L’autonomia locale nelle regioni
speciali. Dalla
clausola di
adeguamento
automatico
alle
prospettive di riforma*
Università di Sassari
Sommario: 1. L’autonomia
locale e la clausola di adeguamento automatico nella giurisprudenza costituzionale.
– 2. La clausola di maggior
favore e i “principi di sistema”. – 3. Uno schema operazionale per
il concetto di autonomia. – 4. L’autonomia come
rivendicazione verso l’alto.
– 5. Segue: le conseguenze applicative.
– 6. La regula indotta dalla giurisprudenza
costituzionale e il “doppio binario”. – 7. L’insostenibilità
del “doppio binario”. – 8. Le prospettive di riforma.
È
affermazione ricorrente in dottrina che il nuovo quadro costituzionale delle autonomie
locali, quale risulta dalla riforma del Titolo V, sia più approfondito e
articolato di quanto non fosse in passato.
Beninteso,
non sono mancate le interpretazioni svalutative, talune tendenti a sminuire la
portata delle novità, altre – più radicali – ad
escludere che di autentiche novità si tratti. Tuttavia,
l’impressione generale è che qualcosa
sia cambiato e anche in modo significativo.
Gli
esempi più importanti sono: il superamento della riserva generale di
legge statale in materia di ordinamento degli enti locali[1]
e la sua sostituzione con una riserva limitata agli organi di governo, le
funzioni fondamentali e la legislazione elettorale degli enti locali, come
disposto dall’art. 117, comma secondo lett. p; l’abbandono della regola del parallelismo tra funzioni
legislative e funzioni amministrative, per fare luogo al principio di
sussidiarietà ex art. 118; il
nuovo art. 114, che non solo distingue tra Repubblica e Stato (sicché
quest’ultimo non è più il tutto ma una parte) ma dice
altresì che, oltre alle Regioni, anche i Comuni, le Province e le
Città metropolitane sono enti autonomi, con propri statuti, poteri e
funzioni, secondo i principi fissati dalla Costituzione; e infine,
l’espresso riconoscimento costituzionale delle competenze regolamentari
locali contenuto nell’art. 117, sesto comma.
Dunque
ci troviamo di fronte a uno sviluppo ulteriore del principio autonomistico di
cui all’art. 5 Cost.; e di conseguenza, le nuove disposizioni in tema di
autonomia locale debbono interpretarsi in modo da trarne conseguenze più
ampie rispetto a quelle che si potevano dedurre dal quadro previgente.
Resta
però un elemento di profonda incertezza: quanto di tutto ciò
è estendibile alle regioni speciali?
Tutte
le disposizioni del Titolo V sopra richiamate derivano, con l’eccezione
dell’art. 5 Cost., dalla l. cost. n. 3 del 2001 e, perciò, in
tanto possono applicarsi alle regioni ad autonomia differenziata in quanto
riescano a passare attraverso la strettoia della clausola di adeguamento automatico
prevista all’art. 10 della summenzionata legge costituzionale.
Ebbene,
stando all’interpretazione che la giurisprudenza costituzionale ha dato
finora del suddetto art. 10, è presumibile che ben poco di quanto si
è elencato prima possa estendersi alle regioni speciali[2].
È noto infatti che il giudice costituzionale ha preferito intendere la
«condizione di maggiore autonomia» come se si riferisse alla sola
autonomia regionale, escludendo perciò quella degli enti locali minori.
Gli
argomenti che hanno guidato la decisione della Corte sono essenzialmente due:
uno letterale, l’altro sistematico[3].
Secondo
il primo, l’art. 10 dice che le disposizioni del Titolo V novellato si
applicano alle e non nelle regioni speciali e, pertanto,
«il meccanismo di estensione di cui al citato art. 10 (può)
funzionare soltanto quando esso miri a garantire, all’esito di una
valutazione complessiva, maggiore autonomia all’ente regione e non anche
all’ente locale»[4].
Il
secondo argomento, di tipo sistematico, fa leva sull’impossibilità
di ottimizzare contemporaneamente l’autonomia di tutti i livelli di
governo, perché rafforzare gli uni equivale logicamente a indebolire gli
altri, e viceversa. Vale a dire: riconoscere o aggiungere competenze agli uni
equivale a sottrarre o ridurre competenze agli altri[5].
Ergo, secondo la Corte occorre
scegliere e di fronte all’alternativa se la clausola di maggior favore si
riferisca all’autonomia regionale ovvero a quella locale – non
potendo, per le ragioni testé illustrate, riferirsi ad entrambe –
si dovrebbe optare per la prima.
Contro
l’orientamento della Corte si sono mosse diverse obiezioni, che hanno
riguardato sia l’argomento letterale che quello sistematico.
Al
primo si è opposto che nel testo costituzionale la Regione talvolta
viene in rilievo come “ente” e talvolta come
“ordinamento” (comprensivo del sistema degli enti territoriali
minori); e che, nel caso dell’art. 10 della l. cost. 3 del 2001,
l’espressione «si applicano alle Regioni speciali» assume
queste nella seconda accezione[6].
Al
secondo si è opposto un diverso argomento sistematico. Si è
cioè affermato che il «pluralismo istituzionale paritario»,
previsto dall’art. 114 Cost., e il principio di sussidiarietà ex art. 118 Cost. rappresentano
«principi di sistema» (o «vincoli di sistema» o
«principi di struttura»), che dispiegherebbero la loro portata
nell’intero sistema costituzionale e alla cui presa – pertanto
– le regioni speciali non potrebbero sottrarsi[7].
Tuttavia,
non è chiaro che cosa debba intendersi per «principio di
sistema» e quale sia il rapporto che deve intrattenere con la norma che
si ricava dall’art.
Si
tratta di due letture radicalmente alternative, tra cui non c’è
possibilità di conciliazione. O i suddetti principi si estendono alle
regioni speciali in virtù della loro “sistematicità”,
e quindi prescindendo dal fatto che soddisfino o meno i criteri posti
dall’art. 10; o la loro estensione è giustificata dal fatto di
offrire una maggiore autonomia, e quindi in virtù non già della
loro sistematicità, ma della loro rispondenza al criterio
dell’art. 10: tertium non datur[8].
La prima lettura è indubbiamente
quella che meglio rappresenta il punto di vista qui discusso[9].
