N. 6 – 2007 –
Tradizione Romana
Magda maria L.G. Rocca
Università
di Roma “La Sapienza”
I magistrati municipali e
l’imperium*
Abstract: L’esercizio
di atti di imperium da parte dei
magistrati municipali sembrerebbe escluso dalle fonti della Compilazione
giustinianea. In contrasto con le fonti della Compilazione giustinianea
appaiono, invece, porsi alcuni frammenti epigrafici relativi soprattutto, ma
non solo, a leges di municipia e coloniae in cui sono
talora ben evidenti le tracce di un istituzionalizzato uso dell'imperium da parte dei citati magistrati.
Vi sono, inoltre, in altri frammenti epigrafici di varia natura, riferimenti
all’imperium di magistrature
locali, in taluni casi espliciti e diretti, in altri casi indiretti, in quanto
relativi alla attribuzione di poteri di cöercitio.
Si prospetta un’ipotesi che giustifichi e coordini i dati ricavabili
dalle fonti. Con un discorso che si discosta, in parte, dagli orientamenti
dottrinali prevalenti: riferimento alla nozione di mandato e di delega di
funzioni per tentare di spiegare l’ampiezza delle attribuzioni dei
magistrati municipali.
La
possibilità di porre in essere atti di imperium, in generale, da parte dei magistrati municipali, è
stata sempre esclusa dalla dottrina sulla base delle fonti della compilazione
giustinianea e, in particolare, sulla base di D. 50.1.26, tratto dal
commentario all’editto di Paolo. Ivi si legge esplicitamente: Ea quae magis imperii sunt quam
iurisdictionis, magistratus municipalis facere non potest. Nel paragrafo
successivo della stessa fonte, a conferma dell’inciso iniziale, viene
inoltre proposto un elenco, ad exemplum,
di tali atti: Magistratibus municipalibus
non permittitur in integrum restituere aut bona rei servandae causa iuberi
possidere aut dotis servandae causa vel legatorum servandorum causa.
Accanto
a D. 50.1.26 solo in un altro passo della compilazione si fa menzione della
categoria degli atti magis imperii quam
iurisdictionis, facendo rientrare tra essi lo iubere caveri e l’in
possessionem mittere. Si tratta di D. 2.1.4[1]
tratto dal primo libro del commentario all’editto di Ulpiano nel quale,
tuttavia, non si fa alcun riferimento alle competenze dei magistrati
municipali, sicché D. 50.1.26 rimane comunque l’unica fonte del Corpus Iuris in cui si afferma in modo
inequivocabile che i magistrati municipali non potevano compiere atti magis imperii quam iurisdictionis e, di
conseguenza, non potevano disporre, in particolare, missiones in possessionem (iuberi
possidere) ed in integrum
restitutiones.
Integrando
il contenuto di D. 50.1.26 con quello di D. 2.1.4, in cui si legge: “Iubere caveri praetoria stipulatione et in
possessionem mittere imperii magis est quam iurisdictionis”, si
ricava ulteriormente che i magistrati municipali non potevano nemmeno iuberi caveri praetoria stipulatione
ovvero, ordinare fosse prestata una cautio,
mediante una stipulazione pretoria.
Con specifico
riguardo alla nozione di atti “magis
imperii quam iurisdictionis”, invece, non disponiamo di nulla. Il
frammento di Ulpiano ha tutta l'apparenza di essere stato estrapolato da un
discorso del quale non vengono riportate diverse parti e del quale sicuramente
sfuggono anche le premesse. Di questo discorso non sarebbe riportata non solo
la spiegazione relativa alla stessa denominazione “magis imperii quam iurisdictionis”[2],
ma mancherebbe altresì una descrizione delle caratteristiche che
accomunano tra loro i provvedimenti magistratuali appartenenti a tale
categoria. La sensazione di incompletezza è ancora più evidente
in D. 50.1.26, in cui Paolo parte dall’assunto che esistano già
degli atti denominati magis imperii quam
iurisdictionis e specifica che questi non possono essere compiuti dal
magistrato municipale, delineando così immediatamente, per esclusione,
l’ambito di competenza di quest’ultimo. La presenza dell’
“ea” nel principium di D. 50.1.26 potrebbe
lasciare congetturare che una disquisizione, a noi non pervenuta, sulla
categoria degli atti magis imperii quam
iurisdictionis poteva probabilmente precedere il relativo elenco indicato
nel passo.
