N. 6 – 2007 –
Tradizione Romana
Università di Roma “
Impero
e pace nel pensiero dei cristiani dei primi secoli
Sommario: 1. La pace per i
cristiani. – 2. La linea
negativa. – 2.1. Il Tardo
Giudaismo. – 2.2. L’Apocalisse
canonica. – 2.3. Le
espressioni della più antica letteratura. – 3. La linea positiva. – 3.1. I Vangeli, gli Atti degli Apostoli,
Paolo. – 3.2. Gli
scrittori del II secolo. – 3.3. Il servizio
nell’esercito. – 4. La
pace costantiniana. – 4.1. L’interpretazione
di Eusebio di Cesarea. – 4.2. Il rapporto Impero-Chiesa.
La
pace per i primi cristiani è
intesa prevalentemente non in senso giuridico-politico, ma in senso spirituale,
ha una dimensione di interiorità, scaturisce dal cuore dell’uomo
riconciliato con Dio, è dono di Dio e presuppone la certezza di essere
stati redenti e salvati da Cristo che ha adempiuto le rivelazioni di pace
espresse dai profeti nell’Antico Testamento. Dalla pace interiore nasce
la pace esteriore che bisogna innanzitutto regni nella Chiesa, comunità
dei credenti; una tale pace, occorre dire, spesso tradita e non sufficientemente
ricercata e realizzata nel corso del tempo, consente e promuove
l’unità di culto e di fede. Ma la pace per i cristiani è
anche quella che si spera di godere dopo la morte e nel regno eterno di Dio (o
già prima, nel regno messianico, per i Millenaristi)[1].
Nondimeno
per i cristiani dei primi secoli, nel vasto campo semantico ricoperto dal
termine, è inclusa anche e necessariamente la pace e la concordia entro il corpo della civitas.
Proprio
a questo ambito ci si vuole rivolgere in questa occasione, precisamente per
interrogarsi sul modo con cui essi guardano all’Impero romano in rapporto
alla pace.
Per
iniziare è utile, se non necessario, considerare la storia e la
letteratura (con particolare riferimento al genere profetico e apocalittico)
del Tardo Giudaismo. In questo ambito si manifesta una linea negativa verso
Roma e il suo Impero
Fin
dal I secolo a.C. Israele si accorge che l’Impero romano, con
l’esercizio del suo potere, sta minacciando da vicino la religione
giudaica. Accanto ad atti di insubordinazione e di ribellione cominciano a
diffondersi scritti significativi. Nel 63 a.C. l’invasione della
Palestina compiuta dai romani sotto la guida di Pompeo si conclude con
l’occupazione di Gerusalemme e la profanazione del Tempio.
L’episodio lascia una traccia profonda nell’animo dei giudei. Da
quel momento l’impero occidentale è tenuto alla stregua di una
potenza antagonista. Si fanno eco di questa idea i Salmi di Salomone, composti intorno alla metà del I secolo
a.C., riprendendo un motivo della tradizione profetica: i prìncipi
pagani sono destinati a subire una punizione divina, giacché nel tempo
opportuno verrà un discendente di David che li sconfiggerà,
giudicherà tutti i popoli nella saggezza della sua giustizia e
instaurerà un regno messianico ed eterno (cf. Ps 17.26 ss.). È il primo passo, legato a circostanze
storiche precise, che prepara e giustifica gli sviluppi successivi dell’apocalittica
giudaica.
Si
pensi all’Apocalisse siriaca di
Baruch, composta dopo il 70 d.C., centrata
sugli avvenimenti relativi alla presa di Gerusalemme da parte
dell’esercito romano, in cui appare l’immagine dei quattro regni, a
cui già Daniele era ricorso, per sottolineare che il quarto regno
è il più duro e spietato, destinato ad avere una lunga egemonia
fino alla fine del tempo e quindi alla venuta del Messia liberatore. Il nome
del quarto regno è taciuto, ma non si è lontani dal vero se lo si
identifica con l’Impero dei romani.
Analoga
visione è manifestata nel IV libro
di Esdra, altro scritto apocalittico giudaico composto verso la fine del I
secolo d.C. L’immagine dei quattro regni ricorre del resto non solo
nell’apocalittica, ma anche nella letteratura rabbinica[2],
ove l’avversario è più specificamente individuato in una
potenza insediata in Palestina.
