ds_gen N. 6 – 2007 – Tradizione Romana

 

tafaro-piccola.pngSebastiano Tafaro

Preside II Facoltà di Giurisprudenza

Università di Bari con sede in Taranto

 

La limitazione dei debiti*

 

 

Sommario: 1. Premessa. – 2. Limitazione degli interessi. – 3. Usurae supra modum. – 4. Limite del duplum. – 5. Limite generale posto da Giustiniano. – 6. Interpretazione evolutiva dell’ammontare del debito.

 

1. – Premessa

 

La condizione dei debitori, schiacciati da crediti insopportabili e da interessi che spesso si trasformavano in immotivato moltiplicatore del contenuto dell’obbligazione hanno costituito una costante fonte di tensioni sociali spesso sfocianti in richieste politiche pressanti.

Questo fin dagli inizi dalla storia di Roma, come dimostra la circostanza che nella lotta tra patriziato e plebe la questione dei debiti e degli interessi era sempre presente e spesso persino al centro delle rivendicazioni della plebe.

Il diritto romano deve registrare numerosi tentativi di porre rimedio alle conseguenze dell’eccessiva onerosità dei debiti.

Le strade seguite sono state due:

 

1.          interventi sull’ammontare degli interessi, compresa la proibizione dell’anatocismo;

2.          limitazione dell’ammontare globale del debito.

 

In questa sede intendo soffermarmi brevemente su di esse, a partire dall’ultima Repubblica, rivisitando alcune fonti che ci consentono di avere uno spaccato della politica normativa romana sulla penosa questione. Con il che non pretendo di affrontare il punto nella sua globalità, ma solo porre l’accento su alcune fonti che mi paiono indicative degli sforzi compiuti nel diritto romano (il quale, va sempre ricordato, era dichiarato diritto creato in funzione degli uomini[1]) per evitare che i debitori fossero schiacciati dal peso dei debiti[2].

 

2. – Limitazione degli interessi

 

Non mi soffermo, se non per incidens, sull’anatocismo e sulla sua complessa e non sempre uniforme regolamentazione, così come sulla sua proibizione, che si suole far risalire all’età repubblicana e certamente era vigente in età severiana[3].

Parto da un dato che mi sembra ormai pacifico nella romanistica. Alla fine dell’età repubblicana era stabilito un tetto massimo per gli interessi del 12% su base annua[4]. Tale limite pare nato nelle province, dove fu previsto dagli editti dei governatori. In tal senso abbiamo alcune attestazioni di Cicerone e Plutarco. Il primo dice che durante il governo della Cilicia (51 a.C.) inserì nell’editto tralatizio da lui emanato per quella provincia il limite della centesima:

 

Cic., Ad Atticum 5.21.11: Interim cum ego in edicto translaticio centesimas me observaturum haberem cum anatocismo anniversario ...[5].

 

Plutarco riferisce che già nel 70 a.C. Lucullo aveva preceduto il provvedimento di Cicerone, inserendo il limite della centesima nell’editto da lui emanato per la provincia dell’Asia minore, vietando severamente anche l’anatocismo, invece ammesso da Cicerone[6]. Fu sulla base di siffatti precedenti che un senatoconsulto, nel 51 a.C., introdusse anche in Roma il divieto di usurae oltre il 12% e, pare, ripropose il divieto dell’anatocismo[7]:

 

Cic., Ad Atticum 5.21.13: .... Cum senatus consultum modo factum sit, puto, postquam tu es profectus, in creditorem causa, ut centesimae perpetuo fenore ducerentur.

 

Il limite del 12% pare rimasto in vigore per tutto il Principáto: ne sono conferma un rescritto di Diocleziano ed un provvedimento di Costantino:

 

C. 4.2.8, Imp. Diocl. et Maxim. AA et CC. Proculo: Si pro mutua pecunia, quam a creditore poscebas, argentum vel iumenta vel alias species utriusque consensu aestimatas accepisti, dato auro pignori, licet ultra unam centesimam usuras stipulanti spopondisti, tamen sors, quae aestimatione partium placito definita est, et usurarum titulo legitima tantum recte petitur. Nec quicquam tibi prodesse potest, quod minoris esse pretii pignus quod dedisti proponis, quominus huius quantitatis solutioni pareas.

 

CTh. 2.33.1, Imp. Constantinus A. ad Dracilianum agentem vices PP.: Quicumque fruges  humidas vel arentes indigentibus mutuas dederint, usurae nomine tertiam partem superfluam consequantur, id est ut, si summa crediti in duobus modiis fuerit, tertium modium amplius consequantur. Quod si conventus creditor propter commodum usurarum debitum recipere noluerit, non solum usuris, sed etiam debiti quantitate privandus est. Quae lex ad solas pertinet fruges: nam pro pecunia ultra singulas centesimas creditor vetatur accipere.

 

La costituzione di Diocleziano per essere un rescritto doveva confermare il diritto precedente riaffermandone la validità. Essa, pertanto, documenta l’esistenza di una pregressa normazione in tal senso, che veniva sancita definitivamente[8].

La costituzione di Costantino[9] presenta alcuni aspetti di novità. Infatti fa riferimento ai crediti pecuniari ed a quelli di derrate. Per i primi ribadisce il divieto delle usure superiori al 12%, per i secondi stabilisce il limite di 1/3 superfluo in più, facendo in modo che il creditore potesse conseguire il 50% in più delle derrate date in prestito. La prescrizione veniva corroborata dalla severa sanzione della totale perdita sia delle usure sia del capitale, in caso di inosservanza del limite. Alcuni autori vi hanno scorto un’influenza del cristianesimo, della quale sarebbe indicativo il riferimento agli indigentes[10]. Ma, in contrario, è stato osservato che la costituzione sarebbe andata in direzione opposta a quella di un trattamento più favorevole ai debitori, poiché l’introduzione del riferimento agli indigentes in ultima istanza comportava un’ulteriore limitazione delle categorie ai quali applicare il limite del 50%: non tutti i debitori, ma solo gli indigentes[11].

Certo sembra che il limite delle usurae al 12% pare rimasto invariato sino a Giustiniano.

Ad esso si affiancò anche un’altra regola: quella che esigeva che comunque mai il debitore potesse essere gravato in misura superiore all’ammontare del doppio del capitale, poiché vi era il divieto di riscuotere usurae ultra duplum ovvero supra duplum (usurae ultra sortis summam). La limitazione concerneva sia gli interessi legali[12] sia quelli pattizi[13].

Accanto a queste limitazioni vanno ricordati alcuni divieti di usurae.

Nella Storia Augusta, un passo della vita di Alessandro Severo, dice che l’imperatore dapprima vietò ai senatori di dare denaro ad interesse, ma consentendo di ricevere qualcosa in dono per il prestito effettuato, poi preferì eliminare i doni, consentendo però la percezione di un interesse del 6%:

 

SHA, vita Alex. 26.3: Senatores, si fenerarentur, usuras accipere primo vetuit, nisi aliquid muneris causa acciperent; postea tamen iussit ut semisses acciperent, donum munus tamen sustulit.

 

Il racconto della Storia Augusta pare trovare riscontro in un riferimento di Giovanni Crisostomo e pare confermato in costituzioni del Codice Teodosiano[14].

 

3. – Usurae supra modum

 

Individuato il limite delle usurae si poneva il problema di come reprimere gli interessi che lo avessero disatteso.

La disciplina era difficile da stabilire e presenta soluzioni varie.

Secondo autorevole dottrina[15] la repressione di eventuali stipulazioni che eccedessero i limiti sarebbe stata perseguita attraverso la dichiarazione di nullità della stipulazione. In tal senso deporrebbero un frammento di Ulpiano, inserito in un quadro normativante affermatosi con i giuristi dell’età dei Severi[16], dove si afferma, sembrerebbe in modo tassativo, che gli interessi oltre il limite non possono essere dedotti in obbligazione né essere esatti:

 

D. 12.6.26.1, Ulp. 26 ad ed.: Supra duplum autem usurae et usurarum usurae nec in stipulatum deduci nec exigi possunt et solutae repetuntur, quemadmodum futurarum usurarum usurae.

 

Altri, invece, ritiene che il passo di Ulpiano non affermasse la nullità della stipulazione, consentendo comunque l’esazione delle usurae supra legitimum modum nella parte corrispondente alla misura consentita: ciò vuoi in applicazione del principio di economia, che operava la conversione dell’atto viziato, dove fosse possibile di utilizzarlo ameno in parte, in connessione del criterio utile per inutilem non vitiatur [17].