In
mancanza di ulteriori riferimenti alla categoria di atti di cui si tratta, i
dati che è possibile trarre al riguardo da passi come come D. 4.1.3 (Mod. 8 pand.): Omnes in integrum
restitutiones causa cognita a pretore promittuntur, oppure, D. 39.2.4.4, (Ulp.1 ad ed.): Si forte duretur non
caveri, ut possidere liceat (quod causa cognita fieri solet) non duumviros sed
praetorem vel praesidem permissuros : item ut ex causa decedatur de possessione,
o, ancora, D. 50.17.105 (Paul.1 ad ed.): Ubicumque causae cognitio est, ibi praetor desideratur, lasciano
intendere che gli atti magis imperii quam
iurisdictionis erano sicuramente caratterizzati da una forte
discrezionalità magistratuale, che richiedevano cognitio causae e che per tale ragione erano riservati al pretore
ed al praeses provinciae dotati,
appunto, di imperium. Peraltro, in
detti testi ugualmente risalenti all’età dei Severi, anzi tratti
dalle stesse opere di Paolo ed Ulpiano, come in tutte le altre fonti della
compilazione, non sembra, invero, esservi nulla che, con riguardo alle
competenze dei magistrati locali, smentisca quanto è sostanzialmente
riportato da Paolo in D. 50.1.26, ovvero che i magistrati municipali non
potevano servirsi in modo alcuno dell’imperium.
Rispetto
alle limitazioni in materia di competenza che sono indicate in D. 50.1.26 e che
sono inoltre desumibili da D. 2.1.4, ad esso strettamente collegato, a
conclusioni ben diverse è, invece, possibile giungere partendo
dall’esegesi di diversi frammenti epigrafici relativi a leges di municipia e coloniae da cui emergono tracce di un
istituzionalizzato uso dell'imperium
da parte dei magistrati locali. All’interno di questo gruppo di fonti,
particolarmente significative appaiono in primo luogo quelle in cui
l’ipotesi che l’imperium
potesse essere (in qualche modo) appannaggio anche delle magistrature locali
è avvalorata dalla presenza della stessa parola “imperium” riferita a queste ultime
ed al loro operato.
Nella lex Latina Tabulae Bantinae[3],
ad esempio, si legge: imperiumue inierit
iouranto; il frammento può interpretarsi nel senso che magistrati
come il console, il pretore, l’edile, il questore, ma anche il triumvir cap(italis), IIIvir a(greis) d(andeis) a(dsignandeis) che entravano
in carica nei cinque giorni successivi a quello in cui venivano a conoscenza
dell’approvazione della legge di
cui si tratta da parte del popolo o della plebe, avrebbero dovuto
prestare giuramento così come era prescritto dalla stessa legge. Allo
stesso modo avrebbero dovuto prestare giuramento anche una serie di magistrati,
tra cui spiccano, ancora una volta, il IIIvir
cap(italis)ed il IIIvir a(greis)
d(andeis) a(dsignandeis) nei cinque giorni successivi a quello in cui
sostanzialmente, la legge o il plebiscito avrebbero attribuito loro l’imperium o la magistratura[4].
Numerose
sono poi le fonti in cui, pur non richiamandosi direttamente l’imperium, si fa riferimento a
fattispecie in cui era consentito ai magistrati municipali di apprestare un
genere di tutela tipicamente pretoria, dipendente pur sempre da tale potere.
Nel
primo frammento della lex Rubria de
Gallia Cisalpina, concernente la parte finale del Cap.XIX e relativo, come si
accennato, all’operis novi
nuntiatio, si legge : ….iussum iudicatum erit, id ratum ne esto;
quodque quisque quomq(ue) d(e) e(a) r(e) decernet interd(e)icetve seive
sponsionem fieri iudica(rei)ve iubebit iudiciumve quod de ea re dabit, is in id
decretum interdictum sponsionem iudicium exceptionem addito addive iubeto:
“ q(ua) d(e) r(e) operis novi nuntiationem II vir IIII vir praefectusve
eius municipei non remeisserit …[15].
Per
quanto manchino le prime righe, si può ritenere che la legge statuisca
che «tutto ciò che è stato ordinato o giudicato non debba
considerarsi vincolante (oppure si potrebbe lasciare il termine originario
“rato”, assumendo per
rato ciò che è stato decretato seguendo un procedimento
regolare)». Non è facile intuire a quali soggetti faccia
riferimento il passo, come artefici dello iussum
o del iudicatum. Più oltre
nello stesso frammento si legge che «qualunque decreto o interdetto o sponsio o qualunque procedura formulare
da chiunque sia prescritto o prescritta, a questa/o si dovrà aggiungere,
quale exceptio, il fatto che i magistrati
municipali non abbiano rimesso l’operis
novi nuntiatio», si può intendere: «affinché
detto provvedimento sia efficace». Nel frammento indicato, si fa
riferimento ad una remissio[16]
effettuata da un qualunque magistrato municipale tra quelli elencati, senza
distinguere tra le diverse cariche e, dunque, senza tener conto di
un’eventuale differenza di attribuzioni o di poteri, tra le diverse
magistrature. Si vuole focalizzare, in particolare, l'attenzione sull'inciso: in id decretum, interdictum … exceptionem
addito… qua de re operis novi nuntiationem II vir IIII vir praefectusve
eius municipei non remiserit, nel quale appare indubbio che la remissio fosse consentita a magistrati
municipali ed operasse in via di exceptio,
come un qualsiasi rimedio pretorio di fronte ad un istituto dello ius civile[17].