Si
possono menzionare ancora gli Oracoli
sibillini nei quali il tema della caduta di Roma ha un posto privilegiato. Essi
hanno origine per la gran parte nel I-II secolo d.C. e raccolgono materiali
pagani, giudaici e cristiani di natura storica, politica e religiosa. Essi
fanno di nuovo presente lo schema dei quattro imperi e, parlando del quarto,
mettono in evidenza sia le cause che gli effetti della sua rovina[3].
La fine di Roma è dunque data per certa per il prevalere delle leggi che
regolano la storia e per l’intervento stesso di Dio la cui azione, a
tempo opportuno, vince i nemici dei giusti e realizza per questi ultimi il regno
di eterna beatitudine.
Non
sfugga d’altra parte il costituirsi nel I secolo d.C. nell’ambito
del giudaismo palestinese di gruppi religiosi radicali, specialmente di galilei
che danno vita a un movimento di resistenza contro Roma (cf. Atti degli apostoli 21.38; 5.36-37):
animati da una concezione messianica dalle tinte politiche, si propongono la
liberazione dal dominio romano, anche ricorrendo alla violenza armata sono i
Sicari (per i quali rimane aperto il problema di sapere se debbano essere identificati
con gli zeloti).
Fin
qui si è parlato dell’Impero percepito negativamente da una parte
delle società e della letteratura giudaica tra il I secolo a.C. e il I
secolo d.C., e non si è parlato della pace. Ma il breve excursus ora fatto serve a meglio
inquadrare le posizioni dei cristiani a riguardo dei nostri temi. Si delineano
infatti nell’ambito delle comunità dei fedeli a Cristo due linee
divergenti. La prima prosegue in certo modo le tracce ora messe in luce. In
proposito è qui necessario fare un cenno all’Apocalisse di Giovanni, non senza notare subito che le figure e le
immagini proposte da questo scritto sono state fin dall’antichità
interpretate in modo molteplice e vario. È un fatto però che la
maggior parte dei commentatori dall’antichità ad oggi hanno visto
nella quarta bestia che sale dal mare (cf. Apoc.
13.1 ss.) l’Impero romano; ancora meglio, secondo alcuni studiosi, essa
si riferirebbe alla struttura politica, militare e amministrativa dell’Impero,
mentre la bestia che sale dalla terra (cf. Apoc.
13.11, ma vd. pure Dan.
7.1 ss.) si riferirebbe all’organizzazione
del culto imperiale che avrebbe avuto nell’Asia Minore uno dei centri di
più intensa espansione. Ma non tutti i commentatori sono d’accordo
con le interpretazioni dei particolari. Un’altra figura è stata da
numerosi commentatori assimilata al potere imperiale romano e alla città
di Roma, quella della prostituta che siede sopra una fiera scarlatta (cf. Apoc. 17.1 ss.). Giovanni avrebbe atteso
in tempi brevi il crollo della potenza occidentale che avrebbe coinciso con la
fine del mondo. All’Urbs ha
fatto pensare anche la donna ubriaca del sangue dei santi e del sangue di
quelli che sono morti per la fede in Gesù (cf. Apoc. 17.6) in cui parecchi critici hanno scorto il riferimento
alle persecuzioni di Nerone e di Domiziano contro i cristiani. E si potrebbe
continuare. I versetti 17.9-10 («Le sette teste sono i sette colli (o i
sette monti) sui quali la donna è seduta. Sono anche sette re»)
sono stati considerati come allusione alla città di Roma. Pertanto cui
si può dire che secondo l’opinione di interpreti antichi e moderni
generalmente Giovanni è stato visto come rappresentante di una posizione
critica e negativa verso Roma.
I
segni così incisivamente tracciati dall’apocalittica di ritrovano,
a cominciare dal II secolo d.C., nella letteratura cristiana. Nell’Epistola dello Pseudo-Barnaba (4.1 ss.) la
citazione delle parole del profeta Daniele sulla quarta bestia che sale dal
mare manifesta l’intenzione di richiamare la figura e l’opera
negativa di imperatori romani del I secolo o dell’inizio del II.
Interpretazioni che sono riprese da Ippolito nel Commento a Daniele ove si giunge a indicare la data esatta in cui
avrà fine la potenza romana, assimilata ancora e sempre alla quarta
bestia di cui parla il profeta: 500 anni dopo la nascita di Cristo. Alla fine
del III secolo Vittorino di Poetovium nel Commento
all’Apocalisse senza incertezze individua nella città di Roma la
figura della donna dell’Apocalisse (cf.