In ogni caso la nullità delle stipulazioni comprendenti usurae illicitae fu sancita durante il Dominato: ne fa fede una costituzione del 439, nella quale si afferma tassativamente “... Nullum enim pactum, nullam conventionem, nullum contractum inter eos videri volumus subsecutum, qui contrahunt lege contrahere prohibente[18].

Vi sono, poi, nella giurisprudenza dei Severi indicazioni precise sul fatto che «gli interessi pagati illegalmente vanno imputati al capitale e, una volta esaurito quest’ultimo, devono essere restituiti al debitore»[19]. Ne sono prova quanto lo stesso Ulpiano diceva in apertura del frammento di D. 12.6. 26.1 e le Pauli Sententiae:

 

D. 12.6.26pr., Ulp. 26 ad ed.: Si non sortem quis, sed usuras indebitas solvit, repetere non poterit, si sortis debitae solvit: sed si supra legitimum modum solvit, divus Severus rescripsit quo iure utimur repeti quidem non posse, sed sorti imputandum et, si postea sortem solvit, sortem quasi indebitam repeti posse. Proinde et si ante sors fuerit soluta, usurae supra legitimum modum solutae quasi sors indebita repetuntur. Quid si simul solverit? Poterit dici et tunc repetitionem locum habere.

 

PS. 2.14.2: Usurae supra centesimam solutae sortem minuunt, consumpta sorte repeti possunt.

 

Traspare dalle fonti del Principáto la tendenza a salvare le eventuali stipulazioni per la parte che non eccedesse il limite previsto. In proposito vi sono molte testimonianze, che partono da Papiniano:

 

D. 22.1.9pr., Pap. 11 resp.: Pecuniae faenebris, intra diem certum debito non soluto, dupli stipulatum in altero tanto supra modum legitimae usurae respondi non tenere: quare pro modo cuiuscumque temporis superfluo detracto stipulatio vires habebit.

 

D. 22.1.17pr., Paul. l.s. de usur.: Cum quidam cavisset se quotannis quincunces usuras praestaturum et, si quo anno non solvisset, tunc totius pecuniae ex die qua mutuatus est semisses soluturum, et redditis per aliquot annos usuris mox stipulatio commissa esset, divus Marcus Fortunato ita rescripsit: "praesidem provinciae adi, qui stipulationem, de cuius iniquitate questus est, ad modum iustae exactionis rediget". Haec constitutio ad finitum modum excedit: quid ergo? Sic temperanda res est, ut in futurum dumtaxat ex die cessationis crescat usura.

 

D. 22.1.20, Paul. 12 ad Sab.: Usuras illicitas sorti mixtas ipsas tantum non deberi constat, ceterum sortem non vitiare.

 

D. 22.1.29, Marcian. 14 inst.: Placuit, sive supra statutum modum quis usuras stipulatus fuerit sive usurarum usuras, quod illicite adiectum est pro non adiecto haberi et licitas peti posse.

 

I brani sembrano univoci[20]. Papiniano e Marciano affermavano la nullità della stipulazione di usurae supra modum soltanto per la parte eccedente la misura consentita, e Marciano precisava che il princípio valeva anche per l’anatocismo Paolo pare oscillare tra la negazione della validità del patto contenente interessi illeciti, di modo che fosse consentito di riscuotere solo il capitale e il riconoscimento del patto relativamente a quella parte di interessi che fosse rientrata nei limiti consentiti, in conformità ad un rescritto di Marco Aurelio. L’apparente aporía nell’opera del giurista severiano si può spiegare considerando che le rispettive affermazioni venivano fatte in opere differenti, le quali potrebbero avere riflesso in normative diverse, succedutesi nel tempo. La totale nullità del patto contenente interessi supra modum si trova nel commento a Sabino e potrebbe riflettere la posizione del ius civile quale appariva nel commento di Sabino. Successivamente la situazione potrebbe essere cambiata, dando vita ad una soluzione meglio articolata: riconoscendo validità parziale al patto (contenente usure oltre la misura legale), si sarebbe ammessa l’esigibilità della parte di interessi rientrante nei limiti di legge. Questa soluzione si sarebbe affermata nella cognitio extra ordinem, dove era possibile dare al giudicante istruzioni in tal senso, come rivela il rescritto di Marco Aurelio, richiamato da Paolo nella monografia da lui scritta sugli interessi, la quale chiaramente era proiettata verso la procedura extraordinaria e non all’ordo, oggetto di attenzione del commento di Sabino e poi dello stesso Paolo. Ne deduco che ci si possa trovare di fronte ad un’evoluzione. Sabino, commentato da Paolo in D. 22.1.20, potrebbe avere avuta una posizione più drastica, negando l’esigibilità di tutti gli interessi supra modum; successivamente (come denotano i brani degli altri giuristi severiani), facendo capo alla maggiore elasticità consentita dalla cognitio, si sarebbe consentito di riscuotere gli interessi entro i limiti degli interessi consentiti.

Questa soluzione dovette prevalere: ne è venne confermata, in via definitiva, da un rescritto di Diocleziano[21]:

 

C. 4.2.8, Impp. Diocl. et Maxim. AA. et CC. Proculo: Si pro mutua pecunia, quam a creditore poscebas, argentum vel iumenta vel alias species utriusque consensu aestimatas accepisti, dato auro pignori, licet ultra unam centesimam usuras stipulanti spopondisti, tamen sors, quae aestimatione partium placito definita est, et usurarum titulo legitima tantum recte petitur. nec quicquam tibi prodesse potest, quod minoris esse pretii pignus quod dedisti proponis, quominus huius quantitatis solutioni pareas.

 

4. – Limite del duplum

 

Oltre che sugli interessi si ritenne opportuno agire sull’ammontare globale dell’indebitamento del debitore e si stabilì il principio secondo il quale l’ammontare del debito a causa degli interessi non potesse diventare superiore al doppio del capitale.

L’origine del limite, al pari del tetto del 12%, è databile con certezza ad un periodo compreso tra il 72 ed il 70 a.C. Infatti Esso risulta applicato, tra il 72 e il 70 a.C.[22], già sul finire dell’età Repubblicana da un editto di Lucullo, mentre non è databile la sua introduzione in Roma[23], dove tuttavia era operante durante il Principáto, poiché la giurisprudenza di quel periodo lo menzionava più volte, dandone per scontata la sua applicazione[24]; la quale fu anche confermata e, talora meglio precisata, da alcune costituzioni imperiali ispirate dai giuristi della Cancelleria imperiale[25]. Pertanto appare legittimo concludere che in tutta l’esperienza romana si tentò di non consentire che un debitore potesse essere gravato dagli interessi oltre il doppio del debito contratto.

Questa importante limitazione viene ribadita nel 529 da Giustiniano con una costituzione inserita nel Codex e, pertanto, destinata ad avere valore generale per l’età giustinianea e per le epoche successive:

 

C. 4.32.27.1, Iust.: Cursus insuper usurarum ultra duplum minime procedere concedimus, nec si pignora quaedam pro debito creditori data sint, quorum occasione quaedam veteres leges et ultra duplum usuras exigi permittebant.

§ 2 Quod et in bonae fidei iudiciis ceterisque omnibus in quibus usurae exiguntur servari censemus.

 

La costituzione[26] non potrebbe essere più esplicita: non si ammettevano eccezioni al fato che mai si potesse consentire che il debito, a causa degli interessi, potesse superare il doppio. La disposizione di Giustiniano era stata tassativa e aveva il massimo di latitudine possibile: concerneva i “cd. interessi legali”, per i quali il divieto stesso mai era stato sino allora formulato espressamente dalle fonti[27], e gli interessi convenzionali ed andava ad intaccare la pur ampia autonomia del giudicante nei iudicia bonae fidei (per i quali, attraverso l’officium iudicis si era dilatata la previsione di somme elevate, a titolo di interesse[28]).

Essa dava risposta alla preoccupazione della quale l’Imperatore si era fatto carico già l’anno precedente, nel 528, quando si era prospettata la necessità di unificare in una disciplina generale l’ammontare degli interessi:

 

C. 4.32.26.1: Super usurarum vero quantitate etiam generalem sanctionem facere necessarium esse duximus, veterem duram et gravissimam earum molem ad mediocritatem deducentes.