In effetti, si fa leva sul carattere “sistematico” delle norme di
cui si argomenta l’onnipervasiva estensione, tralasciando di considerare
il profilo relativo alla precisazione del concetto di autonomia cui farebbe
riferimento l’art. 10 [10].
Chiarito
quale sia il rapporto tra l’argomento dei “principi di
sistema” e l’art. 10 della l. cost. 3 del 2001, non resta che
interrogarsi più a fondo sulla nozione di “principio di
sistema”, anche al fine di valutare se la sua consistenza sia tale da
permettere la derogabilità dello stesso art. 10 [11].
È
forte l’impressione che “principio di sistema” equivalga a
“principio supremo”: diversamente, come potrebbe argomentarsi
l’impossibilità per le regioni speciali di derogarvi, stante
l’art. 10? E difatti, il proprium
di un principio supremo dell’ordinamento repubblicano è quello di
tenere avvinto a sé tutto ciò che – appunto – dentro
l’ordinamento repubblicano si colloca: non possono esistere zone franche
rispetto alla sua presa o zone d’ombra rispetto al suo fascio luminoso.
Tuttavia,
il «pluralismo istituzionale paritario» e la sussidiarietà
non sono principi supremi ma articolazioni organizzative di principi supremi
quali quello di sovranità popolare (art. 1) e quello autonomistico (art.
5)[12].
Anche le regioni speciali incorporano il principio democratico e quello
autonomistico. Forse ne sono una traduzione meno avanzata rispetto a quanto
introdotto dalla l. cost. 3 del 2001: ma questa non è ancora una buona ragione per fare
assurgere l’impianto di questa legge costituzionale a principio supremo e
per darne applicazione nelle regioni speciali come principio di sistema, a
prescindere da quanto disposto dall’art. 10 [13].
In
altre parole, è sempre attraverso la strettoia della clausola di maggior
favore che bisogna passare, lavorando soprattutto sulla nozione di autonomia e
di maggiore autonomia. È su questi due concetti che si debbono adoperare
le risorse dell’interpretazione sistematica e/o conforme: ma solo al fine
di argomentare norma per norma il
passaggio della l. cost. 3 del 2001 nelle regioni speciali e non certo al fine
di affermarne l’applicabilità in blocco, quale regola generale
valevole per tutte le esperienze regionalistiche del nostro ordinamento.
Etimologicamente
l’autonomia è il dare leggi
a sé stessi, l’autogoverno che si rivendica nei confronti di
chi vorrebbe e avrebbe il potere di imporre l’eterogoverno (cioè,
è il contrario dell’eteronomia)[14].
Pertanto, essa è in primo luogo la garanzia di uno spazio protetto dalle
intromissioni di un potere sovraordinato; cioè, la richiesta di un
ambito entro il quale autodeterminarsi liberamente, differenziando il proprio
ordinamento da quello, tendenzialmente onnipervasivo, di un ente sovrastante[15].
Questa
accezione esclusiva
dell’autonomia di tipo garantistico-separatistica, costruita sul modello
della libertà negativa, non ne
esaurisce però la portata[16].
Nella sua evoluzione successiva, legata alle esperienze del federalismo e del
regionalismo cooperativo, da garanzia di un processo decisionale separato diviene
garanzia di partecipazione a processi decisionali che pur essendo esterni
rispetto al soggetto che si vorrebbe autonomo, tuttavia finiscono con il
riguardarlo[17].
Analogamente,
pure questa seconda accezione di autonomia, che possiamo – per
comodità espositiva – definire inclusiva[18],
si rivendica nei confronti di un potere più esteso e tendenzialmente
più comprensivo: il destinatario della richiesta di codecisione è
sempre un ente sovrastante.
Ebbene,
come si colloca la giurisprudenza costituzionale relativa all’art. 10
della l. cost. 3 del 2001, e in particolare la sent. 370 del 2006, rispetto
alle premesse concettuali appena illustrate? Non le accoglie integralmente ma
solo in parte.
L’elemento
di convergenza è dato dal fatto che la sent. 370 del 2006 sembra
recepire il concetto di autonomia nelle due accezioni chiave (esclusiva e inclusiva).
Secondo
la Corte l’art. 123. u. c., Cost., cioè la previsione obbligatoria
del Consiglio delle autonomie locali (CdAL), rafforzerebbe l’autonomia
degli enti locali minori ma limiterebbe quella della regione. Ebbene, è
evidente che in questo caso il concetto di autonomia viene in rilievo in
entrambi i significati: mentre l’autonomia locale che risulterebbe
favorita è di tipo inclusivo,
l’autonomia regionale che risulterebbe sfavorita è invece di tipo esclusivo. La prima, infatti, coincide
con la richiesta di leale collaborazione da parte di chi, in assenza di
meccanismi collaborativi, subirebbe l’esercizio di una competenza altrui,
senza potervi incidere in alcun modo; la seconda, al contrario, coincide con la
richiesta di non subire compressioni dell’estensione di potestà
legislativa attribuita: compressione che, in effetti, si realizzerebbe laddove
si perdesse la libertà di scegliere se istituire oppure no il CdAL. E
dunque, nel descrivere gli effetti della eventuale estensione alle regioni
speciali dell’art. 123, u. c., Cost. la Corte si vale di entrambi i
significati di autonomia, dimostrando così di ritenerli a pari titolo
rilevanti[19].
Sin
qui il discorso della Corte converge con le osservazioni poste in premessa.
Inizia a divergere quando identifica implicitamente l’autonomia con la
“competenza”, senza tenere conto del fatto che nella semantica e
origine del concetto v’è incorporata l’idea di una
rivendicazione che si rivolge verso l’alto non già verso il basso:
si è autonomi nei confronti di un potere sovrastante e dall’ambito
più comprensivo, non già rispetto ad un potere sottostante e di
estensione inferiore.
Ha
senso, quindi, ipotizzare che l’autonomia dell’ente territoriale
più esteso (in questo caso la regione) sia minacciata dal rafforzamento
dell’autonomia degli enti territoriali minori (in questo caso le province
e i comuni)?