17.9) e spiega il senso delle parole che seguono (cf. Apoc. 17.10 ss.): i cinque imperatori romani ormai caduti sono
Tito, Vespasiano, Ottone, Vitellio e Galba; il sesto, che detiene il potere nel
periodo in cui è composto l’ultimo libro neotestamentario,
è Domiziano; il settimo ,infine, del quale si dice che durerà per
breve tempo (come in realtà avviene, non prolungandosi la sua egemonia
oltre un biennio), è Nerva. Nelle prime decadi del IV secolo Lattanzio
nelle Divinae Institutiones torna a insistere sul motivo della fine
dell’Impero romano in un quadro tracciato a linee cupe.
Così
prende forma la tradizione negativa su Roma che ha la propria origine diretta o
indiretta nella tradizione profetica e apocalittica tardo-giudaica e cristiana.
Accanto
a questa si fa luce un’altra linea destinata a prevalere. Occorre intanto
osservare che nei Vangeli canonici non si manifestano atteggiamenti contro
l’Impero romano. Stando al Vangelo di Luca
(cf. 3.14), quando a Giovanni Battista si rivolgono alcuni agenti delle
tasse per chiedere che cosa debbano fare, egli risponde che non devono prendere
niente più di quanto è stabilito dalla legge e ad alcuni soldati
che chiedono la medesima cosa egli dice di non impossessarsi di beni altrui con
la violenza o con false accuse, ma di accontentarsi delle loro paghe. E si sa
che pubblicani e militari – evidentemente romani – erano categorie
mal giudicate dai giudei del tempo. Anche Gesù non condanna mai il
servizio nell’esercito. Dai Vangeli siamo a conoscenza di due episodi
significativi in proposito: quello del centurione che in Cafarnao chiede
l’aiuto del Signore per il suo servo paralizzato (cf. Matteo 8.5 ss.; vd. pure Luca 7.2 ss.) e quello del centurione
che ai piedi della croce fa la guardia a Gesù morente (cf. Matteo 27.54; Marco 15.39; Luca 23.47.
Proprio questi due centurioni rendono palese il “segreto
messianico” di Gesù, il mistero della sua persona e lo annunciano
al mondo pagano: «Signore, io non sono degno che tu entri a casa mia,
(…), ma di’ anche solo una parola e il mio servo certamente
guarirà» (Luca 7.6 s.),
esclama l‘ufficiale romano di Cafarnao; e l’ufficiale sul Golgota,
accortosi del terremoto e di tutto quanto accadeva, pieno di spavento dice:
«Quest’uomo era veramente il Figlio di Dio» ( Matteo 27.54).
Gli Atti degli Apostoli (cf. 10.1 ss.) a
loro volta riferiscono di Cornelio, centurione della coorte Italica, “uomo
pio e timorato di Dio con tutta la sua famiglia”, il quale un giorno vede
apparirgli un angelo che gli dice essere state esaudite le sue preghiere e gli
suggerisce di mandare uomini a Giaffa per fare venire presso di lui Simone
Pietro. Cornelio ubbidisce. Pietro viene, non prima di avere avuto pure lui una
visione; annuncia al centurione e ai suoi la ”buona novella della
pace”, assiste alla discesa dello Spirito santo su tutti coloro che
avevano ascoltato il suo discorso, circoncisi o pagani che fossero, ed ordina
che tutti siano battezzati nel nome di Gesù. Dunque, nell’ottica
di Luca, che scrive gli Atti, di
nuovo un ufficiale romano segna un momento decisivo della storia della
salvezza. L’apertura della missione al mondo dei pagani e quindi
l’entrata dei non giudei nel nuovo popolo che si stava componendo: si
tratta della “pentecoste dei pagani”, come è stata definita[4].
Una
chiara affermazione di lealismo dei cristiani nei confronti delle
autorità costituite si trova poi in una delle lettere sicuramente autentiche
di Paolo, la lettera ai Romani,
scritta probabilmente da Corinto nel 54 o nel 56-57, che risulta perciò
essere uno dei più antichi documenti della letteratura cristiana. Scrive
l’apostolo: «Ognuno sia sottomesso a chi ha ricevuto
autorità, perché non c’è autorità che non
venga da Dio (…). Fa’ il bene e le autorità ti loderanno,
perché sono al servizio di Dio per il tuo bene (…). Ecco bisogna
stare sottomessi all’autorità, non soltanto per paura delle
punizioni, ma anche per una ragione di coscienza. È la stessa ragione
per cui pagate le tasse: difatti mentre assolvono il loro incarico sono al
servizio di Dio. Date a ciascuno ciò che gli è dovuto:
l’imposta, le tasse, il timore, il rispetto, a ciascuno quel che gli
dovete dare» (Rom. 13.1 ss.).
