N. 6 – 2007 –
Tradizione-Romana
Università
di Tirana
Alle
radici del codice civile albanese*
Sommario: 1. Particolarità
dell’esperienza giuridica albanese. – 2. L’influenza del
diritto romano. – 3. Il
diritto di famiglia. – 4. L’avvento
dei codici. – 5. Il
ritorno alla democrazia – 6. Il
nuovo codice civile.
L’esperienza giuridica
dell’Albania è particolare. La particolarità dipende dal
modo con cui si è realizzata l’indipendenza del paese, il quale
è passato dall’Impero ottomano a alla proclamazione di
indipendenza nel 1912 e, subito dopo, alla condizione di Principato affidato ad
un principe tedesco (Guglielmo di Wied).
Per queste vicende, che mi
accingo a riassumere, l’Albania si è sempre vista assegnare forme
giuridiche che non corrispondevano alle proprie tradizioni.
Questo ha provocato la
persistenza dei diritti tradizionali accanto al diritto ufficiale.
In questo quadro ideologico e
teorico il diritto romano, legato alle antiche tradizioni illiriche, fu visto
come un importante punto di riferimento. Rivendicando l’origine dal
diritto romano del proprio diritto (quello dei kanun) gli Albanesi intendevano sottolineare la propria
differenziazione dagli slavi e dai musulmani.
Fu perciò stabilito un
parallelismo tra kanun e diritto
romano o, meglio, tra kanun e
principi del diritto romano.
Per parte sua la creazione del
Principato spinse anch’esso al recepimento del diritto romano. Il quale
non era tanto il diritto dell’esperienza romano, ma quello accolto in
Germania e, perciò in Albania si crearono due spinte. Quella dei kanun che guardavano addirittura al
diritto romano dell’età arcaica, come, ad esempio, nel caso del Feud
(la vendetta di sangue), dove vi è la reviviscenza della legge
del taglione, presente nelle XII tavole (
L’identificazione che ne
seguì fu esaltata e strumentalizzata dal fascismo il quale per farsi
accettare si propagandò come difensore contro eventuali invasori (in
particolare i Serbi) e come ripristinatore del diritto degli Albanesi
attraverso la valorizzazione delle radici comuni che risiedevano nel diritto
romano.
Da questa visione anche
sorsero pagine nelle quali vengono evidenziati i legami tra kanun e diritto romano come base
dell’identità albanese e come salvaguardia di essa.
In conclusione possiamo dire
che la presenza o quanto meno l’influenza del diritto romano
nell’esperienza e nel diritto albanese si realizzò attraverso una
duplice via:
1.
attraverso l’influsso sul kanun;
2.
attraverso il peso della visione teutonica del diritto.
Riguardo ai kanun, che regolano soprattutto il
diritto delle persone e della famiglia, ma anche l’appartenenza dei beni,
occorrerebbe un’analisi articolata che non mi è possibile
affrontare in questa sede, dove credo sufficiente fare notare che in realtà
il costume albanese ha articolazioni molteplici e che, perciò,
bisognerebbe esaminare ogni singolo kanun
per un’analisi completa delle sue caratteristiche, che pur in un quadro
di riferimento spesso omogeneo presentano aspetti e regole differenti da kanun a kanun.
In essi l’influenza del
diritto e della tradizione romana sono ugualmente considerevoli per due motivi:
al Sud per l’influenza della tradizione bizantina, conosciuta soprattutto
attraverso l’opera di Harmenopoulos, al Nord per il collegamento con una
tradizione di matrice anche romana conservata gelosamente nel costume locale,
come indice della propria identità.
Al riguardo va evidenziato che
la peculiarità del diritto albanese non venne meno neanche durante i
cinque secoli di tradizione musulmana. Infatti il diritto e le visioni
musulmane certamente penetrarono nel diritto degli albanesi ma non sino al
punto di assorbirlo e di annientarne le peculiarità; le quali, invece,
furono riconosciute ufficialmente dall’Impero Ottomano.
