ds_gen N. 6 – 2007 – Tradizione Romana

 

foto magda roccaMagda maria L.G. Rocca

Università di Roma “La Sapienza”

 

I magistrati municipali e l’imperium*

 

 

Abstract: L’esercizio di atti di imperium da parte dei magistrati municipali sembrerebbe escluso dalle fonti della Compilazione giustinianea. In contrasto con le fonti della Compilazione giustinianea appaiono, invece, porsi alcuni frammenti epigrafici relativi soprattutto, ma non solo, a leges di municipia e coloniae in cui sono talora ben evidenti le tracce di un istituzionalizzato uso dell'imperium da parte dei citati magistrati. Vi sono, inoltre, in altri frammenti epigrafici di varia natura, riferimenti all’imperium di magistrature locali, in taluni casi espliciti e diretti, in altri casi indiretti, in quanto relativi alla attribuzione di poteri di cöercitio. Si prospetta un’ipotesi che giustifichi e coordini i dati ricavabili dalle fonti. Con un discorso che si discosta, in parte, dagli orientamenti dottrinali prevalenti: riferimento alla nozione di mandato e di delega di funzioni per tentare di spiegare l’ampiezza delle attribuzioni dei magistrati municipali.

 

 

La possibilità di porre in essere atti di imperium, in generale, da parte dei magistrati municipali, è stata sempre esclusa dalla dottrina sulla base delle fonti della compilazione giustinianea e, in particolare, sulla base di D. 50.1.26, tratto dal commentario all’editto di Paolo. Ivi si legge esplicitamente: Ea quae magis imperii sunt quam iurisdictionis, magistratus municipalis facere non potest. Nel paragrafo successivo della stessa fonte, a conferma dell’inciso iniziale, viene inoltre proposto un elenco, ad exemplum, di tali atti: Magistratibus municipalibus non permittitur in integrum restituere aut bona rei servandae causa iuberi possidere aut dotis servandae causa vel legatorum servandorum causa.

Accanto a D. 50.1.26 solo in un altro passo della compilazione si fa menzione della categoria degli atti magis imperii quam iurisdictionis, facendo rientrare tra essi lo iubere caveri e l’in possessionem mittere. Si tratta di D. 2.1.4[1] tratto dal primo libro del commentario all’editto di Ulpiano nel quale, tuttavia, non si fa alcun riferimento alle competenze dei magistrati municipali, sicché D. 50.1.26 rimane comunque l’unica fonte del Corpus Iuris in cui si afferma in modo inequivocabile che i magistrati municipali non potevano compiere atti magis imperii quam iurisdictionis e, di conseguenza, non potevano disporre, in particolare, missiones in possessionem (iuberi possidere) ed in integrum restitutiones.

Integrando il contenuto di D. 50.1.26 con quello di D. 2.1.4, in cui si legge: “Iubere caveri praetoria stipulatione et in possessionem mittere imperii magis est quam iurisdictionis”, si ricava ulteriormente che i magistrati municipali non potevano nemmeno iuberi caveri praetoria stipulatione ovvero, ordinare fosse prestata una cautio, mediante una stipulazione pretoria.

Con specifico riguardo alla nozione di atti “magis imperii quam iurisdictionis”, invece, non disponiamo di nulla. Il frammento di Ulpiano ha tutta l'apparenza di essere stato estrapolato da un discorso del quale non vengono riportate diverse parti e del quale sicuramente sfuggono anche le premesse. Di questo discorso non sarebbe riportata non solo la spiegazione relativa alla stessa denominazione “magis imperii quam iurisdictionis[2], ma mancherebbe altresì una descrizione delle caratteristiche che accomunano tra loro i provvedimenti magistratuali appartenenti a tale categoria. La sensazione di incompletezza è ancora più evidente in D. 50.1.26, in cui Paolo parte dall’assunto che esistano già degli atti denominati magis imperii quam iurisdictionis e specifica che questi non possono essere compiuti dal magistrato municipale, delineando così immediatamente, per esclusione, l’ambito di competenza di quest’ultimo. La presenza dell’ “ea” nel principium di D. 50.1.26 potrebbe lasciare congetturare che una disquisizione, a noi non pervenuta, sulla categoria degli atti magis imperii quam iurisdictionis poteva probabilmente precedere il relativo elenco indicato nel passo.

In mancanza di ulteriori riferimenti alla categoria di atti di cui si tratta, i dati che è possibile trarre al riguardo da passi come come D. 4.1.3 (Mod. 8 pand.): Omnes in integrum restitutiones causa cognita a pretore promittuntur, oppure, D. 39.2.4.4, (Ulp.1 ad ed.): Si forte duretur non caveri, ut possidere liceat (quod causa cognita fieri solet) non duumviros sed praetorem vel praesidem permissuros : item ut ex causa decedatur de possessione, o, ancora, D. 50.17.105 (Paul.1 ad ed.): Ubicumque causae cognitio est, ibi praetor desideratur, lasciano intendere che gli atti magis imperii quam iurisdictionis erano sicuramente caratterizzati da una forte discrezionalità magistratuale, che richiedevano cognitio causae e che per tale ragione erano riservati al pretore ed al praeses provinciae dotati, appunto, di imperium. Peraltro, in detti testi ugualmente risalenti all’età dei Severi, anzi tratti dalle stesse opere di Paolo ed Ulpiano, come in tutte le altre fonti della compilazione, non sembra, invero, esservi nulla che, con riguardo alle competenze dei magistrati locali, smentisca quanto è sostanzialmente riportato da Paolo in D. 50.1.26, ovvero che i magistrati municipali non potevano servirsi in modo alcuno dell’imperium.

Rispetto alle limitazioni in materia di competenza che sono indicate in D. 50.1.26 e che sono inoltre desumibili da D. 2.1.4, ad esso strettamente collegato, a conclusioni ben diverse è, invece, possibile giungere partendo dall’esegesi di diversi frammenti epigrafici relativi a leges di municipia e coloniae da cui emergono tracce di un istituzionalizzato uso dell'imperium da parte dei magistrati locali. All’interno di questo gruppo di fonti, particolarmente significative appaiono in primo luogo quelle in cui l’ipotesi che l’imperium potesse essere (in qualche modo) appannaggio anche delle magistrature locali è avvalorata dalla presenza della stessa parola “imperium” riferita a queste ultime ed al loro operato.

Nella lex Latina Tabulae Bantinae[3], ad esempio, si legge: imperiumue inierit iouranto; il frammento può interpretarsi nel senso che magistrati come il console, il pretore, l’edile, il questore, ma anche il triumvir cap(italis), IIIvir a(greis) d(andeis) a(dsignandeis) che entravano in carica nei cinque giorni successivi a quello in cui venivano a conoscenza dell’approvazione della legge di cui si tratta da parte del popolo o della plebe, avrebbero dovuto prestare giuramento così come era prescritto dalla stessa legge. Allo stesso modo avrebbero dovuto prestare giuramento anche una serie di magistrati, tra cui spiccano, ancora una volta, il IIIvir cap(italis)ed il IIIvir a(greis) d(andeis) a(dsignandeis) nei cinque giorni successivi a quello in cui sostanzialmente, la legge o il plebiscito avrebbero attribuito loro l’imperium o la magistratura[4].

Segue una sorta di sanctio nell’ipotesi di inosservanza di quanto previsto dalla legge: [Qu]ei ex h(ace) l(ege) non iuraverit, is magistratum imperiumve nei petito neiue gerito neiue habeto, neiue in senatu [posthac sententiam deicito ne]iue quis sinito, neiue eum censor in senatum legito[5].

Si aggiunge, infatti, che chi si fosse sottratto al prescritto giuramento non avrebbe potuto in realtà ottenere, né esercitare, l’imperium o la magistratura.

Riferimenti espliciti all’imperium dei magistrati locali si rinvengono, inoltre, nella lex Coloniae Genitivae Iuliae seu Ursonensis (dalla città di Osuna, nel cuore della Betica, nei pressi della quale sono state rinvenute le relative tavole bronzee), in un frammento del centoventicinquesimo capitolo in cui si proibisce a chiunque di occupare i posti che, in occasione della rappresentazione di spettacoli, sono riservati ai decurioni, a meno che non si tratti oltre che, ovviamente, di decurioni, di magistrati che abbiano ricevuto l’imperium o la potestas per suffragio dei coloni ovvero di magistrati municipali: “…ne quis in eo loco nisi tum decurio coloniae genitivae erit, quive tum magistratus imperium potestatemve colonorum suffragio …[6]. Poiché si parla di magistrati eletti dai coloni, non può che trattarsi di magistrature stabili all’interno della colonia stessa, e cioè di quei magistrati che subentravano a quelli provvisoriamente attribuiti dalla madre patria al momento della fondazione della colonia, non dunque di quelle magistrature che, invece, derivavano il proprio imperium da Cesare. E’ significativo che, per quanto concerne i poteri, la lex non distingua tra magistrature locali e magistrature che giungono da Roma. Nel testo, infatti, si fa riferimento indistintamente non solo alla potestas, il che garantisce che si tratti di magistrature in senso tecnico, ma, soprattutto, all’imperium.

A favore dell’ipotesi che vi fossero magistrati locali dotati in qualche modo di imperium, depone anche il cap. 128 della stessa lex Ursonensis, in cui si legge chiaramente che il duumviro, l’edile o il prefetto della colonia, chiunque avesse ricoperto queste cariche, nel suo anno di magistratura e di imperium si sarebbe dovuto occupare dei templi e dei santuari della colonia: “II(vir) aed(ilis) pra‹e›f(ectus) coloniae Genitivae Iuliae quicumque erit, is suo quoque anno magistratu imperioque facito curato[7]. Anche nel breve elenco di magistrature prospettato da quest’ultimo frammento non si distingue affatto tra magistrature con imperium e magistrature senza imperium, poiché i termini magistratum ed imperium sono allo stesso modo riferiti a tutti i magistrati indicati, anche ai duumviri.

Allo stesso modo, dal frammento dello statuto di Falerio II relativo alla omonima colonia (o forse municipio) risalente probabilmente al I sec. a.C.[8], è possibile trarre altre indicazioni relative alla giurisdizione locale che presentano alcune analogie con la lex Ursonensis. Tra le poche parole giunteci con la mutila tavola bronzea di particolare rilievo sono: “[…pr]o imperio po[testateve…]” ed “[…in] ea colonia [eove municipio…]” che sembrano poter far parte di un testo simile a quello sopra citato tratto dal capitolo centoventicinque della lexUrsonensis : “quive pro quo imperium potestateve tum in col(onia)(…) erit…” e che sono evidentemente, allo stesso modo riferite a magistrature dotate di imperium proprie della colonia.

Tra le testimonianze relative ad un’esplicita attribuzione dell’imperium a magistrature locali, vi è anche quella di Tito Livio, il quale, trattando della deduzione, avvenuta presumibilmente intorno all’inizio del secondo secolo a.C., di due colonie indicate come latine, ma, in realtà, fondate insieme da romani e da latini, ha riferito che, in tale occasione, sarebbero stati eletti dei triumviri con imperium, in carica per la durata di tre anni: Exitu anno huius Q. Aelius Tubero tribunus plebis ex senatus consulto tulit ad plebem plebesque scivit uti duae Latinae coloniae, una in Bruttius, altera in Thurinum agrum deducerentur. His deducendis triumviri creati, quibus in triennium imperium esset....[9].

Anche il passo citato testimonia la presenza di magistrature locali dotate d’imperium all’interno di colonie con Ius Latii, molto probabilmente attribuite stabilmente a dette colonie e dunque rientranti nella loro autonomia organizzativa. Se si considera che nei municipii dell’Italia centrale era ricorrente la presenza di dittatori, pretori, edili, ma anche di figure magistratuali come i duumviri, i quattuorviri o gli octoviri che corrispondevano spesso alle magistrature epicorie ivi sussistenti prima della concessione della cittadinanza romana[10], è possibile ipotizzare che anche le colonie romane dedotte su centri preesistenti, o su precedenti colonie latine, potessero mantenere in modo stabile o rinnovare la tradizione di magistrature forse solo più antiche, come quella dei triumviri. Ciò potrebbe spiegare la presenza di triumviri dotati di imperium nel centro bantino anche senza annoverare questi ultimi tra le magistrature straordinarie.

Dell’imperium dei triumviri a.d.a.[11] e di quelli capitales, si trova sostanzialmente conferma anche in una delle disposizioni epigrafiche della Tabula Bembina[12], nella parte in cui si dispone il divieto per il presidente della quaestio de repetundis di accogliere e di iscrivere al ruolo la delatio nominis verso coloro i quali siano titolari di una magistratura o di imperium finchè non abbiano abbandonato la carica o l’imperium. Nel frammento, tra questi ultimi, infatti, vengono citate anche le menzionate categorie di triumviri.

Numerose sono poi le fonti in cui, pur non richiamandosi direttamente l’imperium, si fa riferimento a fattispecie in cui era consentito ai magistrati municipali di apprestare un genere di tutela tipicamente pretoria, dipendente pur sempre da tale potere.

 Tanto avviene, in primo luogo, nella preziosissima lex Rubria de Gallia Cisalpina[13] che, così come ci è giunta, consta di parte del capitolo XIX e del capitolo XX, inerenti al danno temuto[14] rispettivamente dall’opera in proprio del vicino e dall’aedes minacciante o dall’albero che sta per rovinare; inoltre del capitolo XXI e di parte del capitolo XXII riguardanti ipotesi di certa credita pecunia.

Nel primo frammento della lex Rubria de Gallia Cisalpina, concernente la parte finale del Cap.XIX e relativo, come si accennato, all’operis novi nuntiatio, si legge : ….iussum iudicatum erit, id ratum ne esto; quodque quisque quomq(ue) d(e) e(a) r(e) decernet interd(e)icetve seive sponsionem fieri iudica(rei)ve iubebit iudiciumve quod de ea re dabit, is in id decretum interdictum sponsionem iudicium exceptionem addito addive iubeto: “ q(ua) d(e) r(e) operis novi nuntiationem II vir IIII vir praefectusve eius municipei non remeisserit [15].

Per quanto manchino le prime righe, si può ritenere che la legge statuisca che «tutto ciò che è stato ordinato o giudicato non debba considerarsi vincolante (oppure si potrebbe lasciare il termine originario “rato”, assumendo per rato ciò che è stato decretato seguendo un procedimento regolare)». Non è facile intuire a quali soggetti faccia riferimento il passo, come artefici dello iussum o del iudicatum. Più oltre nello stesso frammento si legge che «qualunque decreto o interdetto o sponsio o qualunque procedura formulare da chiunque sia prescritto o prescritta, a questa/o si dovrà aggiungere, quale exceptio, il fatto che i magistrati municipali non abbiano rimesso l’operis novi nuntiatio», si può intendere: «affinché detto provvedimento sia efficace». Nel frammento indicato, si fa riferimento ad una remissio[16] effettuata da un qualunque magistrato municipale tra quelli elencati, senza distinguere tra le diverse cariche e, dunque, senza tener conto di un’eventuale differenza di attribuzioni o di poteri, tra le diverse magistrature. Si vuole focalizzare, in particolare, l'attenzione sull'inciso: in id decretum, interdictum … exceptionem addito… qua de re operis novi nuntiationem II vir IIII vir praefectusve eius municipei non remiserit, nel quale appare indubbio che la remissio fosse consentita a magistrati municipali ed operasse in via di exceptio, come un qualsiasi rimedio pretorio di fronte ad un istituto dello ius civile[17].

Certo, la remissio è notoriamente non ben chiara in tutti i suoi aspetti[18], ma, sicuramente, deve intendersi come un atto “prevalentemente” di imperium, in particolare poichè consisteva in un provvedimento discrezionale del magistrato che necessitava, molto probabilmente, di causae cognitio[19].

