N. 6 – 2007 – Tradizione
Romana
Preside II Facoltà di Giurisprudenza
Università di Bari con sede in
Taranto
La limitazione dei debiti*
Sommario: 1. Premessa. – 2. Limitazione degli interessi.
– 3. Usurae supra modum. – 4. Limite del duplum. – 5. Limite generale posto da
Giustiniano. – 6. Interpretazione
evolutiva dell’ammontare del debito.
La condizione dei debitori,
schiacciati da crediti insopportabili e da interessi che spesso si
trasformavano in immotivato moltiplicatore del contenuto
dell’obbligazione hanno costituito una costante fonte di tensioni sociali
spesso sfocianti in richieste politiche pressanti.
Questo fin dagli inizi dalla
storia di Roma, come dimostra la circostanza che nella lotta tra patriziato e
plebe la questione dei debiti e degli interessi era sempre presente e spesso
persino al centro delle rivendicazioni della plebe.
Il diritto romano deve
registrare numerosi tentativi di porre rimedio alle conseguenze
dell’eccessiva onerosità dei debiti.
Le strade seguite sono state
due:
1.
interventi sull’ammontare degli interessi, compresa la
proibizione dell’anatocismo;
2.
limitazione dell’ammontare globale del debito.
In questa sede intendo
soffermarmi brevemente su di esse, a partire dall’ultima Repubblica,
rivisitando alcune fonti che ci consentono di avere uno spaccato della politica
normativa romana sulla penosa questione. Con il che non pretendo di affrontare
il punto nella sua globalità, ma solo porre l’accento su alcune
fonti che mi paiono indicative degli sforzi compiuti nel diritto romano (il
quale, va sempre ricordato, era dichiarato diritto creato in funzione degli
uomini[1])
per evitare che i debitori fossero schiacciati dal peso dei debiti[2].
Non mi soffermo, se non per
incidens, sull’anatocismo e sulla sua complessa e non sempre uniforme
regolamentazione, così come sulla sua proibizione, che si suole far
risalire all’età repubblicana e certamente era vigente in
età severiana[3].
Parto da un dato che mi sembra
ormai pacifico nella romanistica. Alla fine dell’età repubblicana
era stabilito un tetto massimo per gli interessi del 12% su base annua[4].
Tale limite pare nato nelle province, dove fu previsto dagli editti dei
governatori. In tal senso abbiamo alcune attestazioni di Cicerone e Plutarco.
Il primo dice che durante il governo della Cilicia (
Cic., Ad
Atticum 5.21.11: Interim cum ego
in edicto translaticio centesimas me observaturum haberem cum anatocismo
anniversario ...[5].
Plutarco riferisce che
già nel
Cic., Ad
Atticum 5.21.13: .... Cum senatus
consultum modo factum sit, puto, postquam tu es profectus, in creditorem causa,
ut centesimae perpetuo fenore ducerentur.
Il limite del 12% pare rimasto
in vigore per tutto il Principáto: ne sono conferma un rescritto di
Diocleziano ed un provvedimento di Costantino:
C. 4.2.8, Imp. Diocl. et Maxim. AA et CC. Proculo:
Si pro mutua pecunia, quam a creditore
poscebas, argentum vel iumenta vel alias species utriusque consensu aestimatas
accepisti, dato auro pignori, licet ultra unam centesimam usuras stipulanti
spopondisti, tamen sors, quae aestimatione partium placito definita est, et
usurarum titulo legitima tantum recte petitur. Nec quicquam tibi prodesse
potest, quod minoris esse pretii pignus quod dedisti proponis, quominus huius
quantitatis solutioni pareas.
CTh. 2.33.1, Imp. Constantinus A. ad Dracilianum
agentem vices PP.: Quicumque
fruges humidas vel arentes
indigentibus mutuas dederint, usurae nomine tertiam partem superfluam
consequantur, id est ut, si summa crediti in duobus modiis fuerit, tertium
modium amplius consequantur. Quod si conventus creditor propter commodum
usurarum debitum recipere noluerit, non solum usuris, sed etiam debiti
quantitate privandus est. Quae lex ad solas pertinet fruges: nam pro pecunia
ultra singulas centesimas creditor vetatur accipere.
La costituzione di Diocleziano
per essere un rescritto doveva confermare il diritto precedente riaffermandone
la validità. Essa, pertanto, documenta l’esistenza di una
pregressa normazione in tal senso, che veniva sancita definitivamente[8].
La costituzione di Costantino[9]
presenta alcuni aspetti di novità. Infatti fa riferimento ai crediti pecuniari
ed a quelli di derrate. Per i primi ribadisce il divieto delle usure superiori
al 12%, per i secondi stabilisce il limite di 1/3 superfluo in più,
facendo in modo che il creditore potesse conseguire il 50% in più delle
derrate date in prestito. La prescrizione veniva corroborata dalla severa
sanzione della totale perdita sia delle usure sia del capitale, in caso di
inosservanza del limite. Alcuni autori vi hanno scorto un’influenza del
cristianesimo, della quale sarebbe indicativo il riferimento agli indigentes[10].
Ma, in contrario, è stato osservato che la costituzione sarebbe andata
in direzione opposta a quella di un trattamento più favorevole ai
debitori, poiché l’introduzione del riferimento agli indigentes
in ultima istanza comportava un’ulteriore limitazione delle categorie ai
quali applicare il limite del 50%: non tutti i debitori, ma solo gli indigentes[11].
Certo sembra che il limite
delle usurae al 12% pare rimasto invariato sino a Giustiniano.
Ad esso si affiancò
anche un’altra regola: quella che esigeva che comunque mai il debitore
potesse essere gravato in misura superiore all’ammontare del doppio del
capitale, poiché vi era il divieto di riscuotere usurae ultra duplum
ovvero supra duplum (usurae ultra sortis summam). La limitazione
concerneva sia gli interessi legali[12]
sia quelli pattizi[13].
Accanto a queste limitazioni
vanno ricordati alcuni divieti di usurae.
Nella Storia Augusta,
un passo della vita di Alessandro Severo, dice che l’imperatore
dapprima vietò ai senatori di dare denaro ad interesse, ma consentendo
di ricevere qualcosa in dono per il prestito effettuato, poi preferì
eliminare i doni, consentendo però la percezione di un interesse del 6%:
SHA, vita Alex. 26.3: Senatores, si fenerarentur, usuras accipere primo
vetuit, nisi aliquid muneris causa acciperent; postea tamen iussit ut semisses
acciperent, donum munus tamen sustulit.
Il racconto della Storia
Augusta pare trovare riscontro in un riferimento di Giovanni Crisostomo e
pare confermato in costituzioni del Codice Teodosiano[14].
Individuato il limite delle usurae
si poneva il problema di come reprimere gli interessi che lo avessero
disatteso.
La disciplina era difficile da
stabilire e presenta soluzioni varie.
Secondo autorevole dottrina[15]
la repressione di eventuali stipulazioni che eccedessero i limiti sarebbe stata
perseguita attraverso la dichiarazione di nullità della stipulazione. In
tal senso deporrebbero un frammento di Ulpiano, inserito in un quadro
normativante affermatosi con i giuristi dell’età dei Severi[16],
dove si afferma, sembrerebbe in modo tassativo, che gli interessi oltre il
limite non possono essere dedotti in obbligazione né essere esatti:
D.
12.6.26.1, Ulp. 26 ad ed.:
Supra duplum autem usurae et usurarum usurae nec in stipulatum deduci nec exigi
possunt et solutae repetuntur, quemadmodum futurarum usurarum usurae.
Altri, invece, ritiene che il
passo di Ulpiano non affermasse la nullità della stipulazione,
consentendo comunque l’esazione delle usurae supra legitimum modum nella
parte corrispondente alla misura consentita: ciò vuoi in applicazione
del principio di economia, che operava la conversione dell’atto viziato,
dove fosse possibile di utilizzarlo ameno in parte, in connessione del criterio
utile per inutilem non vitiatur [17].