Il diritto romano, legato alle
antiche tradizioni illiriche, fu visto come un importante punto di riferimento.
Rivendicando l’origine dal diritto romano del proprio diritto (quello dei
kanun) gli Albanesi intendevano
sottolineare la propria differenziazione dagli slavi e dai musulmani[2].
Non a caso alcuni autori
sottolineavano le coincidenze esistenti tra kanun
e diritto romano, arrivando ad ipotizzare un collegamento diretto e mai
interrotto tra il mondo illirico degli albanesi e la civiltà romana[3].
Civiltà che avrebbe consentito di mantenere la propria
individualità resistendo alle invasioni slave[4]
anche attraverso una giurisprudenza dei kanun, affine a quella romana[5].
Punto centrale delle
coincidenze e/o delle identità di vedute appariva il ruolo del padre
nella famiglia e, a monte, la concezione dell’uomo, come espressione
della natura e non come costruzione del diritto o, peggio, dello Stato.
Significativa appare la
coincidenza nella concezione del matrimonio. Anche gli albanesi concepirono il
matrimonio in funzione della procreazione, sicché requisito essenziale
fu ritenuta la capacità fisiologica e non quella psicologica. Singolare
appare poi la coincidenza con la frequenza di matrimoni con fanciulle ancora
bambine, diffusa in tutto l’arco dell’esperienza giuridica romana.
Secondo il costume albanese la donna prima del raggiungimento della
pubertà poteva essere sposata e andare a vivere con il marito,
però i rapporti maritali potevano essere instaurati solo dopo il raggiungimento
della maturità sessuale e solo da quel momento il matrimonio veniva
riconosciuto[6].
In altri casi la coincidenza
si collegava al diritto romano attraverso la mediazione del diritto bizantino.
Significativo è il caso del fidanzamento (fejesa), considerato
come una forma anticipatrice del matrimonio e vincolante, la quale creava il
vincolo tra i fidanzati a vivere in matrimonio, nel senso che la donna
fidanzata era ritenuta ‘occupata’ e, quindi, non più libera
di avere un altro marito [7].
In quella realtà
l’intento di modernizzazione e di inserimento nel contesto europeo,
voluto dalla monarchia di re Zogu, approdò nel 1929 all’emanazione
di un codice civile, modellato sul Codice di Napoleone, sul Codice civile
italiano del 1865 e sul Codice svizzero, come venne espressamente dichiarato
nel Progetto del codice civile, varato il 10 feb. 1928 e pubblicato
nella Gazzetta Ufficiale del Regno n° 46 del 3 maggio 1928.
In esso il riferimento
costante agli istituti provenienti dal diritto romano è evidente, ed
appare:
dal riconoscimento della persona,
dal riconoscimento della potestà del padre e del marito,
dalla tutela della proprietà privata e dei diritti reali
(di godimento e di garanzia),
dalla successione ereditaria,
dalla disciplina delle obbligazioni e dei contratti,
dall’istituto della dote, dalla distinzione dei beni dotali
dai beni parafernali etc.
In essi l’assetto di
base è quello delle fonti romane ed in particolare di quelle
giustinianee. Parallela a questa impostazione del codice risulta
l’introduzione del Diritto romano, come disciplina obbligatoria
nella Facoltà di diritto.
La lunga parentesi del regime
comunista mutò profondamente il quadro del diritto in Albania ed il
diritto romano, visto come retaggio dell’occupazione straniera e non
più come radice del proprio costume, fu bandito dall’insegnamento
universitario. Inoltre la configurazione del diritto albanese all’interno
del sistema socialista comportava la scomparsa di fondamentali istituti come
l’eredità, le successioni e la stessa configurazione della
persona.