In
realtà, bisognerebbe rovesciare lo schema e accedere alla conclusione
che se il rafforzamento del livello di governo superiore si traduce giocoforza
nell’indebolimento dell’autonomia del livello di governo inferiore,
non vale però l’inverso. Si propone perciò una definizione
stipulativa di questo tenore: l’autonomia
ricomprende solo tutto ciò che deve essere garantito nei confronti delle
potestà spettanti ai livelli di governo superiori, ma non tutto
ciò che permette di comprimere l’autonomia del livello di governo
inferiore.
Quali
ragioni militano a favore della definizione stipulativa qui proposta?
Perché dobbiamo assumerla come schema operazionale dell’art.
Perché
è quello che meglio di altri soddisfa i vincoli testuali e sistematici
cui soggiace l’interpretazione dell’art. 10. Ma procediamo con
ordine.
In
modo speculare rispetto alle argomentazioni della Corte, è possibile
sommare un argomento letterale e uno sistematico.
Quanto
al primo, c’è un dato testuale preciso: quando l’art. 10
accenna alle «forme di autonomia più ampie» non specifica di
quale autonomia si tratta, cioè se sia quella della regione o degli enti
locali minori (o di entrambi)[20].
In base al testo sono perciò astrattamente ricavabili tre norme diverse:
1) le disposizioni della l. cost. 3/2001 si applicano nelle parti in cui
prevedono più ampie forme di autonomia regionale; o 2) nelle parti in cui prevedono più ampie forme
di autonomia locale; ovvero 3) nelle
parti in cui prevedono più ampie forme di autonomia regionale e locale. Quale
delle tre è la right answer?
Già
così, la soluzione più lineare dovrebbe essere la terza, in base
al brocardo ubi lex dixit. Ma viene
in soccorso pure un argomento sistematico difficilmente resistibile: accedendo
a una soluzione diversa si parcellizza il principio autonomistico che
l’art. 5 Cost. enuncia e che l’art. 114 Cost. riferisce non solo
all’ente regione ma pure a province, comuni e città metropolitane,
tutti inequivocabilmente definiti come «enti autonomi»[21].
Interpretare la condizione di maggiore autonomia in modo da riferirla soltanto
all’ultima significa ignorare un preciso vincolo di sistema.
Ma
come respingere, allora, l’obiezione della Corte secondo cui è
logicamente impossibile soddisfare il suddetto vincolo, dato che – per
usare le stesse parole del giudice costituzionale – «si potrebbe
verificare il caso in cui ad una ipotetica maggiore autonomia dell’ente
locale corrisponda una minore autonomia dell’ente regionale» e,
quindi, il caso «che una stessa norma costituzionale, introdotta
attraverso il meccanismo previsto dalla legge costituzionale n. 3 del 2001, sia
idonea ad incrementare gli spazi di autonomia degli enti territoriali minori e
contestualmente ad incidere in negativo sull’autonomia regionale»?[22]
Per
respingere questo argomento logico si deve contestare l’implicita
identificazione dell’autonomia con la mera “competenza”.
Intendendola così, infatti, non c’è modo di riferire la
maggiore autonomia tanto alle regioni quanto agli enti locali minori, proprio
perché in un sistema integrato le competenze dei diversi soggetti
dell’ordinamento (siano essi organi o enti) sempre interferiscono e si limitano a vicenda[23].
Per fuoriuscire da questo cul de sac
occorre recuperare la semantica originaria del lemma, identificando
l’autonomia non già con qualsiasi competenza astrattamente
esercitabile, ma soltanto con quelle competenze che non possono essere
irragionevolmente limitate da poteri sovraordinati.
Così
intesa, l’autonomia diventa un favor
che circonda le attribuzioni di un ente rispetto a quelle di un ente
sovrastante: un favor, che
però cade quando si entra in relazione con un ente sottostante. Insomma,
è un concetto relazionale che guarda
verso l’alto: nel momento in cui ciò che la sostanzia rivolge
la propria azione verso il basso non è più autonomia ma è
ciò che potenzialmente la minaccia.
Applicando
questo schema operazionale, ove una norma della l. cost. 3/2001 rafforzasse
l’autonomia locale comprimendo competenze regionali, questa dovrebbe
applicarsi alle regioni speciali, salvo che non implicasse altresì una
compressione dell’autonomia regionale rispetto a competenze statali.
Può dunque succedere che «a una ipotetica maggiore autonomia
dell’ente locale corrisponda una minore autonomia dell’ente
regionale»: ma ciò dovrebbe verificarsi solo nelle ipotesi in cui
la «ipotetica maggiore autonomia dell’ente locale»
indebolisca la posizione della regione rispetto allo stato. È in
relazione alle accresciute competenze di quest’ultimo che si deve
valutare la «minore autonomia dell’ente regionale».
Ritornando
al caso deciso dalla sentenza 370 del 2006, se l’autonomia esclusiva dell’ente Regione
è la possibilità di autogovernarsi e differenziare liberamente il
proprio ordinamento attraverso l’esercizio di competenze non scalfibili
da quelle statali (se non a determinate condizioni), è evidente che
l’art. 123, u. c., Cost. non comprime l’autonomia dell’Ente
Regione, ma semmai comprime le competenze che la Regione esercita nei confronti
delle autonomie locali.
Beninteso,
è indubbio che la previsione del CdAL limiti i poteri della regione e ne
vincoli le modalità di esercizio, giacché introduce il principio
secondo cui ciò che prima poteva essere deciso soltanto dalla regione
ora deve, almeno in parte, essere concertato con i destinatari delle decisioni.
Ciò nondimeno, in base al modello operazionale qui proposto, non ne
limita l’autonomia.
Detto
in modo meno preciso, ma forse più efficace: una cosa è la
compressione del potere di decidere per altri (cioè del potere di negare
l’autonomia altrui), un’altra è la compressione del potere
di decidere per sé[24].
Quante
probabilità ci sono che la Corte muti il suo atteggiamento,
correggendolo nella direzione qui auspicata? Non disponendo di una sfera di cristallo,
in attesa di eventuali revirement si
deve prendere atto dell’orientamento consolidato e sforzarsi di dare
coerenza generale alla giurisprudenza formatasi sul punto, in modo da trarne
linearmente tutte le possibili conseguenze applicative.
Ancora
una volta vengono in particolare rilievo le sentenze n. 236 del 2004 e n. 370
del 2006: quale regola si ricava dalla loro considerazione congiunta?