Certo,
la remissio è notoriamente non
ben chiara in tutti i suoi aspetti[18],
ma, sicuramente, deve intendersi come un atto “prevalentemente” di imperium, in particolare poichè
consisteva in un provvedimento discrezionale del magistrato che necessitava,
molto probabilmente, di causae cognitio[19].
Allo
stesso modo nulla esclude la possibilità di ipotizzare che sempre con
riferimento all’operis novi
nuntiatio, i magistrati municipali potessero, durante il procedimento,
imporre, qualora le circostanze lo avessero richiesto, per carenza della
procura, una cautio rem ratam dominum
habiturum, ovvero una stipulatio
praetoria rientrante nello iubere
caveri e, pertanto, appartenente agli atti magis imperii quam iurisdictionis[30].
Riassumendone
brevemente i contenuti, ivi si stabilisce che chiunque nella Gallia Cisalpina
tema un danno e voglia “restipulare”
secondo la formula della cautio damni
infecti, oppure ricevere una satis
datio (così almeno sembrerebbe potersi interpretare il “
…quisque. in Gallia Cisalpeina damnei infecti ex formula restipularei
satisve accipere volet…”) e lo avrà richiesto a colui il
quale “ibei ius deicet”,
sarà accontentato, purchè abbia giurato che non lo fa con intento
calunniatorio. Traducendo, il testo, quest’ultimo, per quanto articolato,
può indicativamente essere reso così: «colui il quale per
tale ragione sarà convenuto in giudizio(in ius aditum erit….in ius eductus) secondo la formula,
dovrà ripromettere e se dovrà satis
dare gli sarà ordinata una satis
datio. Chi, infatti, non avrà prestato repromissio o satis datio,
se, intanto, si sarà verificato un danno per quei fatti per cui avrebbe
dovuto farlo, sarà richiesto di ciò dal magistrato o, per lui,
dal duumviro, dal quattuorviro o dal
prefetto e comunque per tali fatti sarà convenuto in giudizio e per gli
stessi fatti sarà giudicato dagli stessi magistrati».
Si
evidenzia, in primo luogo, la presenza di un magistrato che ibi, ovvero all’interno del
municipio ius dicit. Ricorre, in
questo caso, l'ipotesi in cui l'espressione “ius dicere” indica l'esercizio di funzioni ben più
ampie di quelle sottese al concetto di iurisdictio[33].
La iurisdictio[34],
infatti, pur trovando la propria
origine nel primitivo ius dicere,
è, successivamente, valsa ad indicare quel complesso di attività poste in essere dal
magistrato durante la fase in iure
del procedimento di preparazione alla fase apud
iudicem, ed è nella pronuncia dei noti “tria verba” di varroniana memoria (do, dico, addico)[35]
che si sarebbe
compendiata la sua parte essenziale[36]. Il dicere,
invece, riferito allo ius, può
interpretarsi come “statuire” [37], riportando l’esempio di “inter-dicere”, “diem dicere”, “dotem dicere”[38],
oppure con “provvede”. In particolare, nel processo formulare[39],
il dicere avrebbe assunto i caratteri di una “statuizione
solenne”[40]
del diritto attraverso la determinazione di una regola o la creazione di un
vincolo tra le parti, conformemente a ciò che i romani avrebbero inteso
col termine “ius”. Detta locuzione avrebbe mantenuto,
pertanto, un significato più legato alla discrezionalità che
caratterizza l’esercizio dell’imperium
[41],
riferendosi a provvedimenti legati all'imperium e questo elemento
risulta perfettamente in linea con la circostanza che, nel citato frammento
epigrafico, chi ius dicit, imponga delle stipulationes pretorie.
Secondo altra parte della dottrina,
invece, non ci sarebbe stata affatto una priorità temporale nella
ricezione della cautio da parte dell'editto del praetor peregrinus,
rispetto a quello del praetor urbanus dal momento che, per quanto
concerne la formula dell'editto riportataci da Ulpiano in D.39.2.7.pr., la
presenza di alcuni riferimenti testuali avrebbe lasciato intendere che fosse
nota già a Labeone ed a Masurio Sabino[48].