 

La costituzione[29] esprime la convinzione che si dovesse intervenire per dare una regolamentazione generale e limitatrice al corso degli interessi, allo scopo di ricondurlo a misure modeste, intervenendo sia sulla loro mole sia sulle loro condizioni. Il motivo della rielaborazione integrale e radicale della disciplina degli interessi risiedeva nella persistenza di varie eccezioni, che provocavano un frastagliamento di discipline introdotte da veteres leges[30].

 

5. – Limite generale posto da Giustiniano

 

L’intervento era frutto di un proposito più ampio, il quale perfezionandosi e prendendo consapevolezza attraverso provvedimenti su singole situazioni, tra le quali quella degli interessi aveva assunto rilievi e consistenze cospicue e finì per sfociare nel 531 in una disposizione di natura generale, capace di abbracciare ogni situazione e di imporre per tutte il limite del duplum e comunque la drastica riduzione delle pretese creditorie.

Parliamo qui di una costituzione che da sola costituisce un intero titolo (il quarto De sententiis, quae pro eo quod interest proferuntur) all’interno del libro sette del Codex:

 

C. 7.47.1pr., Iust.: Cum pro eo quod interest dubitationes antiquae in infinitum productae sunt, melius nobis visum est huiusmodi prolixitatem prout possibile est in angustum coartare.

§ 1 Sancimus itaque in omnibus casibus, qui certam habent quantitatem vel naturam, veluti in venditionibus et locationibus et omnibus contractibus, quod hoc interest dupli quantitatem minime excedere: in aliis autem casibus, qui incerti esse videntur, iudices, qui causas dirimendas suscipiunt, per suam subtilitatem requirere, ut, quod re vera inducitur damnum, hoc reddatur et non ex quibusdam machinationibus et immodicis perversionibus in circuitus inextricabiles redigatur, ne, dum in infinitum computatio reducitur, pro sua impossibilitate cadat, cum scimus esse naturae congruum eas tantummodo poenas exigi, quae cum competenti moderatione proferuntur vel a legibus certo fine conclusae statuuntur.

§ 2 Et hoc non solum in damno, sed etiam in lucro nostra amplectitur constitutio, quia et ex eo veteres quod interest statuerunt: et sit omnibus, secundum quod dictum est, finis antiquae prolixitatis huius constitutionis recitatio.

 

La costituzione volutamente isolata in un apposito titolo assume grande risalto e costituisce il punto terminale della politica a favore dei debitori. Non si limita a fissare il tetto degli interessi, perché investe l’ammontare del debito nella sua globalità, sancendo che, quale che ne siano le ragioni addotte dal creditore, il debitore non dovrà mai essere condannato a dare più del doppio del debito originario.

In tal modo la protezione del debitore è realizzata sia con riguardo alla crescita provocata dall’ammontare degli interessi sia a quella conseguente alle varie ipotesi di risarcimento eventualmente preteso dal creditore. In tal modo la prescrizione incide direttamente, limitandoli pesantemente, sui poteri di stima attribuiti al’‘giudice’.

Si può dire che la costituzione di C. 7.47.1 era il logico sbocco di un pensiero già formulato in precedenza e rappresentava l’approdo della politica diretta al contenimento dei debiti. Vi è la ripresa del pensiero a base della costituzione del 528 (C. 4.32.26; 1): lo evidenzia la coincidenza di terminologia presente nelle due costituzioni: la denuncia della veterem duram et gravissimam earum molem equivaleva alla preoccupazione che ex quibusdam machinationibus et immodicis perversionibus in circuitus inextricabiles redigatur, ne, dum in infinitum computatio reducitur e l’intento di riportare il tutto “ad mediocritatem” corrispondeva all’auspicio “et sit omnibus, secundum quod dictum est, finis antiquae prolixitatis huius constitutionis recitatio”.

Appare evidente una costante della legislazione di Giustiniano, espressa in più provvedimenti ma in termini analoghi: quella di limitare i debiti, imponendo il limite del duplum o, comunque, una drastica riduzione di essi che avrebbe contribuito a renderli sopportabili, e a ridurre a poca cosa l’enorme mole di calcoli e discussioni che li avevano fino ad allora contrassegnati.

Alla base di essa si può notare una intuizione di grande respiro e di eccelsa sottigliezza giuridica: la dichiarazione e la consapevolezza che l’eccessiva gravosità dei debiti non produce soltanto la umiliazione e, spesso, la rovina dei debitori, ma, contrariamente a quanto potrebbe sembrare, porta alla caduta del debito. Giustiniano intuì che l’onerosità eccessiva, di là da un certo limite, non si traduce in un vantaggio del creditore, bensì in uno svantaggio, perché anziché rafforzarne la posizione la indebolisce, in quanto sfocia nel dissolvimento dell’obbligazione. L’Imperatore riteneva che fosse interesse dei creditori innanzitutto la certezza e la solvibilità dei debiti; i quali, per corrispondere a siffatti requisiti, non dovevano essere smodati e non dovevano dar luogo a calcoli e discussioni inestricabili.

La costituzione di C. 4.7.1 è l’indice della maturazione e del completamento delle linee della politica di Giustiniano, la quale, riguardo ai debiti puntava ad evitare l’oppressione dei debitore e, soprattutto, a porre le condizioni perché il commercio potesse svilupparsi realmente e non solo in maniera fittizia.

Questa conclusione pone la legislazione di Giustiniano all’avanguardia anche della moderna politica legislativa, perché scopre e fissa un principio generale la cui validità va ben di là dal tempo dell’Imperatore ed ancora oggi costituisce una felice intuizione, che può sicuramente giovare alla riflessione contemporanea sul debito e sugli interessi.

Essa, nella visione di Giustiniano, andava anche oltre il campo delle obbligazioni e si radicava in un criterio di politica legislativa di carattere generale, riguardante ogni campo del diritto, per il quale valeva il principio che, in realtà, si riesce ad ottenere solo ciò che sia stabilito con opportuna moderazione: “scimus esse naturae congruum eas tantummodo poenas exigi, quae cum competenti moderatione proferuntur”.

Ed è oltremodo significativo il fatto che Giustiniano giustificasse il criterio enunciato attraverso un richiamo alla materia delle poenae. Infatti, è da credere che Giustiniano, con quell’accostamento, pensasse di annodare la decisione esposta ad un principio indiscusso e stabilmente radicato e che egli riteneva di potere applicare, di là dalla materia delle poenae in cui doveva essere stabilmente affermato, a tutte le richieste di risarcimento di danni: in tal modo Egli si serviva di un principio indiscusso per trarre partito a favore del criterio che andava introducendo o definitivamente sancendo.

Riguardo all’uso di poena, tuttavia, occorre ancora una puntualizzazione, perché il senso attribuito dall’imperatore a poena non è senz’altro chiaro. All’interno del Codex il termine corrispondeva ad una pluralità di significati: vanno dalla pena oggetto delle obbligazioni ex delicto alla pena convenzionale[31] ed alla pena criminale[32], ma si trova anche usato per indicare, in termini generali, lo svantaggio che una parte potesse subire ovvero la conseguenza della perdita della lite[33]. Inclinerei a ritenere che nella costituzione si fosse inteso usare il termine in un senso, generico e generale; probabilmente ad esso era stato appositamente lascìato un margine di ambiguità, per poterlo riferire ad ogni situazione di svantaggio che potesse dar luogo ad una condanna processuale.

Era questo il percorso compiuto per affermare la necessità di moderare le poenae, secondo un orientamento radicato nel pensiero giuridico[34]. Attraverso quel richiamo, operato in maniera generale in tema di condanna nei giudizi risarcitorî, si otteneva di estendere ad essi e, quindi, a tutte le condanne e a tutte le situazioni un principio indiscusso, ma sorto ed operante in altro ámbito.

Il risultato finale era una incisiva limitazione del peso attribuibile ai debitori: sia che fossero tenuti a restituire il capitale e gli interessi, sia che fossero chiamati a dare l’id quod interest o a pagare poenae, sempre non potevano essere condannati oltre il doppio dell’oggetto originario del debito: s’intende quando questo fosse accertabile (in omnibus casibus qui certam habent quantitatem); negli altri casi si raccomandava moderazione ai giudici e si faceva affidamento sulla loro sagacia.