In ogni caso la nullità
delle stipulazioni comprendenti usurae illicitae fu sancita durante il
Dominato: ne fa fede una costituzione del 439, nella quale si afferma
tassativamente “... Nullum enim pactum, nullam conventionem, nullum
contractum inter eos videri volumus subsecutum, qui contrahunt lege contrahere
prohibente”[18].
Vi sono, poi, nella
giurisprudenza dei Severi indicazioni precise sul fatto che «gli
interessi pagati illegalmente vanno imputati al capitale e, una volta esaurito
quest’ultimo, devono essere restituiti al debitore»[19].
Ne sono prova quanto lo stesso Ulpiano diceva in apertura del frammento di D.
12.6. 26.1 e le Pauli Sententiae:
D.
12.6.26pr., Ulp. 26 ad ed.: Si
non sortem quis, sed usuras indebitas solvit, repetere non poterit, si sortis
debitae solvit: sed si supra legitimum modum solvit, divus Severus rescripsit
quo iure utimur repeti quidem non posse, sed sorti imputandum et, si postea
sortem solvit, sortem quasi indebitam repeti posse. Proinde et si ante sors fuerit
soluta, usurae supra legitimum modum solutae quasi sors indebita repetuntur.
Quid si simul solverit? Poterit dici et tunc repetitionem locum habere.
PS.
2.14.2: Usurae supra centesimam
solutae sortem minuunt, consumpta sorte repeti possunt.
Traspare dalle fonti del
Principáto la tendenza a salvare le eventuali stipulazioni per la parte
che non eccedesse il limite previsto. In proposito vi sono molte testimonianze,
che partono da Papiniano:
D.
22.1.9pr., Pap. 11 resp.: Pecuniae
faenebris, intra diem certum debito non soluto, dupli stipulatum in altero
tanto supra modum legitimae usurae respondi non tenere: quare pro modo
cuiuscumque temporis superfluo detracto stipulatio vires habebit.
D.
22.1.17pr., Paul. l.s. de usur.: Cum
quidam cavisset se quotannis quincunces usuras praestaturum et, si quo anno non
solvisset, tunc totius pecuniae ex die qua mutuatus est semisses soluturum, et
redditis per aliquot annos usuris mox stipulatio commissa esset, divus Marcus
Fortunato ita rescripsit: "praesidem provinciae adi, qui stipulationem, de
cuius iniquitate questus est, ad modum iustae exactionis rediget". Haec
constitutio ad finitum modum excedit: quid ergo? Sic temperanda res est, ut in
futurum dumtaxat ex die cessationis crescat usura.
D.
22.1.20, Paul. 12 ad Sab.: Usuras illicitas sorti mixtas ipsas tantum
non deberi constat, ceterum sortem non vitiare.
D.
22.1.29, Marcian. 14 inst.: Placuit,
sive supra statutum modum quis usuras stipulatus fuerit sive usurarum usuras, quod
illicite adiectum est pro non adiecto haberi et licitas peti posse.
I brani sembrano univoci[20].
Papiniano e Marciano affermavano la nullità della stipulazione di usurae
supra modum soltanto per la parte eccedente la misura consentita, e
Marciano precisava che il princípio valeva anche per l’anatocismo
Paolo pare oscillare tra la negazione della validità del patto
contenente interessi illeciti, di modo che fosse consentito di riscuotere solo
il capitale e il riconoscimento del patto relativamente a quella parte di
interessi che fosse rientrata nei limiti consentiti, in conformità ad un
rescritto di Marco Aurelio. L’apparente aporía nell’opera
del giurista severiano si può spiegare considerando che le rispettive
affermazioni venivano fatte in opere differenti, le quali potrebbero avere
riflesso in normative diverse, succedutesi nel tempo. La totale nullità
del patto contenente interessi supra modum si trova nel commento a
Sabino e potrebbe riflettere la posizione del ius civile quale appariva
nel commento di Sabino. Successivamente la situazione potrebbe essere cambiata,
dando vita ad una soluzione meglio articolata: riconoscendo validità
parziale al patto (contenente usure oltre la misura legale), si sarebbe ammessa
l’esigibilità della parte di interessi rientrante nei limiti di
legge. Questa soluzione si sarebbe affermata nella cognitio extra ordinem,
dove era possibile dare al giudicante istruzioni in tal senso, come rivela il
rescritto di Marco Aurelio, richiamato da Paolo nella monografia da lui scritta
sugli interessi, la quale chiaramente era proiettata verso la procedura extraordinaria
e non all’ordo, oggetto di attenzione del commento di Sabino e poi
dello stesso Paolo. Ne deduco che ci si possa trovare di fronte ad
un’evoluzione. Sabino, commentato da Paolo in D. 22.1.20, potrebbe avere
avuta una posizione più drastica, negando l’esigibilità di
tutti gli interessi supra modum; successivamente (come denotano i brani
degli altri giuristi severiani), facendo capo alla maggiore elasticità
consentita dalla cognitio, si sarebbe consentito di riscuotere gli
interessi entro i limiti degli interessi consentiti.
Questa soluzione dovette
prevalere: ne è venne confermata, in via definitiva, da un rescritto di
Diocleziano[21]:
C. 4.2.8, Impp. Diocl. et Maxim. AA. et CC. Proculo:
Si pro mutua pecunia, quam a creditore
poscebas, argentum vel iumenta vel alias species utriusque consensu aestimatas
accepisti, dato auro pignori, licet ultra unam centesimam usuras stipulanti
spopondisti, tamen sors, quae aestimatione partium placito definita est, et
usurarum titulo legitima tantum recte petitur. nec quicquam tibi prodesse
potest, quod minoris esse pretii pignus quod dedisti proponis, quominus huius
quantitatis solutioni pareas.
Oltre che sugli interessi si
ritenne opportuno agire sull’ammontare globale dell’indebitamento
del debitore e si stabilì il principio secondo il quale
l’ammontare del debito a causa degli interessi non potesse diventare
superiore al doppio del capitale.
L’origine del limite, al
pari del tetto del 12%, è databile con certezza ad un periodo compreso
tra il 72 ed il 70 a.C. Infatti Esso risulta applicato, tra il 72 e il
Questa importante limitazione
viene ribadita nel 529 da Giustiniano con una costituzione inserita nel Codex
e, pertanto, destinata ad avere valore generale per l’età
giustinianea e per le epoche successive:
C.
4.32.27.1, Iust.: Cursus insuper usurarum ultra duplum minime
procedere concedimus, nec si pignora quaedam pro debito creditori data sint,
quorum occasione quaedam veteres leges et ultra duplum usuras exigi
permittebant.
§
2 Quod et in bonae fidei iudiciis
ceterisque omnibus in quibus usurae exiguntur servari censemus.
La costituzione[26]
non potrebbe essere più esplicita: non si ammettevano eccezioni al fato
che mai si potesse consentire che il debito, a causa degli interessi, potesse
superare il doppio. La disposizione di Giustiniano era stata tassativa e aveva
il massimo di latitudine possibile: concerneva i “cd. interessi
legali”, per i quali il divieto stesso mai era stato sino allora
formulato espressamente dalle fonti[27],
e gli interessi convenzionali ed andava ad intaccare la pur ampia autonomia del
giudicante nei iudicia bonae fidei
(per i quali, attraverso l’officium
iudicis si era dilatata la previsione di somme elevate, a titolo di
interesse[28]).
Essa dava risposta alla
preoccupazione della quale l’Imperatore si era fatto carico già
l’anno precedente, nel 528, quando si era prospettata la necessità
di unificare in una disciplina generale l’ammontare degli interessi:
C.
4.32.26.1: Super usurarum vero
quantitate etiam generalem sanctionem facere necessarium esse duximus, veterem
duram et gravissimam earum molem ad mediocritatem deducentes.