Il richiamo all'editto del praetor
peregrinus, peraltro, si sarebbe potuto giustificare semplicemente col
fatto che
Tale giustificazione, tuttavia, non appare
sufficiente, non solo perché, come si è visto, tali magistrati
potevano imporre la prestazione di una cautio, ma anche perché
essi si servivano di un escamotage molto più sottile. Infatti,
come se loro fosse strato attribuito quell’imperium che
caratterizzava i poteri del praetor peregrinus[51],
essi potevano servirsi di una fictio iuris (iudicialis) ovvero di
uno degli strumenti più rivoluzionari del ius honorarium con cui
il magistrato, pur non potendo modificare quanto era stato sancito dallo ius
civile, poteva tuttavia “fingere” che determinati meccanismi
avessero già sortito quegli effetti che lo stesso ius civile
prevedeva che sortissero, seguendo le procedure ordinarie, oppure che
determinati effetti non si fossero mai verificati[52].
L'esercizio dell'imperium, in particolare, risulta qui indubitabile se
si pensa che anche lo schema attraverso il quale, in genere, i magistrati
dell'Urbe disponevano le in integrum restitutiones, notoriamente atti magis
imperii quam iurisdictionis, era proprio quello delle actiones ficticiae.
D'altra parte, si osserva che nel cap. XX della lex Rubria, se non si
rinviene alcun riferimento ad una missio ex secundo decreto, nemmeno si
riscontra alcun riferimento ad una missio ex primo decreto, con riguardo
alla mancata prestazione della cautio damni infecti. La dottrina che,
trattando del cap. XX della legge, precisa che ai magistrati locali fosse
consentita solo la missio ex primo decreto, giustifica, infatti, tale
asserzione, solo con D.39.2.1 (Ulp. 1
ad ed.): Cum res damni infecti celeritatem desiderat et periculosa
dilatio praetori videtur, si ex hac causa sibi iurisdictionem reservaret,
magistratibus municipalibus delegandum hoc recte putavit[53].
Se il non poter ricorrere alla missio in possessionem fosse stato dovuto
alla carenza di imperium, peraltro, non si spiegherebbe perché in
questo capitolo della lex non sia stata almeno consentita l'immissione
nella detenzione ex primo decreto.
Dal frammento epigrafico emergerebbe,
inoltre, un altro dato che vale a confermare l'esercizio da parte dei
magistrati locali di quella discrezionalità legata all'imperium
che caratterizza le forme di tutela apprestate dal pretore ed, in particolare,
dal pretore peregrino. Nell'intentio della formula ficticia riportata nel passo da ultimo citato della lex Rubria si rileva altresì la
presenza di una clausola ex fide bona che sembrerebbe fuori luogo in una
stipulatio che è un contratto stricti iuris e che è
tutelato da uno iudicium strictum[54].
Utilizzare formule fondate sull'oportere ex fide bona, peraltro, avrebbe
conferito ai magistrati municipali poteri amplissimi[55]
nell'individuare i contenuti della tutela che essi andavano ad apprestare e che
andavano presumibilmente oltre quello che le parti avevano convenuto nella stipulatio,
consentendo loro le stesse possibilità che avrebbe avuto il praetor grazie
al suo imperium. La clausola “ex fide bona”
così come si trova inserita in un'actio ficticia ex stipulatu, ha
creato diverse perplessità nella dottrina che si è adoperata in
vario modo per giustificarne la presenza[56].
Quella di cui si tratta rimane, in ogni caso un’actio ficticia con
la quale si vogliono estendere gli effetti di un'actio civile ex stipulato, con
intentio incerta (quanti ea res erit) perché avente ad
oggetto un danno futuro ed incerto. Essendo l'actio ficticia finalizzata
al risarcimento del danno, ma non essendoci realmente alla base di tale
risarcimento la vincolatività di una stipulatio, si può
ipotizzare (ancora una volta senza prove), che si sia voluto creare un oportere
“ex fide bona” inserendo la relativa clausola e conferendo,
in tal modo, ampie possibilità ai magistrati[57]
che se ne servivano La taxatio, riportata per due volte, e lasciata in
bianco nel testo epigrafico si potrebbe spiegare o per via dell'intentio
incerta dell'actio ex stipulatu[58]
o, comunque, per l'esigenza di stabilire dei limiti di valore al
risarcimento del danno nell'ambito di un iudicium bonae fidei. In ogni
caso, a prescindere da queste mere supposizioni, la taxatio
difficilmente potrebbe intendersi come un limite posto alla competenza dei
magistrati municipali perché, se così fosse stato, non sarebbe
stata lasciata in bianco e così inserita nella formula, col rischio che
gli effetti della litis contestatio si estendessero a tutto il rapporto.
Si potrebbe, pertanto, ritenere, anche con riguardo all'actio ficticia, che
la competenza dei magistrati municipali fosse illimitata.
Nell'Urbe,
invece, solo il confessus certae creditae pecuniae (e non anche
l’indefensus) sarebbe stato
equiparato al damnatus,[65]
sempre se questi, dopo aver confessato in iure, non avesse pagato la
somma di denaro in relazione alla quale era debitore entro trenta giorni,
oppure se non avesse fornito garanzie per il suo pagamento o, ancora, non
avesse assunto alcuna difesa nell'actio confessi. Sussistendo tali
presupposti il debitore andava, pertanto, soggetto alla ductio.