Con il ritorno alla democrazia
si è avvertita la necessità di ripristinare l’antico
diritto e riproporre l’Albania all’interno della civiltà
giuridica dell’Europa. In questo vi è qualcosa di indefinibile
perché da un lato gli Albanesi sono gelosi della propria
identità, dall’altro sono attanagliati dall’ansia di
apparire conformi agli altri paesi dell’Europa o, meglio, di essere
considerati da essi non diversi dalla civiltà europea.
Questo ha prodotto una
costituzione che è stata quasi data dall’esterno e non sembra
corrispondere alle visioni di fondo degli albanesi e, nel 1995, un codice
civile modellato, come fu per il Codice Zogu, sui codici civili della tradizione
della civil law. Il risultato è stato un codice ed una
costituzione che anziché superare talora hanno aumentato la distanza tra
il diritto ufficiale e il comune cittadino, dando spesso luogo alla
reviviscenza di istituti degli antichi kanun,
ancestrali e crudeli, come il’accennato Feud.
Qui occorre ritornare sui kanun
e sulle loro vicende. Come si è detto, con la legislazione di re Zog I
si era proceduto ad una graduale eliminazione dei feud di sangue; i
quali sono poi stati ufficialmente soppressi del tutto durante il regime
comunista. Dopo il 1991, con l’avvento della democrazia ed il vuoto di
potere e di organizzazione che ne è conseguito, specie dove affioravano
i nuovi problemi concernenti il possesso della terra, hanno generato molte
dispute, le quali, in assenza di una adeguata risposta legislativa e da parte
del sistema giudiziario, ha provocato il ritorno della gente all’antico kanun, attraverso una gestione personale
della giustizia. Purtroppo, il ritorno di libertà individuale inoltre ha
determinato la rinascita dei feud di sangue, specialmente nel nord del
paese, dove la gente di montagna dipende moltissimo dalle risorse terriere ed
è organizzata ancora in grandi famiglie (clans e tribù), le quali
costituiscono la rete tradizionale della Comunità. Le cause di questa
riapparizione del feud di sangue sono molteplici. Si possono indicare le
seguenti circostanze: la risurrezione di feud molto vecchi non del tutto
scomparsi durante il regime comunista; i nuovi conflitti sulla proprietà
terriera causati dalla rassegnazione delle terre dopo 45 anni di comunismo che
spesso è ritenuta non equa; la reviviscenza di situazioni non risolte,
secondo la legge del sangue; la mancanza o la debolezza delle forze di polizia
nazionale che, assieme alla inadeguatezza ed alla corruzione allontana la
fiducia dalle istituzioni e spinge a farsi giustizia da sé;
l’aumento della povertà congiunta alla mancanza generale di
sicurezza che spingono a fare affidamento, per la protezione personale e delle
proprie cose, sulla forza dell’organizzazione famigliare di appartenenza.
Il tutto si realizza in un
quadro di aumento del crimine organizzato che origina nuovi feud di
sangue i quali ora si vanno estendendo alle zone di pianura per via degli
spostamenti delle genti di montagna, che, soprattutto per le difficoltà
economiche, emigrano nelle città della pianura senza però
rinunciare ai propri costumi. Il baricentro dei feud di sangue è
la città di Shkodra. Per promuovere la pace e la riconciliazione sono
sorte da poco tempo alcune associazioni senza scopi di lucro con
l’intento di ridurre e, se possibile, eliminare la tradizione dei feud
di sangue. Una di queste organizzazioni è la lega dei missionari di pace
(LPM), un'associazione albanese locale sorta nel novembre del 1991, con
ramificazione in tutti i distretti nordici ed in alcune parti del sud. I membri
di LPM sono saggi che godono l'alta condizione all'interno della
Comunità. Alcuni hanno perso un fratello o un figlio in un feud
di sangue e desiderano assicurarsi che altri non saranno esposti a tali perdite
di amati.
Secondo le informazioni fornite
dalla lega, durante il primo semestre del 2002, nella prefettura di Shkodra,
che ha una popolazione di 291.000 abitanti, sono stati consumati 29 omicidi.