La costituzione[29]
esprime la convinzione che si dovesse intervenire per dare una regolamentazione
generale e limitatrice al corso degli interessi, allo scopo di ricondurlo a
misure modeste, intervenendo sia sulla loro mole sia sulle loro condizioni. Il
motivo della rielaborazione integrale e radicale della disciplina degli
interessi risiedeva nella persistenza di varie eccezioni, che provocavano un
frastagliamento di discipline introdotte da veteres
leges[30].
L’intervento era frutto
di un proposito più ampio, il quale perfezionandosi e prendendo
consapevolezza attraverso provvedimenti su singole situazioni, tra le quali
quella degli interessi aveva assunto rilievi e consistenze cospicue e
finì per sfociare nel
Parliamo qui di una
costituzione che da sola costituisce un intero titolo (il quarto De sententiis, quae pro eo quod interest
proferuntur)
all’interno del libro sette del Codex:
C.
7.47.1pr., Iust.: Cum pro eo quod interest dubitationes
antiquae in infinitum productae sunt, melius nobis visum est huiusmodi
prolixitatem prout possibile est in angustum coartare.
§
1 Sancimus itaque in omnibus casibus,
qui certam habent quantitatem vel naturam, veluti in venditionibus et
locationibus et omnibus contractibus, quod hoc interest dupli quantitatem
minime excedere: in aliis autem casibus, qui incerti esse videntur, iudices,
qui causas dirimendas suscipiunt, per suam subtilitatem requirere, ut, quod re
vera inducitur damnum, hoc reddatur et non ex quibusdam machinationibus et
immodicis perversionibus in circuitus inextricabiles redigatur, ne, dum in
infinitum computatio reducitur, pro sua impossibilitate cadat, cum scimus esse
naturae congruum eas tantummodo poenas exigi, quae cum competenti moderatione
proferuntur vel a legibus certo fine conclusae statuuntur.
§
2 Et hoc non solum in damno, sed etiam
in lucro nostra amplectitur constitutio, quia et ex eo veteres quod interest
statuerunt: et sit omnibus, secundum quod dictum est, finis antiquae
prolixitatis huius constitutionis recitatio.
La costituzione volutamente
isolata in un apposito titolo assume grande risalto e costituisce il punto
terminale della politica a favore dei debitori. Non si limita a fissare il
tetto degli interessi, perché investe l’ammontare del debito nella
sua globalità, sancendo che, quale che ne siano le ragioni addotte dal
creditore, il debitore non dovrà mai essere condannato a dare più
del doppio del debito originario.
In tal modo la protezione del
debitore è realizzata sia con riguardo alla crescita provocata
dall’ammontare degli interessi sia a quella conseguente alle varie
ipotesi di risarcimento eventualmente preteso dal creditore. In tal modo la
prescrizione incide direttamente, limitandoli pesantemente, sui poteri di stima
attribuiti al’‘giudice’.
Si può dire che la
costituzione di C. 7.47.1 era il logico sbocco di un pensiero già
formulato in precedenza e rappresentava l’approdo della politica diretta
al contenimento dei debiti. Vi è la ripresa del pensiero a base della
costituzione del 528 (C. 4.32.26; 1): lo evidenzia la coincidenza di
terminologia presente nelle due costituzioni: la denuncia della veterem duram et gravissimam earum molem
equivaleva alla preoccupazione che ex
quibusdam machinationibus et immodicis perversionibus in circuitus
inextricabiles redigatur, ne, dum in infinitum computatio reducitur e
l’intento di riportare il tutto “ad mediocritatem” corrispondeva all’auspicio “et sit omnibus, secundum quod dictum est,
finis antiquae prolixitatis huius constitutionis recitatio”.
Appare evidente una costante
della legislazione di Giustiniano, espressa in più provvedimenti ma in
termini analoghi: quella di limitare i debiti, imponendo il limite del duplum o, comunque, una drastica
riduzione di essi che avrebbe contribuito a renderli sopportabili, e a ridurre
a poca cosa l’enorme mole di calcoli e discussioni che li avevano fino ad
allora contrassegnati.
Alla base di essa si
può notare una intuizione di grande respiro e di eccelsa sottigliezza
giuridica: la dichiarazione e la consapevolezza che l’eccessiva
gravosità dei debiti non produce soltanto la umiliazione e, spesso, la
rovina dei debitori, ma, contrariamente a quanto potrebbe sembrare, porta alla
caduta del debito. Giustiniano intuì che l’onerosità
eccessiva, di là da un certo limite, non si traduce in un vantaggio del
creditore, bensì in uno svantaggio, perché anziché
rafforzarne la posizione la indebolisce, in quanto sfocia nel dissolvimento
dell’obbligazione. L’Imperatore riteneva che fosse interesse dei
creditori innanzitutto la certezza e la solvibilità dei debiti; i quali,
per corrispondere a siffatti requisiti, non dovevano essere smodati e non
dovevano dar luogo a calcoli e discussioni inestricabili.
La costituzione di C. 4.7.1
è l’indice della maturazione e del completamento delle linee della
politica di Giustiniano, la quale, riguardo ai debiti puntava ad evitare
l’oppressione dei debitore e, soprattutto, a porre le condizioni
perché il commercio potesse svilupparsi realmente e non solo in maniera
fittizia.
Questa conclusione pone la
legislazione di Giustiniano all’avanguardia anche della moderna politica
legislativa, perché scopre e fissa un principio generale la cui
validità va ben di là dal tempo dell’Imperatore ed ancora
oggi costituisce una felice intuizione, che può sicuramente giovare alla
riflessione contemporanea sul debito e sugli interessi.
Essa, nella visione di
Giustiniano, andava anche oltre il campo delle obbligazioni e si radicava in un
criterio di politica legislativa di carattere generale, riguardante ogni campo
del diritto, per il quale valeva il principio che, in realtà, si riesce
ad ottenere solo ciò che sia stabilito con opportuna moderazione:
“scimus esse naturae congruum eas
tantummodo poenas exigi, quae cum competenti moderatione proferuntur”.
Ed è oltremodo
significativo il fatto che Giustiniano giustificasse il criterio enunciato
attraverso un richiamo alla materia delle poenae.
Infatti, è da credere che Giustiniano, con quell’accostamento,
pensasse di annodare la decisione esposta ad un principio indiscusso e
stabilmente radicato e che egli riteneva di potere applicare, di là
dalla materia delle poenae in cui
doveva essere stabilmente affermato, a tutte le richieste di risarcimento di danni:
in tal modo Egli si serviva di un principio indiscusso per trarre partito a
favore del criterio che andava introducendo o definitivamente sancendo.
Riguardo all’uso di poena,
tuttavia, occorre ancora una puntualizzazione, perché il senso
attribuito dall’imperatore a poena non è senz’altro
chiaro. All’interno del Codex il termine corrispondeva ad una
pluralità di significati: vanno dalla pena oggetto delle obbligazioni ex delicto alla pena convenzionale[31]
ed alla pena criminale[32],
ma si trova anche usato per indicare, in termini generali, lo svantaggio che
una parte potesse subire ovvero la conseguenza della perdita della lite[33].
Inclinerei a ritenere che nella costituzione si fosse inteso usare il termine
in un senso, generico e generale; probabilmente ad esso era stato appositamente
lascìato un margine di ambiguità, per poterlo riferire ad ogni
situazione di svantaggio che potesse dar luogo ad una condanna processuale.
Era questo il percorso
compiuto per affermare la necessità di moderare le poenae, secondo un orientamento radicato nel pensiero giuridico[34].
Attraverso quel richiamo, operato in maniera generale in tema di condanna nei
giudizi risarcitorî, si otteneva di estendere ad essi e, quindi, a tutte
le condanne e a tutte le situazioni un principio indiscusso, ma sorto ed
operante in altro ámbito.
Il risultato finale era una
incisiva limitazione del peso attribuibile ai debitori: sia che fossero tenuti
a restituire il capitale e gli interessi, sia che fossero chiamati a dare
l’id quod interest o a pagare poenae, sempre non potevano
essere condannati oltre il doppio dell’oggetto originario del debito:
s’intende quando questo fosse accertabile (in omnibus casibus qui
certam habent quantitatem); negli altri casi si raccomandava moderazione ai
giudici e si faceva affidamento sulla loro sagacia.