La possibilità per i magistrati
municipali di porre in essere atti che comportassero l’uso
dell’imperium sembra ulteriormente trovare conferma in quei frammenti
epigrafici dai quali si evince una loro competenza in materia di interdetti.
Tra questi vi è il capitolo 84
della lex Irnitana[86]
( ivi vengono delineati i limiti di competenza dei magistrati locali, prima in
base al valore, poi in base ad un criterio qualitativo) in cui assume
particolare rilevanza l'inciso neque ea res agetur qua in re vi factum sit,
quod non eius ex interdicto decretove iussuve eius qui iure dicunto praeerit
factum sit[87].
Nonostante la traduzione letterale del testo appaia difficile anche
perchè il “factum sit”
non si accorda con l’“ea”,
l’inciso lascerebbe intendere che esulavano dalla competenza dei
magistrati municipali le questioni che derivano dall'esercizio di una vis
non proveniente da un loro interdetto, decreto o iussum. Le controversie
che scaturivano da una vis esplicata in esecuzione di un interdetto o
decreto del magistrato locale, invece, evidentemente venivano trattate
nell'ambito del municipio e rientravano nella competenza dello stesso
magistrato municipale[88].
Si rinviene una disposizione simile in una
lex Iulia cui fa riferimento Ulpiano
nel suo commentario all'editto, riportato in D. 48.19.32 (Ulp. 6 ad ed.): Si
praeses vel iudex ita interlocutus sit ‘vim fecisti’, si quidem ex
interdicto, non erit notatus nec poena legis Iuliae sequetur: si vero ex
crimine, aliud est. Quid si non distinxerit praeses, utrum Iulia publicorum an
Iulia privatorum? Tunc ex crimine erit aestimandum. Sed si utriusque legis
crimina obiecta sunt, mitior lex, id est privatorum erit sequenda.
Dal passo risulta evidente che il preses
provinciae aveva il compito di indagare e compiere, in qualche modo, una cognitio
causae al fine di accertare se la vis era stata espletata in modo
legittimo, ovvero secondo un interdetto accordato dal magistrato, oppure senza
trovare fondamento in alcuna disposizione magistratuale. Nel primo caso il praeses
provinciae si sarebbe servito della disciplina prevista dalla lex Iulia
(iudiciorum privatorum), mentre nel secondo caso avrebbe fatto
riferimento alla lex Iulia Iudiciorum publicorum, come se si fosse
trattato di un crimine, ed ugualmente avrebbe dovuto optare per questa seconda
soluzione anche nell’ipotesi in cui egli non fosse riuscito ad accertare
la natura della vis.
Nell'ambito del municipio Irnitano
può presumersi che fossero gli stessi magistrati municipali a compiere
questo genere di accertamenti necessari ad individuare quali controversie
sarebbe stato necessario devolvere al magistrato della provincia. In dottrina[89]
si è sostenuto che il magistrato municipale implicitamente fosse
competente anche per quanto concerne il trasferimento del processo al
magistrato provinciale[90].
Il tipo di procedura che emerge dai frammenti
sin'ora considerati sembrerebbe confermare questa ipotesi perché, a
livello pratico, avrebbe comportato un inutile dispendio di tempo il fatto che,
al fine di accertare la natura della vis, una questione fosse prima
trasferita al governatore della provincia e poi, eventualmente, ritrasferita ai
magistrati locali.
Inoltre, se nel frammento di Ulpiano
citato l'accertamento della natura della vis, nonché la scelta
relativa alla procedura che ne sarebbe conseguentemente derivata, sono rimesse
al praeses provinciae, nel passo vi è anche un espresso richiamo
ad una lex Iulia cui lo stesso praeses si sarebbe dovuto
attenere. Quest’ultima, ben potrebbe essere identificata ( né vi
sarebbero ragioni per escludere tale possibilità), con la lex Iulia
richiamata dalla stessa lex Irnitana[91]
nel cap. 91, cui i magistrati municipali dovevano conformare le proprie
procedure, adeguandole alla legge in Roma. Se così fosse, dunque, il
cap. 91 della lex Irnitana porrebbe
sullo stesso piano l'operato dei magistrati municipali e quello del praeses
provinciae.
Dal tenore dei frammenti epigrafici cui si
sta facendo riferimento, emergerebbe inoltre che, anche i magistrati locali non
avrebbero potuto fare a meno di svolgere un' attività che si potrebbe
qualificare di cognitio causae, poiché questa sarebbe stata loro
indispensabile per compiere gli accertamenti cui si è fatto cenno,
finalizzati, appunto, alla devoluzione delle questioni secondo la ripartizione
delle competenze tra i magistrati locali ed il praeses provinciae.