Diciotto di questi omicidi erano atti di vendetta ed hanno riguardato 54 nuove
famiglie sottoposte a un feud di sangue. Per la spinta delle
raccomandazioni dell’Avvocato del popolo e dell’opinione pubblica
il 30 marzo 2004 il Presidente della Repubblica, Alfred Moisiu, ha organizzato
una tavola rotonda sul feud di sangue
con i rappresentanti del governo, del Parlamento,
dell’Avvocato del popolo, della società, dei mezzi di
comunicazione, della magistratura etc., per individuare le migliori e
penetranti iniziative capaci di combattere la pratica del feud di
sangue, considerato come una ferita grave ed un grandissimo ostacolo per il
progresso del paese e dei processi di integrazione. Dalla riunione, alla quale
è intervenuto anche il Primo Ministro, è nato un gruppo di lavoro
per sradicare il fenomeno del feud di sangue, dichiarato con forza
crimine contro la Costituzione ed i diritti dell’uomo; una minaccia
inammissibile per il Paese e la sicurezza. Questo dimostra quanto il feud
di sangue è visto come un crimine grave che ha perso i caratteri
iniziali, i quali peraltro erano legati alla società feudale, e
si presenta solo come un crimine che fa regredire la civiltà giuridica
del Paese poiché ripropone la vendetta personale e riporta indietro
facendo emergere la regola dell’occhio per occhio[8].
Il feud contempla la
vendetta diretta a meno che non sia raggiunto un accordo, pare rispecchiare,
come si è accennato, ancora il principio riflesso nelle XII tavole: Si
membrum rupsit, ni cum eo pacit, talio esto (Se commise un
delitto contro una persona e non abbia raggiunto alcun accordo, si applichi il
‘taglione’).
Mi sono soffermata sul punto
perché è uno degli esempi più evidenti di come
l’aver dato normative lontane dalla mentalità e dalla vita reale
degli albanesi non sta generando un diverso ordine giuridico e, invece, fa
regredire la vita sociale e civile.
In questo contesto e senza
sciogliere alcuni dei nodi indicati nel 1995 si ritenne opportuno emanare un
nuovo Codice civile. Esso non doveva essere la riedizione del precedente
Codice Zogu.
L’ottica con la quale si
procedette alla redazione del Codice fu, tuttavia, quella di sempre: fare un
testo normativo vicino ai codici dell’Europa continentale, senza
tener conto della tradizione albanese, quasi che quei codici fossero
l’espressione di un modello universale e buono. Espressamente i kanun
furono ripudiati in blocco. Inoltre nella commissione chiamata a scrivere il
nuovo codice non vi erano studiosi di diritto romano.
Il codice scaturitone da un
lato ripristina istituti dell’esperienza mediterranea, dall’altro
produce un’assimilazione con concezioni generali ed astratte, non sempre
condivisibili. Rispetto alle quali il peso della tradizione e della cultura
albanese, a volte, hanno imposto qualche correttivo.
A conforto di ciò in
questa sede limiterò l’esame del codice a pochi aspetti, con la
consapevolezza che tutto il codice merita un esame penetrante per evidenziare
quanto assimilato e quanto no, contribuendo a quella estraneità tra
diritto ufficiale e pratica del diritto che affligge la società odierna.
Cito quanto avvenuto in tema
di persona. Gli artt. 1 e 2 si occupano dei soggetti del diritto.
Già questa dizione è stata accolta acriticamente e deriva dalla
discussa concezione della soggettività giuridica. Essa è
articolata intorno alla concezione della capacità giuridica ed
è di chiara derivazione germanica, come si può vedere leggendo il
dettato:
Art.
1: «Ogni persona fisica,
rispetto ai diritti ed obblighi civili, gode di pari capacità giuridica
secondo le condizioni previste dalla legge».
Art.