L’imperatore chiudeva dando la massima generalizzazione alla regola esposta, da applicare sia per il danno sia per le pretese di risarcimento del mancato guadagno.

L’ampiezza della disposizione era tale che ogni debito non dovesse superare comunque il doppio.

In tal modo la politica perseguita analiticamente riguardo agli interessi, trovava applicazione per ogni situazione debitoria, secondo un progressivo e lungimirante percorso compiuto da Giustiniano, sulla scía della giurisprudenza del Principáto.

 

6. – Interpretazione evolutiva dell’ammontare del debito

 

La lucida percezione di Giustiniano ancora oggi ci avverte di quanto siano complicati e spesso defatiganti e facilmente eludibili i vincoli posti all’ammontare degli interessi.

Prova ne è l’infruttuosità delle pur minute leggi dirette a contenere i tassi d’interesse e a combattere il dilagante fenomeno dell’usura.

Più efficace appare la limitazione della globalità del debito e l’adeguamento di esso alle variazioni degli equilibrî e della reciprocità di vantaggio che all’origine di ogni rapporto obbligatorio, evitando squilibri non ipotizzati e, spesso, indipendenti dagli stessi contraenti, in base ai quali il creditore si trova ad avvantaggiarsi oltre il comprensibile e l’equo.

Anche, anzi, specialmente oggi occorrerebbe una normativa pari a quella di Giustiniano, per ristabilire l’equità nei rapporti obbligatori e, spesso, ridare all’obbligazione il contenuto per il quale è nata e che si basa sulla reciprocità di interesse.

Per raggiungere questo risultato occorre la ridefinizione di ciò che è l’obbligazione e una differente tecnica di interpretazione del contratto.

La questione è da tempo al centro del dibattito dottrinale e, talora dell’impegno dei giudici e dei propositi dei Parlamenti. Tuttavia i risultati sono di scarsa efficacia sia a livello internazionale (riguardo al debito estero, che letteralmente ‘uccide’ le popolazioni di alcuni Paesi) sia a livello interno.

Per introdurre elementi di perequazione e riequilibrio si è ritenuto efficace il ricorso alla buona fede oggettiva. Si può dire che in tutti i Paesi vi sono stati interpreti che hanno valorizzato il rinvio alla buona fede, presente nei codici (in particolare in quelli dell’area ‘latina’)[35], per perseguire la perequazione tra le prestazioni dei contraenti. Si deve distinguere, si afferma, l’errore sui motivi, che ha natura soggettiva, investendo l’errore di valutazione, sulla cosa o sulle circostanze, che spinsero alla contrattazione e, pertanto concernono solo il momento iniziale[36], dalle situazioni obiettive che sono a base della ‘equivalenza’ tra le posizioni delle parti. Questa si configura in modo tale che la sua perdita o alterazione profonda fa nascere la possibilità della ‘revisione contrattuale’; s’intende a condizione che il mutamento si traduca in uno squilibrio di tale ampiezza che ne consegua non tanto l’impossibilità del compimento del contratto quanto l’impossibilità del raggiungimento della finalità del contratto, che è e deve restare di comune interesse. In altre parole si impone di per sé la revisione del contratto, in rispetto della buona fede oggettiva, quando il verificarsi di uno squilibrio tra le prestazioni fa sì che la prestazione di uno dei contraenti sia tanto grande che la prestazione dell’altro non possa più configurarsi come ‘controprestazione’, sicché viene meno l’interesse comune all’esecuzione del contratto, perché ormai l’interesse è di una sola parte[37].

In tutte le prospettazioni la dottrina ha sinora trovato un limite che pare invalicabile, nella ineliminabilità degli effetti della pattuizione iniziale per la regolamentazione successiva del rapporto obbligatorio[38].

Una soluzione radicale è stata di recente sperimentata dal nuovo codice civile polacco, il quale, in caso di rilevante modifica del potere di acquisto, per le obbligazioni in somme di denaro, ha accordato al giudice la facoltà di modificare l’ammontare della somma dovuta anche se definita per sentenza o contratto ed, in via più generale, ha riconosciuto il potere del giudice di riequilibrare le prestazioni, quando una di esse risulti eccessivamente complicata o gravida di perdite eccessive[39]. Il potere riconosciuto al giudice è, in questi casi, molto ampio e discrezionale, andando dalla ridefinizione del dovuto allo scioglimento del rapporto; esso è temperato dal richiamo al rispetto dei principi della convivenza sociale, che tuttavia possono presentare margini molto ampi di indeterminatezza. Tanto che, nell’applicazione, le norme hanno suscitato forti perplessità e c’è già chi ne invoca la radicale modifica o soppressione, a garanzia della certezza dei rapporti obbligatori.

Poco dopo anche l’Olanda ha seguito la stessa strada.

Nel 1992 è stata introdotta una nuova versione dell’art. 258 del libro sesto del codice civile olandese, la quale prevede la possibilità di modifica o risoluzione totale o parziale di un contratto da parte del giudice quando una parte dimostri che eventi imprevisti ne hanno alterato l’equilibrio a danno di essa e non appaia né ragionevole né equo che l’altra parte tragga beneficio dal mutamento della situazione[40]. Il legislatore olandese ha voluto che la richiesta della parte sia presa in considerazione a prescindere dalla forma con la quale venga avanzata[41] e che sia riferibile a qualsiasi evento non previsto dal contratto[42] per il quale sia ingiusta mantenere integro l’obbligo originariamente previsto[43].

L’articolo del codice olandese è di carattere generale, poiché a differenza dell’art. 1467 del codice italiano, non è riferito solo ai contratti ad esecuzione continuata o differita, bensì per ogni contratto, rispetto al quale ha funzione correttiva e limitativa o derogativa e non si propone come clausola integrativa del contratto.

Anche la norma del codice olandese dà grandi poteri al giudice e si presta alle stesse obiezioni e perplessità avanzate dalla dottrina e dalla pratica giuridica polacca.

L’esame delle innovative norme polacca e olandese mi induce a ritenere che, per quanto auspicabile, almeno per ora, la via legislativa non appare soddisfacente. Essa rischia di far venir meno la consapevolezza degli obblighi poiché demanda l’intera valutazione di essi al giudice, ponendolo al centro del processo di revisione.

Il fatto è che la delicatezza e la complessità dei problemi causati dalla sopravvenuta sperequazione nelle prestazioni richiedono soluzioni articolate e basate su criteri che comunque facciano salva la pattuizione, nel senso che qualsiasi soluzione finale possa essere ricondotta al concreto della negoziazione. Per la quale vi è sempre un riferimento non espresso alla normalità degli accadimenti e dei comportamenti.

È tale normalità il fulcro del contratto e deve essere colta da tutti gli interpreti, siano essi le parti stesse oppure il giudicante o, meglio, la dottrina.

Mi pare questa la direttrice nella quale più proficuamente ci si debba muovere.

In questa direzione si muoveva il giurista Salvio Giuliano. Egli, occupandosi del limite della condanna nei confronti di un debitore tenuto al risarcimento per evizione, in un frammento sul quale mi sono soffermato in passato[44], sosteneva l’ancoraggio del dovuto a ciò che era umanamente prevedibile e la limitazione dell’obbligo del debitore nei limiti di quella originaria prevedibilità. Tale limitazione, secondo il giurista, scaturiva da un principio di carattere generale, che l’interprete doveva sempre avere presente nelle sue soluzioni. Per Giuliano la contrattazione doveva sempre essere il punto di riferimento, ma essa doveva essere intesa in modo dinamico, con riferimento a quanto si sarebbe potuto convenire se le nuove circostanze fossero state presenti e valutate dai contraenti. Il che, detto in altre parole, vuol dire che il potere dispositivo (cioè, l’ámbito di autonomia contrattuale riconosciuta alle parti nel contratto) dei contraenti agisce e si proietta sulle nuove circostanze, determinando la modifica dell’assetto degli interessi anche in base ad esse, quando sia di natura tale che la loro conoscenza non avrebbe dato luogo al contratto nei termini fissati alla stipula.

Il principio individuato da Giuliano, che (per dare un nome di approccio immediato ad esso) ho chiamato della cogitatio, avrebbe il vantaggio di non far dipendere il riequilibrio solo da eventi straordinari (come è nella disciplina dell’imprevisione) e di non portare, in assenza del consenso dell’altra parte, allo scioglimento del contratto; non auspicabile dal contraente debole, il quale, ad esempio, se ha acceso un mutuo per mancanza di risorse o di liquidità, non è certo in grado di restituire le somme avute e, spesso, non può, di conseguenza, avvalersi della facoltà di trarre vantaggio dal richiamo al mutamento delle condizioni, per sopravvenienze imprevedibili.

