N. 6 – 2007 – Tradizione Romana
Università di Roma “La Sapienza”
‘Silentium’ nei documenti sacerdotali. Le interpretazioni di Veranio
e di Ateio Capitone*
SOMMARIO: 1. Il ‘silentium’
in Cicerone e Festo. – 2. ‘Silentio
surgere’ nel “De verborum significatione” di Festo. – 3. Alcune ipotesi su Veranio. – 4. Alcune
ipotesi su Ateio Capitone. – 5. Brevi considerazioni
sulle trattazioni de iure pontificio
e de iure augurali fino a Tiberio.
– 6. ‘Silentio surgere’
nelle interpretazioni di Ateio Capitone e di Veranio. – 7. I documenti sacerdotali e le interpretazioni dei giuristi.
Nel “De
divinatione” di Cicerone e nel “De verborum significatione” di Festo è contenuta la definizione della parola
‘silentium’, come espressione tecnica in uso nel diritto
augurale:
id enim silentium dicimus in auspiciis, quod omni vitio caret[1];
hoc enim est prope silentium, omnis vitii in auspiciis vacuitas[2];
at silentium, ubi dumtaxat vacat vitio[3].
Tutti
e tre i testi, basandosi sull’aspetto
negativo dell’assenza di ‘vitia’, mostrano il valore tecnico della
parola ‘silentium’ e indicano, tramite essa, la presenza di un ordine
delle cose privo di segni che possano in qualche modo rivelarne un turbamento. Il
‘silentium’, quindi, costituisce la condizione necessaria per poter
osservare la eventuale presenza di segni divini, nella totale assenza di
interferenze tra questi ultimi e l’osservatore.
La mia attenzione, però, non è attratta tanto dalla
definizione di ‘silentium’, per la quale infatti le fonti non
evidenziano alcun contrasto, quanto da altri due aspetti, rilevabili dai passi
di Festo e riconducibili alle articolazioni degli studi condotti dalla
giurisprudenza in materia di ius
sacrum:
a)
il problema dell’autore della prima
delle due definizioni riportate in Festo (quella relativa alla voce ‘silentio
surgere’);
b)
il ruolo dei prudentes nella
interpretazione ed applicazione del formulario sacerdotale.
Il
primo passo di Festo, da me citato, nella sua completezza appare così:
silentio surgere ait dici,
ubi qui post mediam noctem auspicandi
causa ex lectulo suo silens surrexit, et liberatus a lecto, in
solido se posuit, sedetque, ne quid
eo tempore deiciat, cavens, donec se
in lectum reposuit: hoc enim est prope silentium, omnis vitii in
auspiciis vacuitas. Veranius ait, non utique ex lecto, sed ex cubili, ne+
rursus se in lectum reponere necesse est[4].
Accettando
la ricostruzione di Müller, il quale restituisce senso alla prima parte del
passo, integrando nel primo rigo la parola ‘ait’,
ci si rende conto che comunque la frase mantiene una sua incompletezza di
fondo, perché manca il soggetto stesso del predicato ‘ait’; quel soggetto grammaticale cui attribuire le descritte
caratteristiche del ‘silentium surgere’
e la definizione stessa di ‘silentium’.
Soggetto che non può in alcun modo esser fatto coincidere con il Veranius della chiusa finale del passo,
considerata la netta contrapposizione tra l’interpretazione di Veranio e quella
del nostro soggetto sconosciuto.
Tuttavia,
Veranio è l’unico nome citato nel brano e, quindi, può aiutarci a capire chi si
cela dietro l’anonimo ‘ait dici’ del
frammento festino.
Le
notizie che le fonti ci tramandano su Veranius
sono scarsissime; tanto che non abbiamo certezza del suo nome completo[5]
e neppure con certezza sappiamo in quale epoca sia vissuto né quali e quante
opere abbia scritto.
Macrobio
riferisce a Veranio la composizione di libri de iure pontificio, contraddistinti da titoli diversi[6];
nell’opera di Festo, invece, gli si attribuisce la composizione di un’opera
dedicata agli auspicia, probabilmente
anch’essa distinta in più libri recanti titoli diversi[7].