Vacillerebbe, dunque, non solo il
carattere di assolutezza dell'inciso di Paolo: Ubicumque causae cognitio
est, ibi praetor desideratur[92],
ma anche il fondamento di D. 39.2.4.4[93]
che giustifica l'incompetenza dei duumviri in materia di missiones in
possessionem col fatto che queste ultime richiedono una cognitio causae.
Riferimenti a competenze di magistrature
municipali relative ad interdetti non si rinvengono, comunque, solo nel citato
cap. 84 della lex Irnitana. Vi
è in primo luogo il cap. 62 della stessa lex, sotteso alla
rubrica Ne quis aedificia quae restituturos non erit, destruat, che
lascia ipotizzare che il compito dei magistrati municipali di apprestare tutela
ai privati fosse adempiuto, quasi sicuramente, anche attraverso la concessione
di interdetti proibitori[94].
Vi è, inoltre, lo stesso capitolo XIX della lex Rubria de Gallia Cisalpina, cui si è già fatto
cenno[95].
Di grande rilevanza al fine di delineare
il tenore delle competenze che di fatto spettavano alle magistrature locali
sono inoltre quei frammenti di leggi municipali in cui è dato
riscontrare la possibilità per i magistrati municipali di comminare
multe e di esercitare altri poteri coercitivi, soprattutto nei confronti degli
schiavi. Questi dati appaiono di importanza fondamentale, se si pensa che alla
luce di D. 2.1.3[96]
e di D. 50.16.131.1[97]
lo ius multae dicendae rientra nella potestas
animadvertendi e costituiscono
entrambi manifestazione di imperium
merum riservato solo a magistrati e presidi della provincia.
Nella lex Irnitana, ad esempio, si prevede che
fosse consentito comminare multe ai duoviri, ai prefetti ed agli edili del
municipio irnitano. In particolare, fanno riferimento agli edili, il cap. XIX
nel quale viene riconosciuta loro la facoltà di irrogare multe fino a
5000 sesterzi[98]
ed il cap. LXXXIII nel quale, ugualmente, si prevede tale facoltà, in
maniera specifica, per la mancata prestazione dei munera publica da parte dei municipes[99],
dovuti, secondo quanto prescritto dallo stesso capitolo della legge. Nel
capitolo LXVI sia della lex Irnitana che della lex Malacitana si
fa riferimento anche ai duumviri ed
ai prefetti[100]
e si precisa che gli edili erano tenuti a notificare agli stessi duumviri le multe da essi imposte,
affinché queste fossero trascritte nei registri del municipio[101].
La possibilità di comminare multe si rinviene anche nella lex Latina Tabulae Bantinae[102].
Alla irrogazione della multa, peraltro, non avrebbe fatto seguito l'immediata
esecuzione di questa, poiché dopo la pubblicazione della multa si doveva
consentire al multato di ricorrere eventualmente ai decurioni[103].
Sicché, come si ricava dalla lex
Irnitana, qualora le multe fossero state sottoposte ai decurioni, il
magistrato avrebbe potuto procedere alla esecuzione delle multe solo se costoro
non le avessero ritenute ingiuste: Quaeque multae non erunt iniustae a
decurionibus conscriptisve iudicatae, eas multas IIviri in publicum municipium
eius municipi redigunto[104]
Tanto si evince anche da lex Latina
Tabulae Bantinae, 9-
In
diverse leggi municipali spagnole appare, infine, l’uso di termini che
sembrano evidentemente riferiti alla presenza di tribunali penali
nell’ambito degli stessi centri locali.
Vi
sono poi parole come delatores,
accusatores e subscriptores, che ricorrono un
po’ ovunque nel capitolo CII[106]
e che riguardano appunto, com’è noto, figure del processo
criminale. Ed in quest’ultimo capitolo, attraverso l’inciso: IIvir qui hac lege quaerit iudicium (ve)
exercebit, si delinea la figura di un magistrato che a livello locale
svolgeva funzioni finalizzate ad introdurre e svolgere un processo criminale[107].
Sebbene le fonti dalle quali è
possibile trarre indicazioni nel senso che le compenze delle magistrature
locali andassero ben oltre l’uso della semplice iurisdictio, contrariamente a quanto prescritto in D. 50.1.26,
siano più numerose di quelle cui sin’ora si è fatto cenno,
già alla luce di queste ultime, è possibile ipotizzare che,
almeno prima dell’età dei Severi, ai magistrati locali fossero
attribuiti dall’alto, attraverso la lex
municipalis (lo statuto) o la legge di deduzione della colonia[110],
poteri specifici in considerazione delle esigenze di ciascuna colonia o
municipio. Questi ultimi avrebbero, quasi sicuramente, mantenuto una certa
autonomia rispetto al potere centrale, nello scegliere le attribuzioni dei
propri magistrati[111],
pur adeguandosi, si ribadisce, almeno per quanto concerne alcune direttive
generali, alle leges di Roma.