Di recente si è proposto il rimedio della ‘rinegoziazione’, invocata, ad esempio, quando il tasso degli interessi a suo tempo pattuiti risulti eccessivamente alto rispetto alle successive situazioni del ‘mercato’. Essa ha lo svantaggio di far dipendere la perequazione dal consenso del creditore, che, come si è visto nell’odierna esperienza, per lo più, pretende ulteriori ed immotivati oneri (ad esempio, il pagamento di eventuali penali di uscita dal precedente rapporto); normalmente si applica ai debiti futuri e non ai pregressi e, comunque, comporta l’estinzione dell’obbligazione precedente ed la creazione di una nuova obbligazione, che non è escluso possa diventare a sua volta sperequata.

La cogitatio offrirebbe una soluzione permanente applicabile al rapporto durante tutto il periodo della sua vita, imponendo il costante mantenimento dell’equilibrio tra l’assetto degli interessi voluto dai contraenti.

In questo si distacca dai richiami, che pur le sono molto vicini, all’applicazione del criterio della ‘buona fede oggettiva’, con la quale non si pone la domanda su quale sarebbe la volontà dei contraenti se fossero liberi di negoziare avendo conoscenza delle nuove e imprevedibili circostanze.

Ci si deve, in realtà, chiedere se, sulla scorta della cogitatio, non si debba ritenere aperta una nuova strada in tema di interpretazione dei contratti, suggerita dal parallelo con quanto comunemente si ammette riguardo alla legge, vale a dire che l’interpretazione non è necessariamente legata al momento iniziale, ma può variare nel corso del tempo in ragione delle circostanze e delle finalità perseguite. In altre parole: il contratto e l’obbligazione che ne scaturisce vanno sottoposti ad interpretazione evolutiva.

Oggi mi pare che questa strada sia da prospettare con urgenza. Essa non è solo un’ipotesi dottrinale, poiché appare quella imboccata sia dalle ricordate disposizioni del legislatore polacco sia dal codice civile olandese.

Essa mi pare la logica conseguenza della circostanza che oggi la maggiore fonte normativa delle relazioni e degli scambi risieda nei contratti. Mentre mi sembra quasi singolare che le enunciazioni, inserite in vari codici[45], sul carattere di ‘legge’ (per i contraenti) del contratto siano state utilizzate per vincolare le parti al momento genetico della conclusione del contratto e non anche per applicare al contratto le tecniche interpretative elaborate per la legge, ivi compresa quella evolutiva, che può portare al riconoscimento di un contenuto assente o non previsto nel momento della formazione dell’atto. Riterrei, invece, che il parallelismo con la legge vada perseguito fino in fondo, trasportando nella materia contrattuale le tecniche di interpretazione elaborate riguardo alla legge, compresa quella dell’interpretazione evolutiva.

Mi sembra giunto il momento di dare spazio anche per i contratti all’interpretazione evolutiva, volta a mantenere durante la loro vita l’adeguamento tra volontà dei contraenti e finalità perseguite, in relazione ai reciproci vantaggi delle parti.

Certo bisogna essere cauti per evitare che, per mancanza di sicurezza su ciò che potrebbe avvenire nel futuro, si incorra in una paralisi negoziale, essendo, invece, ovvio che il contraente deve potere fare affidamento su quanto convenuto. Ma all’uopo il principio enunciato da Giuliano appare adeguato, in quanto si riferisce ai soli eventi non prevedibili, anche se non straordinari o eccezionali, ma oggettivamente non sostenibili da parte del debitore o comunque, secondo giustizia ed equità, non addossabili a lui.

E va subito ribadito che l’accoglimento di questo principio presuppone un ruolo pregnante della dottrina e della giurisprudenza, cui verrebbe affidato il compito di seguire le variazioni che postulano il riequilibrio delle prestazioni, senza dare adito ad incertezze e dilazioni pretestuose, ma evitando eccessi ed arricchimenti immotivati di una delle parti, a causa di eventi rispetto ai quali la parte avvantaggiata non può vantare particolari ‘ragioni’ per approfittare dell’imprevisto maggiore guadagno, senza che la parte svantaggiata abbia nessuna colpa per l’aggravamento della sua posizione debitoria.

E mi domando anche se non sia giunto il tempo di dichiarare espressamente la finalizzazione di tutto il diritto alla persona, così come era stato fatto dai giuristi romani e codificato da Giustiniano.

 

 



 

* Comunicazione presentata nel XI Colloquio dei romanisti dell’Europa Centro-Orientale e dell’Asia “Persona e popolo nel sistema del diritto romano. Difesa dei diritti civili e difesa dei debitori. Recezione del diritto romano nel sistema giuridico attuale. Necessità dell’insegnamento del diritto romano”, organizzato a Craiova, in Romania, nei giorni 1-3 novembre 2007, dalla Facoltà di Diritto e Scienze Amministrative “Nicolae Titulescu” dell’Università di Craiova, in collaborazione con l’Unità di ricerca “Giorgio La Pira” del CNR, l’Università di Roma “La Sapienza” e il Gruppo di ricerca sulla diffusione del diritto romano.

 

[1] In proposito richiamo l’affermazione di Ermogeniano: D. 1.5.2, Hermog. L. 1 iuris epit.: Cum igitur hominum causa omne ius constitutum sit, primo de personarum statu ac post de ceteris, con la quale guardava retrospettivamente alla concezione del diritto romano avuta presente nel Principáto. Va tenuto presente che constitutum ha una valenza ampia e difficilmente riconducibile ad unità. Tuttavia in esso può notarsi il significato di ‘fissare’, ‘stabilire’, con una proiezione verso l’indicazione di quello che è frutto di ‘convenzione’ ovvero dello ‘stabilire insieme’, che era forse il suo significato «primitivo e mai dismesso» e sembra affermato nel 2° sec. d.C. dove è riscontrabile nei ‘commentarii’ di Gaio e nell’enchiridion di Pomponio: sul punto v. V. Giodice Sabbatelli, “Constituere”. Dato semantico e valore giuridico, in Labeo 27, 1981, 338 ss. e Il catalogo degli iura e constituere nel proemio delle istituzioni gaiane, in Il linguaggio dei giuristi romani - Atti del convegno internazionale di studi - Lecce, 5-6 dicembre 1994, [cur. Orazio Bianco e Sebastiano Tafaro], Galatina 2000, 113 ss. Questo mi spinge a pensare che Ermogeniano volesse dire che la centralità della persona era un punto fermo ed era stata concordemente accettata nel corso dell’evoluzione dell’esperienza giuridica romana. Devo però osservare che forse nel linguaggio dei giuristi a partire dall’età dei Severi constitutum potrebbe avere assunto un significato più ristretto e specifico perché potrebbe essere stato adoperato solo per indicare ciò che era stato deciso dalle costituzioni imperiali. Ulpiano adoperava il termine constitutum forse solo con riguardo agli edicta: v. T. Honoré, Ulpian, Oxford 1982, 239 (Ulp. D. 3.2.13.7, dove il giurista con constitutum distingue le costituzioni del Principe rispetto alle decisioni dei prudentes, indicate con responsum), 241 (Ulp. D. 40.5.26.1, Ulp. D. 49.14.25, Ulp. D. 29.7.1). Per parte mia osservo che una breve scorsa delle fonti ulpianee mostrano che sempre il giurista quando adoperava constitutum intendeva richiamare norme introdotte da costituzioni imperiale: cfr. Ulp. D. 2.4.10.4; Ulp. D. 2.13.4.5; Ulp. D. 3.2.13.7; Ulp. D. 3.3.39.1; Ulp. D. 3.6.5; Ulp. D. 4.1.6; Ulp. D. 4.4.3.1; D. 4.4.22; Ulp. D. 4.6.26.9; Ulp. D. 4.9.1.1; Ulp. D. 5.2.29; Ulp. D. 11.7.6; Ulp. D. 13.6.5.2; Ulp. D. 13.7.11.6; Ulp. D. 16.2.11; Ulp. D. 16.2.12; Ulp. D. 17.1.12.9; Ulp. D. 22.1.37; Ulp. D. 26.7.1.1; Ulp. D. 27.3.1.13; Ulp. D. 28.3.6.8; Ulp. D. 28.3.6.10; Ulp. D. 29.7.1; Ulp. D. 30.41.5; Ulp. D. 40.4.9.1; Ulp. D. 40.5.24.21; Ulp. D. 40.5.26pr.; Ulp. D. 40.5.26.1; Ulp. D. 42.1.15.4; Ulp. D. 42.8.10.13; Ulp. D. 42.8.10.14; Ulp. D. 43.4.3.1; Ulp. D. 46.3.5.2; Ulp. D. 47.2.14.4; Ulp. D. 48.1.5.1; Ulp. D. 48.5.20; Ulp. D. 48.8.4.2; Ulp. D. 48.18.1.9; Ulp. D. 48.22.7.15; Ulp. D. 49.7.1.4; Ulp. D. 49.14.25; Ulp. D. 49.14.28; Ulp. D. 49.14.29; Ulp. D. 50.4.8; Ulp. D. 50.12.3. Anche nei tre soli frammenti di Ermogeniano che, oltre il nostro passo di D. 1.5.2, adoperavano il termine constitutum, sembra chiaro il riferimento agli interventi degli imperatori: Hermog. D. 40.1.24.1, D. 44.3.13, D. 49.14.46.5. Per due volte il tardo giurista diceva saepe constitutum est (D. 40.1.24.1, Hermog. 1 iuris epit.: Sed et si testes non dispari numero tam pro libertate quam contra libertatem dixerint, pro libertate pronuntiandum esse saepe constitutum est; D. 49.14.46.5, Hermog. 6 iuris epit.: Ut debitoribus fisci quod fiscus debet compensetur, saepe constitutum est: excepta causa tributoria et stipendiorum, item pretio rei a fisco emptae et quod ex causa annonaria debetur), orbene l’espressione sembra usata esclusivamente dai giuristi severiani (Macer D. 42.1.63, Ulp. D. 14.6.3.1). Ulpiano era l’unico ad adoperare l’aggettivo al superlativo (saepissime constitutum): v. Ulp. D. 4.1.6, D. 4.6.26.9, D. 11.7.6, D. 14.6.3.1, D. 28.3.6.8, D. 40.5.24.1, D. 42.8.10.13, D. 42.8.10.14). Di conseguenza sembra verosimile la derivazione del linguaggio di Ermogeniano da quello dei giuristi severiani.