Circa
la collocazione cronologica di Veranio[8],
la mancanza di notizie certe da parte delle fonti autorizza la dottrina a
dividersi tra due ipotesi che, comunque, pongono l’autore in un’età compresa
tra Cesare e Tiberio: Veranio vive ed opera nella metà del I secolo a.C.[9],
ovvero nella prima metà del I secolo d.C.[10]
Riassumendo,
Veranio è sicuramente un giurista e scrive almeno due opere dedicate allo ius pontificium ed agli auspicia; esso lavora e scrive in
un’epoca compresa tra Cesare e la metà del I secolo d.C.
Sulla
base di queste notizie e del passo di Festo sopra riportato, relativo a ‘silentio surgere’, mi sembra che:
1) l’anonimo
autore, di cui nel testo festino è riprodotto il pensiero sul ‘silentium’, sia da intendere come
antecedente rispetto a Veranio o, al più, suo contemporaneo[11];
2) quello
che l’anonimo scrive, sia da ricondurre ad un’opera dal contenuto analogo a
quelle composte da Veranio[12].
Ora
andiamo ad esaminare nella sua interezza il secondo passo di Festo, quello
relativo alla voce ‘sinistrum’, di
cui sopra ho riportato un brano:
sinistrum in auspicando significare
ait Ateius Capito laetum et prosperum auspicium, at silentium, ubi duntaxat
vacat vitio[13].
Nell’opera
di Festo, nella spiegazione del significato della parola ‘sinistrum’, è utilizzato il pensiero del giurista augusteo Ateio
Capitone. La particolarità del passo non risiede tanto nel significato dato a ‘sinistrum’, quanto nel fatto che si
ritorna sul concetto di ‘silentium’ e
sul significato di ‘silentio surgere’,
secondo una ricostruzione già evidenziata altrove in Festo, ma, per le lacune
del testo, rimasta anonima. Per evitare di attribuire a Capitone la spiegazione
di ‘silentio surgere’, occorre
imputare all’autore della voce compresa nell’opera di Festo la parte del passo
che va da ‘at’ a ‘vitio’; questa operazione, però, mi
sembra una vera forzatura: perché l’autore della voce avrebbe dovuto presentare
una sua personale sintesi del concetto di ‘silentium’,
ponendola sotto il significato della parola ‘sinistrum’, per il quale si avvale di un importante giurista di età
augustea?
Il
passo festino mi sembra razionale nella sua costruzione. La relazione tra ‘sinistrum’ e ‘silentium’ non costituisce una aggiunta esplicativa del testo,
perché la sua funzionalità appartiene al testo stesso: essa passa attraverso la
differenza tra il ‘laetum et prosperum auspicium’ (sinistrum) e l’assenza di turbative durante l’auspicio (silentium)[14].
Il fatto che Ateius Capito possa essere
l’autore della interpretazione dell’espressione ‘silentio surgere’,
rimasta anonima a causa delle lacune del citato passo festino, non contraddice
le conclusioni sopra raggiunte:
1) non è possibile escludere che Capitone e Veranio
siano contemporanei[15];
2) Capitone, come Veranio, scrive un’opera sullo ius
pontificium e non è escluso che si occupi anche di ius augurale[16].
Quest’ultimo
punto mi sembra interessante, soprattutto alla luce delle difficoltà mostrate
dalla dottrina moderna circa l’ordinata ricostruzione delle opere scritte da
Capitone.
Ebbene,
quanto al pensiero di Capitone su ‘silentio surgere’, due possono essere
le ipotesi[17]:
a) Capitone
espone la sua interpretazione dell’espressione ‘silentio surgere’ in uno dei libri ‘De iure pontificio’;
b) Capitone
tratta del ‘silentio surgere’ in
un’opera espressamente dedicata allo ius
augurale.
c) Allo
stato attuale delle fonti, non è possibile definire la questione in modo certo
ed incontrovertibile.
