le disposizioni della l. cost. 3/2001 «si applicano alle regioni speciali».

 

[23] A tal proposito si deve, però, registrare un’ambiguità, se non un vero e proprio errore logico, nella motivazione della sent. 370 del 2006: secondo la Corte, siccome potrebbe succedere che una medesima norma costituzionale possa potenziare l’autonomia locale e depotenziare quella regionale, allora bisogna concedere l’accesso solo a quelle norme che favoriscono le seconde. Tuttavia, la Corte non dice che sempre l’incremento dell’autonomia locale si traduce in una riduzione di quella regionale. Fa riferimento a un evento ipotetico e non a un evento accertato. Di conseguenza, stando alla premessa, bisognerebbe escludere l’accesso solo a quelle norme della l. cost. 3/2001 che effettivamente potenziano l’autonomia locale a discapito di quella regionale. Rileva questo vizio logico anche A. Ambrosi, I consigli delle autonomie locali nelle Regioni e Province speciali: la questione della fonte competente, in Le Regioni, n. 2, 2007, 365.

 

[24] Tanto più che è dubbio se la capacità di fare della regione non sia in realtà potenziata dalla creazione di un raccordo collaborativo con coloro che poi dovranno, in qualche misura, assicurarne l’efficacia. Un argomento di questo tipo è reperibile in P. Pinna, op. cit., 150, laddove, proprio per contestare la motivazione della sent. 370 del 2006, afferma che «la leale collaborazione è un metodo essenziale di governo che avvantaggia tutti i soggetti del sistema pluralistico paritario». Questo argomento sembra, a ben vedere, sottintendere un terzo concetto di autonomia: la capacità di conseguire effettivamente gli obiettivi che ci si prefigge; cioè, una nozione sostantiva di autonomia (in contrapposizione a quelle formali sinora prese in considerazione). Poiché nel quadro articolato di un assetto pluralistico complesso tutte le competenze sono inevitabilmente interferenti – premessa che invero pure la Corte fa propria, fondando su di essa l’argomento logico sopra criticato – su tutte grava il dovere di leale collaborazione, pena la paralisi del sistema: ecco quindi che la previsione di raccordi e istituzioni cooperative rappresenta una condizione basilare di funzionalità generale del sistema, il presupposto indefettibile perché tutte le competenze di tutti gli enti costitutivi della Repubblica possano efficacemente servire gli obiettivi in vista dei quali vengono esercitate. Il CdAL sarebbe pertanto una condizione di maggiore autonomia per tutti perché garantisce una migliore funzionalità sistemica.

 

[25] S. Pajno, Sussidiarietà e clausola di adeguamento automatico, cit.

 

[26] Si tratta di un esito che era stato chiaramente previsto da A. D’Atena, Le Regioni speciali ed i “loro” enti locali dopo la riforma del Titolo V, cit., 150.

 

[27] Premesse, come si è detto, in sé non condivisibili nella misura in cui muovono dall’assunto che la clausola di maggior favore operi soltanto a beneficio dell’autonomia regionale.

 

[28] S. Pajno, op. ult. cit.

 

[29] Sempre S. Pajno, op. ult. cit.

 

[30] Da parte di S. Parisi, Il “posto” delle fonti locali nel sistema, in corso di pubblicazione su O. Chessa - P. Pinna (a cura di), La riforma della Regione: dalla legge statutaria al nuovo statuto speciale, Cagliari, 2008.

 

[31] Sempre da parte di S. Parisi, op. cit.

 

[32] Un argomento analogo è in M. Armanno, op. cit.

 

[33] L’intero virgolettato è tratto da S. Parisi, op. cit.

 

[34] Può obiettarsi che in questo caso non avrebbe poi tanto senso distinguere tra i due binari, perché nel primo troverebbe comunque applicazione l’art. 7 TUEL, secondo cui «Comuni e Province adottano regolamenti nelle materie di propria competenza». Tuttavia, l’obiezione non coglierebbe nel segno, dato che dall’art. 117, sesto comma, Cost. si evince decisamente qualcosa di più rispetto alla disciplina legislativa richiamata: se ne trae, infatti, sia una riserva “rigida” di regolamento locale opponibile ai regolamenti statali e regionali, sia una riserva “tendenziale” opponibile alle fonti legislative (come argomentato da S. Parisi, op. cit.). E pertanto, nei due binari il regime della potestà regolamentare locale sarebbe comunque diverso.