 

[2] Val la pena sottolineare che i romani sottolinearono la gravità della situazione dei debitori, per i quali, ancora al tempo di Cicerone, parlarono di “morte civile”, ipotizzando per essi la celebrazione di un “funerale al contrario”: v. G. Purpura, La pubblica rappresentazione dell'insolvenza. Procedure esecutive personali e patrimoniali al tempo di Cicerone, in Archaeogate, 23-05-2007 – riv. Elettronica.

 

[3] Nuove prospettive sono enunciate da F. Fasolino, Studi sulle usurae, Salerno 2006, partic. 13 ss. In questa sede rinvio all’interessante ricerca dello studioso campano.

 

[4] Corrispondente all’1% al mese; perciò si parlava di usurae centesimae o di centesima.

 

[5] Le circostanze e le finalità dell’editto, occasionato da prestito ai Salamini sono evidenziate da F. Fasolino, Studi sulle usurae cit., 35, dove l’a. ricorda anche Cic., Ad Att. 5.21.12; 6.1.5; 6.2.7; 6.3.5 che chiaramente dimostrano che l’Arpinate «non solo ben conosce la pratica dell’anatocismo ma espressamente la contempla e la consente nel suo editto provinciale».

 

[6] Plut., Lucullus 20.3; cfr. L. Solidoro, Sulla disciplina degli interessi convenzionali nell’età imperiale, in L’usura ieri ed oggi [cur. S. Tafaro], Bari 1997, 180 ed ivi nt. 7.

 

[7] V. L. Solidoro, Sulla disciplina degli interessi convenzionali nell’età imperiale cit., 180 ed ivi nt. 8.

 

[8] Riguardo a quest’ultimo aspetto v. F. Fasolino, Studi sulle usurae cit., 57.

 

[9] In realtà, poiché Costantino aveva introdotto la siliqua, sotto di lui il tasso dell’interesse passò al 12,5%: in proposito, v. F. Fasolino, Studi sulle usurae cit., 166.

 

[10] B. Biondi, Il diritto romano cristiano III, Milano 1954, 245 ss.

 

[11] In tal senso L. Solidoro, Sulla disciplina degli interessi convenzionali nell’età imperiale cit., 187.

 

[12] V. G. Cervenca, Sul divieto delle cd. “usurae supra duplum”, in Index 2 (1971),.291 ss.

 

[13] L. Solidoro, “Ultra sortis summam usurae non exiguntur”, in Labeo 28 (1982), 164 ss.

 

[14] Così L. Solidoro, Sulla disciplina degli interessi convenzionali nell’età imperiale cit., 188 ss.

 

[15] G. Cervenca, Sul divieto delle cd. “usurae supra duplum” cit., 291 ss.

 

[16] Su di esso v. F. Fasolino, Studi sulle usurae cit., 40, 52 ss.

 

[17] L. Solidoro, Sulla disciplina degli interessi convenzionali nell’età imperiale cit., 197 s. Da ultimo F. Fasolino, Studi sulle usurae cit., 57 ss. ed ivi nt. 106.

 

[18] C. 1.14.5., Theod. et Valent. AA. Florentio PP.: Non dubium est in legem committere eum, qui verba legis amplexus contra legis nititur voluntatem: nec poenas insertas legibus evitabit, qui se contra iuris sententiam scaeva praerogativa verborum fraudulenter excusat. Nullum enim pactum, nullam conventionem, nullum contractum inter eos videri volumus subsecutum, qui contrahunt lege contrahere prohibente.

 

[19] L. Solidoro, Sulla disciplina degli interessi convenzionali nell’età imperiale cit., 198 s.

 

[20] Su di essi e sulla bibliografia più recente che li concerne rinvio a F. Fasolino, Studi sulle usurae cit., part. 56 s.

 

[21] Riguardo alla portata della costituzione di Diocleziano la dottrina ne ha discusso la portata collegandola alla comminazione dell’infamia prevista dallo stesso Imperatore, in una costituzione del 290: C. 2.11.20, Impp. Diocl. et Maxim. AA. Fortunato: Improbum fenus exercentibus et usuras usurarum illicite exigentibus infamiae macula inroganda est, v. F. Fasolino, Studi sulle usurae cit., 61 ss.

 

[22] V. G. Cervenca, Sul divieto delle cd. “usurae supra duplum” cit., 300 alla nt. 3, il quale ricorda che del provvedimento di Lucullo parla Plutarco (Luc. 20.3) come di un intervento per alleviare la condizione degli abitanti dell’Asia minore «oppressi dalle pretese degli usurai», che doveva trovare una solida radice nel diritto delle Province, per il quale Diodoro Siculo menzionava un precedente dell’antico diritto egiziano, risalente sino all’VIII secolo a.C.

 

[23] Al riguardo il T. Mommsen, Römische Geschichte III8, 1856, 537, aveva ipotizzato l’introduzione in Roma attraverso un provvedimento di Cesare, del quale però mancano le prove: v. le riflessioni svolte dalla Solidoro, Sulla disciplina degli interessi convenzionali nell’età imperiale cit., che richiama le considerazioni di P. Piazza, “Tabulae novae”. Osservazioni sul problema dei debiti negli ultimi decenni della Repubblica, in  Atti del II Sem. rom. Gardesano, 1980, 39 ss., spec. 91 ss. Cautela circa i tempi di recepimento in Roma suggerisce la natura straordinaria e transitoria del provvedimento di Lucullo, anche se non è affatto scontato che il divieto del doppio sia entrato in Roma come conseguenza della prassi diffusasi nelle province e non sia avvenuto piuttosto il contrario e cioè «che sia stato invece il governatore Lucullo ad ispirarsi ad una norma romana»: sul punto v. L. Solidoro, “Ultra sortis summam usurae non exiguntur” cit., 169.