Fermo
restando quanto fin qui detto, ritengo che qualunque tentativo di ricostruire
la complessa vicenda delle trattazioni de iure pontificio e de
iure augurali fino a Tiberio, debba tener conto delle seguenti considerazioni,
basate esclusivamente sui dati forniti dalle fonti:
·
quattro sono i giuristi che scrivono de iure pontificio: Pittore, Veranio, Labeone e Capitone[18];
·
tre sono i giuristi che scrivono de iure augurali: Cesare, Messalla e Veranio[19];
·
solo Veranio scrive con certezza due opere dedicate
rispettivamente allo ius pontificium
ed allo ius augurale[20];
·
le fonti non permettono una completa ricostruzione delle opere di
questi sei autori[21];
·
sia i testi de iure pontificio
che quelli de iure augurali
interpretano e commentano formule sacerdotali ed espressioni tecniche dal
contenuto giuridico-religioso[22];
·
almeno in un caso, è evidente la trattazione di materia iuris auguralis in un testo iuris pontificii[23];
·
Cesare e Messalla sono stati auguri; di Pittore e Veranio non si
hanno notizie certe; non risulta dalle fonti che Labeone e Capitone siano stati
auguri o pontefici[24].
Torno
al passo di Festo relativo a ‘silentio
surgere’. Stando al citato testo,
l’osservazione auspicale si pone in un preciso contesto temporale, identificato
da Ateio Capitone tra due momenti, collocati entrambi dopo la mezzanotte[25]
e dipendenti dall’azione svolta dall’osservatore:
a) un termine iniziale coincidente con ‘ex
lectulo surgere’[26];
b) un termine finale che coincide con ‘se in
lectum reponere’[27].
È evidente che per Capitone l’inizio e la fine
dell’osservazione auspicale non dipendono da una convenzionale quantificazione
del tempo, ma da un comportamento concludente dell’osservatore che appare
sostanzialmente libero di determinare il lasso temporale della sua indagine. In
altre parole, l’attività auspicale costituisce un procedimento dai contenuti
sicuramente tipici, ma libera in quanto a durata. Infatti, la tipicità consiste
in:
1-
gestualità preordinata all’avvio del
periodo di osservazione: ‘ex
lectulo suo silens surrexit’;
2-
gestualità indirizzata ad una corretta
osservazione: ‘et
liberatus a lecto, in solido se posuit, sedetque’;
3-
gestualità diretta ad evitare
turbative alla perfezione dell’osservazione: ‘ne quid eo tempore deiciat, cavens’;
4-
gestualità destinata a chiudere il
periodo dell’osservazione: ‘donec
se in lectum reposuit’.
La discrezionalità, invece, è individuabile nella
collocazione temporale della gestualità sopra esposta, con particolare
attenzione ai due estremi, da cui dipendono l’inizio e la fine della stessa
osservazione; mentre, una ulteriore limitazione è rappresentata dal fatto che
essa deve avere inizio post
mediam noctem.
Si
potrebbe dire che, nella ricostruzione di Ateio Capitone, l’osservazione
auspicale è discrezionale in quanto alla durata, ma vincolata per ciò che
concerne le modalità.
Parzialmente diversa, invece, appare l’impostazione
data da Veranio alla stessa vicenda.
Dalla interpretazione di Veranio del ‘silentio
surgere’, come tramandata da Festo, emerge una osservazione auspicale
basata su un livello maggiore di discrezionalità da parte dell’osservatore.
Infatti, ferma restando la libertà di questi in quanto alla durata dell’esame,
è possibile osservare:
1)
un minor grado di tipicità nella
gestualità preordinata all’avvio della procedura: ‘non utique ex lecto, sed
ex cubili’[28];
2)
una piena discrezionalità nella
gestualità destinata a chiudere il periodo dell’osservazione: ‘ne+ rursus se
in lectum reponere necesse est’[29].
Mi sembra che le interpretazioni di Ateio Capitone
e di Veranio costituiscono due modelli tra loro distinti:
a)
Capitone limita la discrezionalità
dell’osservatore entro ambiti ristretti, descrivendone con precisione
l’attività e finanche le caratteristiche del giaciglio dal quale questi si deve
ergere;
b)
Veranio, invece, riconosce all’autore
dell’osservazione una libertà maggiore in quanto alle modalità di esecuzione, identificandone
l’inizio nell’atto di ergersi da un qualsivoglia giaciglio e non facendone
dipendere la fine da un comportamento specifico.