Entrando nel merito della remissio, quest’ultima è stata considerata in dottrina[20] come una parte dell'istituto della operis novi nuntiatio, unitamente all'omonima cautio ed all'interdictum demolitorium. L’operis novi nuntiatio quale diffida a non realizzare o continuare un'opera ritenuta potenzialmente lesiva, viene definita nelle fonti [21] come un beneficium praetoris ovvero, come precisa il Bonfante[22], come un rimedio giuridico avente la sua base nell'imperium del pretore e la sua disciplina nell'editto. Detto rimedio doveva fondarsi sulla sussistenza di un vero e proprio ius opus nuvum prohibendi che il nuntians dichiarava di avere, sulla base di una situazione di fatto, relativa ai luoghi. L'intimato, qualora intendesse proseguire l'opera, si esponeva alla pronuncia di un interdictum demolitorium da parte del pretore, a seguito del quale sarebbe stato costretto a demolire l’opera, a meno che non avesse prestato una cautio a mezzo della quale avrebbe garantito la rimozione dell'opera a sue spese, qualora questa fosse risultata illegittima. Il nuntiatus, tuttavia, negando la sussistenza dello ius prohibendi del nuntians, in alternativa alla prestazione della cautio, poteva ottenere dal pretore una “remissio”, ovvero un provvedimento che lo autorizzasse provvisoriamente a proseguire i lavori assumendosene il rischio. Il “ceterum nuntiationem missam facio” di D.39.1.1.pr[23] sembrerebbe chiaramente indicare che, in relazione a tutto quanto esulasse dallo ius prohibendi del nuntians, la nuntiatio doveva essere rimessa dal magistrato[24].

Come si nota nell'incipit del cap. XIX della lex Rubria de Gallia Cisalpina, il decreto con cui si disponeva un interdictum demolitorium su domanda del nunziante avrebbe sortito i suoi effetti solo se fosse stata inserita l'exceptio qua de re operis novi nuntiationem ille praetor non remiserat. Tale exceptio, grazie alla formulazione condizionata del decreto di remissione, avrebbe letteralmente “costretto” il nuntians a dimostrare il proprio ius prohibendi[25].

A tal riguardo si osserva che se la cautio ex operis novi nuntiatione rientrava nelle stipulationes iudiciales praetoriae [26] e la sua imposizione da parte del magistrato era atto magis imperii quam iurisdictionis, la remissio doveva evidentemente assumere la sua stessa importanza e collocarsi sullo stesso piano. La dottrina è pervenuta alla conclusione che la cauzione fosse pienamente uguale alla remissione pretoria[27], sia sulla base di D. 39.1.20.4[28], interpretando la locuzione loco remissionis, come riferita alla cautio, sia in considerazione del fatto che la cautio ex operis novi nuntiatione e la remissio pur rimanendo sempre due istituti distinti ed alternativamente applicati, sortivano il medesimo effetto di paralizzare l'interdictum demolitorium[29].

Il magistrato municipale nell'atto di pronunciare una remissio avrebbe sostanzialmente pronunciato un decreto condizionato che, paralizzando un interdictum prohibitorium, si poneva sullo stesso piano di quest’ultimo; tale decreto aveva sostanzialmente la natura di un vero e proprio interdetto proibitorio. Alla luce della possibilità per i magistrati locali di emanare un provvedimento come la remissio, che aveva tanto peso nella procedura ex operis novi nuntiatione, non sembrano sussistere validi motivi per escludere che detti magistrati potessero disporre anche la prestazione di cautiones ex operis novi nuntiatione. Il frammento epigrafico relativo al XIX capitolo, del resto, è mutilo.

Allo stesso modo nulla esclude la possibilità di ipotizzare che sempre con riferimento all’operis novi nuntiatio, i magistrati municipali potessero, durante il procedimento, imporre, qualora le circostanze lo avessero richiesto, per carenza della procura, una cautio rem ratam dominum habiturum, ovvero una stipulatio praetoria rientrante nello iubere caveri e, pertanto, appartenente agli atti magis imperii quam iurisdictionis[30].

Attenendosi alle fonti, tuttavia, riferimenti espliciti alla possibilità da parte dei magistrati municipali di disporre la prestazione di cautiones, mediante repromissio, oppure satisdatio[31] si rinvengono esplicitamente nel capitolo XX della lex Rubria dove si tratta di cautiones damni infecti.

Nella prima parte della fonte citata si legge:…qua de re quisque et a quo in Gallia Cisalpeina damni infecti ex formula restipularei satisve accipere volet, et ab eo quei ibei i(us) d (eicet) postulaverit, idque non k(alumniae) k(aussa) se facere iuraverit, tum is quo d(e) e(a) r(e) in ius aditum erit, eum quei in ius eductus erit, d(e) e(a) r(e) ex formula repromittere et, sei satis darei debebit, satis dare iubeto decernito. Quei eorum ita non repromeisserit aut non satis dederit, sei quid interim damni datum factumve ex ea re aut ob e(am) r(em) eove nomine erit, quam ob rem, utei damnei infectei repromissio satisve datio fiere(t), postulatum erit, tum mag(istratus) prove mag(istratu) IIvir IIIIvir praefec(tus)ve, quoquomque d(e) e(a) r(e) in ius aditum erit, d(e) e(a) r(e) ita ius deicito iudicia dato iudicareque iubeto cogito, proinde atque sei d(e) e(a) r(e), quom ita postulatum esset, damn(ei) infectei ex formula recte repromissum satisve datum esset[32].

Riassumendone brevemente i contenuti, ivi si stabilisce che chiunque nella Gallia Cisalpina tema un danno e voglia “restipulare” secondo la formula della cautio damni infecti, oppure ricevere una satis datio (così almeno sembrerebbe potersi interpretare il “ …quisque. in Gallia Cisalpeina damnei infecti ex formula restipularei satisve accipere volet…”) e lo avrà richiesto a colui il quale “ibei ius deicet”, sarà accontentato, purchè abbia giurato che non lo fa con intento calunniatorio. Traducendo, il testo, quest’ultimo, per quanto articolato, può indicativamente essere reso così: «colui il quale per tale ragione sarà convenuto in giudizio(in ius aditum erit….in ius eductus) secondo la formula, dovrà ripromettere e se dovrà satis dare gli sarà ordinata una satis datio. Chi, infatti, non avrà prestato repromissio o satis datio, se, intanto, si sarà verificato un danno per quei fatti per cui avrebbe dovuto farlo, sarà richiesto di ciò dal magistrato o, per lui, dal duumviro, dal quattuorviro o dal prefetto e comunque per tali fatti sarà convenuto in giudizio e per gli stessi fatti sarà giudicato dagli stessi magistrati».

Si evidenzia, in primo luogo, la presenza di un magistrato che ibi, ovvero all’interno del municipio ius dicit. Ricorre, in questo caso, l'ipotesi in cui l'espressione “ius dicere” indica l'esercizio di funzioni ben più ampie di quelle sottese al concetto di iurisdictio[33]. La iurisdictio[34], infatti, pur trovando la propria origine nel primitivo ius dicere, è, successivamente, valsa ad indicare quel complesso di attività poste in essere dal magistrato durante la fase in iure del procedimento di preparazione alla fase apud iudicem, ed è nella pronuncia dei noti “tria verba” di varroniana memoria (do, dico, addico)[35] che si sarebbe compendiata la sua parte essenziale[36]. Il dicere, invece, riferito allo ius, può interpretarsi come “statuire” [37], riportando l’esempio di “inter-dicere”, “diem dicere”, “dotem dicere[38], oppure con “provvede”. In particolare, nel processo formulare[39], il dicere avrebbe assunto i caratteri di una “statuizione solenne”[40] del diritto attraverso la determinazione di una regola o la creazione di un vincolo tra le parti, conformemente a ciò che i romani avrebbero inteso col termine “ius”. Detta locuzione avrebbe mantenuto, pertanto, un significato più legato alla discrezionalità che caratterizza l’esercizio dell’imperium [41], riferendosi a provvedimenti legati all'imperium e questo elemento risulta perfettamente in linea con la circostanza che, nel citato frammento epigrafico, chi ius dicit, imponga delle stipulationes pretorie.

Si potrebbe pensare che la competenza relativa spetti al pretore, ma non vi è alcun riferimento a tale magistrato nel testo del cap. XX, come, invece, appare, ad esempio, nel cap. XXII[42] della stessa legge, dove il pretore viene espressamente indicato come competente nei processi aventi un oggetto diverso dalla pecunia certa credita.

Nel testo di cui si tratta, ancora, oltre all’ “ibi” già citato, emerge un sei satis darei debebit, satis dare iubeto decernito: imperativo futuro plurale, che appare chiaramente contenere direttive rivolte ad una pluralità di magistrati . Inoltre, nello stesso testo si precisa ulteriormente che se si è fatta repromissio oppure satis datio secondo la formula del damnum infectum, allora si formerà il giudicato ed in merito a quei fatti ius ratum esto. Quest'ultima formula, si nota, è la stessa utilizzata nel frammento relativo al capitolo XIX della lex, in un contesto in cui è indubbiamente riferita all’operato dei magistrati municipali.

Nelle righe successive al passo sopra citato del capitolo XX della lex Rubria[43], si legge, inoltre, che nei confronti di coloro i quali non avevano compiuto repromissio, oppure satisdatio sarebbe stata accordata una formula. Quest’ultima solo formalmente corrispondeva all’actio ex stipulato utilizzata dal pretore in Roma, ma da essa si distingueva, poiché non presupponeva l'effettiva prestazione della stipulatio prima del verificarsi del danno temuto. Era prevista, sostanzialmente, un'actio ficticia, anzi, per precisione, erano previste due actiones ficticiae di cui una con formula riferita alla repromissio (cautio) damni infecti e l'altra alla satisdatio damni infecti, che erano conformi a quelle che si potevano rinvenire nell'editto del pretore peregrino e che consentivano, allo stesso modo, al danneggiato di ottenere il risarcimento del danno, poiché i magistrati giudicavano come se, “L. Seio repromeississet” ovvero, avesse fatto repromissio.

In dottrina[44] si è anche ipotizzato che il frammento epigrafico riportato contenesse il primo esempio di cautio obbligatoria, ovvero di stipulatio con una propria forma di tutela ed il richiamo all'editto del pretore peregrino avrebbe lasciato intendere che tale tipo di cautio non era ancora in uso presso i romani. In definitiva, mentre il praetor peregrinus avrebbe dovuto limitarsi ad accordare un'actio ficticia ex stipulatu contro chi non aveva prestato la cautio, dopo il recepimento dell'istituto dall'editto[45], il praetor urbanus, in caso di inottemperanza al iussum cavendi, avrebbe potuto, con un primo decreto (missio ex primo decreto) autorizzare il minacciato ad immettersi nella semplice detenzione dell'immobile dal quale temeva il danno e nel caso di persistenza nel rifiuto di prestare la cautio, con un secondo decreto avrebbe potuto attribuire al minacciato il possesso ad usucapionem. Pertanto, se da una parte non era previsto che i magistrati municipali, in mancanza della prestazione della cautio, disponessero missiones in possessionem[46], d'altra parte il praetor urbanus avrebbe fatto ricorso ad un'actio ficticia solo come extrema ratio: In eum, qui neque caverit neque in possessione esse neque possidere passus erit, iudicium dabo, ut tantum praestet, quantum praestare eum oporteret, si de ea re ex decreto meo eiusve, cuius de ea re iurisdictio fuit quae mea est, cautum fuisset[47].

Secondo altra parte della dottrina, invece, non ci sarebbe stata affatto una priorità temporale nella ricezione della cautio da parte dell'editto del praetor peregrinus, rispetto a quello del praetor urbanus dal momento che, per quanto concerne la formula dell'editto riportataci da Ulpiano in D.39.2.7.pr., la presenza di alcuni riferimenti testuali avrebbe lasciato intendere che fosse nota già a Labeone ed a Masurio Sabino[48].

Il richiamo all'editto del praetor peregrinus, peraltro, si sarebbe potuto giustificare semplicemente col fatto che la Gallia Cisalpina, dopo l'estensione della cittadinanza ai Transpadani, poteva essere ancora provincia[49]; di contro, sempre in base a tale orientamento, la questione sulla introduzione della cautio nell'editto urbano sarebbe sorta per via dell'incapacità dei magistrati municipali di accordare missiones in possessionem ex secundo decreto[50], ma solo ex primo decreto. Si è così voluto giustificare il ricorso alla fictio adducendo, in particolare, che essi non potessero compiere atti magis imperii quam iurisdictionis in quanto non avevano l'imperium.

Tale giustificazione, tuttavia, non appare sufficiente, non solo perché, come si è visto, tali magistrati potevano imporre la prestazione di una cautio, ma anche perché essi si servivano di un escamotage molto più sottile. Infatti, come se loro fosse strato attribuito quell’imperium che caratterizzava i poteri del praetor peregrinus[51], essi potevano servirsi di una fictio iuris (iudicialis) ovvero di uno degli strumenti più rivoluzionari del ius honorarium con cui il magistrato, pur non potendo modificare quanto era stato sancito dallo ius civile, poteva tuttavia “fingere” che determinati meccanismi avessero già sortito quegli effetti che lo stesso ius civile prevedeva che sortissero, seguendo le procedure ordinarie, oppure che determinati effetti non si fossero mai verificati[52]. L'esercizio dell'imperium, in particolare, risulta qui indubitabile se si pensa che anche lo schema attraverso il quale, in genere, i magistrati dell'Urbe disponevano le in integrum restitutiones, notoriamente atti magis imperii quam iurisdictionis, era proprio quello delle actiones ficticiae. D'altra parte, si osserva che nel cap. XX della lex Rubria, se non si rinviene alcun riferimento ad una missio ex secundo decreto, nemmeno si riscontra alcun riferimento ad una missio ex primo decreto, con riguardo alla mancata prestazione della cautio damni infecti. La dottrina che, trattando del cap. XX della legge, precisa che ai magistrati locali fosse consentita solo la missio ex primo decreto, giustifica, infatti, tale asserzione, solo con D.39.2.1 (Ulp. 1 ad ed.): Cum res damni infecti celeritatem desiderat et periculosa dilatio praetori videtur, si ex hac causa sibi iurisdictionem reservaret, magistratibus municipalibus delegandum hoc recte putavit[53]. Se il non poter ricorrere alla missio in possessionem fosse stato dovuto alla carenza di imperium, peraltro, non si spiegherebbe perché in questo capitolo della lex non sia stata almeno consentita l'immissione nella detenzione ex primo decreto.