L’imperatore chiudeva
dando la massima generalizzazione alla regola esposta, da applicare sia per il
danno sia per le pretese di risarcimento del mancato guadagno.
L’ampiezza della
disposizione era tale che ogni debito non dovesse superare comunque il doppio.
In tal modo la politica
perseguita analiticamente riguardo agli interessi, trovava applicazione per
ogni situazione debitoria, secondo un progressivo e lungimirante percorso
compiuto da Giustiniano, sulla scía della giurisprudenza del Principáto.
La lucida percezione di
Giustiniano ancora oggi ci avverte di quanto siano complicati e spesso
defatiganti e facilmente eludibili i vincoli posti all’ammontare degli
interessi.
Prova ne è
l’infruttuosità delle pur minute leggi dirette a contenere i tassi
d’interesse e a combattere il dilagante fenomeno dell’usura.
Più efficace appare la
limitazione della globalità del debito e l’adeguamento di esso
alle variazioni degli equilibrî e della reciprocità di vantaggio
che all’origine di ogni rapporto obbligatorio, evitando squilibri non
ipotizzati e, spesso, indipendenti dagli stessi contraenti, in base ai quali il
creditore si trova ad avvantaggiarsi oltre il comprensibile e l’equo.
Anche, anzi, specialmente oggi
occorrerebbe una normativa pari a quella di Giustiniano, per ristabilire
l’equità nei rapporti obbligatori e, spesso, ridare
all’obbligazione il contenuto per il quale è nata e che si basa
sulla reciprocità di interesse.
Per raggiungere questo
risultato occorre la ridefinizione di ciò che è
l’obbligazione e una differente tecnica di interpretazione del contratto.
La questione è da tempo
al centro del dibattito dottrinale e, talora dell’impegno dei giudici e
dei propositi dei Parlamenti. Tuttavia i risultati sono di scarsa efficacia sia
a livello internazionale (riguardo al debito estero, che letteralmente
‘uccide’ le popolazioni di alcuni Paesi) sia a livello interno.
Per introdurre elementi di
perequazione e riequilibrio si è ritenuto efficace il ricorso alla buona
fede oggettiva. Si può dire che in tutti i Paesi vi sono stati
interpreti che hanno valorizzato il rinvio alla buona fede, presente nei codici
(in particolare in quelli dell’area ‘latina’)[35],
per perseguire la perequazione tra le prestazioni dei contraenti. Si deve
distinguere, si afferma, l’errore sui motivi, che ha natura soggettiva,
investendo l’errore di valutazione, sulla cosa o sulle circostanze, che
spinsero alla contrattazione e, pertanto concernono solo il momento iniziale[36],
dalle situazioni obiettive che sono a base della ‘equivalenza’ tra
le posizioni delle parti. Questa si configura in modo tale che la sua perdita o
alterazione profonda fa nascere la possibilità della ‘revisione
contrattuale’; s’intende a condizione che il mutamento si traduca
in uno squilibrio di tale ampiezza che ne consegua non tanto
l’impossibilità del compimento del contratto quanto
l’impossibilità del raggiungimento della finalità del contratto,
che è e deve restare di comune interesse. In altre parole si impone di
per sé la revisione del contratto, in rispetto della buona fede
oggettiva, quando il verificarsi di uno squilibrio tra le prestazioni fa
sì che la prestazione di uno dei contraenti sia tanto grande che la
prestazione dell’altro non possa più configurarsi come
‘controprestazione’, sicché viene meno l’interesse
comune all’esecuzione del contratto, perché ormai
l’interesse è di una sola parte[37].
In tutte le prospettazioni la
dottrina ha sinora trovato un limite che pare invalicabile, nella
ineliminabilità degli effetti della pattuizione iniziale per la
regolamentazione successiva del rapporto obbligatorio[38].
Una soluzione radicale
è stata di recente sperimentata dal nuovo codice civile polacco, il
quale, in caso di rilevante modifica del potere di acquisto, per le
obbligazioni in somme di denaro, ha accordato al giudice la facoltà di
modificare l’ammontare della somma dovuta anche se definita per sentenza
o contratto ed, in via più generale, ha riconosciuto il potere del giudice
di riequilibrare le prestazioni, quando una di esse risulti eccessivamente
complicata o gravida di perdite eccessive[39].
Il potere riconosciuto al giudice è, in questi casi, molto ampio e
discrezionale, andando dalla ridefinizione del dovuto allo scioglimento del
rapporto; esso è temperato dal richiamo al rispetto dei principi della
convivenza sociale, che tuttavia possono presentare margini molto ampi di
indeterminatezza. Tanto che, nell’applicazione, le norme hanno suscitato
forti perplessità e c’è già chi ne invoca la
radicale modifica o soppressione, a garanzia della certezza dei rapporti
obbligatori.
Poco dopo anche l’Olanda
ha seguito la stessa strada.
Nel 1992 è stata
introdotta una nuova versione dell’art. 258 del libro sesto del codice
civile olandese, la quale prevede la possibilità di modifica o
risoluzione totale o parziale di un contratto da parte del giudice quando una
parte dimostri che eventi imprevisti ne hanno alterato l’equilibrio a
danno di essa e non appaia né ragionevole né equo che
l’altra parte tragga beneficio dal mutamento della situazione[40].
Il legislatore olandese ha voluto che la richiesta della parte sia presa in
considerazione a prescindere dalla forma con la quale venga avanzata[41]
e che sia riferibile a qualsiasi evento non previsto dal contratto[42]
per il quale sia ingiusta mantenere integro l’obbligo originariamente
previsto[43].
L’articolo del codice
olandese è di carattere generale, poiché a differenza
dell’art. 1467 del codice italiano, non è riferito solo ai
contratti ad esecuzione continuata o differita, bensì per ogni
contratto, rispetto al quale ha funzione correttiva e limitativa o derogativa e
non si propone come clausola integrativa del contratto.
Anche la norma del codice
olandese dà grandi poteri al giudice e si presta alle stesse obiezioni e
perplessità avanzate dalla dottrina e dalla pratica giuridica polacca.
L’esame delle innovative
norme polacca e olandese mi induce a ritenere che, per quanto auspicabile,
almeno per ora, la via legislativa non appare soddisfacente. Essa rischia di
far venir meno la consapevolezza degli obblighi poiché demanda
l’intera valutazione di essi al giudice, ponendolo al centro del processo
di revisione.
Il fatto è che la
delicatezza e la complessità dei problemi causati dalla sopravvenuta sperequazione
nelle prestazioni richiedono soluzioni articolate e basate su criteri che
comunque facciano salva la pattuizione, nel senso che qualsiasi soluzione
finale possa essere ricondotta al concreto della negoziazione. Per la quale vi
è sempre un riferimento non espresso alla normalità degli accadimenti e dei comportamenti.
È tale normalità
il fulcro del contratto e deve essere colta da tutti gli interpreti, siano essi
le parti stesse oppure il giudicante o, meglio, la dottrina.
Mi pare questa la direttrice
nella quale più proficuamente ci si debba muovere.
In questa direzione si muoveva
il giurista Salvio Giuliano. Egli, occupandosi del limite della condanna nei
confronti di un debitore tenuto al risarcimento per evizione, in un frammento
sul quale mi sono soffermato in passato[44],
sosteneva l’ancoraggio del dovuto a ciò che era umanamente prevedibile e la limitazione
dell’obbligo del debitore nei limiti di quella originaria
prevedibilità. Tale limitazione, secondo il giurista, scaturiva
da un principio di carattere generale, che l’interprete doveva sempre
avere presente nelle sue soluzioni. Per Giuliano la contrattazione doveva
sempre essere il punto di riferimento, ma essa doveva essere intesa in modo
dinamico, con riferimento a quanto si sarebbe potuto convenire se le nuove
circostanze fossero state presenti e valutate dai contraenti. Il che, detto in
altre parole, vuol dire che il potere dispositivo (cioè, l’ámbito
di autonomia contrattuale riconosciuta alle parti nel contratto) dei contraenti
agisce e si proietta sulle nuove circostanze, determinando la modifica
dell’assetto degli interessi anche in base ad esse, quando sia di natura
tale che la loro conoscenza non avrebbe dato luogo al contratto nei termini
fissati alla stipula.