Il
forte interesse per una corretta applicazione delle procedure augurali, quali,
ad esempio, quelle relative all’attività del populus riunito nei comitia, spiega la cura con la quale i
giuristi si dedicano alla interpretazione delle formule sacerdotali e delle
espressioni tecniche dal contenuto giuridico-religioso.
Nel
caso specifico, non mi sembra azzardato pensare che Ateio Capitone e Veranio
abbiano analizzato la ratio del ‘silentium in auspiciis’ in una
prospettiva pontificale, cioè sotto il profilo delle competenze del pontifex
in ordine alla corretta applicazione delle procedure sacerdotali. Stabilire
la correttezza di una osservazione auspicale effettuata alzandosi da terra,
piuttosto che da un letto, e conclusa in modo diverso dal ‘se reponere in lectum’,
può sicuramente avere riflessi, nel sistema giuridico-religioso romano, sulla
legittimità delle operazioni compiute, ad esempio, dalle assemblee popolari[30].
Pertanto,
il caso del ‘silentio surgere’ attesta la presenza di interpretazioni e commenti
da parte dei giuristi in ordine ai documenti sacerdotali; interpretazioni e
commenti fondati su riflessioni puntuali e di grande rilievo giuridico. Da una
parte il documento sacerdotale, dall’altra le interpretazioni applicative.
Tutto
ciò fa riflettere, soprattutto sotto il profilo delle operazioni palingenetiche
condotte nel passato o programmate per il futuro. Se ormai è innegabile
l’insufficienza del pur grandioso lavoro compiuto da Lenel, a causa della
deliberata esclusione di tutto ciò che attiene il diritto augurale e non solo,
rischia di apparire incompleto anche un progetto di palingenesi, pur innovativo
nella sua impostazione, che comprenda i documenti sacerdotali, ma che trascuri
le riflessioni effettuate dalla giurisprudenza sugli stessi[31].
*
Questo studio costituisce un approfondimento delle tematiche trattate in un
intervento da me svolto il 21 aprile 2005, nell’ambito dei lavori del XXV
Seminario di Studi Internazionali “Da Roma alla Terza Roma”, tenutosi in
Campidoglio.
[1] Cic., De div. 2.34.71. La spiegazione data da
Cicerone del termine ‘silentium’ è
inserita in un contesto di formule augurali: Q.FABI, TE MIHI IN AUSPICIO ESSE VOLO; respondet: AUDIVI. Hic apud
maiores nostros adhibeatur penitus, nunc quilibet. Peritum autem esse necesse
est eum, qui, silentium quid sit, intellegat; id enim silentium dicimus in
auspiciis, quod omni vitio caret. Hoc intelligere perfecti auguris est; illi
autem, qui in auspicium adhibetur, cum ita imperavit is, qui auspicatur:
DICITO, SI SILENTIUM ESSE VIDEBITUR, nec suspicit nec circumspicit; statim
respondet silentium esse videri.
[2] Fest., De verb. signif.,
348.33-35, s.v. Silentio surgere (ed.
Müller)=474.7-15 (ed. Lindsay). Nel Codice Farnesiano, attraverso cui l’opera di Festo
è pervenuta, la frase riportata appare così: hoc enim est .......lentium,
omnis vitii in auspiciis vacuitas.
Tanto l’edizione di Müller quanto quella di Lindsay integrano il passo
come indicato supra, nel testo.
[3] Fest., De verb. signif., 351.19-22, s.v. Sinistrum
(ed. Müller)=476.29-34 (ed.