 

[24] Per la documentazione completa rinvio ai citati contributi del Cervenca e della Solidoro ed alla letteratura da essi discussa. Ricordo che fondamentale è il citato frammento di Ulpiano di D. 12.6.26.1. La portata del divieto, che in un primo tempo doveva aver riguardato le usurae legali, è discussa: secondo il Cervenca, al tempo di Ulpiano, avrebbe sancito la nullità di ogni stipulazione oltre il doppio, mentre la Solidoro è perplessa sul fatto che fosse stata comminata la radicale nullità del patto di prestazione di interessi in misura superiore al valore del capitale. Ambedue gli a. convengono invece sul fatto che a partire dal IV secolo sicuramente era sancita la nullità della stipulazione oltre il limite legale. Riguardo all’origine del divieto la Solidoro, “Ultra sortis summam usurae non exiguntur” cit., 172 e 179, sostiene che Ulpiano doveva far riferimento ad un divieto preesistente, che poteva provenire da una lex imperfecta o da un senatoconsulto o, più verosimilmente, da una costituzione imperiale. Esso era comunque radicato nella pratica giuridica dell’età dei Severi, come dimostra il riscontro fornito dal citato brani di Papiniano di D. 22.1.9pr., ed è confermato dai numerosi riferimenti al modus usurarum ripetutamente richiamato nelle fonti, che esprime l’aspirazione alla tutela delle ragioni del mutuatario (si pensi all’assillante insistenza sul rispetto delle centesimae usurae: v. M. Talamanca, Istituzioni di diritto romano, 1990, 545 s.; M. Marrone, Istituzioni di diritto romano, 194, 459 e la puntuale raccolta di fonti operata dalla Solidoro, alle locc. citt.). Secondo G. Cervenca, Sul divieto delle cd. “usurae supra duplum” cit., 297, tuttavia, il divieto delle usurae ultra duplum avrebbe riguardato esclusivamente le usurae convenzionali per tutta l’età classica e del tardo-antico sino a Giustiniano, il quale, per primo, lo avrebbe esteso anche alle usurae legali.

 

[25] L’intervento degli Imperatori, a datare da una costituzione di Antonino Caracalla (C. 4.32.10 Imp. Ant. a. Crato et Donato militi: Usurae per tempora solutae non proficiunt ad dupli computationem. tunc enim ultra sortis summam usurae non exiguntur, quotiens tempore solutionis summa usurarum excedit eam computationem), rivela una costante preoccupazione di tenere a freno l’ammontare degli interessi, cfr., sul punto, G. Cervenca, Sul divieto delle cd. “usurae supra duplum” cit., 292 s. e L. Solidoro, “Ultra sortis summam usurae non exiguntur” cit., 164 ss. L’emanazione, da parte degli Imperatori, di costituzioni miranti a tenere a freno il tasso degli interessi e, comunque, a limitare il debito a non più del doppio si seguono sino al Codice Teodosiano, che racchiudeva una significativa costituzione del 380, la quale porta il nome degli Imperatori Graziano, Valentiniano II e Teodosio I: CTh. 4.19.1 Imp. Grat. Val. et Theod. AAA. Eutropio pp.: ... Distinguendum vero hoc quoque arbitrati sumus, ut, si contractus debiti ex stipulatione descendit et casu usurae per annorum curricula summam capitis impleverint, scilicet ut quantitas sortis quantitati fenoris adaequetur, post sententiam usurae duplices non utriusque debiti currant, sed capitis quidem duplae, usurarum vero simplae. La tendenza espressa dalla costituzione del IV secolo, che probabilmente fu emanata dal solo Teodosio a Tessalonica (cfr., G. Cervenca, Sul divieto delle cd. “usurae supra duplum” cit., 301, il quale sul punto segue le opinioni di Mommsen-Meyer, del Seek e del de Dominicis) era di estremo rigore, come dimostra la interpretatio visigotica: Int. CTH. 4.19.1: ... Hoc quoque praecipimus observari, ut, si debitoris cautio cum omni firmitate proferantur et usurae per annos plures cum capitali debito se aequaverint, a debitore amplius non petatur. Sane post iudicium duplam centesimam, quam reddi iussimus, de illud vero, quod in usuris ante iudicium crevit, simpla tantum centesima detur. La interpretatio visigotica chiarisce la portata della costituzione, che, anche se non lo diceva espressamente, presupponeva l’esistenza del divieto degli interessi ultra duplum; infatti l’interpretatio visigotica non si limitava alla sola parafrasi della costituzione, ma si premurava di «proclamare apertamente un principio non enunciato dalla costituzione commentata», come, sulla scorta della lettura del Gotofredo, ha osservato il G. Cervenca, Sul divieto delle cd. “usurae supra duplum” cit., 293; al quale, così come al lavoro della Solidoro citato, rinvio per la disamina di altri provvedimenti collegati a quelli riportati e per il loro significato. Mi limito a notare che la turbolenza degli avvenimenti militari e politici degli anni ai quali appartengono gli interventi imperiali citati difficilmente avrebbe potuto dar luogo a disposizioni innovative, il cui contenuto non fosse già nella consapevolezza dei contemporanei, rielaborata dalla scienza giuridica del tempo, in massima parte espressa dalla Cancelleria imperiale.

 

[26] Su di essa, ora, cfr. F. Fasolino, Studi sulle usurae cit., 71, 74, 108 s.

 

[27] G. Cervenca, Sul divieto delle cd. “usurae supra duplum” cit., 297.

 

[28] Sul punto rinvio al G. Cervenca, Sul divieto delle cd. “usurae supra duplum” cit., 296 s. ed ivi le ntt. 29 e 30, dove viene richiamata la precedente bibliografia, con particolare riguardo al Fadda e al Carcaterra.

 

[29] Cfr., da ultimo, F. Fasolino, Studi sulle usurae cit., 71 ss.

 

[30] L’Imperatore non diceva quali fossero le menzionate quaedam veteres leges perché voleva evitare di diffondersi su una casistica che potesse risultare anche lacunosa; con la dizione prescelta nessuna eccezione precedente poteva essere ancora ammessa. Tra queste vanno annoverate quelle relative al prestito marittimo ed alle consuetudini locali, largamente ammesse durante il Principáto, come lo stesso Giustiniano ed i giuristi classici ci attestano: Inst. I.4.6.33c: ... sed et pecuniae numeratae non in omnibus regionibus sub isdem usuris fenerantur (sul punto v. L. Solidoro, Sulla disciplina degli interessi convenzionali nell’età imperiale cit., 177 ss., dove vengono puntualmente riprodotte le menzioni alla specificità dei tassi di interesse praticati nelle singole regioni da parte di Gaio, Cervidio Scevola, Papiniano, Paolo ed Ulpiano). Proprio su tali eccezioni, precedentemente molto praticate, erano state vietate da Giustiniano già l’anno prima: C. 4.32.26.2-3: Ideoque iubemus illustribus quidem personis sive eas praecedentibus minime licere ultra tertiam partem centesimae usurarum in quocumque contractu vili vel maximo stipulari: illos vero, qui ergasteriis praesunt vel aliquam licitam negotiationem gerunt, usque ad bessem centesimae suam stipulationem moderari: in traiecticiis autem contractibus vel specierum fenori dationibus usque ad centesimam tantummodo licere stipulari nec eam excedere, licet veteribus legibus hoc erat concessum: ceteros autem omnes homines dimidiam tantummodo centesimae usurarum posse stipulari et eam quantitatem usurarum etiam in aliis omnibus casibus nullo modo ampliari, in quibus citra stipulationem usurae exigi solent. 3 Nec liceat iudici memoratam augere taxationem occasione consuetudinis in regione obtinentis.

 

[31] Il M. Talamanca, ed xxxii, 1982, v. Pena privata (dir. rom), 732 ed ivi nt. 173 mette in evidenza l’uso ambivalente di poena per «significare sia la pena convenzionale sia la pena oggetto delle obligationes ex delicto e delle actiones poenales» fin dall’età dei Severi, da parte di Papiniano.

 

[32] Da questa, come dai iudicia bonae fidei, sembra mutuato il richiamo al compito dei giudici chiamati a valutare con prudente moderazione ogni richiesta sottoposta alla loro attenzione: in proposito si tenga presente la discrezionalità dei giudici chiamati alla comminazione della pena criminale, ma con frequenti richiami da parte degli Imperatori affinché nelle loro decisioni usassero prudente moderazione: cfr. F. M. De Robertis, Arbitrium iudicantis e statuizioni imperiali. Pena discrezionale e pena fissa nella cognitio extra ordinem, zss ix, 1939, 219 ss.; E. Levy, Gesetz und Richter im kaiserlichen Strafrecht. I, bidr, 1938, 95 ss.; B. Santalucia, ed xxxii, 1982, v. Pena criminale (dir. rom.), 738 s.