L’attitudine
positiva espressa ripetutamente e con chiarezza verso le autorità
politiche civili in scritti dapprima altamente considerati e poi, con il
formarsi del primo canone scritturale, ritenuti pieni di autorevolezza, anzi di
autorità, perché ispirati da Dio, ha indotto le comunità
cristiane a mutare quella posizione presente, in una parte dei suoi membri, di
insubordinazione o almeno di contestazione e di insofferenza verso quello che
impropriamente oggi diremmo lo ‘stato’ romano.
Gli
scrittori cristiani nel II secolo, coloro che di consueto sono denominati Apologeti,
quando si accingono a rappresentare le idee e le norme morali scaturite
dall’euaggelion di fronte al
mondo pagano, avvertono che l’Impero romano, con la sua organizzazione
civile e politica facilita la diffusione del cristianesimo; essa infatti ha
realizzato l’unità dell’oikoumene
e vi ha fatto regnare la pace.
Così
intorno al 150 Giustino, indirizzando la sua Apologia a Antonino Pio (138-161), Marco Aurelio (161-180) e Lucio
Vero (161-169) dopo essersi difeso dalle accuse rivolte ai fedeli di Cristo da
parte della società pagana, aggiunge: «Siamo vostri collaboratori
e alleati per la pace più di tutti gli altri uomini (…). Riteniamo
che ciascuno si incammini verso la condanna eterna oppure verso la salvezza per
il merito delle azioni. Se tutti gli uomini conoscessero queste cose, nessuno,
neppure per poco tempo, sceglierebbe ciò che è male, sapendo di
andare alla pena eterna nel fuoco»[5].
Pochi anni dopo Atenagora loda gli imperatori Marco Aurelio e Lucio Vero ed osserva
che per la loro saggezza l’Impero gode di una pace profonda; egli li dice
pacificatori delle terre abitate, ma in pari tempo chiede che non perseguitino i
cristiani, ma li includano nel quadro del loro governo[6].
Melitone di Sardi, rivolgendosi ancora a Marco Aurelio intorno al 170, nota che
la ‘filosofia’ cristiana, avendo cominciato a diffondersi in mezzo
ai popoli sotto il regno di Augusto, era nata e si era sviluppata con
l’Impero[7]:
un’affermazione notevole perché mette in luce la coincidenza
temporale tra il regnare della Pax
Augusta e la contemporanea diffusione del messaggio di Cristo[8].
Del resto già prima di lui altri apologeti avevano evitato di marcare
una frattura tra la tradizione pagana e l’annuncio cristiano; il fatto
stesso che Melitone e Giustino assumano il termine ‘filosofia’ per
indicare la religione da loro professata è un segno di un tale
atteggiamento. Verso la fine del II secolo Ireneo, vescovo di Lione, scrive che
grazie ai Romani il mondo gode della pace e non manca di mettere in evidenza
che per questo, senza timore, ci si sposta e si naviga dovunque si voglia, lui
originario dell’Asia Minore che diviene vescovo di una città della
Gallia meridionale[9].
Origene, entro il quadro di un discorso più complesso e sfumato,
riprende e rende più esplicita quell’idea: egli confronta la pace
di Cristo con la pace recata al mondo da Roma e afferma che questa è
diventata la condizione necessaria perché il Vangelo possa essere
annunciato a tutte le genti[10].
Non
stupisce dunque di riscontrare nei medesimi autori menzionati dichiarazioni di
lealismo e di ubbidienza alle leggi. Fin dalla fine del I secolo Clemente di
Roma prega perché il Signore doni salute, pace, stabilità a chi governa
perché sia in grado di esercitare in modo irreprensibile l’ufficio
datogli dal Signore stesso. E come Clemente, altri da Teofilo di Antiochia a
Tertulliano, ad Origene, raccomandano di pregare per l’imperatore,
purché questi, come si vedrà più oltre, non pretenda il
culto e l’adorazione. D’altronde già l’apostolo Paolo
aveva aperto la strada, raccomandando perché fossero fatte simili
preghiere[11].