2: «La capacità giuridica
si acquista al momento della nascita della persona che nasca viva e termina con
la sua morte. Il nascituro se nasce vivo gode della capacità giuridica
sin dal momento del concepimento».
Appare evidente che il rilievo
giuridico dell’uomo viene fatto dipendere dal riconoscimento della legge.
Significativo e forse dovuto all’ascendente della visione albanese
è il riconoscimento accordato al nascituro «sin dal momento
del concepimento». In tal modo sembra che il concepito venga considerato
‘uomo’ e la rilevanza alla sua condizione giuridica non sia frutto
di finzione, come si afferma da parte della dottrina italiana. Tuttavia
poi la capacità giuridica del nascituro è subordinata alla
nascita, così come per ogni persona.
Qui mi pare che vi sia quanto
meno un’incertezza per il fatto che da un lato sembra si dia risalto al
concepito, come essere vivente e titolare di diritti, dall’altro,
subordinando il tutto al fatto che nasca vivo, si recepisce il pensiero che
subordina il riconoscimento della persona alla nascita
‘viva’, dando ad intendere che prima della nascita non vi sia
‘vita’.
In proposito la condizione
dalla quale si fa dipendere la capacità è che dopo il
parto il nato manifesti in qualsiasi modo di essere vivo, non richiedendosi
anche che sia ‘vitale’.
Sul punto va osservato che,
invece, i kanun davano immediato e diretto risalto al concepito e, in
virtù di esso, applicavano non solo le stesse regole della vendetta
prevista (nel caso di uccisione) per i nati, ma sottraevano dal Feud la
donna incinta.
Un aspetto certamente
innovativo ed importante appare, poi, l’assimilazione degli ‘stranieri’
ai cittadini:
art.
3: «Gli stranieri godono pari
diritti e obblighi riconosciuti ai cittadini albanesi, tranne le eccezioni
previste dalla legge».
Questo orientamento rispecchia
i kanun che davano ampio riconoscimento e protezione agli stranieri.
Esso si avvicina alla visione romana del diritto riconosciuto agli stranieri (peregrini).
Si tratta, inoltre, di una
dichiarazione di carattere generale importante, anche se poi occorre esaminare
l’intera legislazione per vedere quanto peso abbiano le eccezioni
introdotte a questo principio. Comunque esso va in controtendenza con
l’orientamento europeo che sta creando barriere contro i non appartenenti
all’Unione Europea. Le concezioni sembrano invertite: mentre
l’Unione europea racchiude nei suoi confini i suoi cittadini, con
una logica di esclusione degli altri, l’Albania, memore della tradizione
romana, accoglie tutti e tenta di non far differenza tra cittadini e stranieri.
In questa sede sono costretta
a fermarmi qui. Mi premeva dare un’idea della complessità del
diritto albanese e dei problemi che l’apertura all’Europa
(certamente positiva) può creare nella pratica del diritto di ogni
giorno.
*
Comunicazione presentata in forma scritta al XI Colloquio dei romanisti
dell’Europa Centro-Orientale e dell’Asia “Persona e popolo nel sistema del
diritto romano. Difesa dei diritti civili e difesa dei debitori. Recezione del
diritto romano nel sistema giuridico attuale. Necessità
dell’insegnamento del diritto romano”, organizzato a Craiova,
in Romania, nei giorni 1-3 novembre 2007, dalla Facoltà di Diritto e
Scienze Amministrative “Nicolae Titulescu”
dell’Università di Craiova, in collaborazione con l’Unità di ricerca
“Giorgio La Pira” del CNR, l’Università di Roma
“La Sapienza” e il Gruppo di ricerca sulla diffusione del diritto
romano.
[1] L’accostamento al diritto delle XII tavole è
fatto da un celebre scritto del 1941: ernesto koliqi, Il diritto albanese del kanun e il diritto romano - Lezione tenuta
presso il Reale Istituto di Studi Romani in Roma il 27 marzo
[2] V. ernesto koliqi, Il diritto albanese del kanun e il diritto romano cit.