Si
sarebbe fatto riferimento, quasi sicuramente, a dei modelli generali, come
appare testimoniato dalle numerose analogie tra le diverse leggi municipali, ma
gli stessi modelli venivano pur sempre adeguati alle necessità locali[112].
L’uso
di atti magis imperii quam iurisdictionis,
peraltro, in taluni casi doveva risultare addirittura necessitato
dall’esigenza di svolgere in modo corretto, efficace e completo il
compito di amministrare la giustizia; attribuire infatti la iurisdictio senza concedere
altresì, ad esempio, sanzioni contro l’indefensio sarebbe significato vanificarla; allo stesso modo la
protezione interdittale appare evidentemente di complemento al processo
formulare, così come in relazione a quest’ultimo appare
indispensabile anche la possibilità di disporre cautiones e così via. Il principio generale doveva essere
sostanziamente quello sotteso a D. 2,1,2 (Iav.
6 ex Cassio): Cui iurisdictio data
est, ea quoque concessa esse videntur, sine quibus iurisdictio explicari non
potuit. Allo stesso modo si può intendere la possibilità di
comminare multe eccetera. Nella pratica, di fatto, non rilevava la natura
dell’atto, ma la sua utilità concreta.
Grande
importanza, per quanto concerne il criterio legittimante in genere le
competenze dei magistrati municipali, doveva sicuramente rivestire la formula introdotta dal siremps che si
rinviene in una versione abbastanza completa nel cap. LXXXXI della lex Irnitana in cui si legge: siremps
lexius causaque esto atque uti si est iudicatum non sit, uti si praetor populi
romani inter cives Romanos iudicari iussisset ibique de ea re iudicium fieri
oporteret ex lege rogatione plebisve scitis...[113]. Detta formula si riscontra, con alcune
varianti, anche in altre leges municipales come la lex Rubria de Gallia Cisalpina, nel XXI
capitolo della quale si legge: …siremps
res lexius causaque omnibus omnium rerum esto…[114],
ed, inoltre, nella lex Latina Tabulae
Bantinae: …omnium rerum siremps
lex esto..[115].
Si tratta sostanzialmente di una
particolare forma di “fictio iuris”[116]
attraverso la quale l’operato dei magistrati municipali veniva
sostanzialmente equiparato a quello del pretore in Roma. Il siremps si può intendere
letteralmente come “similis res
ipsa” e concerne un’identica applicazione di disposizioni di
legge[117].
Tale aggettivo indeclinabile si trova riferito alla lex romana, sicchè al magistrato municipale era affidato il
compito di amministrare la giustizia, nello stesso modo in cui avrebbe fatto il
pretore a Roma. Si spiegherebbe, dunque, con tale clausola, meglio che con
qualsiasi altra supposizione, il fatto che il magistrato municipale potesse
servirsi di atti magis imperii quam iurisdictionis e dunque potesse
disporre la prestazione di cautiones, o missiones in possessionem.
Ma non solo: si spiegherebbe l'uso generalizzato dell'imperium da parte di queste magistrature municipali, sia nella fictio damnationis, sia, ad esempio,
nella possibilità di comminare multe, ed anche in una, sia pure
limitata, potestà coercitiva cui si è già fatto cenno.
Dell’importanza dello statuto municipale sembra potersi trovare conferma
anche nel cap. XX della lex Rubria de Gallia Cisalpina dove, con
riferimento alla possibilità dei magistrati locali di imporre una
stipulazione pretoria, si legge[118]:
ex lege Rubria …decreverit[119].
Ed è proprio nella
particolarità del rapporto tra la legge dei municipi e la legge di Roma,
che sarebbe possibile dare una spiegazione alle incongruenze tra le fonti in
merito alla natura ed alle attribuzione dei poteri dei magistrati locali. In realtà è anche
possibile considerare, non solo come si è messo in luce più volte
dalla dottrina[120],
ma come si trova conferma soprattutto nelle più antiche tra le fonti
epigrafiche sin’ora citate, che, originariamente, le competenze dei
magistrati municipali fossero, di fatto, più ampie rispetto a quanto
risulti nei frammenti compilatori di epoca tardo classica e che vi sia stata
un’evoluzione in un arco di tempo che va approssimativamente dal I secolo
a.C. sino all’età dei Severi, a seguito della quale i magistrati
municipali avrebbero gradualmente “ perso l'imperium”. Forse proprio tale ampiezza di funzioni, che
variavano da luogo a luogo, avrebbe fatto sorgere l’esigenza, recepita
dai giuristi dell’età dei Severi, che si coglie in particolare dal
tenore di D. 50.1.26, di delimitare, restringere, “comprimere” i
poteri che di fatto esercitavano dette magistrature locali[121].