Dal frammento epigrafico emergerebbe, inoltre, un altro dato che vale a confermare l'esercizio da parte dei magistrati locali di quella discrezionalità legata all'imperium che caratterizza le forme di tutela apprestate dal pretore ed, in particolare, dal pretore peregrino. Nell'intentio della formula ficticia riportata nel passo da ultimo citato della lex Rubria si rileva altresì la presenza di una clausola ex fide bona che sembrerebbe fuori luogo in una stipulatio che è un contratto stricti iuris e che è tutelato da uno iudicium strictum[54]. Utilizzare formule fondate sull'oportere ex fide bona, peraltro, avrebbe conferito ai magistrati municipali poteri amplissimi[55] nell'individuare i contenuti della tutela che essi andavano ad apprestare e che andavano presumibilmente oltre quello che le parti avevano convenuto nella stipulatio, consentendo loro le stesse possibilità che avrebbe avuto il praetor grazie al suo imperium. La clausola “ex fide bona” così come si trova inserita in un'actio ficticia ex stipulatu, ha creato diverse perplessità nella dottrina che si è adoperata in vario modo per giustificarne la presenza[56]. Quella di cui si tratta rimane, in ogni caso un’actio ficticia con la quale si vogliono estendere gli effetti di un'actio civile ex stipulato, con intentio incerta (quanti ea res erit) perché avente ad oggetto un danno futuro ed incerto. Essendo l'actio ficticia finalizzata al risarcimento del danno, ma non essendoci realmente alla base di tale risarcimento la vincolatività di una stipulatio, si può ipotizzare (ancora una volta senza prove), che si sia voluto creare un oportereex fide bona” inserendo la relativa clausola e conferendo, in tal modo, ampie possibilità ai magistrati[57] che se ne servivano La taxatio, riportata per due volte, e lasciata in bianco nel testo epigrafico si potrebbe spiegare o per via dell'intentio incerta dell'actio ex stipulatu[58] o, comunque, per l'esigenza di stabilire dei limiti di valore al risarcimento del danno nell'ambito di un iudicium bonae fidei. In ogni caso, a prescindere da queste mere supposizioni, la taxatio difficilmente potrebbe intendersi come un limite posto alla competenza dei magistrati municipali perché, se così fosse stato, non sarebbe stata lasciata in bianco e così inserita nella formula, col rischio che gli effetti della litis contestatio si estendessero a tutto il rapporto. Si potrebbe, pertanto, ritenere, anche con riguardo all'actio ficticia, che la competenza dei magistrati municipali fosse illimitata.

L’uso della fictio da parte dei magistrati municipali si riscontra anche nei capitoli XXI e XXII della lex Rubria, nei quali si tratta della disciplina che veniva adottata nelle ipotesi di confessio e di indefensio relative alle actiones in rem, intentate nei municipia e nelle coloniae presenti nella Gallia Cisalpina[59]. Nei citati capitoli vengono prese in considerazione due ipotesi: la prima è quella del debitore che, dopo aver confessato il proprio debito, non solo non pagava la somma di denaro relativa, ma non prestava nemmeno la dovuta garanzia ed, infine, non assumeva la difesa di fronte all’azione esecutiva ex confesso instaurata dal creditore; la seconda, invece, concerne il caso del debitore che, convenuto in giudizio, non rispondeva in iure, o meglio, se iudicio utei oportebit non defenderit, ovvero: «non prendeva posizione di fronte all’editio della formula compiuta dall’attore»[60].I magistrati municipali riservavano il medesimo trattamento, sia ai debitori confessi che a quelli indefensi, equiparando gli esponenti di entrambe le categorie a coloro nei confronti dei quali era stata emanata una sentenza di condanna. Secondo un certo orientamento dottrinario[61], in particolare, nella Gallia Cisalpina, i magistrati municipali avrebbero potuto concedere al creditore un’actio confessi, oppure un'actio iudicati contro il debitore, a fronte della quale lo stesso debitore, se avesse voluto opporsi, avrebbe dovuto prestare una cautio iudicatum solvi per evitare il duci iubere[62]. Solo il rifiuto di iudicium accipere e di aderire alla litis contestatio o di prestare, qualora gli fosse stata richiesta, la cautio iudicatum solvi, avrebbe comportato l'inizio immediato dell'esecuzione forzata.

Secondo un diverso orientamento[63], invece, la confessio avrebbe avuto direttamente efficacia esecutiva; non si sarebbe posto peraltro il problema di determinare la somma di denaro da pagare, poiché nelle fattispecie prese in considerazione dalla lex Rubria, si sarebbe fatto riferimento ad una quantità di denaro determinata (certa credita de pecunia). Nella Gallia Cisalpina l’indefensus, dunque, sarebbe andato direttamente incontro ad una ductio immediata, ovvero al duci iubere del magistrato, senza che prima fosse intentata nei suoi confrnti un'actio ex iudicato o ex confesso. Che la condanna fittizia conseguente all’actio certae creditae pecuniae fosse immediatamente esecutiva appare, peraltro, testimoniato dal testo della stessa lex Rubria[64], alla luce del quale, dopo la citata fictio damnationis è previsto solo il duci iubere del debitore: un’ esecuzione forzata personale immediatamente esperibile.

Nell'Urbe, invece, solo il confessus certae creditae pecuniae (e non anche l’indefensus) sarebbe stato equiparato al damnatus,[65] sempre se questi, dopo aver confessato in iure, non avesse pagato la somma di denaro in relazione alla quale era debitore entro trenta giorni, oppure se non avesse fornito garanzie per il suo pagamento o, ancora, non avesse assunto alcuna difesa nell'actio confessi. Sussistendo tali presupposti il debitore andava, pertanto, soggetto alla ductio.

A Roma, oltre alla ductio[66], l’attore avrebbe potuto chiedere al pretore, quale ulteriore mezzo coercitivo, la missio in possessionem[67] nei beni del debitore in ius vocatus per costringerlo a presentarsi in giudizio, sempre che, a seconda delle circostanze, il suo esperimento potesse risultare efficace e quindi opportuno[68]. Il pretore avrebbe poi valutato con i suoi ampi poteri discrezionali il comportamento giudiziale del convenuto sotto il profilo della sua idoneità all'attuazione del contraddittorio, nel senso che, prima di disporre la missio in possessionem, il magistrato avrebbe dovuto cercare di prevedere se il convenuto giungesse o meno alla litis contestatio senza ulteriore pregiudizio per l'attore. La citata missio in possessionem, poteva essere ordinata dal pretore separatamente o congiuntamente alla ductio che invece si realizzava materialmente con l'impossessamento del corpo del debitore, esattamente come, nel processo per legis actiones, si realizzava la addictio. In genere, il ductus iudicatus insolvente, per sottrarsi a questo stato di prigionia, avrebbe potuto giungere ad accordi con il creditore per il soddisfacimento delle sue ragioni e le fonti non escludono che, a tal fine, egli avesse facoltà di offrirgli la propria attività lavorativa[69]. Quanto agli effetti della ductio[70], è controverso in dottrina se questi fossero definitivi o meno[71], tuttavia non sembra che vi sia molto spazio, al riguardo, per posizioni categoriche e che occorra invece distinguere. Per quanto concerne la ductio comminata nei confronti dell'indefensus, che non seguiva ad alcuna condanna, è possibile che, a quest'ultimo, fosse consentito di liberarsene, almeno momentaneamente. Mentre, infatti, il confessus, con la sua ammissione del debito, rendeva inutile un'ulteriore prosecuzione del giudizio e, dunque, dava l'avvio all'actio iudicati, come si è detto, seguendo le procedure di un ordinario processo conclusosi con condanna, nel caso dell'indefensus, il processo non era mai entrato nel merito dell'accertamento del quantum debeatur[72]. Allorché questi, con l'assunzione di una difesa tardiva avesse, dunque, deciso di accipere iudicium, la ductio avrebbe assunto il carattere di una misura coercitiva provvisoria[73]; in tal modo la prosecuzione del processo avrebbe dato luogo ad una sentenza di accertamento seguita, poi, da un' actio iudicati, nel caso in cui l’accertamento avesse dato esito positivo[74]. Solo ammettendo che la ductio avesse, nel caso del confessus, carattere definitivo e, nel caso dell'indefensus, carattere provvisorio, si coglie la portata delle conseguenze che comportava in Gallia, l'equiparazione di entrambe le figure a quella del damnatus[75].

Carattere provvisorio avrebbe avuto, inoltre, a Roma, la missio in possessionem comminata quale sanzione nei confronti dell'indefensus. Questa sarebbe stata disposta dal pretore, come primo atto del procedimento che sfociava nella bonorum venditio ed avrebbe trovato, successivamente, una serie di diverse applicazioni[76]. Tra queste, sarebbe stata utilizzata come mezzo di pressione nei confronti del convenuto per convincerlo ad accettare l'invito a presentarsi in giudizio e sarebbe stata equiparata ad una sorta di sanzione, “poena[77], nei confronti di quest'ultimo. Questo genere di missio, tuttavia, aveva una durata limitata[78] e non impediva al latitante oppure all'assente di mettere fine, sia pure tardivamente[79], al suo stato di missus, presentandosi ed assumendo la propria difesa o facendo intervenire un difensore per questo scopo[80]. Si sarebbe probabilmente potuto distinguere anche il caso in cui la missio intervenisse per indefensio nel c.d.processo principale, oppure nell'actio iudicati che a questo conseguiva[81]. Nel primo caso, infatti, il debitore avrebbe potuto contestare anche la stessa esistenza del debito, mentre nel secondo caso avrebbe potuto probabilmente contestare la validità dello iudicatum o far valere fatti ad esso sopravvenuti[82].

Ne derivava, pertanto, che, a seguito della revoca del decreto da parte del pretore, sarebbe subentrato l'obbligo dell'attore di abbandonare la possessio. A sostegno della provvisorietà di questa missio, secondo il Kaser[83], deporrebbe anche D. 42.5.33.1(Ulp. 3 reg.): Defendere debitorem sicut ante, quam bona eius possiderentur, licet, ita post bonorum quoque possessionem eius, sive ipse sui, sive alius defensionem eius suscipiat, debet satisdare, ut satisdatione interposita iudicium accipiatur et a possessione discedatur.

Alla luce di quanto si è detto, si osserva che l'escamotage predisposto dalla lex Rubria, per cui l'indefensus sarebbe dovuto essere equiparato al confessus, consentiva l'uso ai magistrati municipali di un mezzo di coercizione per garantire la presenza del convenuto in giudizio, ben più efficace della stessa missio in possessionem[84] e della ductio di cui disponevano gli altri magistrati nell'Urbe, poiché la ductio indicata nella lex Rubria assumeva il carattere della definitività, come si è visto, a differenza delle altre due.

La “strategia giudiziaria” che la lex Rubria prevedeva nei confronti dei debitori era, com’è evidente, drastica ed inusuale. L'equiparazione dell'indefensus al damnatus, trattandosi di una soluzione particolarmente severa, in realtà è stata probabilmente dettata solo da ragioni politiche strettamente inerenti al territorio. In dottrina si prospetta, infatti, l’ipotesi che misure così severe fossero dettate dall'esigenza di far fronte a situazioni di emergenza derivanti da diversi fattori[85], a seguito delle quali si richiedeva, soprattutto da parte dei ceti più abbienti che concedevano prestiti, il rientro immediato di ingenti somme di denaro. Si spiegherebbero così anche le differenze nella disciplina della medesima materia tra la Gallia Cisalpina e Roma. Discostandosi notevolmente dalla procedura ordinaria, detta equiparazione avrebbe trovato, molto probabilmente, la propria legittimazione unicamente nella lex della Gallia Cisalpina lasciando chiaramente intendere a quale livello assurgesse il grado di autonomia dei municipia di tale regione rispetto a Roma, anche in materia processuale.

La possibilità per i magistrati municipali di porre in essere atti che comportassero l’uso dell’imperium sembra ulteriormente trovare conferma in quei frammenti epigrafici dai quali si evince una loro competenza in materia di interdetti.

Tra questi vi è il capitolo 84 della lex Irnitana[86] ( ivi vengono delineati i limiti di competenza dei magistrati locali, prima in base al valore, poi in base ad un criterio qualitativo) in cui assume particolare rilevanza l'inciso neque ea res agetur qua in re vi factum sit, quod non eius ex interdicto decretove iussuve eius qui iure dicunto praeerit factum sit[87]. Nonostante la traduzione letterale del testo appaia difficile anche perchè il “factum sit” non si accorda con l’“ea”, l’inciso lascerebbe intendere che esulavano dalla competenza dei magistrati municipali le questioni che derivano dall'esercizio di una vis non proveniente da un loro interdetto, decreto o iussum. Le controversie che scaturivano da una vis esplicata in esecuzione di un interdetto o decreto del magistrato locale, invece, evidentemente venivano trattate nell'ambito del municipio e rientravano nella competenza dello stesso magistrato municipale[88].

Si rinviene una disposizione simile in una lex Iulia cui fa riferimento Ulpiano nel suo commentario all'editto, riportato in D. 48.19.32 (Ulp. 6 ad ed.): Si praeses vel iudex ita interlocutus sit ‘vim fecisti’, si quidem ex interdicto, non erit notatus nec poena legis Iuliae sequetur: si vero ex crimine, aliud est. Quid si non distinxerit praeses, utrum Iulia publicorum an Iulia privatorum? Tunc ex crimine erit aestimandum. Sed si utriusque legis crimina obiecta sunt, mitior lex, id est privatorum erit sequenda.

Dal passo risulta evidente che il preses provinciae aveva il compito di indagare e compiere, in qualche modo, una cognitio causae al fine di accertare se la vis era stata espletata in modo legittimo, ovvero secondo un interdetto accordato dal magistrato, oppure senza trovare fondamento in alcuna disposizione magistratuale. Nel primo caso il praeses provinciae si sarebbe servito della disciplina prevista dalla lex Iulia (iudiciorum privatorum), mentre nel secondo caso avrebbe fatto riferimento alla lex Iulia Iudiciorum publicorum, come se si fosse trattato di un crimine, ed ugualmente avrebbe dovuto optare per questa seconda soluzione anche nell’ipotesi in cui egli non fosse riuscito ad accertare la natura della vis.

Nell'ambito del municipio Irnitano può presumersi che fossero gli stessi magistrati municipali a compiere questo genere di accertamenti necessari ad individuare quali controversie sarebbe stato necessario devolvere al magistrato della provincia. In dottrina[89] si è sostenuto che il magistrato municipale implicitamente fosse competente anche per quanto concerne il trasferimento del processo al magistrato provinciale[90].

Il tipo di procedura che emerge dai frammenti sin'ora considerati sembrerebbe confermare questa ipotesi perché, a livello pratico, avrebbe comportato un inutile dispendio di tempo il fatto che, al fine di accertare la natura della vis, una questione fosse prima trasferita al governatore della provincia e poi, eventualmente, ritrasferita ai magistrati locali.

Inoltre, se nel frammento di Ulpiano citato l'accertamento della natura della vis, nonché la scelta relativa alla procedura che ne sarebbe conseguentemente derivata, sono rimesse al praeses provinciae, nel passo vi è anche un espresso richiamo ad una lex Iulia cui lo stesso praeses si sarebbe dovuto attenere. Quest’ultima, ben potrebbe essere identificata ( né vi sarebbero ragioni per escludere tale possibilità), con la lex Iulia richiamata dalla stessa lex Irnitana[91] nel cap. 91, cui i magistrati municipali dovevano conformare le proprie procedure, adeguandole alla legge in Roma. Se così fosse, dunque, il cap. 91 della lex Irnitana porrebbe sullo stesso piano l'operato dei magistrati municipali e quello del praeses provinciae.

Dal tenore dei frammenti epigrafici cui si sta facendo riferimento, emergerebbe inoltre che, anche i magistrati locali non avrebbero potuto fare a meno di svolgere un' attività che si potrebbe qualificare di cognitio causae, poiché questa sarebbe stata loro indispensabile per compiere gli accertamenti cui si è fatto cenno, finalizzati, appunto, alla devoluzione delle questioni secondo la ripartizione delle competenze tra i magistrati locali ed il praeses provinciae.

Vacillerebbe, dunque, non solo il carattere di assolutezza dell'inciso di Paolo: Ubicumque causae cognitio est, ibi praetor desideratur[92], ma anche il fondamento di D. 39.2.4.4[93] che giustifica l'incompetenza dei duumviri in materia di missiones in possessionem col fatto che queste ultime richiedono una cognitio causae.

Riferimenti a competenze di magistrature municipali relative ad interdetti non si rinvengono, comunque, solo nel citato cap. 84 della lex Irnitana. Vi è in primo luogo il cap. 62 della stessa lex, sotteso alla rubrica Ne quis aedificia quae restituturos non erit, destruat, che lascia ipotizzare che il compito dei magistrati municipali di apprestare tutela ai privati fosse adempiuto, quasi sicuramente, anche attraverso la concessione di interdetti proibitori[94]. Vi è, inoltre, lo stesso capitolo XIX della lex Rubria de Gallia Cisalpina, cui si è già fatto cenno[95].