Lindsay). Ambedue le edizioni citate integrano il passo che appare nel Codice
Farnesiano trasformando ‘at’ in ‘aut’ ed ‘ubi’ in ‘dubi’;
queste integrazioni rendono così il testo: aut silentium, dubi dumtaxat vacat vitio. Nell’edizione curata da
Lindsay, comunque, si riconosce che le parole ‘aut’ e ‘dubi’ sono una
variante alla ricostruzione tramandata da Antonius Augustinus, pubblicata nel
[4] Fest.,
De verb. signif., 348.33-35, s.v. Silentio surgere (ed. Müller); le parti
in neretto costituiscono le integrazione del testo mancante. Lo stesso passo,
nella edizione Lindsay dell’opera di Festo, appare così riportato, ove i segni
di interpunzione indicano le lacune del testo e le parti tra cunei
rappresentano le integrazioni: <Silentio
surgere>..t dici, ubi qui post mediam <noctem>......tandi causa ex
lectulo suo si<lens surr>exit et liberatus a lecto, in solido
......<se>detque, ne quid eo tempore deiciat, <cavens, donec s>e in
lectum reposuit: hoc enim est <proprie sil>entium, omnis vitii in
auspiciis vacuitas. Veranius ait, non utique ex lecto, sed ex cubili,
ne<c> rursus se in lectum reponere necesse esse (Fest., De verb. signif., 474.7-15, s.v. Silentio surgere, ed. Lindsay). Le
differenze tra le due versioni sono costituite: dalla lettera ‘-t’ nel primo rigo, riprodotta
dall’edizione di Lindsay come finale di una parola caduta ed assente nel testo
di Müller, il quale invece presenta la parola ‘ait’, cui la ‘t’ dovrebbe
appartenere, in funzione pienamente integrativa; dalla parola ‘auspicandi’, frutto di una integrazione
accettata da Müller e non recepita da Lindsay, secondo il quale nel Codice
Farnesiano appare ‘-tandi’ e non ‘-candi’, rendendo la citata ipotesi di
integrazione non suffragata dall’evidenza testuale. Per ciò che riguarda la
prima differenza, mi sembra che l’edizione di Lindsay non escluda, anzi
avvalori la ricostruzione operata da Müller.
[5] Un
Veranio Flacco appare in Suet., Aug.
86. Un Quinto Veranio appare negli Annales
di Tacito, durante l’impero di Tiberio (Ann.
2.56.4; 2.74.2; 3.10.1; 3.13.2; 3.17.2; 3.19.1), di Claudio (sotto il quale
ricopre il consolato nel 49: Ann. 12.5.1)
e di Nerone (sotto il quale muore nel 59: Agricola
14.2; Ann. 14.29.1). Tuttavia, le
notizie riferite da Svetonio e Tacito non sono di per sé sufficienti a provare
l’identificazione di Veranio Flacco o di Quinto Veranio con il Veranio esperto
di ius sacrum.
[6]
Macrob., Sat. 3.5.6: Veranius enim in pontificalibus
quaestionibus docet; Sat. 3.6.14:
Veranius Pontificalium eo libro quem
fecit de supplicationibus; Sat. 3.20.2:
ait enim Veranius de verbis
pontificalibus. P.E. HUSCHKE, Iurisprudentiae
anteiustinianae quae supersunt, Lipsiae 1874, 106 s., include questi passi
tra le testimonianze di una generica opera scritta da Veranio e dedicata a ‘quaestiones pontificales’; la stessa
provenienza avrebbe un ‘primus liber
Pictoris’ citato da Macrob., Sat. 3.2.3.
Analoga ricostruzione in F.P. BREMER, Iurisprudentiae
antehadrianae quae supersunt, II,1, Lipsiae 1898, 6 ss., il quale
distingue, nell’ambito delle ‘quaestiones
pontificales’, un testo ‘De verbis
pontificalibus’ (Macrob., Sat. 3.20.2),
un testo ‘De supplicationibus’ (Macrob.,
Sat. 3.6.14) ed altri libri dal
titolo incerto (tra i quali inserisce quelli citati in Macrob., Sat. 3.5.6 e Sat. 3.2.3).
[7] Fest., De verb.
signif., 289, s.v. Referri (ed. Müller): ...ut ait Veranius in eo, qui est auspiciorum de comitiis. La
riconduzione di questo testo agli ‘auspiciorum
libri’ composti da Veranio è accettata da P.E. HUSCHKE, Iurisprudentiae anteiustinianae quae
supersunt, cit., 106, come da F.P. BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, II,1, cit., 5.
Inoltre, occorre osservare che entrambi gli autori inseriscono nell’ambito di
quest’opera quanto scritto dallo stesso Veranio in merito a ‘silentio surgere’ (per il quale si veda
il già citato Fest., De verb. signif.,
348.33-35, s.v. Silentio surgere (ed.