L’autore dà voce allo stato d’animo degli Albanesi ed alla
loro radicata convinzione che la propria identità veniva espressa e
salvaguardata dal kanun; con tutto
l’articolo citato, nel quale esordisce (v. 7) in questi termini: «Quando, lo
scorso anno 1941, all'epico aprirsi della primavera vittoriosa, su tutto
l'immenso arco delle Alpi Albanesi s'addensarono minacciose e bene
armate, fidenti sopratutto nelle posizioni e nel numero incomparabilmente superiori,
le truppe Serbe, poche ma salde divisioni del nostro esercito, attestatesi
sulla breve pianura fra Scutari e i monti e nella valle del Drin ne contennero
l'impeto e poi le ricacciarono. Ma il fronte era immenso, le insidie vi si
potevano celare innumerevoli, le infiltrazioni di bande potevano
divenir pericolose. Allora venne finalmente soddisfatto il desiderio delle
stirpi della montagna, e ad ogni uomo si concesse un pane e un fucile. Come per incanto
in tre giorni, una popolazione primitiva che non ha telegrafo, radio, ferrovie,
automezzi, strade, che non ha mai fatto prove di mobilitazione, si trovò
in armi al comando dei suoi capi ereditari, pronta a battersi per i suoi
confini; occupò i valichi, li difese arditamente, li bagnò ancora
una volta del suo sangue ma molto più di quello del nemico secolare.
Meraviglia? prodigio? - Nò, per chi conosce il saldo organamento delle
stirpi della montagna albanese, la meravigliosa disciplina che le regge in caso
di emergenza, lo spirito eroico di cui è informata la psicologia di
quella gente. Tale organamento, tale disciplina, tale spirito
eroico, con tutti i principi che ne sono come i canoni, con tutte le norme pratiche che ne
determinano le attuazioni, nel laconico linguaggio albanese si comprendono in
un solo termine: il Kanun, la legge tradizionale».
[3] Emblematico appare un articolo del 1942: ernesto koliqi, Il diritto albanese del kanun e il diritto romano cit.
In esso si trovano affermazioni come queste (9): «L'alta concezione
morale e civica, lo spirito eroico che è l’anima di questa legge
tradizionale, l'unica sopravvissuta in Europa, ci richiama spontaneamente i ricordi
dell'antichità classica, e sopratutto quelli, degli “antiqui
mores” romani e delle leggi che ne vennero ispirate, e ci invita a studiare
quali relazioni e quali legami di dipendenza possono intercorrere fra essi. Quando
il potere di Roma, definitivamente esteso alla costa orientale adriatica,
dovette organizzare le varie popolazioni Illiriche che vi costituivano
individue collettività, – determinate piuttosto come gruppi etnici
a sede non del tutto costante che come provincie a confini precisi, – vi
adottò”»,
ed ancora (10): «C'era un Prefetto per l'Illirico, c'erano colonie romane o castelli di
cittadini romani, c'erano legioni, coorti, ali, con proprie sedi, ma
l'organizzazione che noi oggi chiameremmo municipale e giudiziaria, fu quella
che la sapienza ed equità romana aveva escogitata già almeno dai
primi tempi della Repubblica per le province della Sicilia, dell'Africa, della
Spagna, della Gallia, con la migliore possibilità di collaborazione fra
le autorità proconsolari e quelle locali nel comune interesse, per la
più solida garanzia per il buon diritto degli indigeni. Ogni
regione che avesse suo centro commerciale nel capoluogo principale o
secondario, era organizzata in “conventus iuridicus”, costituito
dai nobili, notabili e giudici della regione, e nelle colonie o quasi colonie
dove l'elemento romano si era in gran parte sostituito al precedente, “in
conventus civium romanorum”. Il Prefetto metodicamente perlustrava la
regione e, trattenendosi per ispezione nei vari capoluoghi, vi convocava il
“conventus” col quale prendeva in esame le cause, specialmente di
diritto civile, secondo norme che egli aveva predefinito con un
“edictum” ma che si basavano sul diritto romano, su
concetti locali e sullo “ius gentium”; in particolare per la
procedura, vigeva ampiamente, se non forse esclusivamente, l'istituto della
“recuperatio”: ogni cittadino locale che venisse
chiamato in giudizio “in ius”) da un romano, o viceversa, come pure il membro di una
comunità che venisse chiamato in giudizio dal membro di un'altra, aveva
il diritto di scegliersi una specie di giuria di “recuperatores”
che curavano il giusto scioglimento del processo nell'interesse dell'accusato.