Di grande rilevanza al fine di delineare il tenore delle competenze che di fatto spettavano alle magistrature locali sono inoltre quei frammenti di leggi municipali in cui è dato riscontrare la possibilità per i magistrati municipali di comminare multe e di esercitare altri poteri coercitivi, soprattutto nei confronti degli schiavi. Questi dati appaiono di importanza fondamentale, se si pensa che alla luce di D. 2.1.3[96] e di D. 50.16.131.1[97] lo ius multae dicendae rientra nella potestas animadvertendi e costituiscono entrambi manifestazione di imperium merum riservato solo a magistrati e presidi della provincia.

Nella lex Irnitana, ad esempio, si prevede che fosse consentito comminare multe ai duoviri, ai prefetti ed agli edili del municipio irnitano. In particolare, fanno riferimento agli edili, il cap. XIX nel quale viene riconosciuta loro la facoltà di irrogare multe fino a 5000 sesterzi[98] ed il cap. LXXXIII nel quale, ugualmente, si prevede tale facoltà, in maniera specifica, per la mancata prestazione dei munera publica da parte dei municipes[99], dovuti, secondo quanto prescritto dallo stesso capitolo della legge. Nel capitolo LXVI sia della lex Irnitana che della lex Malacitana si fa riferimento anche ai duumviri ed ai prefetti[100] e si precisa che gli edili erano tenuti a notificare agli stessi duumviri le multe da essi imposte, affinché queste fossero trascritte nei registri del municipio[101]. La possibilità di comminare multe si rinviene anche nella lex Latina Tabulae Bantinae[102]. Alla irrogazione della multa, peraltro, non avrebbe fatto seguito l'immediata esecuzione di questa, poiché dopo la pubblicazione della multa si doveva consentire al multato di ricorrere eventualmente ai decurioni[103]. Sicché, come si ricava dalla lex Irnitana, qualora le multe fossero state sottoposte ai decurioni, il magistrato avrebbe potuto procedere alla esecuzione delle multe solo se costoro non le avessero ritenute ingiuste: Quaeque multae non erunt iniustae a decurionibus conscriptisve iudicatae, eas multas IIviri in publicum municipium eius municipi redigunto[104] Tanto si evince anche da lex Latina Tabulae Bantinae, 9-10 in cui è previsto che, a seguito dell'irrogazione della multa da parte di un qualsiasi magistrato, sarebbe seguito un iudicium di accertamento, probabilmente sull'an e sul quantum della multa, affidato dal praetor a dei recuperatores, all'esito positivo del quale, la multa sarebbe stata esigibile.

In diverse leggi municipali spagnole appare, infine, l’uso di termini che sembrano evidentemente riferiti alla presenza di tribunali penali nell’ambito degli stessi centri locali.

Nella lex Ursonensis ad esempio, la parola quaestio è presente nel cap. XCV[105] ed è chiaramente riferita ad un tribunale penale istituendo all’interno della colonia con la legge di istituzione della stessa colonia.

Vi sono poi parole come delatores, accusatores e subscriptores, che ricorrono un po’ ovunque nel capitolo CII[106] e che riguardano appunto, com’è noto, figure del processo criminale. Ed in quest’ultimo capitolo, attraverso l’inciso: IIvir qui hac lege quaerit iudicium (ve) exercebit, si delinea la figura di un magistrato che a livello locale svolgeva funzioni finalizzate ad introdurre e svolgere un processo criminale[107].

Di particolare importanza per quanto concerne le attribuzioni dei magistrati municipali comportanti l’uso dell’imperium appare ancora il capitolo CIII della lex Ursonensis, da cui si ricava non solo che il duumviro era preposto alle armate, ma anche che egli aveva gli stessi poteri e lo stesso ius animadvertendi del tribunus militum Populi Romani in exercitu: isque IIvir aut quem IIvir armatis praefecerit idem ius eademque animadversio esto uti tribuno militum populi Romani in exercitu populi Romani est idque ei sine fraude sua facere liceto ius potestasque esto[108]. Infine, vi è il capitolo LXII della stessa legge da cui emerge che ai duumviri, oltre alla potestas, erano attribuiti alcuni segni esteriori dell’imperium quali la toga praetexta ed i littori. Ivi si legge:  Iisque Iiviris aedilibusque dum eum magistratum habebunt, togas praetextas, funalia, cereos habere ius potestasque esto. Quos quisque eorum ita scribas lictores accensos viatorem tibicinem haruspicem praeconem habebit… [109].

Sebbene le fonti dalle quali è possibile trarre indicazioni nel senso che le compenze delle magistrature locali andassero ben oltre l’uso della semplice iurisdictio, contrariamente a quanto prescritto in D. 50.1.26, siano più numerose di quelle cui sin’ora si è fatto cenno, già alla luce di queste ultime, è possibile ipotizzare che, almeno prima dell’età dei Severi, ai magistrati locali fossero attribuiti dall’alto, attraverso la lex municipalis (lo statuto) o la legge di deduzione della colonia[110], poteri specifici in considerazione delle esigenze di ciascuna colonia o municipio. Questi ultimi avrebbero, quasi sicuramente, mantenuto una certa autonomia rispetto al potere centrale, nello scegliere le attribuzioni dei propri magistrati[111], pur adeguandosi, si ribadisce, almeno per quanto concerne alcune direttive generali, alle leges di Roma.

Si sarebbe fatto riferimento, quasi sicuramente, a dei modelli generali, come appare testimoniato dalle numerose analogie tra le diverse leggi municipali, ma gli stessi modelli venivano pur sempre adeguati alle necessità locali[112].

L’uso di atti magis imperii quam iurisdictionis, peraltro, in taluni casi doveva risultare addirittura necessitato dall’esigenza di svolgere in modo corretto, efficace e completo il compito di amministrare la giustizia; attribuire infatti la iurisdictio senza concedere altresì, ad esempio, sanzioni contro l’indefensio sarebbe significato vanificarla; allo stesso modo la protezione interdittale appare evidentemente di complemento al processo formulare, così come in relazione a quest’ultimo appare indispensabile anche la possibilità di disporre cautiones e così via. Il principio generale doveva essere sostanziamente quello sotteso a D. 2,1,2 (Iav. 6 ex Cassio): Cui iurisdictio data est, ea quoque concessa esse videntur, sine quibus iurisdictio explicari non potuit. Allo stesso modo si può intendere la possibilità di comminare multe eccetera. Nella pratica, di fatto, non rilevava la natura dell’atto, ma la sua utilità concreta.

Grande importanza, per quanto concerne il criterio legittimante in genere le competenze dei magistrati municipali, doveva sicuramente rivestire la formula introdotta dal siremps che si rinviene in una versione abbastanza completa nel cap. LXXXXI della lex Irnitana in cui si legge: siremps lexius causaque esto atque uti si est iudicatum non sit, uti si praetor populi romani inter cives Romanos iudicari iussisset ibique de ea re iudicium fieri oporteret ex lege rogatione plebisve scitis...[113]. Detta formula si riscontra, con alcune varianti, anche in altre leges municipales come la lex Rubria de Gallia Cisalpina, nel XXI capitolo della quale si legge: …siremps res lexius causaque omnibus omnium rerum esto…[114], ed, inoltre, nella lex Latina Tabulae Bantinae: …omnium rerum siremps lex esto..[115].

Si tratta sostanzialmente di una particolare forma di “fictio iuris[116] attraverso la quale l’operato dei magistrati municipali veniva sostanzialmente equiparato a quello del pretore in Roma. Il siremps si può intendere letteralmente come “similis res ipsa” e concerne un’identica applicazione di disposizioni di legge[117]. Tale aggettivo indeclinabile si trova riferito alla lex romana, sicchè al magistrato municipale era affidato il compito di amministrare la giustizia, nello stesso modo in cui avrebbe fatto il pretore a Roma. Si spiegherebbe, dunque, con tale clausola, meglio che con qualsiasi altra supposizione, il fatto che il magistrato municipale potesse servirsi di atti magis imperii quam iurisdictionis e dunque potesse disporre la prestazione di cautiones, o missiones in possessionem. Ma non solo: si spiegherebbe l'uso generalizzato dell'imperium da parte di queste magistrature municipali, sia nella fictio damnationis, sia, ad esempio, nella possibilità di comminare multe, ed anche in una, sia pure limitata, potestà coercitiva cui si è già fatto cenno. Dell’importanza dello statuto municipale sembra potersi trovare conferma anche nel cap. XX della lex Rubria de Gallia Cisalpina dove, con riferimento alla possibilità dei magistrati locali di imporre una stipulazione pretoria, si legge[118]: ex lege Rubria …decreverit[119].

Ed è proprio nella particolarità del rapporto tra la legge dei municipi e la legge di Roma, che sarebbe possibile dare una spiegazione alle incongruenze tra le fonti in merito alla natura ed alle attribuzione dei poteri dei magistrati locali. In realtà è anche possibile considerare, non solo come si è messo in luce più volte dalla dottrina[120], ma come si trova conferma soprattutto nelle più antiche tra le fonti epigrafiche sin’ora citate, che, originariamente, le competenze dei magistrati municipali fossero, di fatto, più ampie rispetto a quanto risulti nei frammenti compilatori di epoca tardo classica e che vi sia stata un’evoluzione in un arco di tempo che va approssimativamente dal I secolo a.C. sino all’età dei Severi, a seguito della quale i magistrati municipali avrebbero gradualmente “ perso l'imperium”. Forse proprio tale ampiezza di funzioni, che variavano da luogo a luogo, avrebbe fatto sorgere l’esigenza, recepita dai giuristi dell’età dei Severi, che si coglie in particolare dal tenore di D. 50.1.26, di delimitare, restringere, “comprimere” i poteri che di fatto esercitavano dette magistrature locali[121]. E’ in questo modo che si potrebbero armonizzare le fonti della compilazione giustinianea con quelle epigrafiche di cui si è trattato.

 

 



 

* Comunicazione tenuta il 27 settembre del 2007 in occasione del Convegno SIHDA, LXI sessione, Catania 24-29 settembre 2007, “Loi et droit dans le gouvernement des sociétés antiques. Administration, vie privée, justice”.

 

[1] D. 2.1.4 (Ulp. 1 ad ed.) Iubere caveri praetoria stipulatione et in possessionem mittere imperii magis est quam iurisdictionis”.Sul significato della locuzione

 

[2] Sul significato della locuzione magis imperii quam iurisdictionis si è molto soffermata la dottrina, soprattutto in passato. Nello specifico, il magis della locuzione magis imperii quam iurisdictionis è stato interpretato da alcuni studiosi nel senso di”esclusione”, in modo da dare rilievo solo all'imperium. Di questo avviso, in particolare: Riccobono S., Diritto romano II, Milano, 1933-34, 126; Betti E., Diritto romano I, Padova, 1935, 662. Tra coloro i quali, invece sono stati del parere di interpretare il magis attribuendogli il significato di”prevalenza”, si v. Perozzi S., Istituzioni di diritto romano2 II, Bologna, 1927 (rist. Milano, 1947), 103; Lauria M., Iurisdictio, in Studi Bonfante II, Pavia, 1929, p. 517. Come faceva notare il Carrelli, vi sono stati, infine, quegli studiosi che hanno «dimenticato la precisa dizione di Paolo» parlando solo di iurisdictio. Si v. Carrelli E., Sul beneficium restitutionis, in SDHI, 4, 1938, 1, n. 1. Tra coloro i quali hanno considerato i singoli atti magis imperii quam iurisdictionis come atti semplicemente iurisdictionis, vi sono anche Wenger L., Institutionen des römischen Zivilprozessrechts, München, 1925, (trad.a cura di R. Orestano, Istituzioni di procedura civile romana, Milano, 1938), 236 e Jobbé Duvàl E., Les decreta des magistrats pourvus de la iurisdictio contentiosa inter privatos, in Studi Bonfante III, Milano, 1930, 183 ss.

 

[3] Lex Latina Tabulae Bantinae, 14-16: [co(n)s(ul), pr(aetor), aid(ilis), q(uaestor), IIIvir cap(italis), IIIvir a(greis) d(andeis) a(dsignandeis)?, qu]ei nunc est, is in diebus (quinque) proxumeis quibus queique eorum sciet h(ance) l(egem) populum plebemue[iusisse iourato, ita utei i(nfra) s(scriptum) est. item] dic(tator), co(n)su(l), pra(etor), mag(ister) eq(uitum), cen(sor), aid(ilis), tr(ibunus) pl(ebis), q(quaestor), IIIvir cap(italis), IIIvir a(greis) d(andeis) a(dsignandeis), ioudex ex hace lege plebiue scito [factus --- c.5 --- queiquomque eorum p]osthac factus erit, eis in diebus (quinque) proxumeis quibus quisque eorum mag(istratum) imperiumue inierit iouranto”. Per il testo si v. Crawford M., Roman Statutes, I, London, 1996, 200.

 

[4] La menzione del triumvir capitalis e del IIIvir agreis dandeis adsignandeis ha invece lasciato ritenere al Mommsen che la lex de qua trattasi sia in realtà la lex de foedere cum Bantia e dunque lo statuto di una colonia governata inizialmente da magistrati dell’Urbe. Ancora la presenza dei triumviri avrebbe suggerito al Mommsen di datare la lex in esame tra il 621 ed il 635 a.u.c., poichè figure magistratuali analoghe si sono riscontrate nella lex Sempronia e sono rimaste in carica proprio nel periodo menzionato. Il Mommsen, sembra essere stato l’unico ad attribuire al frammento epigrafico una datazione così lontana mentre, in genere la lex è stata fatta risalire ad una data non precedente alla fine del secondo secolo a.C., mentre la presenza dei triumviri è stata intesa come straordinaria o, addirittura, tralaticia. A quest’ultimo riguardo si v. Colucci Pescatori G., Evidenze archeologiche in Irpinia, in La romanisation du Samnium aux II e I siécles av. J.C., Centre Jean Bérard, Napoli, 1991, 85 ss. Sulla datazione della legge, si v. Mommsen T., Die unteritalischen Dialekte, Leipzig, 1850, 145 ss.; Crawford M., Roman Statutes, cit., 195, cui si rinvia anche per gli altri riferimenti dottrinari.

 

[5] Lex Latina Tabulae Bantinae, 19-20. Secondo Murga J.L., El delito de ambitus y su posible reflejo en las leyes de la Betica in Roma y las Provincias, Madrid, 1994, 89, n. 4, l’espressione “petere imperium” avrebbe riguardato il presentarsi del candidato alle elezioni municipali; l’espressione “imperium petere”, invece, sarebbe valsa ad indicare l’atto con cui il magistrato, una volta eletto, prendeva possesso delle sue funzioni. Le due locuzioni, tuttavia, non appaiono nelle fonti così diffusamente come lo studioso lascia intendere, anzi nello stesso frammento c. 132 della lex Ursonensis indicato dal Murga ad exemplum, l’espressione petere imperium non si ritrova. Ivi, infatti, si legge: in eo anno quo quisque anno petitor kandidatus magistratum petet petiturusve. Nel citato frammento in cui si proibisce ai candidati alle magistrature della colonia di tenere cene o banchetti per gli elettori o di fare loro regali, si rinviene la locuzione petere magistratum, che non ha lo stesso valore del petere imperium dal momento che com’è noto non tutte le magistrature avevano l’imperium. Nella lex Latina Tabulae Bantinae, invece, come risulta evidente, il “petere imperium” è presente nella prescrizione “Qu]ei ex h(ace) l(ege) non iuraverit, is magistratum imperiumve nei petito neiue gerito neiue habeto”. Seguendo l’orientamento del Murga il passo dovrebbe, dunque, essere inteso nel senso che, senza giuramento, il magistrato non solo non avrebbe potuto ottenere ed esercitare il suo imperium, ma non avrebbe potuto nemmeno legittimare ex post la sua candidatura.