 

[33] Tra gli esempi che si possono citare, mi limito a ricordare quelli, che a me paiono più significativi, di C. 2.25.5 e 6, C. 3.7.13.2b, 2c e 6, C. 4.21.21.3, C. 4.34.12, C. 5.17.1b, C. 5.51.13.3, C. 6.29.4.1, C. 6.40.2, C. 6.41.1pr., C. 8.36, 8.37.12, C. 8.40.6, 3,5,6,7. Certo sarebbe interessante un’analisi articolata del termine poena, per evidenziarne le contiguità e le diversità rispetto all’uso che ne facevano i giuristi del Principáto; per essa rinvio ad altro momento.

 

[34] Già Papiniano aveva affermato che non si poteva costringere a prestare quanto andasse oltre l’interesse leso, dimostrando una tendenza a limitare la ‘pena’ a quel che fosse ritenuto strettamente necessario: D. 18.7.7 Pap. 10 quaest.: Servus ea lege veniit, ne in Italia esset: quod si aliter factum esset, convenit citra stipulationem, ut poenam praestaret emptor. Vix est, ut eo nomine vindictae ratione venditor agere possit, acturus utiliter, si non servata lege in poenam quam alii promisit inciderit. Huic consequens erit, ut hactenus agere possit, quatenus alii praestare cogitur: quidquid enim excedit, poena, non rei persecutio est. Quod si, ne poenae causa exportaretur, convenit, etiam affectionis ratione recte agetur. Nec videntur haec inter se contraria esse, cum beneficio adfici hominem intersit hominis: enimvero poenae non inrogatae indignatio solam duritiam continet.

 

[35] Ad esempio nel Cod. civ. spagnolo all’ art. 7: 1. Los derechos deberán ejercitarse conforme a las exigencias de la buena fe. Da ultimo sottolineo il rilievo dato alla buona fede dal codice civile del Chile, che all’art. 1546 recita: «Los contratos deben ejecutarse de buena fe por conseguiente obligan no sólo a lo que en ellos se expresa sino a todas las cosas que emanan precisamente de la naturaleza de la obligación, o que por ley o la costumbre pertenecen a ella».

 

[36] Errore sulla sostanza della cosa o sulle condizioni che principalmente spinsero a contrarre il contratto, secondo l’art. 1266 C. C. esp., di indubbia matrice romanistica.

 

[37] V. Larenz, Base del negocio juridico y cumplimiento de los contratos, tr. Española, Madrid 1956.

 

[38] V.A. Cervini, Mutui in valuta e rischio di cambio fra realità e presupposizione, Riv. Giust. Civ., 1996, II, 328 ss. Il pensiero della dottrina tradizionale era lucidamente riassunto dal Borda, Tratado de derecho civil, obligaciones I5, 135 s.: «Nuevamente la teoría de la imprevisión cobró vigencia, no sin vencer resistencias. Éstas han provenido sobre todo de los juristas de cuño liberal, cuyas objeciones pueden sintetizarse de la siguiente manera: a) El contrato es, sobre todo, un acto de previsión; quien celebra un contrato de tracto sucesivo o de ejecución diferitda se propone precisamente asegurarse contra todo cambio; y resulta que esta previsión, que ha estado en el alm del contrato, y en la intención de las partes, quedaría luego frustrada por la aplicación de esta teoria; b) Los pactos se hacen para ser cumplidos; toda teoría que conduzca a apartarse de esta regla introduce un factor de inseguridad e inestabilidad en las relaciones juridicas; c) En el cumplimiento estricto de los contratos no hay solamente una cuestión jurídica, sino también moral; el respeto de la palabra empeñada es una cuestión de honor; d) La teoría de la imprevisión otorga al juez facultades exclusivas y peligrosas y abre las puerta a un intervencionismo estatal que debilita progresivamente el principio de la autonomia de la voluntad».

 

[39] Il nuovo art. 358 del Codice civile (Novella al Codice Civile del 28 luglio 1990 - Dziennik Ustaw, Gazzeta Ufficiale 1990, N° 55, posizione 321. Le altre novelle, negli anni successivi, hanno cambiato profondamente il Codice civile del 1964) introduce i principi seguenti:

§1. Se oggetto dell'obbligazione nel momento del suo costituirsi è una somma di denaro, la prestazione viene eseguita a seguito del pagamento della somma nominale, a meno che le norme non statuiscano diversamente.

§2. Le parti possono stipulare nel contratto che l'ammontare della prestazione in denaro verrà definita secondo un metro di valore diverso dal denaro.

§3. In caso di rilevante modifica del potere d'acquisto dopo il costituirsi dell'obbligazione, la corte può, ponderati gli interessi di ambo le parti, rispettando i principi della convivenza sociale, modificare l'ammontare o il modo di eseguire la prestazione in denaro, anche se queste fossero state definite per sentenza o contratto.

§4. L'esigenza di modificare l'ammontare o il modo di eseguire una prestazione pecuniaria non può essere avanzata dalla parte che gestisce un impresa, se tale prestazione è legata alla gestione di tale impresa.

§5. Le norme di cui al §§ 1 2 e 3 non contrastano con le norme che regolamentano l'ammontare di prezzi e altre prestazioni pecuniarie.

§ 1 Se a seguito di una modifica straordinaria dei rapporti, l'esecuzione della prestazione risultasse eccessivamente complicata ovvero gravida di perdite esorbitanti per una delle parti, senza che le parti l'avessero prevista nel momento della stipulazione del contratto, la corte può, considerati gli interessi delle parti, in conformità con i principi della convivenza sociale, determinare il modo in cui l'obbligazione debba essere eseguita, l'ammontare della prestazione ed anche dichiarare sciolto il contratto. Sciogliendo un contratto, la corte può, se necessario, pronunciarsi sulle prestazioni reciproche, in conformità ai principi suddetti.

 

[40] Art. 6:258 : 1. De rechter kan op verlangen van een der partijen de gevolgen van een overeenkomst wijzigen of deze geheel of gedeeltelijk ontbinden op grond van onvoorziene omstandigheden welke van dien aard zijn dat de wederpartij naar maatstaven van redelijkheid en billijkheid ongewijzigde instandhouding van de overeenkomst niet mag verwachten. Aan de wijziging of ontbinding kan terugwerkende kracht worden verleend. 2. Een wijziging of ontbinding wordt niet uitgesproken, veer zover de omstandigheden krachtens de aard van de overeenkomst of de in het verkeer geldende opvattingen voor rekening komen van degene die zich erop beroept. 3. Voor de toepassing van dit artikel staat degene op wie een recht of een verplichting uit een overeenkomst is overgegaan, met een partij bij die overeenkomst gelijk.

(Tr.: 1. Il giudice a desiderio di una delle parti può modificare oppure risolvere interamente o parzialmente gli effetti di un contratto a causa del verificarsi di eventi imprevisti che sono tali che la controparte secondo regole di ragionevolezza ed equità non possa aspettarsi un mantenimento invariato del contratto. La modificazione o la risoluzione può avere effetto retroattivo. 2. La modificazione o la risoluzione non può essere rinunciata pur quando gli eventi secondo il carattere del contratto oppure le concezioni valenti attuali rientrano nell'alea della parte che desidera la modificazione o la risoluzione del contratto. 3. Ai fini dell’applicazione di questo articolo è equiparata alla parte di un contratto, colui al quale è trasmesso un diritto od una obbligazione del contratto).

 

[41] In tal senso va intesa l’espressione ‘a desiderio di una delle parti’.

 

[42] In tal senso va inteso il riferimento ad eventi ‘imprevisti’, il quale, per l’appunto, significa ‘eventi non indicati o comunque previsti nel contratto’.

 

[43] L’espressione ‘mantenimento invariato’ somiglia all ‘Zumutbarkeit’ tedesca.

 

[44] Buona fede ed equilibrio degli interessi nei contratti, in Il ruolo della buona fede oggettiva nell'esperienza giuridica storica e contemporanea – in Atti del Convegno internazionale di studi in onore di Alberto Burdese, vol. III, Padova 2003, 567-608.

 

[45] V. sopra nt. 43.