Müller) = 474.7-15 (ed. Lindsay).
[8] Vedasi
la dottrina meno recente in E.A. GORDON, v. Veranius,
1, in PWRE, VIII, A.1, 1955,
937. Le più recenti opere generali sui giuristi romani non fanno alcun cenno a
Veranio; si vedano, per citarne alcune, W. KUNKEL, Die römischen Juristen,
Köln-Weimar-Wien 2001, e AA.VV., Juristas universales, 1,
Madrid-Barcelona 2004.
[9] Si
tratterebbe, allora, del Veranio Flacco citato da Suet., Aug. 86. Si vedano P.E. HUSCHKE, Iurisprudentiae anteiustinianae quae supersunt, cit., 106, e M. SCHANZ
- C. HOSIUS, Geschichte der römischen Literatur, I, 4a ediz.,
München 1927, 600. R. DEL PONTE, Documenti sacerdotali in Veranio e Granio
Flacco: problemi lessicografici, Comunicazione presentata nel XXV Seminario
Internazionale di Studi Storici “Da Roma alla Terza Roma” «Diritto e religione da Roma a Costantinopoli a Mosca. Persona. Città.
Impero universale» (Campidoglio, 21-23 aprile 2005) [pubblicata con lo
stesso titolo in Diritto @ Storia. Rivista internazionale di
Scienze Giuridiche e Tradizione Romana 4 (novembre 2005) = http://www.dirittoestoria.it/4/Tradizione-Romana/Del-Ponte-Documenti-sacerdotali-Veranio-Granio-Flacco.htm
] ritiene Veranio persona vicina a Cesare, al pari di Servio Sulpicio Rufo
e Trebazio Testa.
[10] Si
tratterebbe, invece, del Quinto Veranio citato più volte da Tacito. Si vedano
F.P. BREMER, Iurisprudentiae
antehadrianae quae supersunt, II,1, cit., 5; F. SCHULZ, Storia della giurisprudenza romana,
Firenze 1968, (History of Roman Legal
Science, Oxford 1953), 80 nt. 1; A. GUARINO, L’esegesi delle fonti del diritto romano, I, Napoli 1968, 199.
[11] Nel
passo di Festo il pensiero di Veranio è posto in opposizione a quello
dell’anonimo: ait dici ... ex lectulo suo silens surrexit ...... donec
se in lectum reposuit. Veranius ait, non utique ex lecto, sed ex cubili, nec
rursus se in lectum reponere necesse esse. Da ciò sembrerebbe che Veranio
conosca la tesi cui si contrappone; quindi, non è l’autore della voce ‘silentio surgere’ che mette in contrasto
le opinioni dei due autori, ma è proprio uno di questi ultimi che tiene a
rimarcare la diversità della propria interpretazione rispetto a quella
formulata dall’altro.
[12]
L’anonimo avrebbe, pertanto, elaborato la propria ricostruzione in merito a ‘silentio surgere’ in un testo dedicato
alle quaestiones pontificales, ovvero
agli auspicia. Stando a Huschke ed a
Bremer, come si è visto, quest’opera coinciderebbe con i libri auspiciorum.
[13] Fest., De verb.
signif., 351,19-22, s.v. Sinistrum
(ed. Müller)=476,29-34 (ed. Lindsay). È qui appena il caso di
rammentare quanto già detto supra circa le parole ‘at’ e ‘ubi’.
[14] Semmai,
potrebbe essere intesa quale commento spurio la parte successiva del passo: igitur silentio surgere cum dicitur
significat non interpellari, quo minus rem gerat; at sinistrum, hortari quoque
auspicia ad agendum, quod animo quis proposuerit (Fest., De verb. signif., 351.19-22, s.v. Sinistrum - ed. Müller = 476.29-34 - ed.
Lindsay). Infatti, F.P. BREMER, Iurisprudentiae
antehadrianae quae supersunt, II,1, cit., 280, attribuisce queste parole a
Verrio Flacco.
[16] P.E.