La
regola del «doppio binario»[25],
che può riassumersi in questi termini:
1) le
disposizioni della l. cost. 3/2001 che esprimono un maggior favore per
l’autonomia regionale trovano sempre applicazione nelle regioni speciali;
2) le
disposizioni della medesima legge che non
esprimono un maggior favore per l’autonomia regionale si applicano alle
regioni speciali soltanto in riferimento a quelle materie ulteriori di
competenza legislativa che la regione mutua dal Titolo V in virtù della
clausola di adeguamento automatico.
Per
effetto di questa regula,
all’interno delle regioni speciali convivono due regimi eterogenei:
quello speciale, nelle materie corrispondenti alle competenze legislative che
la regione esercita in base allo Statuto, e quello comune, nelle materie
corrispondenti alle competenze legislative che la regione esercita in base
all’art. 117 Cost.[26]
Ciò significa che nel primo binario troveremo il vecchio principio del
parallelismo delle funzioni, ancora previsto dagli statuti speciali, mentre nel
secondo viaggerà il nuovo principio di sussidiarietà ex art. 118 Cost.
Si
tratta di un esito coerente con le premesse da cui muove la Corte?[27]
C’è
chi ne dubita[28].
In particolare, si contesta che il parallelismo soddisfi la clausola di maggior
favore regionale, poiché si salderebbe al limite statutario
dell’interesse nazionale, sancendo così la prevalenza
dell’indirizzo politico-amministrativo statale su quello regionale.
Ebbene, questa circostanza – a giudizio della dottrina che si illustra[29]
- dovrebbe revocare in dubbio l’orientamento giurisprudenziale del
“doppio binario”, giacché al parallelismo si dovrebbe sempre preferire il principio di
sussidiarietà quale condizione di maggiore autonomia regionale. In altre
parole, il regime statutario dovrebbe conservarsi solo nella parte in cui
prevede maggiori competenze legislative: le quali, però, dovrebbero
comunque esercitarsi nel rispetto della sussidiarietà anziché del
parallelismo.
A
questa ricostruzione si obietta[30]
che il problema non si pone laddove le materie di competenza statutaria
dovessero coincidere con materie che per le regioni ordinarie sarebbero di
competenza residuale: secondo la giurisprudenza costituzionale, infatti,
prevarrebbero le condizioni di esercizio previste per le ultime e, quindi, in
luogo del principio di parallelismo s’imporrebbe pacificamente – e
in virtù del “doppio binario” – il limite della
sussidiarietà.
Per
quanto attiene, invece, alla coincidenza tra competenze statutarie e competenze
concorrenti, si obietta[31]
che, pur mancando indicazioni giurisprudenziali univoche, vi sarebbero tuttavia
buone ragioni per ritenere che sia più vantaggioso per l’autonomia
regionale esercitare le suddette competenze alle condizioni del Titolo V
anziché a quelle statutarie: il limite dei principi fondamentali sarebbe
meno penetrante della somma tra i limiti statutari dell’interesse
nazionale, dei principi generali dell’ordinamento repubblicano e delle
norme fondamentali di riforma economico-sociale. E quindi, anche in questo
caso, tali competenze dovrebbero esercitarsi alle condizioni del Titolo V, con
tutto ciò che ne discende in base alla regola del doppio binario.
A ben
vedere, però, sostenere che una potestà concorrente (e, prima
ancora, una residuale) sia più vantaggiosa per l’autonomia
regionale di una potestà primaria speciale sembra confermare, almeno in parte, la tesi criticata: se,
per usare le parole della sent. 370 del 2006, «il meccanismo
d’estensione di cui al(l’)art. 10 (può) funzionare soltanto
quando esso miri a garantire, all’esito
di una valutazione complessiva, maggiore autonomia all’ente regione e
non all’ente locale (corsivo mio)», è evidente che, all’esito di una valutazione
complessiva, una potestà concorrente è preferibile a una
primaria, perché si porta dietro il limite della sussidiarietà
anziché quello più penetrante dell’interesse nazionale[32].
Tuttavia,
che alle competenze legislative primarie debbano sempre preferirsi le
corrispondenti potestà residuali e concorrenti non è ancora lo
smantellamento del “doppio binario”. Anzi, finora ne è la
conferma, perché le competenze legislative in questione, anche se
previste negli statuti, vengono esercitate come se fossero ulteriori e, quindi,
secondo i limiti del Titolo V.
Piuttosto,
per smantellare il doppio binario occorre dimostrare che la
sussidiarietà debba sostituirsi al parallelismo anche nelle ipotesi in
cui le competenze statutarie corrispondono a competenze che l’art. 117
Cost. riserva allo Stato. Posto che in questa ipotesi si applica la disciplina
speciale, quale argomento si può portare per provare che non deve
applicarsi integralmente il regime statutario? In questo caso, infatti, «l’alternativa non è tra
esercitare una competenza alle condizioni dello statuto ovvero a quelle degli
artt. 117 e 118 Cost., ma tra avere
una competenza legislativa (e quindi esercitarla alle condizioni dello statuto
speciale) e non averla affatto
perché questa materia è riconducibile alla sfera di competenza
statale. Di conseguenza, l’applicazione del regime statutario, ivi
compreso l’impianto dei limiti verticali e del parallelismo delle
funzioni, sarà comunque preferibile
al regime del titolo V che quella materia attribuirebbe alla competenza
statale»[33].
È
giunto il momento di fare qualche bilancio, di ricostruire lo “stato
dell’arte” e chiedersi, alla luce della regula del doppio binario, cosa transiti nelle regioni speciali del
quadro costituzionale delle autonomie locali previsto per le regioni di diritto
comune.
Nel
primo binario ben poco: soltanto il principio estrapolabile, ed estrapolato,
dall’art. 5 Cost. secondo cui deve essere comunque garantito un nucleo
minimo non comprimibile di autonomia locale. Nel secondo binario, invece,
passerà sicuramente il principio di sussidiarietà, quale criterio
di distribuzione delle funzioni amministrative, e la riserva tendenziale di potestà
regolamentare locale in relazione all’organizzazione e svolgimento delle
funzioni conferite (art. 117, comma sesto, Cost.)[34].