 

[6] Lex Ursonensis 125, 13-15. “…ne quis in ‹e›o loco nisi qui tum decurio c(oloniae) G(enetivae) erit, quive oportebit, quive tum magist‹r›atus imperium potestatemve colono‹r(um)› suffragio ger‹e›t iussu{q}ue C.Caesaris dictatoris, co(n)s(ulis) prove co(n)s(ule) habebit quive pro quo imperium potestateve tum in col(onia) Gen(etiva) erit, quibusque locum in decurionum loco ex d(ecurionum) d(ecreto) …”.

 

[7] Crawford M., Roman Statutes, cit., 415.

 

[8] Molto probabilmente è successiva al 31 a.C., essendo stata fondata dopo la battaglia di Azio.

 

[9] Liv. 34.53.1-2.

 

[10] Municipi come Lanuvium furono retti da dittatori (s.v. Cic. Pro Mil. 17, 45-46, dove Milone era il dictator), ma anche da pretori, oppure da edili, duumviri, o da octomviri; quella che viene definita dallo Scuderi come la forma normale di magistratura stabile, ovvero quella dei quattuorviri, era composta solitamente da un collegio di duumviri unitamente a due edili. S.v. Scuderi R., Significato politico delle magistrature nelle città italiche del I secolo a. C., in Athenaeum 77,1998, 117 ss. Gabba E., Le città italiche del I sec. a.C. e la politica, in RSI 98, 1986, 657. Sul mantenimento in alcuni centri delle magistrature epicorie, si v. Campanile E.–Letta G., Studi sulle magistrature indigene e municipali in area italica, Pisa 1979, 69 ss.

 

[11] Sui poteri dei triumviri a.d.a, si vedano anche: Bauman R.A., The Gracchan Agrarian Commission: Four Questions, in Historia, 28, 1979, 401 ss.; Chantraine H., Untersuchungen zur römischen Geschichte am Ende des Jahrhunderts vor Chr., Kallmünz, 1959, 22; Gabba E., Appiano e la storia delle guerre civili, Firenze, 1956, 34 ss.

 

[12] FIRA I2 n. 7 linn. 8-9: “…IIIvir a.d.a., tr.mil. leg. IIII primis aliqua earum, dum magistratum aut imperium habebit, nei in ious educitor …”Sul frammento si v. Licandro O., De heisce dvm mag(istratvm) avt iNperivM Habebvnt iovdiciVm non fiet, in Minima Epigraphica et Papirologica, 3, Roma, 2000, 90 ss., 97 n. 19. Lo studioso osserva che il triumvirato era dotato di poteri amplissimi dai quali non si può escludere l’imperium e, ad ulteriore conferma di ciò, richiama i contenuti della stessa lex Latina Tabulae Bantinae sopra citati. Anche i triumviri a.c.D.per la deduzione di colonie, sarebbero compresi dal Licandro tra i magistrati dotati di imperium in considerazione del fatto che tale potere doveva sicuramente essere indispensabile per la deduzione di colonie.

 

[13] La lex Rubria de Gallia Cisalpina viene fatta risalire dalla maggior parte della dottrina ad un periodo compreso tra il 49 a.C. ed il 42 a.C. e, comunque, successivo al 49 a.C., anno in cui la lex Roscia avrebbe concesso la cittadinanza romana alla Gallia Cisalpina Il Mommsen, in particolare, ha attribuito al frammento veleiano la datazione del 49 a.C.(in Ein zweites Bruchstück des rubrischen Gesetzes vom Jahre 705 Rom, in Hermes 16, pp. 24-41) a seguito della scoperta del frammento Atestinum avvenuta nel 1880, anch’esso concernente aspetti della giurisdizione nei municipia, coloniae e prefetture e ritenuto dallo studioso appartenente, insieme al frammento veleiano, alla lex Rubria de Gallia Cisalpina. Poichè nel frammento di Ateste si fa riferimento ad una lex o plebiscitum che un tale L. Roscius a.D.V eiD.Mart. populum plebemve rogavit e che lo studioso ha ritenuto di identificare con L. Roscius Fabatus, pretore nel 49 a.C., e poiché nello stesso frammento non è riportato l’anno consolare, il Mommsen ha concluso nel senso che si trattasse dello stesso anno cui risaliva la lex Roscia del 49 a.C. che attribuì, come si è detto, la cittadinanza romana alla Gallia Cisalpina. Per quanto concerne questa datazione della lex Rubria si v. Laffi, La lex Rubria de Gallia Cisalpina, in Athenaeum 64, 1986 ( ora in Studi di storia romana e di diritto, Roma, 2001) 10 ss. ma anche Bruna F.J., Lex Rubria, Caesar Regelung für die Richterlichen Kompetenzen der Munizipalmagistrate in Gallia Cisalpina, Leiden, 1972, 296-325 e Torrent A., La iurisdictio de los magistrados municipales, Salamanca, 1971, 145. Sulle circostanze della scoperta della lex Rubria e sui primissimi studi relativi ad essa, anche Nasalli Rocca E., Il Conte Canonico Antonio Costa e la prima inedita illustrazione della”lex de Gallia Cisalpina”, in Studi Biondi, III, Milano, 1965, 125 ss. Ciascuno dei capitoli della legge ha offerto lo spunto alla dottrina per una serie ricchissima di considerazioni e, sebbene tali frammenti abbiano contribuito enormemente alla conoscenza dei meccanismi del processo formulare, nonché delle caratteristiche e dei limiti della competenza giurisdizionale dei magistrati locali, le difficoltà ed i dubbi interpretativi in cui sono incorsi gli studiosi che se ne sono occupati hanno fatto sì che il Guarino in memoria del Prof. Santi Di Paola scrivesse che la minacciosa scritta”cave canem”sarebbe dovuta essere sostituita dalla scritta”cave Legem Rubriam”. Si v. Guarino A., Ricordo di Santi di Paola, in SDHI, 46,1980, 625.

 

[14] D. 39.2.7 pr. (Ulp. 53 ad ed.): Hoc edictum prospicit damno nondum facto…

 

[15] Lex Rubria de Gallia Cisalpina, XIX 1-6. Per il testo, si v. Crawford M., Roman Statutes, cit., 464

 

[16] In tale sede si fa esclusivamente riferimento alla natura della remissio pubblica ovvero a quella posta in essere per provvedimento magistratuale. Accennando alla distinzione tra remissio privata e remissio pubblica, la prima, assumeva la forma di una conventio ovvero di un pactum con il quale il denunciante permetteva al denunciato di costruire. Essa operava in via d'eccezione in modo da ostacolare validamente l'exsecutio della operis novi nuntiatio. La seconda, invece, era quella pronunciata dal pretore. Discusso tra i giuristi era l'ambito di validità delle due forme di remissio. Labeone riteneva che la validità della remissio privata fosse limitata alla operis novi nuntiatio privata, mentre, per opporsi alla operis novi nuntiatio pubblica sarebbe stata necessaria una remissio pubblica. Il problema è sollevato in D. 39.1.1.10, ma, in particolare, in D. 2.14.7.14 (Ulp. 4 ad ed.) che di seguito si riporta: Si paciscatur, ne operis novi nuntiationem exsequatur, quidam putant non valere pactionem, quasi in ea re praetoris imperium versetur: Labeo autem distinguit, ut, si re ex re familiari operis novi nuntiatio sit facta, liceat pacisci; si de re publica non liceat: quae distinctio vera est. Al riguardo, si v. Bonfante P., Corso di diritto romano. II, La proprietà, sez. I, Roma, 1926, 388 ss.

 

[17] In dottrina lo Stölzel, ha intravisto nell’antequam nuntiatio missa fieret una remissione posta in essere dal pretore ed operante ipso iure, mentre, nel frammento della lex Rubria, ha riconosciuto una remissione operante solo in via d'eccezione che provenendo da un magistrato municipale poteva solo rendere inefficace, ma non valeva ad annullare, una operis n.n. nuntiatio, poiché quest’ultima trovava fondamento nell'editto ed era difesa dalla formula dell'interdetto del pretore. Si v. Stölzel A., Die Lehre von der operis novi nuntiatio und dem interdictum quod vi aut clam: eine civilistische Abhandlung, Göttingen, 1865, 202; nello stesso senso Burckhard U., cont. a GlÜck C.F., Ausführliche Erläuterung der Pandekten nach Hellfeld, Erlangen, 1790-1892, trad.it. Commentario alle pandette, XXXIX, I, Milano 1903, 196. Di contrario avviso sono stati, invece, il Naber, secondo il quale la remissio avrebbe sempre risolto completamente la operis novi nuntiatio ed il Karlowa a parere del quale gli atti del magistrato municipale, emanati entro il limite della sua competenza, avrebbero avuto la stessa efficacia di quelli del pretore. Si v. Naber, Observatiunculae in Mnemosyne, 18, 1891, 123; Karlowa O., Römische Rechtsgeschichte, II, Privatrecht und Civilprozes. Strafrecht und Strafprozess, Leipzig 1901 (2° Bände, Keip, 1997), 71, n. 23.

 

[18] La remissio è stata opportunamente definita dal Marrone come un provvedimento, o forse un decreto, per molti versi oscuro. Si v. Marrone M., Istituzioni di Diritto Romano, Palermo, 1994, 315.

 

[19] Al riguardo le fonti non sono esplicite. In dottrina, a favore di una previa cognitio causae: Keller D.F. L, Pandekten, Leipzig,1866, par. 186, ma in particolare, 416; Berger A., v. “Operis novi nuntiatio”, in Realenciclopädie Pauly Wissowa Kroll, Stuttgart 1939, 558; Branca G., La prohibitio e la denunzia di nuova opera come forme di autotutela cautelare, in SDHI, 7, 1941, 312 ss., in particolare 330-331-334. Il Bonfante, invece, respingeva l'ipotesi di un”giudizio di delibazione”poiché nelle fonti non ve ne sarebbe traccia e riteneva, pertanto, la concessione della remissio, completamente arbitraria; si v. Bonfante P., La proprietà, cit., 392.

 

[20] Si v. in particolare, Bonfante P., La proprietà, cit., 370.

 

[21] D 39.1.13.2 (Iul. 41 dig.): Si in remissione a patre eius, qui opus novum nuntiaverat, procurator interveniat, id agere praetorem oportet, ne fasus procurator absenti noceat, cum sit indignum quolibet interveniente beneficium praetoris amitti.

 

[22] Si v. Bonfante P., La proprietà, cit., 370.

 

[23] D. 39.1.1.pr (Ulp. 71 ad ed.): Quod ius sit illi prohibere, ne se invito fiat, in eo nuntiatio teneat, ceterum nuntiationem missam facio.

 

[24] Un contenuto analogo, si riscontra anche in D. 43.25.1.2 (Ulp. 71 ad ed.) dove emerge, in particolare, l'uso del verbo “tenere” riferito alla nuntiatio: Et verba praetoris ostendunt, remissionem ibi demum factam, ubi nunciatio non tenet: et nunciationem ibi demum voluisse Praetorem tenere, ubi ius est nuncianti prohibere, ne se invito fiat. Ceterum sive satisdatio interveniat, sive non remissio facta hoc tantum remittit, in quo non tenuit nunciatio. Plane si satisdatum est, exinde remissio facta est: non est necessaria remissio.

 

[25] Si v. Lenel O., Das edictum perpetuum, 3a ed., Leipzig, 1907, 232 -233.

 

[26] D. 46.5.1.1 (Ulp. 70 ad ed.): Praetoriarum stipulationum tres videntur esse species,iudiciales cautionales communes. Iudiciales eas dicimus, quae propter iudicium interponuntur ut ratum fiat, ut iudicatum solvi et ex operis novi nuntiatione…

 

[27] Si v. Bonfante P., La proprietà, cit., 388-389

 

[28] D. 39.1.20.4 (Ulp. 71 ad ed.): Quid quid autem ante remissionem fit vel illud quod loco remissionis habetur, pro eo habendum est, aatque si nullo iure factum esset.

 

[29] In tal senso si v. Cosentini G., Appunti sull’operis novi nuntiatio, in Annali Seminario Giuridico Università di Catania, 4, 1950, 19. A prescindere dall’effettivo momento in cui la remissio potesse intervenire, in tale sede è importante sottolineare che lo studioso giungeva alle seguenti conclusioni: «Oggi generalmente si ritiene che nel diritto classico cautio ex operis novi nuntiatione e remissio erano istituti soltanto analoghi rispetto alla funzione in quanto l’una e l’altra fermavano l’interdetto demolitorio; erano però due istituti distinti ed alternativamente applicati».

 

[30] Si v. D. 2.1.4, supra.

 

[31] Si distinguono in tale sede la repromissio e la satis datio. La prima concerne la prestazione della cautio damni infecti da parte del proprietario che si obbliga proprio nomine a garantire il vicino, nel caso in cui si verifichi un danno futuro; la satis datio consiste, invece, in una promessa garantita da sponsores e deve essere prestata da chi non è proprietario del bene dal quale si teme il danno, ma che esercita su di esso un diritto reale, come, ad esempio, il superficiario o l’usufruttuario. Delle due forme di stipulazione pretoria, aventi ad oggetto un danno temuto, tratta in particolare Ulpiano nel commentario all’editto, riportandosi anche a Salvio Giuliano ed a Celso: D. 32.2.9.4-5 (Ulp. 53 ad ed.): Quaesitum est, si solum sit alterius, superficies alterius, superficiarius utrum repromittere damni infecti an satisdare debeat. Et Iulianus scribit, quotiens superficiaria insula vitiosa est, dominum et de soli et de aedificii vitio repromittere aut eum, ad quem superficies pertinet, de utroque satisdare: quod si uterque cesset, vicinum in possessionem mittendum. Celsus certe scribit, si aedium tuarum ususfructus Titiae est, damni infecti aut dominum repromittere aut Titiam satisdare debere. Quod si in possessionem missus fuerit is, cui damni infecti cavendum fuit, Titiam uti frui prohibebit. Idem ait eum quoque fructuarium, qui non reficit, a domino uti frui. prohibendum: ergo et si de damno infecto non cavet dominusque compulsus est repromittere, prohiberi debet frui. Secondo il Betancourt non dovrebbe, dunque, attribuirsi alcuna importanza alle ulteriori parole di Ulpiano in D. 43.15.1.3 secondo cui: “Is autem qui ripam vult munire, de damno futuro debet vel cavere, vel satis dare secundum qualitatem personae…”. Si v. Betancourt F., RecUrsonensisos suppletorios de la”cautio damni infecti”en el derecho romano clasico, in AHDE 45, 1975, 24.

 

[32] Lex Rubria de Gallia Cisalpina, XX, 7-19. Per il testo, si v. Crawford M., Roman statutes, cit., 464.

 

[33] Lo ius dicere, almeno in una fase iniziale, doveva molto probabilmente riferirsi ad un'attività creatrice ed, al tempo stesso, logico- deduttiva del diritto; successivamente è passato ad indicare il precetto o la norma giuridica o, quanto meno, l'istituto giuridico che si sarebbe dovuto applicare al caso concreto, riguardando l'attività creatrice del diritto svolta dal pretore Secondo il Betti, lo ius dicere sarebbe consistito nella statuizione da parte del magistrato di nuove regole giuridiche e sarebbe stato legato alla creazione del diritto da parte del magistrato. Si v. Betti, La creazione del diritto nella iurisdictio del pretore romano, in Studi Chiovenda, Padova, 1927, 71 ss.; idem, Iurisdictio praetoris e potere normativo, in Labeo 14, 1968, 7-23. Lo ius dicere sarebbe servito al pretore nella creazione delle norme applicabili secondo lo ius honorarium, nonchè nella formazione e nell'ulteriore integrazione dell'editto, non solo prima della codificazione adrianea, ma, probabilmente, anche dopo. A quest’ultimo riguardo: Gallo F., “Princeps” e “ius praetorium”,in Rivista di diritto romano on line, I, 2001, 12 ( www.rivistadidirittoromano.it ).