In
seguito, cioè dal periodo degl'Imperatori Illirici in poi, e
specialmente dal tempo di Costantino, il “conventus” andò
acquistando sempre maggiore importanza tanto da venire a somigliare ad una specie
di parlamento provinciale con diritto di presentare lagnanze e proporre
migliorie al governo imperiale. Di tali “conventus” storicamente ne
conosciamo tre di giuridici (Salona, Narona, Scardona) e uno “civium
romanorum” (Lissus, l'odierna Alessio), ma è supponibile che altri
ancora ne esistessero in altri centri. La decadenza dell'Impero romano
bizantino portò veramente con sé un regime che andava facendosi
sempre più di tipo feudale,
naturalmente però soltanto nei centri, mentre la popolazione illirica
ancora organata in tribù (fis), è presumibile andasse acquistando sempre
maggiore autonomia fino a reggersi a sé secondo le tradizioni etniche,
forse in parte modificate dalle consuetudini impiantate dai romani. La parola
tribù suona male all'orecchio e non rende bene il significato di
fis che è un aggruppamento di famiglie di comune origine. Il
“fis” corrisponde perfettamente alla “gens” dei romani, come ben
dimostra il prof. Carlo Tagliavini nella sua pregevole opera “L'Albanese di Dalmazia”
(Firenze, Olski, 1937.). Siamo costretti qui all'uso della parola tribù per seguire
l'abitudine ormai invalsa negli albanologi».
[4] Op. cit., 11: «Le invasioni barbariche specialmente slave, d'altra
parte fecero scomparire le popolazioni illiriche dalle pianure, dalle valli e
dalle coste, dal nord fin sotto le Bocche di Cattaro, ed influenzarono la
costituzione delle tribù illiriche immettendovi, com'è molto
probabile, qualche cosa della loro costituzione che aveva già qualche
affinità con essa, ma non è affatto da escludersi che anche le
costituzioni slave abbiano risentito una forte influenza di quella illirica e,
per mezzo suo, forse dei concetti giuridici romani. Venezia, stabilendosi nelle
regioni della costa da Cattaro a Vonizza, vi trovò le città
prevalentemente latinizzate, più o meno come quelle di Dalmazia, e
alcune città albanesi nell'interno, e alcuni castelli con le regioni
dipendenti reggentisi a regime feudale
(Bizantino, Slavo, Napoletano), sotto signori albanizzati del tutto o quasi, o
addirittura albanesi. Soltanto qui e là, nella documentazione di
quest'epoca e della immediatamente precedente, affiorano vaghe notizie di
tribù pastorali e guerriere che si reggono per conto proprio allo stesso
modo che le compagnie di ventura della stessa epoca che in Italia costituivano
vere comunità indipendenti e ambulanti le quali entravano liberamente al
servizio dell'uno o dell'altro signore; così anche tali tribù,
transumanti per necessità di sostentamento, sfuggivano ad ogni dominio
governativo, e, avvezze ad una vita aspra e combattiva di liberi pastori,
offrivano il proprio aiuto militare all'uno o all'altro governo. Nulla ne
sappiamo di preciso dal punto di vista costituzionale e giuridico, ma è
molto probabile che si reggessero con uno statuto e un codice tradizionale non
scritto, ancora conforme, da una parte, alla psicologia della razza, e
dall'altra alla costituzione già consentita da Roma. […] (19) Nel
primo libro della Repubblica Cicerone affermava, per bocca di Scipione, che
delle tre forme di governo - monarchia, aristocrazia e democrazia - nessuna gli