Per
quanto riguarda, invece, la riserva di legge statale in ordine agli organi di
governo, le funzioni fondamentali e la legislazione elettorale degli enti
locali (art. 117, comma secondo, lett. p),
questa non può valere come limite generale alle potestà
legislative delle regioni speciali (né del primo né del secondo
binario), poiché queste sono titolari – come è noto –
di una potestà esclusiva in materia di ordinamento degli enti locali[35].
Come
si vede, il doppio binario determina una condizione paradossale: per quanto
riguarda lo statuto costituzionale delle autonomie locali non abbiamo due
sistemi, uno per le regioni ordinarie, l’altro per le speciali, ma invero
ci sono alcune regioni, quelle speciali, all’interno delle quali
convivono due regimi eterogenei, due modelli inconciliabili. È una sorta
di sdoppiamento schizofrenico: i medesimi enti locali possono essere soggetti
all’uno o l’altro regime, secondo l’ambito che di volta in
volta viene in rilievo. E pertanto, col variare delle materie acquistano e
perdono le garanzie della sussidiarietà amministrativa e della riserva
di regolamento locale, con tutte le complicazioni che ne discendono sia in
termini di certezza dei rapporti tra i livelli istituzionali, sia in termini di
governabilità complessiva del sistema.
Occorre
dunque fuoriuscire quanto prima dalla transizione. Resta da capire verso quale
approdo e in che modo.
Per
quanto riguarda l’approdo possibile, la questione è stabilire
quale dovrà essere la fisionomia del sistema delle autonomie locali
nelle regioni speciali: e precisamente, dovrà essere ancora un modello speciale o dovrà, invece,
introiettare il modello già previsto per le regioni di diritto comune?
La
risposta è articolata. Sicuramente dovranno transitare nelle regioni
speciali i pilastri che reggono l’impianto del nuovo Titolo V: e
cioè, la sussidiarietà amministrativa e la riserva tendenziale di
regolamento locale. Non c’è nessuna ragione perché gli enti
locali delle regioni speciali non debbano diventare pienamente “enti di
governo”. Né tanto meno alcuna ragione per cui debba sopravvivere
la supremazia regionale nelle forme del passato.
Ciò
però non significa che debba senz’altro estendersi per intero il
modello comune. Questo, infatti, per
buona parte si regge ancora sull’idea che lo Stato sia il garante delle
autonomie locali contro il centralismo regionale. È espressione di questa
logica l’art. 117, comma secondo, lett. p, e cioè la competenza statale in materia di organi di
governo, funzioni fondamentali e legislazione elettorale degli enti locali.
È sbagliato perseverare nell’idea secondo cui l’autonomia
locale si garantisce consentendo alla legge statale di comprimere
l’ambito di quella regionale.
Di
conseguenza, bisognerebbe non solo mantenere in capo alle regioni speciali la
potestà legislativa in materia di ordinamento locale, ma occorre
altresì rimuovere i limiti statutari dell’interesse nazionale, dei
principi generali dell’ordinamento repubblicano e delle norme
fondamentali di riforma economico-sociale e compensare il venir meno delle
“garanzie statali” con il rafforzamento sensibile dei raccordi
collaborativi tra regione ed enti locali, soprattutto nel procedimento di
formazione della legge regionale ordinamentale.
Resta,
infine, da capire in che modo si
debba procedere, cioè attraverso quali atti: interrogandosi soprattutto
su quanto si può fare con legge statutaria senza azionare la leva della
riforma dello statuto speciale.
Ebbene,
purtroppo se ne deve concludere che i margini di intervento della legge
statutaria non sono granché estesi[36].
È
dubbio, infatti, che tale atto possa introdurre la sussidiarietà
amministrativa, sulla falsariga dell’art. 118 Cost., e la riserva
(tendenziale) di regolamento locale, sul modello dell’art. 117, comma
sesto. Per tre ragioni:
1) si
tratta di contenuti ulteriori rispetto a quelli che, secondo quanto dispongono
gli statuti speciali, sostanziano l’oggetto della legge statutaria; e
anche se la Corte costituzionale sembra orientata a sottolineare le differenze
anziché le somiglianze tra legge statutaria di regione speciale e
statuto di regione ordinaria[37],
tuttavia in questo frangente potrebbe ragionare per analogia ed estendere alle
leggi statutarie quanto già asserito a proposito degli statuti ordinari:
e cioè che trattasi di fonti a competenza riservata e specializzata[38].
2)
È dubbio che la legge statutaria possa disciplinare le modalità
di esercizio delle competenze legislative fondate sullo statuto speciale,
ponendo vincoli ulteriori rispetto ai principi generali dell’ordinamento
della Repubblica, alle norme fondamentali di riforma economico-sociale e
all’interesse nazionale[39].
3)
L’introduzione, con legge statutaria, del principio di
sussidiarietà amministrativa allo scopo di vincolare il legislatore
regionale futuro sarebbe vanificato dalle disposizioni dello Statuto speciale
che prevedono il parallelismo: questo principio infatti consente proprio
ciò che il principio di sussidiarietà vieta (e cioè
permette al legislatore regionale di allocare le funzioni amministrative, senza
dover sottostare al favor per i
livelli di governo inferiori)[40].
In
conclusione, per ridisegnare il sistema delle autonomie locali valevole per le
regioni speciali non rimane altra strada che la revisione degli statuti
speciali.
* Relazione presentata
al convegno organizzato dall’I.S.G.Re. sui nodi tecnici della revisione
degli Statuti speciali, Udine, 12 ottobre 2007; il testo è pubblicato
nel volume ISGRE (a cura di R. Bin e L. Coen) I nodi tecnici della revisione degli statuti speciali, Padova,
2008.
[1]
Materia che, per effetto della riforma, avrebbe perso unitarietà e
uniformità, come sottolineato da F.
Merloni, Il destino
dell’ordinamento degli enti locali (e del relativo testo unico) nel nuovo
Titolo V della Costituzione, in Le
Regioni, n. 2/3, 2002, 409.
[3] Che
ricalcano sostanzialmente quelli elaborati da A.
D’Atena, Le regioni speciali
ed i “loro” enti locali, in Studi
in onore di G. Ferrara, Torino, 2005, 147 ss., spec. 149.