 

[34] Sulla iurisdictio si v. Pugliese G., Lezioni sul processo civile romano. Il processo formulare, I, Genova 1948, 45; idem, Le legis actiones, Roma, 1962, 382; Kaser M., Zum Ursprung des geteilen röm. Zivilprozessverfahren, in Festschrift Wenger, München, 1944, 107 ss.

 

[35] Varro, De lingua latina, 6.30.

 

[36] Si osserva che lo ius dicere, viene distinto della iurisdictio simplex e, dunque, dallo iudicium dare e dal iudicare iubere che ne costituiscono l'essenza di quest’ultima, in diversi frammenti di fonti epigrafiche. Si può fare riferimento alle: lex Agraria (Balbia?) 35: de ea re iuris dictio, iudici iudicis recuperatorum datio esto; lex Antonia de Termessibus, 11.4: Ita de ea re ious dicunto iudicia recuperationes danto; lex Iulia Agraria (Mamilia Roscia Peducaea Alliena Fabia) XIV: de ea re curatoris, qui ex hac lege erit, iuris dictia recuperatorumque datio addictio esto, ma anche ad altri frammenti di leges municipales tra i quali la stessa lex Rubria de Gallia Cisalpina XX, 17-18: de ea re ius deicito iudicia dato iudicareque iubeto cogito, ma, anche: Frag. Atestinum 15: iuris dictio iudicis arbitri recuperatorum datio adictione; Frag. Atestinum 19: de ea re ius dicat iudicem arbitratumve dat; lex Coloniae Genitivae Iuliae (seu Ursonensis) CV, 24: ius dicito iudiciaque reddito; lex municipi Malacitani LXV: ita ius dicito iudiciaque dato. Tutti i passi da ultimo citati, infatti, escluderebbero una sinonimia tra ius dicere e iudicium o iudicia dare, soprattutto dove tali locuzioni appaiono unite da una congiunzione. In conclusione, si può ancora una volta ribadire che lo ius dicere doveva essere qualcosa di più e di diverso rispetto a quell'attività moderna consistente nel trasformare una regola giuridica astratta di ius positum in un comando concreto mediante una sentenza. Si v. anche Pugliese G., Il processo formulare, cit., 39.

 

[37] Si v. Gioffredi C., Contributi allo studio del processo civile romano. Note critiche e spunti costruttivi, Milano, 1947, 10 ss. e 39, il quale definisce il dicere ius come una manifestazione di volontà del magistrato tendente a definire un qualsiasi rapporto giuridico, contenzioso o meno.

 

[38] Si vedano, ad esempio, per diem dicere: Coll. 6.4.8; per dotem dicere: C. 8.56.2.1.

 

[39] Da ultimo Buti I., Il praetor e le formalità introduttive del processo formulare, Napoli, 1984, 101.

 

[40] L'espressione è del Gioffredi; si v. GIOFFREDI C. Diritto e processo nelle antiche forme giuridiche romane in Labeo 2, 1956, 185 ss.

 

[41] Infatti, nelle fonti si riscontra spesso, con tale accezione, anche l'espressione sententiam dicere. Si indicano, ad esempio: D. 4.8.50; D. 1.9.12.1; D. 2.12.1.1.

 

[42] Lex Rubria de Gallia Cisalpina XXII, 42-43: de ieis rebus Romae apud pr(aetorem) eumve quei de ieis rebus Romae i (ure) deicundo p(rae)esset in iure confessus esset. Per il testo, si v. Crawford M., Roman statutes,cit., 466.

 

[43] Lex Rubria de Gallia Cisalpina, XX, (19–27): De ea re quod ita iudicium datum iudicareve iussum iudicatumve erit, ius ratumque esto, dum in ea verba, sei damnei infectei repromissum non erit, iudicium det itaque iudicare iubeat: “iudex esto. Sei antequam id iudicium qua de re agitur factum est, Q. Licinius damni infectei eo nomine, qua de re agitur, eam stipulationem quam is quei Romae inter peregreinos ius deicet in albo propositam habet, L. Seio reipromeississet: tum quicquid eum Q. Licinium ex ea stipulatione L. Seio dare facere oporteret ex fide bona dumtaxat sestertium ….

 

[44] In tal senso in particolare, GLÜCK C.F.-Burckhard U., Commentario alle pandette, cit., 54 ss.; Branca G., Damnum infectum, Urbino, 1934, 55 ss., secondo il quale la cautio damni infecti sarebbe stata mutuata dall'editto del praetor peregrinus; si v. anche Bonfante P., La proprietà, cit., 333 ss.

 

[45] D. 39.2.7.pr (Ulp. 53 ad ed.): Praetor ait: ‘damni infecti suo nomine promitti, alieno satisdari iubebo ei, qui iuraverit non calumniae causa id se postulare eumve cuius nomine aget postulaturum fuisse, in eam diem, quam causa cognita statuero. si controversia erit, dominus sit nec ne qui cavebit, sub exceptione satisdari iubebo. de eo opere, quod in flumine publico ripave eius fiet, in annos decem satisdari iubebo. Eum, cui ita non cavebitur, in possessionem eius rei, cuius nomine ut caveatur postulabitur, ire et, cum iusta causa esse videbitur, etiam possidere iubebo. in eum, qui neque caverit neque in possessione esse neque possidere passus erit, iudicium dabo, ut tantum praestet, quantum praestare eum oporteret, si de ea re ex decreto meo eiusve, cuius de ea re iurisdictio fuit quae mea est, cautum fuisset. eius rei nomine, in cuius possessionem misero, si ab eo, qui in possessione erit, damni infecti nomine satisdabitur, eum, cui non satisdabitur, simul in possessione esse iubebo’.

 

[46] Secondo la dottrina i magistrati municipali non avrebbero potuto disporre missiones in possessionem ex secundo decreto. In tal senso Bonfante P., La proprietà, cit., 354; Branca G., Damnum infectum, cit., 336 ss., il quale, richiamando il Bonfante sostiene che la cautio damni infecti, in base al cap. XX della lex Rubria de Gallia Cisalpina, potesse essere delegata ai magistrati municipali (D. 39.2.1) limitatamente alla pronuncia del decreto che impone la stipulatio ed alla missio ex primo decreto. In realtà nel cap. XX della lex Rubria, non si riscontrano affatto riferimenti nemmeno alle missiones ex primo decreto. Nel senso che essi avrebbero potuto disporre solo missiones in possessionem ex primo decreto, tra gli altri, in particolare Raggi, La restitutio …cit., 96, n. 80; nel senso di una totale incompetenza, in materia di missiones in possessionem: Kaser M.–Hackl K., Das Römische Zivil prozessrecht, München 1996, 391, n. 33.

 

[47] D. 39.2.7.pr (Ulp. 53 ad ed.), cit. supra, nt. 45.

 

[48] In tal senso Luzzatto G.I., Premesse alla cognitio extra ordinem, Bologna, 1965, 330, ma anche rec. a Branca G., in IURA, 1961, 307.

 

[49] Si v. Luzzatto G.I., Premesse alla cognitio extra ordinem, cit., 330.

 

[50] Si v. Luzzatto G.I., Premesse alla cognitio extra ordinem, cit., 329, n. 3, 340.

 

[51] Che si trattasse dell'imperium del praetor peregrinus, appare indubitabile dall'uso della formula”is quei Romae inter peregreinos ius deicet”. Dubbi, tuttavia, sono stati avanzati dal Laffi in relazione al fatto che fosse effettivamente il praetor peregrinus, e non il praetor urbanus, ad amministrare la giustizia in Roma nei confronti degli abitanti della Gallia Cisalpina dopo il conferimento a questi della cittadinanza. Tanto, a fronte delle certezze in tal senso del Serrao. Si v. Laffi U., La lex Rubria,cit., p. 17 n. 29; Serrao F., La iurisdictio del pretore peregrino, Milano, 1954, pp. 87-105; Dubbi sono stati sollevati anche da parte del Bonifacio e del Bruna. Si v. Bonifacio F., rec. a Serrao F., La iurisdictio del pretore peregrino, Milano, 1954 in Iura,6, 1955, 243 e Bruna F.J., Lex Rubria, cit., 110.

 

[52] Si pensi, nel primo caso, all'actio Publiciana, nel secondo, invece, alla struttura che spesso presentavano le actiones ficticiae nelle restitutiones in integrum del pretore. L'esercizio dell'imperium, risulta qui indubitabile considerando che che le in integrum restitutiones sono atti magis imperii quam iurisdictionis. Si veda Talamanca M., Istituzioni di diritto romano, Milano, 1990, 350 ss.

 

[53] Così fa, ad esempio, il Branca, il quale, richiamandosi al Bonfante sostiene che la cautio damni infecti, in base al cap. XX della lex Rubria de Gallia Cisalpina, potesse essere delegata ai magistrati municipali limitatamente alla pronuncia del decreto che impone la stipulatio ed alla missio ex primo decreto; si v. Branca G., Damnum infectum, cit., 336 ss. Si v. Anche Laffi U., La lex Rubria, cit., 273.

 

[54] Riguardo alla questione, si v. TomulescU C.ST., La clause ex fide bona dans la soi-distant “Lex Rubria de Gallia Cisalpina”, in BIDR, 78, 1975, 176; Talamanca M., Istituzioni, cit., 298 ss.

 

[55] Così Torrent A., La iurisdictio, cit., 152-153.

 

[56] Secondo il Krüger la clausola ex fide bona ben avrebbe potuto figurare nella formula di una stipulatio, poiché, originariamente, le azioni di buona fede erano azioni di stretto diritto. Si v. Krüger H., Zür geschichte der Entstehung der bonae fidei iudicia, in ZSS, XI, 1890, 165. Tra coloro i quali hanno escluso l’effettiva possibilità di un “oportere ex fide bona” il Biondi ha giustificato la clausola “ex fide bona” come corrispondente alla clausola “doli” della stipulatio damni infecti, sul presupposto che la fictio del cap. XX avesse ad oggetto proprio l'avvenuta stipulatio damni infecti. Si v. Biondi B., Iudicia bonae fidei, I, Palermo, 1920, 256 ss. Il Carcaterra, invece, ha ritenuto che l'espressione “ex ea stipulatione” presente nella formula determinasse il contenuto del “quiquid dare oportet”, mentre l'espressione ex fide bona sarebbe valsa ad indicare un'ulteriore limitazione di tale “oportere”, in modo da legarlo al parametro della buona fede. Si v. Carcaterra G., Intorno ai bonae fidei iudicia, Napoli, 1964, pp. 62 ss. Le teorie più articolate appartengono a coloro i quali hanno ravvisato che vi fosse un legame originario tra fides e stipulatio. Secondo il Pastori la forma più antica di stipulatio sarebbe stata fondata sulla fides che era l'unica a poter rendere vincolanti i rapporti dello ius gentium. Il praetor peregrinus avrebbe poi, apprestato tutela alla fidepromissio facendo riferimento nella propria formula alla fides e si spiegherebbero così i dati epigrafici pervenutici. Successivamente, data la sua analogia con la sponsio originaria, la stipulatio sarebbe passata allo ius civile dove l'actio ex stipulato si sarebbe modellata su quella a tutela della sponsio che, a sua volta, si fondava sulla legis actio per iudicis arbitrive postulationem. La teoria del Pastori ha suscitato diverse perplessità nel Talamanca che l'ha ritenuta, per via di alcuni passaggi, poco fondata. Si v. Pastori F., La genesi della stipulatio e la menzione della bona fides nella lex de Gallia Cisalpina con riferimento all'actio ex stipulato, in Studi Betti, III, Milano, 1962 p. 584; Talamanca M., L’origine della”sponsio”e della”stipulatio”, rec. a Pastori op.cit., in Labeo 9, 1963, pp.96 ss., in particolare, p. 105. Il Tomulescu, invece, ha spiegato la presenza della citata clausola col fatto che le azioni di buona fede sarebbero state create dal pretore peregrino come actiones in fidem conceptae ed avrebbero trovato origine in una formula in factum arbitraria per poi essere successivamente recepite dal pretore urbano come arbitria onoraria e trasportate all'interno dello ius civile. La lex Rubria avrebbe probabilmente rinviato alla cautio damni infecti dell'editto peregrino nonostante l'estensione della cittadinanza alla Gallia Cisalpina, perché la cautio damni infecti probabilmente ancora non figurava nell'editto del pretore urbano. Si v. TomulescU C.ST., La clause”ex fide bona”,cit., pp. 177 ss., ma, in particolare, p. 181. Lo studioso richiama l'espressione di Cicerone: Pro Roscio 5.15”omnia iudicia legitima, omnia arbitria onoraria”. Secondo il Kaser, la clausola ex fide bona, invece, si spiegherebbe come fondamento di un'obbligazione che non trovava la sua fonte nella legge. Si v. Kaser M., Oportere und ius civile, in ZSS, LXXXIII, 1966, pp. 12 ss.

 

[57] Ma soprattutto ai giudici che da questi sarebbero stati incaricati per decidere nel merito. Si v. Talamanca M. Istituzioni, cit., 314.

 

[58] Secondo lo Simshäuser, si tratterebbe della taxatio che ricorre nelle formule delle actiones con intentio incerta, sebbene il Talamanca avanzi dubbi in merito alla possibiltà che, in genere, un'actio di questo tipo potesse contenere una taxatio. Si v. Simshäuser W., Iuridici und munizipalgerichtsbarkeit in Italien, München, 1973, 205 ss. ed, inoltre, Talamanca M., rec. a Simshäuser W., Iuridici und Municipalbarkeit in Italien, in BIDR 77, 1974, 515.

 

[59].In entrambi i capitoli risulta evidente la presenza di una taxatio nel limite di 15.000 sesterzi. Si v. lex Rubria de Gallia Cisalpina, XXI, 3-4: in Gallia Cisalpeina, petetur, quae res non pluris (sestertium) (quindecim milibus) erit, sei is eam pecuniam in iure apud eum qui ibei i(ure) d(eicundo) p(raerit). Come precisa il Talamanca, si tratta di un vero e proprio limite di competenza per i magistrati municipali, presente anche nel cap. XXII della legge. Si v. Talamanca M. rec. a Simshäuser W., Iuridici, cit., 516. Si v. anche lex Rubria XXII, 27: quodve quom eo agetur, quae res non pluris (sestertium) (quindecim) (milibus) erit.

 

[60] La locuzione riportata dal Laffi corrisponde, in realtà, all’interpretazione data al frammento epigrafico dal Pugliese. Si v. Laffi U., La lex Rubria, cit., 32-33; Pugliese G. Il Processo formulare, cit., 250.

 

[61] Si riporta l’opinione del Laffi, che reputa fosse necessaria un’actio iudicati; si v. Laffi U., La lex Rubria, cit., 32-33. Nello stesso senso, era stato il Püschel, secondo il quale, contro l’aeris confessus, del capitolo XXI della lex Rubria de Gallia Cisalpina sarebbe nato uno iudicium coincidente con l’actio iudicati. Si v. Püschel, Confessus pro iudicato est. Bedeutung des Satzes für den römischen Formularprozess, zugleich ein Beitrag zur Erklärung der lex Rubria, Heidelberg, 1924, 79 ss..