Riconoscere
la funzione pacificatrice svolta dall’Impero comportava la
necessità di servire nei ranghi di quel medesimo Impero, anche come
soldati. Ma l’essere soldato esigeva anche l’eventualità di
combattere e di uccidere il nemico contro cui si combatteva. Taluni critici
moderni hanno sottolineato l’incoerenza di una tale posizione denunciata
d’altronde dai pagani: si è detto che i cristiani avrebbero voluto
godere dei benefici derivanti dall’ordinamento politico senza
d’altra parte contribuire al suo mantenimento[12].
Negli ultimi decenni gli studi hanno meglio precisato i molti problemi connessi
a questo aspetto che si rivela complesso. Intanto si deve osservare che i
cristiani, secondo una documentazione fondata erano certamente presenti
nell’esercito romano nelle ultime decadi del II secolo. Tertulliano[13]
nel 197-198 menziona una lettera di Marco Aurelio nella quale si attesta che la
grande sete, pericolosamente sofferta dall’esercito romano in Germania[14],
fu placata dalle preghiere di soldati cristiani. Questa almeno è la
versione di Tertulliano, che non ha visto la lettera dell’imperatore, (egli
però afferma che tale lettera la si può cercare negli archivi del
Senato a cui sarebbe stata indirizzata); si sa che il fatto è riferito
anche da altre fonti cristiane e pagane[15]
(le quali ultime danno il merito del prodigio alle divinità pagane).
Anche alcune iscrizioni risalenti agli stessi anni (180-190) confermano la
presenza di cristiani tra i soldati dell’esercito romano.
Certamente
la questione del servire nell’esercito doveva porre problemi non
facilmente risolvibili tanto che, per quanto possiamo saperne, si vennero a
delineare sia a livello del pensiero sia a quello della prassi molteplici
posizioni che non sembrano avere avuto dimensioni omogenee, essendo legate
– in epoca precostantiniana – ad aree geografiche ed a Chiese determinate.
Intanto occorre osservare che si proponevano casi diversi: il primo era quello
di chi, già inquadrato nella vita militare, si convertiva; il secondo era
quello di chi appartenente alla comunità ecclesiale, intraprendeva la
carriera militare; il terzo di chi obbligatoriamente era arruolato. Le
difficoltà gravi che per un cristiano si ponevano erano da una parte la
necessità di combattere e quindi essere messo nella condizione di
uccidere; dall’altra, nel quadro della vita militare, di dovere prestare
atti idolatrici. Ma non è il caso di seguire le vicende dei singoli,
quelle almeno delle quali si siano conservate le testimonianze. È un
fatto che certi ambienti dell’Africa settentrionale tengono verso la
violenza una linea rigorosamente negativa. Ne sono testimoni Tertulliano e
più ancora, Arnobio e Lattanzio, i quali a più riprese esprimono idee
intransigenti contro il servizio militare, la violenza e la guerra[16],
forse sotto la spinta di influssi montanistici[17].
Ed è pure un fatto che ogni atto idolatrico connesso alla vita militare
– come a quella politica e civile – è condannato. Già
si vedeva come le comunità cristiane non abbiano avuto difficoltà
a pregare anche pubblicamente per gli imperatori perché questi avessero
vita lunga, eserciti forti, un senato fedele, un popolo onesto, un mondo in
pace[18].
Mentre netto è il loro rifiuto per ogni pretesa sacralizzante dei
‘Cesari’ e per ogni atto di culto verso le divinità
pubbliche. «Certamente - scrive un autore già ricordato,
Tertulliano[19]
- riconoscerò all’imperatore il titolo di ‘signore’ (dominus) (…); se però non
mi si costringa a chiamarlo così al posto di Dio. Per il resto io sono
libero di fronte all’imperatore: infatti il mio Signore è uno
solo, Dio onnipotente ed eterno, che è il medesimo Dio
dell’imperatore».
La
svolta costantiniana, preceduta e preparata dall’editto di Galerio, non si
può dire, a mio avviso, che abbia mutato la posizione dei cristiani
rispetto allo ‘stato’ ed alla questione della pace[20].
Certamente ha fatto cadere quella parte della polemica fino allora sostenuta
contro l’idolatria, mentre ha permesso di sviluppare grandemente la linea
positiva, presente fin dalla metà del I secolo d.C. La giustificazione
ideologica e teologica della nuova situazione storica la fornisce Eusebio di
Cesarea, nell’interpretazione che egli dà appunto
dell’Impero romano e della figura di Costantino.