 

[35] Non è escluso però – come già osservato da A. D’Atena, op. cit., 151, e ora ripreso da S. Parisi, op. cit. – che singole norme contenute nella legge ex art. 117, comma secondo, lett. p, possano, di volta in volta, fare ingresso nelle regioni speciali ad altro titolo: cioè, come principi generali dell’ordinamento repubblicano o norme fondamentali di riforma economico-sociale.

 

[36] Dico “purtroppo” perché la legge statutaria è interamente nella disponibilità del processo politico regionale, diversamente dallo statuto speciale che è, invece, di spettanza del Parlamento nazionale. Pertanto, essendo lo strumento principale di autoriforma, dovrebbe essere privilegiato dalla politica istituzionale regionale rispetto allo statuto speciale: le regioni speciali, cioè, dovrebbe avere come orientamento politico-istituzionale quello di fare con legge statutaria tutto ciò che è possibile, lasciando alla riforma dello statuto speciale solo ciò che è certo non possa decidersi con il primo atto.

 

[37] Vedi sent. n. 370 del 2006.

 

[38] Vedi le sentenze nn. 372, 378 e 379 del 2004.

 

[39] Per quanto riguarda invece le competenze legislative ulteriori ex art. 117 Cost., il problema non si pone affatto: abbiamo visto che, in base alla regola del doppio binario, queste già soggiacciono al limite dell’art. 118 Cost. e di ogni altra disposizione del Titolo V, ivi compreso l’art. 117, comma sesto.

Per quanto riguarda l’argomento usato nel testo, cfr. con quello simile elaborato da S. Parisi, op. cit., 26, laddove osserva che la disciplina con legge statutaria del rapporto tra fonti regionali e locali ridurrebbe lo spazio della potestà legislativa in materia di ordinamento degli enti locali, poiché « si creerebbe (…) una riserva (surrettizia) rinforzata per procedimento relativamente all’oggetto “ordinamento degli enti locali” e, di conseguenza, un vincolo per il legislatore futuro (…) vincolo che il legislatore costituzionale del ’93, che ha conferito la materia ordinamento degli enti locali in capo alla potestà primaria delle regioni speciali, non poteva assolutamente prevedere».

 

[40] Per quanto riguarda, invece, la possibilità di introdurre con legge statutaria una disciplina del rapporto tra fonti regionali e fonti locali ispirata al principio di sussidiarietà, S. Parisi, op. cit., 25, 26, illustra diverse ragioni impedienti. A parte l’argomento di cui si è già dato conto nella nota precedente, l’Autrice rileva che «quand’anche si ritenesse che l’oggetto “sistema delle fonti” sia attratto irresistibilmente nell’orbita della nozione “forma di governo” regionale, ciò non implica la competenza della legge statutaria in tema di “forma di regione”. In altre parole, la legge statutaria potrebbe disciplinare la quota di sistema delle fonti relativa ai rapporti orizzontali tra organi di governo ma non anche individuare le interazioni tra fonti regionali e fonti locali». E infine, osserva che «i limiti imposti alla legge statutaria (…) sarebbero leggermente meno gravosi da quelli apposti in capo ad una qualunque legge regionale: verrebbe espunto, infatti, quello relativo alle norme fondamentali delle riforme economico sociali»; di conseguenza, «espunto questo limite, gli enti locali potrebbero vedere compressi i propri spazi (…): il legislatore regionale, con una legge rinforzata, avrebbe così disciplinato la materia ordinamento degli enti locali irrigidendola in una fonte con un procedimento aggravato e senza neanche dover sottostare, per giunta, al limite delle norme fondamentali delle riforme economico sociali». Tuttavia, questo ultimo argomento non coglie nel segno, vuoi perché non si può escludere che la disciplina eventualmente contenuta nella legge statutaria sia più garantista per gli enti locali di quella che si può indurre dalla legge statale, vuoi perché non è chiaro in che modo la potestà legislativa regionale in materia di ordinamento locale possa istituire una riserva (tendenziale) di regolamento locale opponibile alla stessa legge regionale e vuoi, infine, perché l’orientamento dell’Autrice sembra attingere ancora all’idea, prima criticata, secondo cui la protezione delle autonomie locali rispetto alla pretesa supremazia regionale debba fare leva sul ruolo penetrante del legislatore statale.