pareva buona per sé stessa, e che preferibile a tutte era una quarta
forma costituita col moderato temperamento di tutte e tre. Questa quarta forma
egli trovava appunto nell'ordinamento della repubblica romana. E' per lo meno
singolare come queste tre forme di governo si contemperino nel reggimento
politico della tribù albanese, poiché troviamo il potere
monarchico nel bajraktár, il potere oligarchico nel Consiglio degli anziani (pleq)
e quello
democratico nella “vogjlija” popolo minuto). […] (21) non
poche sono le analogie fra i due diritti per quanto riguarda la libertà
e dignità personale; pure nel sentimento di disciplina che è
caratteristico del popolo romano, questi aveva vivissimo il sentimento della
libertà, quella della patria soprattutto, ma anche quella individuale,
come lo dimostrano le leggi che tutelavano i diritti del cittadino romano;
ricordare per esempio le Verrine di Cicerone, e il diritto penale secondo il
quale le condanne ammesse erano la multa, l'esilio, la morte, ma non le
battiture, e solo raramente la prigione; la stessa morte poteva essere quasi
sempre evitata andando in esilio. Il romano aveva in orrore l'autorità autocratica».
[5] «La giurisprudenza del Kanun è basata su una concezione
morale tutta propria d'una stirpe, a quanto appare, nobile e altera, gelosa
della propria personale dignità, indipendenza e onore - prerogative
però che vengono intese non meno nel loro significato appariscente ed esterno che nel loro
con tenuto sostanziale come vere e proprie virtù. E' sorprendente
l'affinità di sentire che trova con la psicologia ereditata dai
padri, il giovane albanese che si ponga a studiare tra gli elaboratissimi scritti di quel
più nobile portavoce dell'onestà romana che fu Cicerone».
[6] Il che corrisponde appieno a quanto affermato dai giuristi
romani: cfr. D. 36.2.30; D. 23.2.4; IJ. 1.10pr.
[7] Sul punto rinvio al mio saggio Donna e matrimonio in Albania –
Profilo storico-giuridico, Bari, 1998.
[8] Occorre ricordare che la vendetta era assoggettata a
minuziosa regolamentazione: Secondo il kanun
l’omicida aveva l’obbligo di avvisare la famiglia dell’ucciso
per evitare errori nell’individuazione del colpevole; anche questo oggi
non avviene più. Il kanun
chiedeva alla famiglia dell’ucciso di accordare una tregua (besa), se richiesta dalla famiglia
dell’uccisore, di 24 ore, durante le quali l’assassino aveva il
dovere di partecipare, senza venire toccato, al funerale della sua vittima. Del
rispetto di queste regole e di altre oggi non vi è più osservanza
e pertanto la vendetta si avvicina più ad una condotta barbarica che non
all’applicazione dell’antico costume. Sul punto e, più in
generale, sul problema cfr.: C. Boehm, Blood
Revenge: The Anthropology of Feuding in Montenegro and Other Tribal Societies,
ed. Lawrence: University Press of Kansas, 1984,
111-12; O. Bowcott, Thousands of
Albanian Children in Hiding to Escape Blood Feuds, in The Guardian
[UK], September 30, 1998; S. Capra, Albania
proibita. Il sangue, l’onore e il codice delle montagne, Milano 2000;
J. Perlez, Blood Feuds
Draining a Fierce Corner of Albania, in The New York Times, April
15, 1998; M. Rodina, Blood
Code Rules in Northern Albania, in Agence France-Presse dispatch,
June 30, 1999.