 

[62] Il duci iubere dei magistrati municipali si rinviene in lex Rubria de Gallia Cisalpina XXI, 18-19. Con l'avvento del processo formulare, esso avrebbe sostituito l'addictio con la quale si concludeva la legis actio in personam quando il convenuto si rifiutava di partecipare al processo. In tal senso Provera G., Il principio del contradittorio nel processo civile romano, Torino, 1970, 90 n. 11. Di parere contrario il Kaser, secondo il quale il magistrato avrebbe ugualmente continuato a pronunciare l'addictio, cui seguiva in caso di disubbidienza del vocatus, il duci iubere. Si v. Kaser M. - Hackl K., Röm. Zivilprocessrecht, cit., 300.

 

[63] In tal senso Betti E., L’effetto della “confessio” e della “infitiatio certae pecuniae” nel processo civile romano, in Atti della Reale Accademia delle Scienze di Torino, vol. 50, 1914-1915, 101. Lo studioso precisava che le altre confessiones fatte a fronte di un’actio in personam, invece, sarebbero divenute esecutive solo a seguito di damnatio pecuniae. Si v. anche Aru L., Il processo civile contumaciale. Studio di diritto romano, Roma, 1934, 39 ss.

 

[64] Lex Rubria de Gallia Cisalpina XXI (18-20): t(antae) p(ecuniae) quanta ea pecunia erit de qua tum inter eos ambigetur dumt(axat) (sestertium) (quindecim milia), s(ine) f(raude) s(ua) duci iubeto; lex Rubria de Gallia Cisalpina XXII (46-47): …ita ius deicito decernito eosque duci bona eorum possedere proscreibeive veneireque iubeto.

 

[65] Si vedano in tal senso, ad esempio, Pugliese G., Il Processo formulare, cit., 189 ss.; Kaser M. - Hackl K., Röm. Zivilprocessrecht, cit., 201; Laffi U., La lex Rubria, cit., 277 ss. Di contrario avviso il Di Paola secondo il quale questa equiparazione si sarebbe riscontrata unicamente nei municipi della Gallia Cisalpina, mentre a Roma non avrebbe alcun motivo di essere poiché qui il magistrato avrebbe potuto servirsi direttamente della missio in possessionem. Lo studioso non si spiegherebbe altrimenti la meticolosità con cui la lex Rubria disciplina la fattispecie del confessus di certa pecunia. Carattere eccezionale, d'altra parte, avrebbe avuto nell'Urbe l’equiparazione tra indefensus e iudicatus. Si v. Di Paola S., Confessio in iure, Milano, 1952, 4 ss.

 

[66] Si veda al riguardo Provera G., Il principio del contraddittorio, cit., 109-109, 119 e 121.

 

[67] La missio in possessionem avrebbe avuto, peraltro, carattere di extrema ratio come testimonierebbe Cicerone che nella Pro Quinctio sottolinea la necessità di ricorrere a questo mezzo con cautela e suggerisce, a tal fine, alcune accortezze: (Cic. pro Quinct. 17.54)…primum espectare: deinde si latitare ac diutius ludificare videatur, amicos convenire. Si veda a riguardo Buti I., Il praetor,cit., 268.

 

[68] Cosa che poteva non avvenire quando, ad esempio, il patrimonio del debitore era inferiore all'ammontare del debito per cui si agiva in giudizio.

 

[69] In tal senso si possono interpretare: Varro (De ling. lat.) 7.105: Liber qui, suas operas in servitutem propecunia quam debet dat, dum solveret, nexus vocantur, ut ob aere oaeratus. Quint. decl. 311: ...lex dicit, addictus donec solverit serviat. Si v. Provera G., Il principio del contraddittorio, cit., 122 n. 45.

 

[70] Si v. Pugliese G., Il Processo formulare, cit., 186-188 e 209-210.

 

[71] Propendono per il suo carattere non definitivo: Wlassak M., Konfessio in iure und Defensionsewigerung nach der Lex Rubria de Gallia Cisalpina, München 1934, 15-25; Pugliese G., Il Processo formulare, cit., 209-216, Kaser M. - Hackl K., Röm. Zivilprocessrecht, cit., 207-208; Bruna F.J., Lex Rubria, cit., 159-160; da ultimo Laffi U., La lex Rubria, cit., 277. Per il loro carattere definitivo, in particolare si v. La Rosa F., L'“actio iudicati” nel diritto romano classico, Milano, 1963, 23 ss., che è tra coloro secondo i quali, già nella procedura ordinaria, l'indefensus sarebbe stato equiparato al confessus e, quindi, al damnatus, seguendo l’orientamento del Demelius; si v. Demelius, Die Confessio im römischen Civilprocess und das gerichtliche Geständniss der neuesten Processgeseetzgebung, Graz, 1880, 75-110, 111-139. Il Provera ugualmente può essere annoverato tra coloro i quali propendono per il carattere definitivo della ductio; tuttavia, nel momento in cui lo studioso si sofferma sulle differenze che sussistevano tra la situazione del confessus e quella dell'indefensus, entrambi soggetti alla ductio, lascia immaginare la diversa valenza della ductio in ciascuno dei due casi. Nulla, invero, impedisce di ritenere che, la ductio fosse definitiva o meno, a seconda della finalità che essa intendeva perseguire. Si v. Provera G., Il principio del contraddittorio, cit., 102 ss.

 

[72] Su questa differenza si v. in particolare Provera G., Il principio del contraddittorio,cit., 102.

 

[73] Nel senso che l'indefensus, una volta ductus, avrebbe potuto liberarsi del suo stato di prigionia assumendo successivamente la defensio anche di Paola S., Confessio in iure, cit., 4 n. 5.

 

[74] Ancora Provera G., Il principio del contraddittorio,cit., 123-124.

 

[75] Per tutti, si v. Laffi U., La lex Rubria, cit., 278.

 

[76] Si v. per tutti, Buti I., Il praetor, cit., 262 ss.

 

[77] Il Branca ha sostenuto che la missio in possessionem nel diritto classico sostanzialmente altro non fosse che una”pena”contro chi non aveva voluto garantire. Si v. Branca G., Damnum infectum, cit., 31.

 

[78] Al riguardo il Buti ritiene che si applicasse il termine massimo di trenta giorni previsto per la bonorum venditio, di cui si tratta in Gai 3.79. Si v. Buti I., Il praetor, cit., 277. Sull'efficacia temporanea di questa missio, si veda anche Laffi U., La lex Rubria, cit., 278.

 

[79] In tal senso, anche il Provera, il quale, trattando dell'indefensus, specifica che la missio stessa era congegnata per consentire l'assunzione di una difesa tardiva. Si v. Provera, Il principio del contraddittorio… cit., 122.

 

[80] Si v. D. 42.4.5.pr (Ulp. 59 ad ed.): ceterum si existat aliquis, qui defendere est paratus, cessabit rei servandae causae possessio. Con la defensio viene meno il decreto di missio ed il missus torna in possesso dei suoi beni. Si v. al riguardo, si v. Buti I., Il praetor, cit., 278.

 

[81] Sulla distinzione, si v. Provera G., Il principio del contraddittorio,cit., 123.

 

[82] Si v. Wenger L., Institutionen des Römischen Zivilprozessrechts, München, 1925, 220.

 

[83] Si v. Kaser M., rec. a Provera G., Il principio del contraddittorio, cit. in IURA 21, 1970, 231.

 

[84] Definita dal Di Paola come il mezzo più efficace in assoluto; si. v. Di Paola S., Confessio in iure, cit., 4.

 

[85] Ci si riferisce in primo luogo alle imposizioni forzose di armi e denaro che Roma disponeva nei confronti delle città della Gallia Cisalpina per far fronte alle proprie spese in periodi di crisi economica. Con riferimento alle contribuzioni imposte, ad esempio, da Asinio Pollione ai Patavini, si v. Mazzarino S., Il pensiero storico classico, II, 2, Bari, 1968, 36. Riguardo, invece, all'incarico che Cornelio Gallo aveva ricevuto dai triumviri di riscuotere somme di denaro a titolo di compenso da quelle città transpadane che non avevano subito confische di terre, si v. Gabba E., Ticinum: dalle origini alla fine del III sec. D.C., in Storia di Pavia I, L'età antica, Milano, 1985.

 

[86] Dalla provincia spagnola proviene la maggior parte delle fonti epigrafiche che abbiamo a disposizione per lo studio delle magistrature municipali. Il ritrovamento delle sei tavole bronzee contenenti, in buona parte, il testo della lex Irnitana, ovvero dello statuto del municipio di Irni è avvenuto casualmente nel marzo del 1981, in una località, nel cuore della Betica, attuale Andalusia, chiamata Las Errizas che è ubicata a cinque chilometri da El Saucejo e a dodici chilometri da Osuna, anticamente Urso, sede della Colonia Genitiva Iulia cui è riferita la nota lex Coloniae Genitivae Iuliae o lex Ursonensis. Della legge, tuttavia, è stata data ufficialmente notizia per la prima volta nel 1983, in una conferenza tenutasi presso l'Institut de Droit Romain dell'Università di Parigi, da Gimenez Candela, ed il suo testo è stato riportato in RIDA 30, 1983, 125 ss., col titolo: “La lex Irnitana”Une nouvelle loi municipale de la Betique. Lo statuto del municipio irnitano risale all'età di Domiziano, come si desume dalla famosa “lettera” dello stesso imperatore che si è rinvenuta in calce ad esso e consta di 96 capitoli, per la ricostruzione dei quali, si è fatto riferimento, nelle parti mancanti, alle leges Malacitana e Salpensana, laddove tali leggi sembravano collidere. Si v. Lamberti F., “Tabulae irnitanae” Municipalità e ius romanorum, Napoli, 1993, 2 ss.; della ricostruzione del testo si è occupato soprattutto D'Ors il quale aveva ritenuto di essersi imbattuto in una copia di quella lex Flavia Municipalis che sarebbe servita come modello per tutte le altre leges municipales spagnole. Si v. D'Ors A., La ley Flavia Municipal, Roma 1986, 13.

 

[87] Lex Irnitana, 84.6-8. Si v. Gonzales J. e Crawford M., The “Lex Irnitana”: A new copy of the Flavian Municipal Low, in JRS, 76, 1986, 179.

 

[88] La Lamberti rende così la traduzione del frammento: “purchè non si agisca su una questione in cui vi sia stata vis ( a meno che la vis non sia stata esplicata conformemente ad un in interdetto, decreto o ordine della persona preposta alla giurisdizione). Si v. Lamberti F., “Tabulae Irnitanae”, cit., 349. Più generica appare, invece, la traduzione di Gonzales J. e Crawford M., The “Lex Irnitana”, cit., 195. Sulle incongruenze lessicali si v. Nörr D., Zum Interdiktenverfahren in Irni und anderswo in Iuris Vincula. Studi Talamanca, 6, Napoli, 2001, 99. Secondo lo studioso, sostanzialmente, erano sottratti al magistrato municipale principalmente gli interdetti che riportavano la parola vis:: “die im iussum, im Tatbestand und in der sog. exceptio vitiosae possessionis den Ausdruck vis enthielten” (si v. Nörr, Zum Interdiktenverfahren …cit., 83). il Nörr introduce il problema dell'interpretazione di lex Irnitana, 84, 6-8, facendo non senza ironia, l'esempio pratico di Tizio, municeps latinus di Irni che torna nel suo uliveto e trova che il ricco Mevio ha fatto qualche cosa sul suo terreno. Tizio allora va a cercare le tavole con le leggi del municipio e trova il cap. 84 che è quello che solitamente interessa delle altre leggi municipali, ma queste tre righe gli risultano tuttavia difficili da capire. Infatti, è ivi esclusa categoricamente la competenza del magistrato municipale nel caso in cui sia stata fatta una vis. Vi è inoltre l'eccezione per la vis che non è stata fatta secondo interdetto, o decreto o iussum del magistrato municipale. Con questa clausola, Tizio non può fare nulla. Si v. Nörr D., Zum Interdiktenverfahren, cit., 75-76.

 

[89] Si v. in tal senso Simshäuser W., Stadtrömischen Verfahrensrecht im Spiegel der lex Irnitana, in ZSS,RA, 1992, 165.

 

[90] A tale implicita competenza, infatti, lo Simshäuser ricollega l'ulteriore ipotesi che costoro potessero imporre una stipulatio pretoria per la prestazione della summa vadimonii. Si v. Simshäuser W., Stadtrömischen Verfahrensrecht, cit., 165 ss.

 

[91] La lex Iulia richiamata nel passo, come si evince dallo stesso frammento citato, è chiaramente una delle due note leges augustee iudiciorum privatorum e publicorum, e potrebbe evidentemente corrispondere a quella lex Iulia richiamata nel capitolo 91 della lex Irnitana: et si intra tempus, quod legis Iuliae, quae de iudici(i)s privatis proxime lata est, kapite XII senatusve consultis ( ad it kaput) ad it kaput legis pertinentibus conpr(e)hensum est, iudicatum non sit, uti res in sudicio non sit, siremps lex i(us) c(ausa)que esto ad que(m) uti esset si eam rem in urbe Roma praetor p(opuli) R(omani) inter cives Romanos iudicari iussisset et de e(a) re ex (quacumque) lege rogatione(m) quocumque plebis scito sudicia privata in urbe Roma fient, agi fieri, denuntiari, diem diffin(den) di, diem diffi(s)sum esse, iudicari (testo di Gonzales J. e Crawford M., The “Lex Irnitana”, cit., 179). A favore di tale ipotesi milita il fatto che il passo di Ulpiano menzionato, tratta della stessa questione relativa alla vis cui fa riferimento nel cap. 84 della Irnitana. La questione relativa alla corrispondenza tra la lex Iulia cui rinvia il cap. 91 e la famosa lex Iulia iudiciorum privatorum è, tuttavia, molto dibattuta. Tra i suoi sostenitori vi sono: il Johnston che così si esprime: «….chapter 91, in which, in the context of the statutory limit on actions, ther is an explicit reference to the Lex Iulia de iudiciis privatis»; si v. Johnston D., Three thoughts on Roman private Law and the lex Irnitana, in JRS 77, 1987, 63; inoltre Luraschi G. Sulla Lex Irnitana, in SDHI, 1989, 163, ed, ancora, Mantovani D., La “diei diffissio” nella lex Irnitana, in Iuris vincula. Studi Talamanca, Napoli 2001, 244.

 

[92] D. 50.17.105, Paulus 1 ad edictum.

 

[93] Si v. D. 39.2.4.4 (Ulp. 1 ad ed.): Si forte duretur non caveri, ut possidere liceat (quod causa cognita fieri solet) non duumviros, sed praetorem vel praesidem permissuros: item ut ex causa decedatur de possessione.

 

[94] Probabilmente del tipo: ne quid in loco publico facias inve eum immittas, che riporta Ulpiano nel suo commentario all'editto D. 43.8.2.1-2 (Ulp. 68 ad ed.): Hoc interdictum prohibitorium est. Et tam publicis utilitatibus quam privatorum per hoc prospicitur. Loca enim publica utique privatorum usibus deserviunt, iure scilicet civitatis, non quasi propria cuiusque, et tantum iuris habemus ad optinendum, quantum quilibet ex populo ad prohibendum habet. Propter quod si quod forte opus in publico fiet, quod ad privati damnum redundet, prohibitorio interdicto potest conveniri, propter quam rem hoc interdictum propositum est. Gli interdetti non possono assolutamente essere assimilati a degli atti amministrativi, ma devono considerarsi dei provvedimenti giurisdizionali in senso lato fondati sull'imperium poiché necessitavano pur sempre di un'istanza formale effettuata da un privato nei confronti di un convenuto. Infatti, anche quando detti provvedimenti erano volti alla tutela di un bene pubblico, tale tutela veniva apprestata indirettamente, ovvero attraverso la tutela dell'interesse del singolo. Di ciò si trova conferma in D. 43.8.2.17 (Ulp. 68 ad ed.): Si quis nemine prohibente in publico aedificaverit, non esse eum cogendum tollere, ne ruinis urbs deformetur, et quia prohibitorium est interdictum, non restitutorium. si tamen obstet id aedificium publico usui, utique is, qui operibus publicis procurat, debebit id deponere, aut si non obstet, solarium ei imponere: vectigal enim hoc sic appellatur solarium ex eo, quod pro solo pendatur. In particolare, si v. Gandolfi G., Contributo allo studio del processo interdittale romano, Milano 1955, 27. Lo stesso concetto viene espresso dallo studioso anche in Lezioni sugli interdetti, Milano 1960, 35 ss.