Come
abbiamo visto, fino dal II-III secolo molti cristiani avevano rilevato che il
diffondersi del cristianesimo era dovuto anche al diffondersi tra i popoli di
quella concordia che l’Impero
di Roma aveva saputo instaurare e mantenere per lungo tempo. Ora dopo che
l’imperatore ha dato a loro libertà di esistere, Eusebio allarga
enormemente la prospettiva, portandola su un piano di teologia politica. Il
vescovo di Cesarea asserisce che nel tempo stesso in cui Cristo insegnava che
c’è la ‘monarchia’ di un solo Dio, il genere umano era
liberato dall’azione dei demoni e dalla molteplicità dei governi
nazionali. Secondo le sue parole, «la divisione del potere presso i
Romani era scomparsa di fatto quando Augusto aveva stabilito una monarchia, nel
momento stesso dell’apparizione del (…) Salvatore. Da allora fino
ai giorni nostri non si sono più viste più città in guerra
con città e popoli in lotta con popoli (…). Con la predicazione
(…) del Salvatore si è attuata la distruzione dell’errore
politeista e i dissidi tra le nazioni, con i loro antichi flagelli, sono
cessati»[21].
È
stato osservato[22]
che lo scrittore antico non stabilisce solo un rapporto tra Impero romano e
pace, ma tra Impero romano, pace e cristianesimo e che la pax romana in questo quadro assume un significato religioso
più che un significato politico, è una missione divina della
pace.
Altrettanto
interessante è la connessione tra monoteismo e monarchia e tra
politeismo e poliarchia, posto che la pace è segno e effetto della
monarchia, la guerra e la divisione segno e effetto della poliarchia,
un’idea che già aveva trovato qualche espressione in precedenti
scrittori cristiani.
Ciò
che muta interamente è la posizione dell’Impero, o meglio,
dell’imperatore verso
E qui
concludo questa mia breve panoramica che ha voluto proporre qualche testo e
indicare qualche riflessione sul modo con cui i primi cristiani hanno guardato
al rapporto tra l’Impero romano e la pace e fino a Costantino e al modo
‘rivoluzionario’ con cui questi (assecondato certo
dall’interpretazione eusebiana), ha impostato il suo rapporto con
*
Relazione presentata nella sessione moscovita del XXVI Seminario internazionale di Studi Storici “Da Roma alla
Terza Roma” «Pace e Impero.
Da Roma a Costantinopoli a Mosca. Diritto e religione» (Mosca,
Accademia delle Scienze di Russia, 7-8 novembre 2006).
[1] Cf. P. Siniscalco, L’uomo e la pace in scritti cristiani del II e del III secolo,
in La pace nel mondo antico. Atti del
Convegno Nazionale di studi su La pace nel mondo antico, Torino 9-11 aprile
[2] Si
veda, tra l’altro H.L. Strack-P.Billerbeck,
Kommentar zum Neuen Testament, vol.
IV, 2, München 1928, 1001 ss.
[4] Cf. P. Siniscalco, Dal soldato martire all’imperatore: modelli di cristiani per
[7]
Melito, Fragm.
[8] Cf. J. Irmscher, Le concezioni di pace nei Padri della Chiesa e l’ideologia
imperiale, in AA.VV., Concezioni
della pace, a cura di P. Catalano e P. Siniscalco, Roma, s.d., ma 2005,
134.
[11] I Tim 2.2:«Bisogna pregare per i
re e per tutti quelli che hanno autorità, affinché si possa
vivere una vita tranquilla e in pace, dignitosa e dedicata a Dio».
[12] Cf. J. Irmscher, art. cit., 135, il quale
cita W. Huber, in Theologische Realenzyklopädie,
Berlin 1983, 620. Vd. pure A. von
Harnack, Militia Christi,
Tübingen, 55 e H. Freiherr von
Kampenhausen, Tübingen 1960, 208 s.
[14] Si
tratta di un fatto avvenuto nelle operazioni di guerra condotte nel 174 contro
i Quadi, sconfitti sul Danubio, e attestato anche da autori pagani.
[15] Cf. Dione
Cassio 71.8-10; Capitolino, Vita Antonini
24. Pure un basso rilievo della Colonna di Marco Aurelio a Roma rappresenta
la scena. Vd. J.P.
Waltzing, Tertullien,
Apologétique. Commentaire analytique grammatical et historique, Paris
1931, 50.
[16] Cf. P. Siniscalco, Massimiliano un obiettore di coscienza del Tardo Impero. Studi sulla
“Passio Maximiliani”, Torino 1974, 112 ss.
[22] Cf. R. Farina, Concezioni della pace. A proposito di Costantino il Grande ed Eusebio
di Cesarea, in Concezioni della pace
cit., 123-132(128).