[5]
Così la sent. 370 del 2006: «si potrebbe verificare il caso in cui
ad una ipotetica maggiore autonomia dell’ente locale corrisponda una
minore autonomia dell’ente regionale. Potrebbe, infatti, accadere che una
stessa norma costituzionale, introdotta attraverso il meccanismo previsto dalla
legge costituzionale n. 3 del 2001, sia idonea ad incrementare gli spazi di
autonomia degli enti territoriali minori e contestualmente ad incidere in
negativo sull’autonomia regionale». A. D’Atena, op.
cit., 149, formula l’argomento in questo modo: «è
(…) estremamente dubbia la stessa configurabilità di meccanismi
suscettibili di avvantaggiare ecumenicamente l’intero complesso delle autonomie. Per la ragione che il complesso delle autonomie costituisce un
sistema integrato, nel quale all’incremento di un livello di autonomia
corrisponde frequentemente il decremento di un livello diverso, in un gioco di
dare e avere al quale è difficile sfuggire».
[6] M. Armanno, Il principio di sussidiarietà nelle Regioni speciali tra
giurisprudenza costituzionale e possibili interventi normativi, in O. Chessa - P. Pinna (a cura di), La riforma della Regione: dalla legge
statutaria al nuovo statuto speciale, Cagliari, 2008.
[7] A
definirli «vincoli di sistema che non possono non valere per
l’intero ordinamento» è A.
Ruggeri, La legge La Loggia e le
Regioni ad autonomia differenziata, tra «riserva di
specialità» e clausola di maggior favore, in Le Regioni, n. 4, 2004, 817. Analogo
punto di vista è in P. Pinna,
Il diritto costituzionale della Sardegna,
II ed., Torino, 2007, 151, il quale asserisce che l’art. 114 (ma con
svolgimenti che involgono necessariamente pure l’art. 118) «si
applica alle Regioni speciali in quanto principio di sistema, che definisce la
struttura della Repubblica». Ciò perché «la riforma
del 2003 ha stabilito che il Comune, la Provincia e la Regione sono enti
costitutivi della Repubblica; e tali sono anche la Regione speciale, i Comuni e
le Province della stessa Regione. La previsione dell’art. 114 Cost.
è una parte essenziale dell’ordinamento della Repubblica, che non
può essere circoscritta alle Regioni ordinarie, ai Comuni e alle
Province di queste Regioni. Di fronte ad essa, non rileva la specialità
regionale». Anche S. Pajno,
Il potere sostitutivo nei confronti degli
enti territoriali, ed. provv., Palermo, 2007, 174, sottolinea «la
portata sistemica del pluralismo istituzionale paritario e del principio di
sussidiarietà», in quanto «esplicazione del principio
democratico nel nostro ordinamento costituzionale»: la qual cosa dovrebbe
indurre la conclusione «nel senso dell’applicazione del principio
di sussidiarietà anche nell’ambito dei rapporti interni alle
Regioni ad autonomia particolare».
[8] Nella
prima edizione de Il diritto
costituzionale della Sardegna, Torino, 2003, 42, P. Pinna propose una tesi che,
alla luce dell’alternativa secca ora prospettata, si poteva leggere come
un tentativo di sintesi: usava, cioè, l’argomento sistematico qui
criticato per orientare la lettura dell’art. 10; cioè, di questa
disposizione si proponeva un’interpretazione conforme ai principi di
sistema di cui agli artt. 114 e 118 Cost. Tuttavia, l’esito di quella
operazione fu l’elaborazione di una norma che difficilmente avrebbe
potuto ricondursi a quella disposizione: l’Autore, infatti, proponeva di
leggere l’enunciato «le disposizioni della l. cost. 3 del 2001 si
applicano alle regioni speciali nelle parti in cui prevedono forme di autonomia
più ampie rispetto a quelle già attribuite» come se
significasse “le disposizioni degli statuti speciali si applicano nelle
parti in cui prevedono forme di autonomia più ampie”: in questo
modo, però, si rovesciava il rapporto tra regola ed eccezione previsto
dall’art.
[9] P. Pinna, op. ult. cit., 154, asserisce in modo netto che «l’art.
114 Cost. si applica alla Regione differenziata, senza alcuna considerazione
delle disposizioni che attengono alla tutela della speciale autonomia di questa
Regione». Più sfumata la posizione di S. Pajno, Sussidiarietà
e adeguamento automatico, cit., il quale propone l’applicazione dei
c.d. principi di sistema, di cui sopra, anche alle regioni speciali
«sfruttando le potenzialità che sono contenute nel testo della
clausola di adeguamento automatico». Parrebbe, cioè, che il ruolo
di tali principi sia quello di orientare l’interpretazione
dell’art.
[10] Salvo
contestare l’interpretazione letterale secondo cui per autonomia debba
intendersi soltanto quella regionale.
[11] Derogabilità
che, beninteso, non viene asserita esplicitamente nella tesi discussa. Ma
ciò che rileva non sono le intenzioni soggettive di chi elabora una
dottrina, bensì gli esiti oggettivi cui perviene: ebbene, asserire
l’applicabilità alle regioni speciali di una data disposizione
della l. cost. 3 del
[12] Per
ragioni di spazio non si può qui affrontare la complessa questione
teorica che sta sullo sfondo e che può riassumersi nelle domande:
“può una legge costituzionale essere fonte di principi supremi
alla stregua della costituzione?”, “c’è una differenza
sostantiva tra costituzione e legge
costituzionale?”.
[13]
Ovviamente, tutto ciò non toglie che per descrivere la situazione costituzionale presente
dell’ordinamento repubblicano italiano sia ormai più utile la
formula di Repubblica multilevel in
luogo di Stato di partiti (su cui
vedi già il mio Corte
costituzionale e trasformazioni della democrazia pluralistica, in V. Tondi della Mura, M. Carducci, R. G. Rodio,
Corte costituzionale e processi di
decisione politica, Atti del seminario di Otranto - Lecce, svoltosi il 4-5
giugno 2004, Torino, 2005, 69 ss.; pubblicato in forma ridotta anche su Diritto Pubblico, 3, 2004, 903 ss.). Ma
così come il secondo non era un principio supremo, parimenti non lo
è la prima, pena una confusione di piani e un errore di metodo.