HUSCHKE, Iurisprudentiae anteiustinianae
quae supersunt, cit., 120 nt. 3, si basa proprio sul passo festino
concernente la parola ‘sinistrum’ per
congetturare la composizione, da parte di Capitone, di testi de iure augurali. Ancor più esplicito
appare F.P. BREMER, Iurisprudentiae
antehadrianae quae supersunt, II,1, cit., 280, attribuendo a Capitone
un’opera con tale titolo e comprendendovi il passo relativo alla parola ‘sinistrum’. Maggiore cautela manifesta
F. SCHULZ, Storia della giurisprudenza
romana, cit., 245 nt. 8; mentre R. ORESTANO, v. Capitone, in NND, II,
Torino 1958, 929 s., ritiene che testi de
iure augurali siano stati scritti da Capitone nell’ambito dell’opera ‘De iure pontificio’.
[17] Non mi
risulta che l’anonima interpretazione di ‘silentio
surgere’ contenuta nel passo di Festo sia mai stata attribuita a Capitone;
di questo testo, infatti, non v’è traccia nei lavori di Huschke e di Bremer
che, pure, riconoscono al giurista augusteo la paternità di scritti de iure pontificio e de iure augurali. Neppure in P. REGELL, Commentarii in librorum auguralium fragmenta
specimen, Hirschberg 1893, 5 ss. (in particolare 14 nt. 25 e 16 nt. 39), il
frammento festino relativo a ‘silentio
surgere’ è riferito a Capitone.
[18] F.P.
BREMER, Iurisprudentiae antehadrianae
quae supersunt, I, cit., 28, sostiene che Q. Fabius Maximus Servilianus, console nel
[19] Cesare
è identificato da P.E. HUSCHKE, Iurisprudentiae
anteiustinianae quae supersunt, cit., 102, con L. Iulius Caesar, console nel
[20]
Richiamo qui quanto già detto a proposito della produzione scientifica di
Capitone, con particolare riferimento ai problemi legati ai libri de iure pontificio.
[21] Di
Capitone e Veranio già si è detto. Su Pittore, osservo che BREMER (cit., 12)
attribuisce ad incertis libris due
testi che HUSCHKE (cit., 2 ss.) riconosce iuris
pontificii. Per ciò che concerne Cesare, BREMER (cit., 107) attribuisce ad incertis libris tre testi che HUSCHKE
(cit., 102) riconosce de auspiciis.
Di Messalla, BREMER (cit., 264 s.) attribuisce ad incertis libris dieci testi che HUSCHKE (cit., 103 ss.)
riconosce de auspiciis. Infine, in
riferimento a Labeone, BREMER (cit., 260 s.) ritiene incerta l’attribuzione ai
libri de iure pontificio fatta da
HUSCHKE (cit., 113) del passo in Gell., Noc.
Att., 15.27.1-2. Di questi 16 casi, ben 13 sono risolti sulla base della
pura interpretazione, non fornendo le fonti alcun indizio per una certa
collocazione del testo all’interno di un’opera piuttosto che di un’altra.
[22]
Numerosi casi in Pittore e Labeone, autori de
iure pontificio, ed in Cesare e Messalla, autori de iure augurali. In Pittore, sono evidenti le formule ‘exta porriciunto’, ‘aquam manibus’ e ‘muries fit’;
in Labeone le formule ‘sporcum vinum’,
‘prox bona vox’. In Cesare è
possibile osservare le formule ‘si
sincera pecus erat’ e ‘certaeque res
augurantur’; in Messalla ‘bene
sponsis’ e ‘serpula serpserit’.
[23] Si
tratta di un passo di Festo (De verb.
signif., 290.9-12, s.v. Remisso -
ed. Müller=368.27-30 - ed. Lindsay), nel quale è riprodotta una riflessione di
Labeone in materia di augures, che
tanto HUSCHKE (cit., 112) quanto BREMER (cit., 78) pongono all’interno
dell’opera de iure pontificio del
giurista augusteo: [a quo prius se]cures
habitae [sunt, eum et in augure legendo priorem] esse ait Antis[tius Labeo] ...