Il principio individuato da
Giuliano, che (per dare un nome di approccio immediato ad esso) ho chiamato
della cogitatio, avrebbe il vantaggio
di non far dipendere il riequilibrio solo da eventi straordinari (come è
nella disciplina dell’imprevisione) e di non portare, in assenza del
consenso dell’altra parte, allo scioglimento del contratto; non
auspicabile dal contraente debole, il quale, ad esempio, se ha acceso un mutuo
per mancanza di risorse o di liquidità, non è certo in grado di
restituire le somme avute e, spesso, non può, di conseguenza, avvalersi
della facoltà di trarre vantaggio dal richiamo al mutamento delle
condizioni, per sopravvenienze imprevedibili.
Di recente si è
proposto il rimedio della ‘rinegoziazione’, invocata, ad esempio,
quando il tasso degli interessi a suo tempo pattuiti risulti eccessivamente
alto rispetto alle successive situazioni del ‘mercato’. Essa ha lo
svantaggio di far dipendere la perequazione dal consenso del creditore, che,
come si è visto nell’odierna esperienza, per lo più,
pretende ulteriori ed immotivati oneri (ad esempio, il pagamento di eventuali
penali di uscita dal precedente rapporto); normalmente si applica ai debiti
futuri e non ai pregressi e, comunque, comporta l’estinzione
dell’obbligazione precedente ed la creazione di una nuova obbligazione,
che non è escluso possa diventare a sua volta sperequata.
La cogitatio offrirebbe una soluzione permanente applicabile al
rapporto durante tutto il periodo della sua vita, imponendo il costante
mantenimento dell’equilibrio tra l’assetto degli interessi voluto
dai contraenti.
In questo si distacca dai
richiami, che pur le sono molto vicini, all’applicazione del criterio
della ‘buona fede oggettiva’, con la quale non si pone la domanda
su quale sarebbe la volontà dei contraenti se fossero liberi di
negoziare avendo conoscenza delle nuove e imprevedibili circostanze.
Ci si deve, in realtà,
chiedere se, sulla scorta della cogitatio,
non si debba ritenere aperta una nuova strada in tema di interpretazione dei
contratti, suggerita dal parallelo con quanto comunemente si ammette riguardo
alla legge, vale a dire che l’interpretazione non è
necessariamente legata al momento iniziale, ma può variare nel corso del
tempo in ragione delle circostanze e delle finalità perseguite. In altre
parole: il contratto e l’obbligazione che ne scaturisce vanno sottoposti
ad interpretazione evolutiva.
Oggi mi pare che questa strada
sia da prospettare con urgenza. Essa non è solo un’ipotesi
dottrinale, poiché appare quella imboccata sia dalle ricordate
disposizioni del legislatore polacco sia dal codice civile olandese.
Essa mi pare la logica
conseguenza della circostanza che oggi la maggiore fonte normativa delle
relazioni e degli scambi risieda nei contratti. Mentre mi sembra quasi
singolare che le enunciazioni, inserite in vari codici[45],
sul carattere di ‘legge’ (per i contraenti) del contratto siano
state utilizzate per vincolare le parti al momento genetico della conclusione
del contratto e non anche per applicare al contratto le tecniche interpretative
elaborate per la legge, ivi compresa quella evolutiva, che può portare
al riconoscimento di un contenuto assente o non previsto nel momento della
formazione dell’atto. Riterrei, invece, che il parallelismo con la legge
vada perseguito fino in fondo, trasportando nella materia contrattuale le
tecniche di interpretazione elaborate riguardo alla legge, compresa quella
dell’interpretazione evolutiva.
Mi sembra giunto il momento di
dare spazio anche per i contratti all’interpretazione evolutiva, volta a
mantenere durante la loro vita l’adeguamento tra volontà dei
contraenti e finalità perseguite, in relazione ai reciproci vantaggi
delle parti.
Certo bisogna essere cauti per
evitare che, per mancanza di sicurezza su ciò che potrebbe avvenire nel
futuro, si incorra in una paralisi negoziale, essendo, invece, ovvio che il
contraente deve potere fare affidamento su quanto convenuto. Ma all’uopo
il principio enunciato da Giuliano appare adeguato, in quanto si riferisce ai
soli eventi non prevedibili, anche se non straordinari o eccezionali, ma
oggettivamente non sostenibili da parte del debitore o comunque, secondo
giustizia ed equità, non addossabili a lui.
E va subito ribadito che
l’accoglimento di questo principio presuppone un ruolo pregnante della
dottrina e della giurisprudenza, cui verrebbe affidato il compito di seguire le
variazioni che postulano il riequilibrio delle prestazioni, senza dare adito ad
incertezze e dilazioni pretestuose, ma evitando eccessi ed arricchimenti
immotivati di una delle parti, a causa di eventi rispetto ai quali la parte
avvantaggiata non può vantare particolari ‘ragioni’ per
approfittare dell’imprevisto maggiore guadagno, senza che la parte
svantaggiata abbia nessuna colpa per l’aggravamento della sua posizione
debitoria.
E mi domando anche se non sia
giunto il tempo di dichiarare espressamente la finalizzazione di tutto il
diritto alla persona, così come era stato fatto dai giuristi romani e
codificato da Giustiniano.
*
Comunicazione presentata nel XI Colloquio dei romanisti dell’Europa
Centro-Orientale e dell’Asia “Persona
e popolo nel sistema del diritto romano. Difesa dei diritti civili e difesa dei
debitori. Recezione del diritto romano nel sistema giuridico attuale.
Necessità dell’insegnamento del diritto romano”,
organizzato a Craiova, in Romania, nei giorni 1-3 novembre 2007, dalla
Facoltà di Diritto e Scienze Amministrative “Nicolae
Titulescu” dell’Università di Craiova, in collaborazione con
l’Unità di ricerca
“Giorgio La Pira” del CNR, l’Università di Roma
“La Sapienza” e il Gruppo di ricerca sulla diffusione del diritto
romano.
[1] In
proposito richiamo l’affermazione di Ermogeniano: D. 1.5.2, Hermog. L. 1 iuris epit.: Cum igitur hominum causa omne ius constitutum sit, primo de personarum
statu ac post de ceteris, con la quale guardava retrospettivamente
alla concezione del diritto romano avuta presente nel Principáto. Va
tenuto presente che constitutum ha
una valenza ampia e difficilmente riconducibile ad unità. Tuttavia in
esso può notarsi il significato di ‘fissare’,
‘stabilire’, con una proiezione verso l’indicazione di quello
che è frutto di ‘convenzione’ ovvero dello ‘stabilire
insieme’, che era forse il suo significato «primitivo e mai
dismesso» e sembra affermato nel 2° sec. d.C. dove è riscontrabile
nei ‘commentarii’ di Gaio e nell’enchiridion di Pomponio: sul
punto v. V. Giodice Sabbatelli,
“Constituere”. Dato semantico
e valore giuridico, in Labeo 27, 1981, 338 ss. e Il catalogo degli iura e constituere nel
proemio delle istituzioni gaiane, in Il
linguaggio dei giuristi romani - Atti del convegno internazionale di studi
- Lecce, 5-6 dicembre 1994, [cur. Orazio Bianco e Sebastiano Tafaro], Galatina 2000, 113 ss. Questo mi spinge a
pensare che Ermogeniano volesse dire che la centralità della persona era
un punto fermo ed era stata concordemente accettata nel corso
dell’evoluzione dell’esperienza giuridica romana. Devo però
osservare che forse nel linguaggio dei giuristi a partire dall’età
dei Severi constitutum potrebbe avere
assunto un significato più ristretto e specifico perché potrebbe
essere stato adoperato solo per indicare ciò che era stato deciso dalle
costituzioni imperiali. Ulpiano adoperava il termine constitutum forse solo con riguardo agli edicta: v. T. Honoré,
Ulpian, Oxford 1982, 239 (Ulp. D.