[14] Per
rimanere alla sola letteratura giuridica, questo uso linguistico è
registrato da S. Romano, Autonomia (1945), in Frammenti di un dizionario giuridico,
Milano, 1983 (rist.), 14 ss., secondo cui l’autonomia, «nel
significato più ampio e generico, indica ogni possibilità di
autodeterminazione» e «nel significato più specifico, che
corrisponde alla sua etimologia (…), la potestà di darsi un
ordinamento giuridico». Convergenti le definizioni proposte da M. S. Giannini, Autonomia (teoria generale e diritto pubblico), in Enc. dir., IV, Milano, 1959, 356 ss. E
infine vedi anche A. Romano, Autonomia nel diritto pubblico, in Dig. dir. pubbl., II, 1987, 30 ss., il
quale, assai chiaramente, definisce l’autonomia come «la
possibilità di un soggetto di determinare con proprie decisioni il
proprio comportamento; più semplicemente, di comportarsi secondo proprie
scelte».
[15] Ente
sovrastante tradizionalmente definito come “sovrano” (cioè,
in origine lo stato). Ma contro la possibilità di riproporre per la
nostra Costituzione repubblicana il dittico sovranità/autonomia, vedi il
mio La resurrezione della
sovranità statale nella sentenza 365 del 2007, in corso di
pubblicazione su Le Regioni, 2007.
[16] Sulla
concezione garantistica dell’autonomia vedi L. Buffoni, Il
Consiglio delle autonomie locali nelle Regioni speciali tra concezione
garantistica e democratica dell’autonomia, in corso di pubblicazione
su O. Chessa - P. Pinna (a cura
di), La riforma della Regione: dalla
legge statutaria al nuovo statuto speciale, Cagliari, 2008.
[17] Non
v’è dubbio che il nostro ordinamento accolga entrambe le accezioni
del lemma autonomia, sia quella – per così dire – esclusiva che quella inclusiva. Mentre sono riconducibili
alla seconda tutte le istituzioni e i meccanismi che veicolano l’istanza
e il principio della leale collaborazione e creano ambiti di codecisione e di
esercizio comune o integrato di competenze, debbono invece ricondursi alla
prima l’insieme delle competenze normative e amministrative isolatamente
esercitate o esercitabili dalle regioni e dagli enti locali minori: è
evidente che in questo ultimo caso gli strumenti dell’autonomia sono
funzionali alla differenziazione anziché all’integrazione. Questa
convivenza tra autonomia esclusiva e inclusiva riflette il carattere di fondo
del nostro pluralismo, che è (o dovrebbe
essere) insieme competitivo e discorsivo. Sul punto rinvio ancora al mio Corte costituzionale e trasformazioni della
democrazia pluralistica, cit., spec. 60 ss.
[18] E che
confluisce anch’essa – come è evidente –
nell’idea di autonomia come autogoverno, cioè come obbedienza alle
sole leggi che ci si è dati o che si è contribuito a formare.
[19] E
difatti, non sceglie tra autonomia esclusiva e autonomia inclusiva,
privilegiando la prima sulla seconda: ma semplicemente sceglie di privilegiare
l’autonomia regionale a discapito di quella locale, a prescindere che sia
esclusiva o inclusiva.
[20]
Né, come si è detto, è risolutivo il fatto che sempre
l’art. 10 dica che le disposizioni della l. cost. 3 del 2001 «si
applicano alle regioni
speciali», perché per regione, in questo caso, può pure
intendersi la regione-ordinamento anziché la regione-ente (vedi nt. 7).
[21] Non
c’è dubbio, infatti, che l’art. 114, alla pari di ogni altra
disposizione costituzionale vigente e nel quadro di un’interpretazione
sistematica, debba valere come criterio interpretativo del concetto di
autonomia incorporato nell’art. 10 della l. cost. 3 del 2001 (trattasi,
tra l’altro, di disposizioni contenute nel medesimo atto: il che
accredita ulteriormente che la prima debba orientare la lettura della seconda).
Ma ciò non significa negare quanto detto prima: e cioè, che norme
eventualmente ricavabili dall’art. 114 possano fare ingresso nelle
regioni speciali non in quanto aventi carattere strutturale e/o sistematico, ma
solo a patto di soddisfare i requisiti della clausola di maggior favore.
[22] Di qui
la scelta per quest’ultima, giustificata maldestramente in base al dato
testuale non univoco contenuto nell’art. 10: e cioè, che le
disposizioni della l. cost. 3/2001 «si applicano alle regioni speciali».
[23] A tal
proposito si deve, però, registrare un’ambiguità, se non un
vero e proprio errore logico, nella motivazione della sent. 370 del 2006:
secondo la Corte, siccome potrebbe
succedere che una medesima norma costituzionale possa potenziare
l’autonomia locale e depotenziare quella regionale, allora bisogna concedere l’accesso solo a quelle norme che
favoriscono le seconde. Tuttavia, la Corte non dice che sempre l’incremento dell’autonomia locale si traduce in
una riduzione di quella regionale. Fa riferimento a un evento ipotetico e non a
un evento accertato. Di conseguenza, stando alla premessa, bisognerebbe
escludere l’accesso solo a quelle norme della l. cost. 3/2001 che effettivamente potenziano
l’autonomia locale a discapito di quella regionale. Rileva questo vizio
logico anche A. Ambrosi, I consigli delle autonomie locali nelle
Regioni e Province speciali: la questione della fonte competente, in Le Regioni, n. 2, 2007, 365.
[24] Tanto
più che è dubbio se la capacità
di fare della regione non sia in realtà potenziata dalla creazione
di un raccordo collaborativo con coloro che poi dovranno, in qualche misura,
assicurarne l’efficacia. Un argomento di questo tipo è reperibile
in P. Pinna, op. cit., 150, laddove, proprio per contestare la motivazione della
sent. 370 del 2006, afferma che «la leale collaborazione è un
metodo essenziale di governo che avvantaggia tutti i soggetti del sistema
pluralistico paritario». Questo argomento sembra, a ben vedere,
sottintendere un terzo concetto di autonomia: la capacità di conseguire
effettivamente gli obiettivi che ci si prefigge; cioè, una nozione sostantiva di autonomia (in
contrapposizione a quelle formali
sinora prese in considerazione). Poiché nel quadro articolato di un
assetto pluralistico complesso tutte le competenze sono inevitabilmente
interferenti – premessa che invero pure la Corte fa propria, fondando su
di essa l’argomento logico sopra criticato – su tutte grava il
dovere di leale collaborazione, pena la paralisi del sistema: ecco quindi che
la previsione di raccordi e istituzioni cooperative rappresenta una condizione
basilare di funzionalità generale del sistema, il presupposto
indefettibile perché tutte le competenze di tutti gli enti costitutivi
della Repubblica possano efficacemente servire gli obiettivi in vista dei quali
vengono esercitate. Il CdAL sarebbe pertanto una condizione di maggiore
autonomia per tutti perché garantisce una migliore funzionalità
sistemica.