[qu]oque lege signi[fic...]... [auspi]cando dicitur, ut.... Il testo
festino, pur essendo molto rovinato, evidenzia che l’oggetto del discorso di
Labeone concerne gli auguri e la loro attività; del resto, l’intero brano di
Festo è dedicato a questo aspetto ed infatti Huschke integra il passo secondo
questa prospettiva: [a quo prius se]cures
habitae [sunt, eum et in augurem legendo priorem] esse ait Antis[tius Labeo, et
in auspiciorum qu]oque lege signi[ficari, cum a maiore iussus in auspi]cando
dicitur, ut [ei augur in auspicio sit].
[24] L.
Giulio Cesare, il console del
[28] Ateio
Capitone, nella sua interpretazione, associa sempre ‘surgere’ e ‘se reponere’
al lectus o al lectulus, intendendo comunque evidenziare che il giaciglio dell’osservatore
deve avere caratteristiche specifiche, deve cioè trattarsi di una struttura
identificabile con un letto, pur dalle dimensioni variabili. Si vedano,
infatti, le voci ‘lectulus’ e ‘lectus’ in Thesaurus linguae Latinae, VII.2, 1094 ss. Veranio, invece, oppone
al ‘lectus’ il ‘cubile’, designando con questa parola un qualsivoglia giaciglio e
ponendo l’attenzione sulla posizione di partenza dell’osservatore, piuttosto
che sulla struttura su cui la posizione è assunta. Mi sembra che il Thesaurus linguae Latinae, IV, s.v. Cubile, 1269 ss., non tenga nella dovuta
considerazione l’opposizione dialettica tra Veranio e Capitone, laddove
attribuisce alla parola ‘cubile’
usata da Veranio un senso ristretto, e quindi vicino a ‘lectus’, piuttosto che il senso più ampio che il tenore della frase
sembrerebbe conferirgli.
[29]
Occorre notare una contraddizione nelle parole di Veranio. Se dapprima afferma
che non è necessario alzarsi ‘ex lecto, sed ex cubili’, poi invece torna
a parlare di lectus laddove asserisce che la fine dell’osservazione
auspicale non deve obbligatoriamente coincidere con il ‘se in lectum
reponere’ dell’augure. La precisione con cui il cubile è distinto
dal lectus nella prima parte del pensiero di Veranio, mi fa pensare che
nella seconda parte sia intervenuto il commentatore che, nello sforzo di
sintesi, non ha fatto altro che porre al negativo l’azione già descritta come
necessaria da Capitone: ...donec se in
lectum reposuit... Veranius ait... ne+ rursus se in lectum reponere necesse
est.
[30] Si pensi alla vigenza
delle leges Aelia et Fufia nei
confronti delle attività dei concilia
plebis (mi pare corretta l’ipotesi avanzata in tal senso da F. DE MARTINO, Storia della costituzione romana, II,
Napoli 1973, 432). È opinione pressoché concorde della dottrina che le due
leggi, approvate alla metà del II secolo a.C., abbiano regolato l’obnuntiatio, cioè «la facoltà di
notificare al presidente dell’assemblea l’esistenza di segni celesti
sfavorevoli» (F. SERRAO, Classi partiti e
legge nella repubblica romana, Pisa 1974, 79 s.).
[31] In
proposito, si veda il fondamentale lavoro di F. SINI, Documenti sacerdotali di Roma antica, I. Libri e commentarii, Sassari 1983. Si vedano anche i recentissimi
contributi di F. SINI, Diritto e documenti sacerdotali romani: verso una
palingenesi, e di L.
KOFANOV, Verso una palingenesi dei documenti sacerdotali romani,
entrambi Comunicazioni presentate nel XXV Seminario Internazionale di Studi
Storici “Da Roma alla Terza Roma”
«Diritto e religione da Roma a Costantinopoli a Mosca. Persona. Città. Impero
universale» (Campidoglio, 21-23 aprile 2005); pubblicati con lo stesso
titolo in Diritto @ Storia. Rivista
internazionale di Scienze Giuridiche e Tradizione Romana 4 (novembre 2005):
= http://www.dirittoestoria.it/4/Tradizione-Romana/Sini-Diritto-documenti-sacerdotali-palingenesi.htm.