3.2.13.7, dove il giurista con constitutum
distingue le costituzioni del Principe rispetto alle decisioni dei prudentes, indicate con responsum), 241 (Ulp. D. 40.5.26.1, Ulp.
D. 49.14.25, Ulp. D. 29.7.1). Per parte mia osservo che una breve scorsa delle
fonti ulpianee mostrano che sempre il giurista quando adoperava constitutum intendeva richiamare norme
introdotte da costituzioni imperiale: cfr. Ulp. D. 2.4.10.4; Ulp. D. 2.13.4.5;
Ulp. D. 3.2.13.7; Ulp. D. 3.3.39.1; Ulp. D. 3.6.5; Ulp. D. 4.1.6; Ulp. D.
4.4.3.1; D. 4.4.22; Ulp. D. 4.6.26.9; Ulp. D. 4.9.1.1; Ulp. D. 5.2.29; Ulp. D.
11.7.6; Ulp. D. 13.6.5.2; Ulp. D. 13.7.11.6; Ulp. D. 16.2.11; Ulp. D. 16.2.12;
Ulp. D. 17.1.12.9; Ulp. D. 22.1.37; Ulp. D. 26.7.1.1; Ulp. D. 27.3.1.13; Ulp. D.
28.3.6.8; Ulp. D. 28.3.6.10; Ulp. D. 29.7.1; Ulp. D. 30.41.5; Ulp. D. 40.4.9.1;
Ulp. D. 40.5.24.21; Ulp. D. 40.5.26pr.; Ulp. D. 40.5.26.1; Ulp. D. 42.1.15.4;
Ulp. D. 42.8.10.13; Ulp. D. 42.8.10.14; Ulp. D. 43.4.3.1; Ulp. D. 46.3.5.2;
Ulp. D. 47.2.14.4; Ulp. D. 48.1.5.1; Ulp. D. 48.5.20; Ulp. D. 48.8.4.2; Ulp. D.
48.18.1.9; Ulp. D. 48.22.7.15; Ulp. D. 49.7.1.4; Ulp. D. 49.14.25; Ulp. D.
49.14.28; Ulp. D. 49.14.29; Ulp. D. 50.4.8; Ulp. D. 50.12.3. Anche nei tre soli
frammenti di Ermogeniano che, oltre il nostro passo di D. 1.5.2, adoperavano il
termine constitutum, sembra chiaro il
riferimento agli interventi degli imperatori: Hermog. D. 40.1.24.1, D. 44.3.13,
D. 49.14.46.5. Per due volte il tardo giurista diceva saepe constitutum est (D. 40.1.24.1, Hermog. 1 iuris epit.: Sed et si testes
non dispari numero tam pro libertate quam contra libertatem dixerint, pro
libertate pronuntiandum esse saepe constitutum est; D. 49.14.46.5, Hermog.
6 iuris epit.: Ut debitoribus fisci quod fiscus debet compensetur, saepe constitutum
est: excepta causa tributoria et stipendiorum, item pretio rei a fisco emptae
et quod ex causa annonaria debetur), orbene l’espressione sembra
usata esclusivamente dai giuristi severiani (Macer D. 42.1.63, Ulp. D.
14.6.3.1). Ulpiano era l’unico ad adoperare l’aggettivo al
superlativo (saepissime constitutum):
v. Ulp. D. 4.1.6, D. 4.6.26.9, D. 11.7.6, D. 14.6.3.1, D. 28.3.6.8, D.
40.5.24.1, D. 42.8.10.13, D. 42.8.10.14). Di conseguenza sembra verosimile la
derivazione del linguaggio di Ermogeniano da quello dei giuristi severiani.
[2] Val la
pena sottolineare che i romani sottolinearono la gravità della
situazione dei debitori, per i quali, ancora al tempo di Cicerone, parlarono di
“morte civile”, ipotizzando per essi la celebrazione di un
“funerale al contrario”: v. G.
Purpura, La pubblica
rappresentazione dell'insolvenza. Procedure esecutive personali e patrimoniali
al tempo di Cicerone, in Archaeogate, 23-05-2007 – riv.
Elettronica.
[3] Nuove
prospettive sono enunciate da F.
Fasolino, Studi sulle usurae, Salerno 2006, partic. 13 ss. In
questa sede rinvio all’interessante ricerca dello studioso campano.
[5] Le
circostanze e le finalità dell’editto, occasionato da prestito ai
Salamini sono evidenziate da F.
Fasolino, Studi sulle usurae cit., 35, dove l’a. ricorda
anche Cic., Ad Att. 5.21.12; 6.1.5; 6.2.7; 6.3.5 che chiaramente
dimostrano che l’Arpinate «non solo ben conosce la pratica
dell’anatocismo ma espressamente la contempla e la consente nel suo
editto provinciale».
[6] Plut.,
Lucullus 20.3; cfr. L. Solidoro,
Sulla disciplina degli interessi
convenzionali nell’età imperiale, in L’usura ieri ed
oggi [cur. S. Tafaro], Bari
1997, 180 ed ivi nt. 7.
[7] V. L. Solidoro, Sulla disciplina degli interessi convenzionali nell’età
imperiale cit., 180 ed ivi nt. 8.
[9] In
realtà, poiché Costantino aveva introdotto la siliqua,
sotto di lui il tasso dell’interesse passò al 12,5%: in proposito,
v. F. Fasolino, Studi sulle usurae
cit., 166.
[11] In tal
senso L. Solidoro, Sulla disciplina degli interessi convenzionali
nell’età imperiale cit., 187.
[14]
Così L. Solidoro, Sulla disciplina degli interessi
convenzionali nell’età imperiale cit., 188 ss.
[17] L. Solidoro, Sulla disciplina degli interessi convenzionali nell’età
imperiale cit., 197 s. Da ultimo F.
Fasolino, Studi sulle usurae cit., 57 ss. ed ivi nt. 106.
[18] C.
1.14.5., Theod. et Valent. AA. Florentio PP.: Non dubium est in legem
committere eum, qui verba legis amplexus contra legis nititur voluntatem: nec
poenas insertas legibus evitabit, qui se contra iuris sententiam scaeva
praerogativa verborum fraudulenter excusat. Nullum enim pactum, nullam
conventionem, nullum contractum inter eos videri volumus subsecutum, qui
contrahunt lege contrahere prohibente.
[20] Su di
essi e sulla bibliografia più recente che li concerne rinvio a F. Fasolino, Studi sulle usurae
cit., part. 56 s.
[21] Riguardo
alla portata della costituzione di Diocleziano la dottrina ne ha discusso la
portata collegandola alla comminazione dell’infamia prevista dallo
stesso Imperatore, in una costituzione del 290: C. 2.11.20, Impp. Diocl. et
Maxim. AA. Fortunato: Improbum fenus exercentibus et usuras usurarum illicite
exigentibus infamiae macula inroganda est, v. F. Fasolino, Studi sulle usurae cit., 61 ss.
[22] V. G. Cervenca, Sul divieto delle cd. “usurae supra duplum” cit., 300
alla nt. 3, il quale ricorda che del provvedimento di Lucullo parla Plutarco (Luc. 20.3) come di un intervento per
alleviare la condizione degli abitanti dell’Asia minore «oppressi
dalle pretese degli usurai», che doveva trovare una solida radice nel
diritto delle Province, per il quale Diodoro Siculo menzionava un precedente
dell’antico diritto egiziano, risalente sino all’VIII secolo a.C.