 

[95] In lex Rubria de Gallia Cisalpina, XIX, 1-3 si legge: ….quisque quomque de ea re decernet interdeicetve seive sponsionem fieri iudireive iubebit iudiciumve quod de ea re dabit, is. Per quanto il frammento sia pervenuto a noi incompleto, dal richiamo finale ai IIviri ed ai IIIIviri in tema di remissio è possibile desumere che anche gli altri istituti giuridici menzionati ed, in particolare, gli interdetti ed i decreta fossero posti in essere da magistrati locali. Il Laffi U., La lex Rubria, cit., 28, osserva che, attribuire il quisque del frammento al magistrato locale, oltre che al pretore, è la sua interpretazione più naturale; tuttavia già in precedenza il Grelle aveva sostenuto che: «la lex Rubria de Gallia Cisalpina amplierebbe competenze già riconosciute ai magistrati locali, quando nel cap. 19 prevede per loro con riferimento alle denuncie di nuova opera, la possibilità di richiedere la satisdatio o di emanare l'interdictum demolitorium». Si v. Grelle, La giurisdizione municipale in età repubblicana, in Labeo, 20, 1974, 131.

 

[96] D.2.1.3. (Ulp. 2 de off. quaest.) Imperium aut merum aut mixtum est, merum est imperium habere gladii potestatem ad animadvertendum facinorosos homines, quod etiam potestas appellatur. Mixtum est imperium cui etiam iurisdictio inest, quod in danda bonorum possessione consistit. Iurisdictio est etiam iudicis dandi licentia.

 

[97] D. 50.16.131.1 (Ulp. 3 ad legem Iuliam et Papiam): Inter ‘multam’ autem et ‘poenam’ multum interest, cum poena generale sit nomen omnium delictorum coercitio, multa specialis peccati, cuius animadversio hodie >pecuniaria est: poena autem non tantum pecuniaria, verum capitis et>existimationis irrogari solet. Et multa quidem ex arbitrio eius venit, qui multam dicit: poena non irrogatur, nisi quae quaque lege vel quo alio iure specialiter huic delicto imposita est: quin immo multa ibi dicitur, ubi specialis poena non est imposita. item multam is dicere potest, cui iudicatio data est: magistratus solos et praesides provinciarum posse multam diceremandatis permissum est. Poenam autem unusquisque inrogare potest, cui huius criminis sive delicti exsecutio competit.

 

[98] Lex Irnitana 19.9-12: item pignus capienti a municipibus incolisque in homines diesque singulos quod sit non pluris quam HS sestertium X milia nummorum, item multam dicendi, damnum dandi eisdem (per il testo Gonzales J. e Crawford M., The “Lex Irnitana”, cit., 153).

 

[99] Lex Irnitana, 83, 48-51: Aedilibus isve qui ei operi sive munitioni praerunt ex decreto decurionum conscriptorumve, earum operarum indicendarum exigendarum et pignus capienti multam dicendi, ut aliis capitibus cautum conprehensumque est, ius potestasque esto (per il testo Gonzales J. e Crawford M., The “Lex Irnitana”, cit., 175).

 

[100] Lex Irnitana, 66, 9-13: Rubrica. De multa quae dicta erit. Multas in eo municipio ab duumviris praefectove dictas, item ab aedilibus quas aediles dixisse se aput duumviros ambo alterumve ex his professi erunt, duumviri, qui iure dicundo praerunt in tabulas communes municipium… (per il testo Gonzales J. e Crawford M., The “Lex Irnitana”, cit., 168).

 

[101] Lex Irnitana, 66, 9-13: Rubrica. De multa quae dicta erit; lex Malacitana 66, 72-75: Rubrica. De multa quae dicta erit. Multas in eo municipio ab IIviris praefectove dictasitem ab aedilibus quas a ediles dixisse se apud duumviros ambo alterve ex iis professi erunt, duumvir, qui iure dicundo praeerit, in tabulas communes municipium (per il testo si v.: D’Ors A., Epigrafia juridica de la España Romana, Madrid, 1953, 337).

 

[102] Lex Latina Tabulae Bantinae, 9-10: [ sc(iens) d(olo) m(alo), (sestertium) n(ummum) ??? multae esto, quei uolet petito, ] eam pequniam quei uolet magistratus exsigito. Sei postulabit quei petet pr(aetor) recuperatores (per il testo si v. Crawford M., Roman Statutes, cit., 200).

 

[103] Si è ipotizzato da parte della dottrina che il giudizio di appellatio nel caso di multe esorbitanti seguisse un procedimento modellato sulla provocatio ad populum. In tal senso Laffi, Le funzioni giudiziarie dei senati locali nel mondo romano, Siviglia, 1989, 74. L'ipotesi che in sostituzione dell'assemblea popolare sarebbe stato competente nei municipia il senato locale, risale all’ Huschke, Die Multa und das Sakramentum in ihren verschiedenen Anwendungen, Leipzig, 1874, 86 ss., ed è stata poi ripresa dal Mommsen T., Römisches Staatsrecht I, 3a ed., Leipzig, 1887, 307. Si osserva che in D. 50.16.244, sopra menzionato, si fa espresso riferimento alla possibilità di utilizzare lo strumento della provocatio contro le multe.

 

[104]Lex Irnitana 66, 16-19. Si v. Gonzales J. e Crawford M., The “Lex Irnitana”, cit., 220; Lamberti F.,“Tabulae Irnitanae”, cit., 107 ss.

 

[105] Lex Ursonensis 95, 32-36…vadimonium, iudicium, sacrificium, funus familiare, feria(s) de(n)icales eumve propter magistratum potestatemve populi romani atesse non posse, post ei earum, quarum rerum hac lege quaestio erit actio ne esto. Per il testo si v. Crawford M. Roman Statutes, cit, p.407.

 

[106] Lex Ursonensis 102. Per il testo si v. Crawford M., Roman Statutes, cit, 409.

 

[107] Secondo il Venturini il citato frammento avrebbe “modellato” le funzioni del magistrato municipale su quelle proprie dei pretori operanti a Roma nei processi criminali riprendendo le la stessa terminologia adottata nella lex Repetundae appartenente alle Tabulae Bantinae tra cui il quaerere, quale compito specifico del magistrato inquirente che nel frammento avrebbe forse sostituito il petere e lo iudicium exercere. Si v. Venturini C., EORVM IVDICATIO LITISQVE AESTIMATIO, in Minima Epigraphica et Papyrologica, 2, 1999, Roma, 237 e 246 ss. Solo nella lex Ursonensis, a differenza di quanto accade in altre leges municipales, il giudizio per quaestiones più nuovo si sarebbe affiancato a quello più antico comiziale che si è riscontrato anche nella lex Irnitana. Dato il forte parallelismo col processo delle quaestiones perpetuae romanae, è possibile che sussistessero forti analogie tra i compiti del duumviro e quelli del pretore a Roma per quanto riguarda le attività di impulso del giudizio criminale e di direzione dello stesso.

 

[108] Lex Ursonensis 103, 7-8. Per il testo si v. Crawford M. Roman Statutes, cit., 409.

 

[109] Lex Ursonensis 62, 20-24. Per il testo si v. Crawford M. Roman Statutes, cit., 400.

 

[110] Come testimoniato da D. 1.21.1.1 (Pap. 1 quaest.), peraltro, l’imperium, poteva essere attribuito solo con legge e non potva costituire oggetto di mandato da un magistrato all’altro, a differenza della iurisdictio: Qui mandatam iurisdictionem suscepit, proprium nihil habet, sed eius, qui mandavit, iurisdictionem quidem transferri, sed merum imperium quod lege datur non posse transire: quare nemo dicit animadversionem legatum proconsulis habere mandata iurisdictione. Paulus notat: et imperium, quod iurisdictioni cohaeret, mandata iurisdictione transire verius est.

 

[111] Su un'originaria autonomia delle giurisdizioni municipali risalenti ad un periodo antecedente alla legislazione di Cesare, dunque non dipendenti da quest'ultima, si v. Simshäuser W., Iuridici, cit., 108.

 

[112] Sarebbe stata quest’ultima, una sorta di “legge quadro”, ovvero un vero e proprio modello tipo cui si sarebbero ispirate in vario modo anche tutte le altre leges municipales. Non si sarebbe trattato semplicemente di uno schema di riferimento, ma di una vera e propria lex rogata essendo, peraltro, risalente ad un periodo che va dalla fine dell’età repubblicana all’impero. In tal senso Talamanca M., Il riordinamento augusteo del processo privato, in Gli ordinamenti giudiziari di Roma imperiale, Copanello,1996, 216; di contrario avviso la Lamberti, che parla, invece, di una lex data in Lamberti F., Tabulae irnitanae, cit., 204 n. 9.

 

[113] Lex Irnitana, 91, 4-6. Si v Gonzales J. e Crawford M., The “Lex Irnitana”, cit., p. 179.

 

[114] Si v. Bruna F.J., Lex Rubria, cit., 175.

 

[115] Si v. Crawford M. Roman Statutes,cit., 200.

 

[116] Si v. al riguardo, Bianchi E., Fictio iuris. Ricerche sulla finzione in diritto romano dal periodo arcaico all'epoca augustea, Padova, 1997, 10 ss. ed, inoltre, Garcia Garrido M.J., rec. a Bianchi, Fictio iuris. Ricerche sulla finzione, cit., in IURA, 48, 1997, 170-171; Mantovani D., La diei diffissio, cit., 222–223 ss., in particolare in nota.

 

[117] Si v. voce “siremps” in Calonghi F., Dizionario Latino-Italiano, 3a ed., Torino, 1950, XVIII rist. 1990, 2546.

 

[118] Si v. lex Rubria de Gallia Cisalpina, cap. XX, 29; idem, cap. XX, 38-39.

 

[119] Secondo il Bruna il frammento andrebbe interpretato nel senso dell'attribuzione di un potere particolare conferito appositamente dalla lex  Rubria. Si v. Bruna, F.J., Lex Rubria,cit, 77-78. Dello stesso avviso è anche Laffi U., Studi di storia romana e di diritto, Roma, 2001, 268 n. 58, il quale però si chiede se il decreverit, indichi necessariamente un conferimento del potere o possa anche riferirsi al regolamento di tale potere. Secondo lo Simshäuser, invece, il frammento rimarcherebbe il fatto che l'imposizione della cautio damni infecti cui esso si riferisce, faceva parte dei poteri inerenti alla stessa magistratura municipale. Si v. Simshäuser W., Iuridici, cit., 210.

 

[120] Si v. GLÜCK C.F., Ausführliche Erläuterung der Pandekten nach Hellfeld, Erlangen, 1790-1892, trad.it. De Marinis G., Commentario alle pandette, II, Milano, 1805, 85 n. a), secondo cui i magistrati municipali avrebbero subito notevoli limitazioni dei propri poteri sul finire della repubblica. In tal senso, inoltre, si v. Bruna F.J., Lex Rubria, cit., 78 ss. Anche lo Simshäuser aveva rilevato quanto fosse recente il criterio elaborato dai giuristi severiani in ordine alla limitazione delle competenze dei magistrati municipali e basato sul rapporto tra iurisdictio ed imperium, a fronte delle originarie competenze di tali magistrati cosi come esse sarebbero emerse da fonti precedenti. Lo studioso prendeva in considerazione la lex Rubria per rilevare il servirsi da parte di tali magistrature dello iussum cavendi e della formula ficticia che sarebbero stati concessi addirittura senza limiti di valore, nonché la possibilità da parte di tali magistrati di servirsi di azioni penali, anche per tutelare la propria giurisdizione. Nelle sue argomentazioni egli fissava con certezza, una tale ampiezza di competenze sul finire dell’età repubblicana. In realtà, incongruenze tra le limitazioni riportate in D. 2.1.4 e D. 50.1.26, e l’effettiva estensione dei poteri di tali magistrature, si riscontrano anche, per quanto concerne l’età flavia, nella lex Irnitana, ma quest’ultima, all’epoca del contributo citato, non era stata ancora scoperta. Si v. Simshäuser W., Iuridici, cit., 186., 218 ss. Lo Simshäuser, in ogni caso, ha voluto individuare il discrimen tra le competenze dei magistrati municipali e quelle riservate al pretore, nella necessità o meno di una cognitio causae. Non si colgono le motivazioni di una simile scelta atteso che, in particolare le fonti che ricollegano la cognitio causae solo al pretore, come ad esempio D. 50.17.105: ( Pal. 1 ad ed.): Ubicumque causae cognitio est, ibi praetor desideratur, risalgono pur sempre all’età dei Severi, esattamente come quelle che negano le competenze dei magistrati municipali in materia di atti magis imperii quam iurisdictionis.

Inoltre, se, come si è voluto evidenziare, è possibile convincersi del fatto che, nella pratica, ai magistrati municipali fosse consentito porre in essere atti magis imperii quam iurisdictionis, non si vede perché ad essi dovesse essere negata la possibilità di svolgere cognitio causae, atteso che, quest’ultima assurgeva ad elemento imprescindibile e tipizzante di tale categoria di atti. Infine, non si sottace la circostanza che, mentre nelle leggi municipali in nostro possesso emergono con certezza competenze in materia di atti magis imperii quam iurisdictionis riferite ai magistrati municipali, nelle stesse fonti non sembrano, invece, emergere disposizioni che sia pure indirettamente neghino loro la possibilità di compiere cognitio causae.

 

[121] D’altra parte appare pacifico in dottrina il fatto che la categoria degli atti magis imperii quam iurisdictionis abbia avuto origine, in particolare, dalla necessità di definire alcuni problemi inerenti alle competenze dei magistrati municipali e di riorganizzare tali competenze, oltre che dal tentativo, sia pure evidente, di classificare alcuni provvedimenti magistratuali a seconda del rapporto tra iurisdictio ed imperium che li caratterizzava. Nel senso che il contenuto di D. 50.1.26 ( e di D. 2.1.4 che a questo si aggiunge) fosse finalizzato ad indicare quali provvedimenti dovevano essere riservati ai magistrati supremi romani, titolari di imperium poiché la complessa organizzazione imperiale aveva comportato il moltiplicarsi delle funzioni che possono genericamente definirsi giurisdizionali, nonché dei soggetti in esse coinvolti e da ciò sarebbe sorta l’esigenza di operare una distinzione tra poteri, si vedano, in particolare: Leifer F., Die Einheit des Gewaltgedankens im römischen Staatsrecht, Leipzig, 1914, 89 ss. e 124 ss.; Lauria M. Iurisdictio, cit., 489; De Francisci P., secondo il quale la iurisdictio, pur derivando dall'imperium, sarebbe stata a questo contrapposto per distinguere la bassa giurisdizione dell’autorità municipale priva d’imperium ma titolare di potestas, dall’alta giurisdizione del magistrato romano, in Storia del diritto romano, Milano, 1939, 243; Impallomeni G., L'editto degli edili curuli, Padova, 1955, 109; Raggi L., La restitutio in integrum nella cognitio extra ordinem. Contributo allo studio dei rapporti tra diritto pretorio e diritto imperiale, Milano, 1965, 103; Spagnuolo Vigorita T., Imperium mixtum. Ulpiano, Alessandro e la giurisdizione procuratoria, in INDEX 18, 1990, 115 ss.