[26] Si
tratta di un esito che era stato chiaramente previsto da A. D’Atena, Le Regioni speciali ed i
“loro” enti locali dopo la riforma del Titolo V, cit., 150.
[27]
Premesse, come si è detto, in sé non condivisibili nella misura
in cui muovono dall’assunto che la clausola di maggior favore operi
soltanto a beneficio dell’autonomia regionale.
[30] Da
parte di S. Parisi, Il “posto” delle fonti locali
nel sistema, in corso di pubblicazione su O.
Chessa - P. Pinna (a cura di), La
riforma della Regione: dalla legge statutaria al nuovo statuto speciale,
Cagliari, 2008.
[34]
Può obiettarsi che in questo caso non avrebbe poi tanto senso
distinguere tra i due binari, perché nel primo troverebbe comunque
applicazione l’art. 7 TUEL, secondo cui «Comuni e Province adottano
regolamenti nelle materie di propria competenza». Tuttavia,
l’obiezione non coglierebbe nel segno, dato che dall’art. 117,
sesto comma, Cost. si evince decisamente qualcosa di più rispetto alla
disciplina legislativa richiamata: se ne trae, infatti, sia una riserva
“rigida” di regolamento locale opponibile ai regolamenti statali e
regionali, sia una riserva “tendenziale” opponibile alle fonti
legislative (come argomentato da S.
Parisi, op. cit.). E pertanto,
nei due binari il regime della potestà regolamentare locale sarebbe
comunque diverso.
[35] Non
è escluso però – come già osservato da A. D’Atena, op. cit., 151, e ora ripreso da S.
Parisi, op. cit. – che
singole norme contenute nella legge ex
art. 117, comma secondo, lett. p,
possano, di volta in volta, fare ingresso nelle regioni speciali ad altro
titolo: cioè, come principi generali dell’ordinamento repubblicano
o norme fondamentali di riforma economico-sociale.
[36] Dico
“purtroppo” perché la legge statutaria è interamente
nella disponibilità del processo politico regionale, diversamente dallo
statuto speciale che è, invece, di spettanza del Parlamento nazionale.
Pertanto, essendo lo strumento principale di autoriforma, dovrebbe essere
privilegiato dalla politica istituzionale regionale rispetto allo statuto
speciale: le regioni speciali, cioè, dovrebbe avere come orientamento politico-istituzionale
quello di fare con legge statutaria tutto ciò che è possibile,
lasciando alla riforma dello statuto speciale solo ciò che è
certo non possa decidersi con il primo atto.
[39] Per
quanto riguarda invece le competenze legislative ulteriori ex art. 117 Cost., il problema non si pone affatto: abbiamo visto
che, in base alla regola del doppio binario, queste già soggiacciono al
limite dell’art. 118 Cost. e di ogni altra disposizione del Titolo V, ivi
compreso l’art. 117, comma sesto.
Per
quanto riguarda l’argomento usato nel testo, cfr. con quello simile
elaborato da S. Parisi, op. cit., 26, laddove osserva che la
disciplina con legge statutaria del rapporto tra fonti regionali e locali
ridurrebbe lo spazio della potestà legislativa in materia di ordinamento
degli enti locali, poiché « si creerebbe (…) una riserva
(surrettizia) rinforzata per procedimento relativamente all’oggetto “ordinamento
degli enti locali” e, di conseguenza, un vincolo per il legislatore
futuro (…) vincolo che il legislatore costituzionale del ’93, che
ha conferito la materia ordinamento degli enti locali in capo alla
potestà primaria delle regioni speciali, non poteva assolutamente
prevedere».
[40] Per
quanto riguarda, invece, la possibilità di introdurre con legge
statutaria una disciplina del rapporto tra fonti regionali e fonti locali
ispirata al principio di sussidiarietà, S. Parisi, op. cit.,
25, 26, illustra diverse ragioni impedienti. A parte l’argomento di cui
si è già dato conto nella nota precedente, l’Autrice rileva
che «quand’anche si ritenesse che l’oggetto “sistema
delle fonti” sia attratto irresistibilmente nell’orbita della
nozione “forma di governo” regionale, ciò non implica la competenza
della legge statutaria in tema di “forma di regione”. In altre
parole, la legge statutaria potrebbe disciplinare la quota di sistema delle
fonti relativa ai rapporti orizzontali tra organi di governo ma non anche
individuare le interazioni tra fonti regionali e fonti locali». E infine,
osserva che «i limiti imposti alla legge statutaria (…) sarebbero
leggermente meno gravosi da quelli apposti in capo ad una qualunque legge
regionale: verrebbe espunto, infatti, quello relativo alle norme fondamentali
delle riforme economico sociali»; di conseguenza, «espunto questo
limite, gli enti locali potrebbero vedere compressi i propri spazi (…):
il legislatore regionale, con una legge rinforzata, avrebbe così
disciplinato la materia ordinamento degli enti locali irrigidendola in una
fonte con un procedimento aggravato e senza neanche dover sottostare, per
giunta, al limite delle norme fondamentali delle riforme economico
sociali». Tuttavia, questo ultimo argomento non coglie nel segno, vuoi
perché non si può escludere che la disciplina eventualmente
contenuta nella legge statutaria sia più garantista per gli enti locali
di quella che si può indurre dalla legge statale, vuoi perché non
è chiaro in che modo la potestà legislativa regionale in materia
di ordinamento locale possa istituire una riserva (tendenziale) di regolamento
locale opponibile alla stessa legge regionale e vuoi, infine, perché
l’orientamento dell’Autrice sembra attingere ancora all’idea,
prima criticata, secondo cui la protezione delle autonomie locali rispetto alla
pretesa supremazia regionale debba fare leva sul ruolo penetrante del
legislatore statale.