[23] Al riguardo il T. Mommsen, Römische Geschichte III8, 1856, 537, aveva
ipotizzato l’introduzione in Roma attraverso un provvedimento di Cesare,
del quale però mancano le prove: v. le riflessioni svolte dalla Solidoro, Sulla disciplina degli interessi convenzionali nell’età
imperiale cit., che richiama le considerazioni di P. Piazza, “Tabulae novae”. Osservazioni sul problema dei debiti negli
ultimi decenni della Repubblica, in
Atti del II Sem. rom. Gardesano,
1980, 39 ss., spec. 91 ss. Cautela circa i tempi di recepimento in Roma
suggerisce la natura straordinaria e transitoria del provvedimento di Lucullo,
anche se non è affatto scontato che il divieto del doppio sia entrato in
Roma come conseguenza della prassi diffusasi nelle province e non sia avvenuto
piuttosto il contrario e cioè «che sia stato invece il governatore
Lucullo ad ispirarsi ad una norma romana»: sul punto v. L. Solidoro, “Ultra sortis summam usurae non exiguntur” cit., 169.
[24] Per la
documentazione completa rinvio ai citati contributi del Cervenca e della
Solidoro ed alla letteratura da essi discussa. Ricordo che fondamentale
è il citato frammento di Ulpiano di D. 12.6.26.1. La portata del divieto,
che in un primo tempo doveva aver riguardato le usurae legali, è discussa: secondo il Cervenca, al tempo di
Ulpiano, avrebbe sancito la nullità di ogni stipulazione oltre il
doppio, mentre
[25]
L’intervento degli Imperatori, a datare da una costituzione di Antonino
Caracalla (C. 4.32.10 Imp. Ant. a. Crato et Donato militi: Usurae per
tempora solutae non proficiunt ad dupli computationem. tunc enim ultra sortis
summam usurae non exiguntur, quotiens tempore solutionis summa usurarum excedit
eam computationem), rivela una costante preoccupazione di tenere a freno
l’ammontare degli interessi, cfr., sul punto, G. Cervenca, Sul divieto
delle cd. “usurae supra duplum” cit., 292 s. e L. Solidoro, “Ultra sortis summam usurae non exiguntur” cit., 164
ss. L’emanazione, da parte degli Imperatori, di costituzioni miranti a
tenere a freno il tasso degli interessi e, comunque, a limitare il debito a non
più del doppio si seguono sino al Codice Teodosiano, che racchiudeva una
significativa costituzione del 380, la quale porta il nome degli Imperatori
Graziano, Valentiniano II e Teodosio I: CTh. 4.19.1 Imp. Grat. Val. et Theod. AAA. Eutropio pp.: ... Distinguendum vero hoc quoque arbitrati sumus, ut, si contractus
debiti ex stipulatione descendit et casu usurae per annorum curricula summam capitis
impleverint, scilicet ut quantitas sortis quantitati fenoris adaequetur, post
sententiam usurae duplices non utriusque debiti currant, sed capitis quidem
duplae, usurarum vero simplae. La tendenza espressa dalla costituzione del
IV secolo, che probabilmente fu emanata dal solo Teodosio a Tessalonica (cfr.,
G. Cervenca, Sul divieto delle cd. “usurae supra duplum” cit., 301,
il quale sul punto segue le opinioni di Mommsen-Meyer, del Seek e del de
Dominicis) era di estremo rigore, come dimostra la interpretatio visigotica: Int.
CTH. 4.19.1: ... Hoc quoque
praecipimus observari, ut, si debitoris cautio cum omni firmitate proferantur
et usurae per annos plures cum capitali debito se aequaverint, a debitore
amplius non petatur. Sane post iudicium duplam centesimam, quam reddi iussimus,
de illud vero, quod in usuris ante iudicium crevit, simpla tantum centesima
detur. La interpretatio visigotica
chiarisce la portata della costituzione, che, anche se non lo diceva
espressamente, presupponeva l’esistenza del divieto degli interessi ultra duplum; infatti l’interpretatio visigotica non si limitava
alla sola parafrasi della costituzione, ma si premurava di «proclamare
apertamente un principio non enunciato dalla costituzione commentata»,
come, sulla scorta della lettura del Gotofredo, ha osservato il G. Cervenca, Sul divieto delle cd. “usurae supra duplum” cit., 293;
al quale, così come al lavoro della Solidoro citato, rinvio per la
disamina di altri provvedimenti collegati a quelli riportati e per il loro
significato. Mi limito a notare che la turbolenza degli avvenimenti militari e
politici degli anni ai quali appartengono gli interventi imperiali citati
difficilmente avrebbe potuto dar luogo a disposizioni innovative, il cui
contenuto non fosse già nella consapevolezza dei contemporanei,
rielaborata dalla scienza giuridica del tempo, in massima parte espressa dalla
Cancelleria imperiale.
[28] Sul
punto rinvio al G. Cervenca, Sul divieto delle cd. “usurae supra
duplum” cit., 296 s. ed ivi le ntt. 29 e 30, dove viene richiamata la
precedente bibliografia, con particolare riguardo al Fadda e al Carcaterra.
[30]
L’Imperatore non diceva quali fossero le menzionate quaedam veteres leges perché voleva evitare di diffondersi
su una casistica che potesse risultare anche lacunosa; con la dizione prescelta
nessuna eccezione precedente poteva essere ancora ammessa. Tra queste vanno
annoverate quelle relative al prestito marittimo ed alle consuetudini locali,
largamente ammesse durante il Principáto, come lo stesso Giustiniano ed
i giuristi classici ci attestano: Inst. I.4.6.33c: ... sed et pecuniae numeratae non in omnibus
regionibus sub isdem usuris fenerantur (sul punto v. L. Solidoro, Sulla disciplina degli interessi convenzionali nell’età
imperiale cit., 177 ss., dove vengono puntualmente riprodotte le menzioni
alla specificità dei tassi di interesse praticati nelle singole regioni
da parte di Gaio, Cervidio Scevola, Papiniano, Paolo ed Ulpiano). Proprio su
tali eccezioni, precedentemente molto praticate, erano state vietate da
Giustiniano già l’anno prima: C. 4.32.26.2-3: Ideoque iubemus illustribus quidem personis sive eas praecedentibus
minime licere ultra tertiam partem centesimae usurarum in quocumque contractu
vili vel maximo stipulari: illos vero, qui ergasteriis praesunt vel aliquam
licitam negotiationem gerunt, usque ad bessem centesimae suam stipulationem
moderari: in traiecticiis autem contractibus vel specierum fenori dationibus
usque ad centesimam tantummodo licere stipulari nec eam excedere, licet
veteribus legibus hoc erat concessum: ceteros autem omnes homines dimidiam
tantummodo centesimae usurarum posse stipulari et eam quantitatem usurarum
etiam in aliis omnibus casibus nullo modo ampliari, in quibus citra
stipulationem usurae exigi solent. 3
Nec liceat iudici memoratam augere taxationem occasione consuetudinis in
regione obtinentis.
[31] Il M. Talamanca, ed
xxxii, 1982, v. Pena privata (dir.
rom), 732 ed ivi nt. 173 mette in
evidenza l’uso ambivalente di poena
per «significare sia la pena convenzionale sia la pena oggetto delle obligationes ex delicto e delle actiones poenales» fin
dall’età dei Severi, da parte di Papiniano.
[32] Da
questa, come dai iudicia bonae fidei,
sembra mutuato il richiamo al compito dei giudici chiamati a valutare con
prudente moderazione ogni richiesta sottoposta alla loro attenzione: in
proposito si tenga presente la discrezionalità dei giudici chiamati alla
comminazione della pena criminale, ma con frequenti richiami da parte degli
Imperatori affinché nelle loro decisioni usassero prudente moderazione:
cfr. F. M. De Robertis, Arbitrium iudicantis e statuizioni
imperiali. Pena discrezionale e pena fissa nella cognitio extra ordinem, zss ix, 1939, 219 ss.; E. Levy,
Gesetz und Richter im kaiserlichen
Strafrecht. I, bidr,
1938, 95 ss.; B. Santalucia, ed
xxxii, 1982, v. Pena criminale
(dir. rom.), 738 s.
[33] Tra
gli esempi che si possono citare, mi limito a ricordare quelli, che a me paiono
più significativi, di C. 2.25.5 e 6, C. 3.7.13.2b, 2c e 6, C. 4.21.21.3,
C. 4.34.12, C. 5.17.1b, C. 5.51.13.3, C. 6.29.4.1, C. 6.40.2, C. 6.41.1pr., C.
8.36, 8.37.12, C. 8.40.6, 3,5,6,7. Certo sarebbe interessante un’analisi
articolata del termine poena, per
evidenziarne le contiguità e le diversità rispetto all’uso
che ne facevano i giuristi del Principáto; per essa rinvio ad altro
momento.
[34]
Già Papiniano aveva affermato che non si poteva costringere a prestare
quanto andasse oltre l’interesse leso, dimostrando una tendenza a
limitare la ‘pena’ a quel che fosse ritenuto strettamente
necessario: D. 18.7.7 Pap. 10 quaest.:
Servus ea lege veniit, ne in Italia
esset: quod si aliter factum esset, convenit citra stipulationem, ut poenam
praestaret emptor. Vix est, ut eo nomine vindictae ratione venditor agere
possit, acturus utiliter, si non servata lege in poenam quam alii promisit
inciderit. Huic consequens erit, ut hactenus agere possit, quatenus alii
praestare cogitur: quidquid enim excedit, poena, non rei persecutio est. Quod
si, ne poenae causa exportaretur, convenit, etiam affectionis ratione recte
agetur. Nec videntur haec inter se contraria esse, cum beneficio adfici hominem
intersit hominis: enimvero poenae non inrogatae indignatio solam duritiam
continet.
[35] Ad
esempio nel Cod. civ. spagnolo all’ art. 7: 1. Los
derechos deberán ejercitarse conforme a las exigencias de la buena fe. Da ultimo sottolineo il rilievo dato alla buona fede dal
codice civile del Chile, che all’art. 1546 recita: «Los contratos
deben ejecutarse de buena fe por conseguiente obligan no sólo a lo que
en ellos se expresa sino a todas las cosas que emanan precisamente de la naturaleza
de la obligación, o que por ley o la costumbre pertenecen a ella».
[36] Errore
sulla sostanza della cosa o sulle condizioni che principalmente spinsero a
contrarre il contratto, secondo l’art.
[37] V. Larenz,
Base del negocio juridico y cumplimiento
de los contratos, tr. Española, Madrid 1956.
[38] V.A. Cervini, Mutui in valuta e rischio di cambio fra realità e
presupposizione, Riv. Giust.
Civ., 1996, II, 328 ss. Il pensiero della dottrina tradizionale era lucidamente
riassunto dal Borda, Tratado de derecho civil, obligaciones I5,
135 s.: «Nuevamente la teoría de la imprevisión
cobró vigencia, no sin vencer resistencias. Éstas han provenido
sobre todo de los juristas de cuño liberal, cuyas objeciones pueden
sintetizarse de la siguiente manera: a) El contrato es, sobre todo, un acto de
previsión; quien celebra un contrato de tracto sucesivo o de
ejecución diferitda se propone precisamente asegurarse contra todo
cambio; y resulta que esta previsión, que ha estado en el alm del
contrato, y en la intención de las partes, quedaría luego
frustrada por la aplicación de esta teoria; b) Los pactos se hacen para
ser cumplidos; toda teoría que conduzca a apartarse de esta regla
introduce un factor de inseguridad e inestabilidad en las relaciones juridicas;
c) En el cumplimiento estricto de los contratos no hay solamente una
cuestión jurídica, sino también moral; el respeto de la
palabra empeñada es una cuestión de honor; d) La teoría de
la imprevisión otorga al juez facultades exclusivas y peligrosas y abre
las puerta a un intervencionismo estatal que debilita progresivamente el
principio de la autonomia de la voluntad».
[39] Il
nuovo art. 358 del Codice civile (Novella al Codice Civile del 28 luglio 1990 -
Dziennik Ustaw, Gazzeta Ufficiale 1990, N° 55, posizione 321. Le altre
novelle, negli anni successivi, hanno cambiato profondamente il Codice civile
del 1964) introduce i principi seguenti:
§1. Se oggetto
dell'obbligazione nel momento del suo costituirsi è una somma di denaro,
la prestazione viene eseguita a seguito del pagamento della somma nominale, a
meno che le norme non statuiscano diversamente.
§2. Le parti possono
stipulare nel contratto che l'ammontare della prestazione in denaro
verrà definita secondo un metro di valore diverso dal denaro.
§3. In caso di rilevante
modifica del potere d'acquisto dopo il costituirsi dell'obbligazione, la corte
può, ponderati gli interessi di ambo le parti, rispettando i principi
della convivenza sociale, modificare l'ammontare o il modo di eseguire la
prestazione in denaro, anche se queste fossero state definite per sentenza o
contratto.
§4. L'esigenza di
modificare l'ammontare o il modo di eseguire una prestazione pecuniaria non
può essere avanzata dalla parte che gestisce un impresa, se tale
prestazione è legata alla gestione di tale impresa.
§5. Le norme di cui al
§§ 1 2 e 3 non contrastano con le norme che regolamentano l'ammontare
di prezzi e altre prestazioni pecuniarie.
§ 1 Se a seguito di
una modifica straordinaria dei rapporti, l'esecuzione della prestazione
risultasse eccessivamente complicata ovvero gravida di perdite esorbitanti per
una delle parti, senza che le parti l'avessero prevista nel momento della
stipulazione del contratto, la corte può, considerati gli interessi
delle parti, in conformità con i principi della convivenza sociale,
determinare il modo in cui l'obbligazione debba essere eseguita, l'ammontare
della prestazione ed anche dichiarare sciolto il contratto. Sciogliendo un
contratto, la corte può, se necessario, pronunciarsi sulle prestazioni
reciproche, in conformità ai principi suddetti.
[40] Art.
6:258 : 1. De rechter kan op verlangen van een der partijen de gevolgen van een
overeenkomst wijzigen of deze geheel of gedeeltelijk ontbinden op grond van onvoorziene
omstandigheden welke van dien aard zijn dat de wederpartij naar maatstaven van
redelijkheid en billijkheid ongewijzigde instandhouding van de overeenkomst
niet mag verwachten. Aan de wijziging of
ontbinding kan terugwerkende kracht worden verleend. 2. Een wijziging of
ontbinding wordt niet uitgesproken, veer zover de omstandigheden krachtens de
aard van de overeenkomst of de in het verkeer geldende opvattingen voor
rekening komen van degene die zich erop beroept. 3. Voor de toepassing van dit
artikel staat degene op wie een recht of een verplichting uit een overeenkomst
is overgegaan, met een partij bij die overeenkomst gelijk.
(Tr.: 1. Il giudice a desiderio di una delle parti
può modificare oppure risolvere interamente o parzialmente gli effetti di
un contratto a causa del verificarsi di eventi imprevisti che sono tali che la
controparte secondo regole di ragionevolezza ed equità non possa
aspettarsi un mantenimento invariato del contratto. La modificazione o la
risoluzione può avere effetto retroattivo. 2. La modificazione o la risoluzione non può essere rinunciata pur
quando gli eventi secondo il carattere del contratto oppure le concezioni
valenti attuali rientrano nell'alea della parte che desidera la modificazione o
la risoluzione del contratto. 3. Ai
fini dell’applicazione di questo articolo è equiparata alla parte
di un contratto, colui al quale è trasmesso un diritto od una
obbligazione del contratto).
[42] In tal
senso va inteso il riferimento ad eventi ‘imprevisti’, il quale, per l’appunto, significa
‘eventi non indicati o comunque previsti nel contratto’.
[44] Buona fede ed equilibrio degli interessi nei
contratti, in Il ruolo della buona
fede oggettiva nell'esperienza giuridica storica e contemporanea – in
Atti del Convegno internazionale
di studi in onore di Alberto Burdese, vol. III, Padova 2003, 567-608.