E’ in questo modo che si potrebbero armonizzare le fonti della
compilazione giustinianea con quelle epigrafiche di cui si è trattato.
*
Comunicazione tenuta il 27 settembre del 2007 in occasione del Convegno SIHDA,
LXI sessione, Catania 24-29 settembre 2007, “Loi et droit dans le gouvernement
des sociétés antiques. Administration, vie privée,
justice”.
[1] D.
2.1.4 (Ulp. 1 ad ed.) Iubere caveri praetoria stipulatione et in possessionem
mittere imperii magis est quam iurisdictionis”.Sul significato della
locuzione
[2] Sul significato
della locuzione magis imperii quam
iurisdictionis si è molto soffermata la dottrina, soprattutto in
passato. Nello specifico, il magis della locuzione magis imperii quam
iurisdictionis è stato interpretato da alcuni studiosi nel senso
di”esclusione”, in modo da dare rilievo solo all'imperium.
Di questo avviso, in particolare: Riccobono
S., Diritto romano II, Milano, 1933-34, 126; Betti E., Diritto romano I,
Padova, 1935, 662. Tra coloro i quali, invece sono stati del parere di
interpretare il magis attribuendogli
il significato di”prevalenza”, si v. Perozzi S., Istituzioni di diritto romano2 II,
Bologna, 1927 (rist. Milano, 1947), 103; Lauria
M., Iurisdictio, in Studi
Bonfante II, Pavia, 1929, p. 517. Come faceva notare il Carrelli, vi sono
stati, infine, quegli studiosi che hanno «dimenticato la precisa dizione
di Paolo» parlando solo di iurisdictio. Si v. Carrelli E., Sul beneficium
restitutionis, in SDHI, 4,
1938, 1, n. 1. Tra coloro i quali hanno considerato i singoli atti magis
imperii quam iurisdictionis come atti semplicemente iurisdictionis,
vi sono anche Wenger L., Institutionen des römischen
Zivilprozessrechts, München, 1925, (trad.a cura di R. Orestano, Istituzioni di procedura civile romana,
Milano, 1938), 236 e Jobbé
Duvàl E., Les decreta des magistrats pourvus de la iurisdictio
contentiosa inter privatos, in Studi
Bonfante III, Milano, 1930, 183 ss.
[3] Lex Latina Tabulae Bantinae, 14-16: [co(n)s(ul), pr(aetor), aid(ilis),
q(uaestor), IIIvir cap(italis), IIIvir a(greis) d(andeis) a(dsignandeis)?,
qu]ei nunc est, is in diebus (quinque) proxumeis quibus queique eorum sciet
h(ance) l(egem) populum plebemue[iusisse iourato, ita utei i(nfra) s(scriptum)
est. item] dic(tator), co(n)su(l), pra(etor), mag(ister) eq(uitum), cen(sor),
aid(ilis), tr(ibunus) pl(ebis), q(quaestor), IIIvir cap(italis), IIIvir
a(greis) d(andeis) a(dsignandeis), ioudex ex hace lege plebiue scito [factus
--- c.5 --- queiquomque eorum p]osthac factus erit, eis in diebus (quinque)
proxumeis quibus quisque eorum mag(istratum) imperiumue inierit iouranto”.
Per il testo si v. Crawford M., Roman Statutes, I, London, 1996, 200.
[4] La
menzione del triumvir capitalis e del IIIvir agreis dandeis adsignandeis ha invece lasciato ritenere al
Mommsen che la lex de qua trattasi sia
in realtà la lex de foedere cum Bantia e dunque lo statuto di una
colonia governata inizialmente da magistrati dell’Urbe. Ancora la
presenza dei triumviri avrebbe suggerito al Mommsen di datare la lex in esame tra il 621 ed il
[5] Lex Latina Tabulae Bantinae, 19-20. Secondo
Murga J.L., El delito de ambitus y su posible reflejo en las leyes de
[10]
Municipi come Lanuvium furono retti
da dittatori (s.v. Cic. Pro Mil. 17, 45-46,
dove Milone era il dictator), ma anche da pretori, oppure da edili, duumviri, o da octomviri; quella che viene definita dallo Scuderi come la forma
normale di magistratura stabile, ovvero quella dei quattuorviri, era composta solitamente da un collegio di duumviri unitamente a due edili. S.v. Scuderi R., Significato politico delle magistrature nelle città italiche del
I secolo a. C., in Athenaeum 77,1998, 117 ss. Gabba E., Le
città italiche del I sec. a.C. e la politica, in RSI 98, 1986, 657. Sul mantenimento in
alcuni centri delle magistrature epicorie, si v. Campanile E.–Letta
G., Studi sulle magistrature
indigene e municipali in area italica, Pisa 1979, 69 ss.
[11] Sui
poteri dei triumviri a.d.a, si vedano
anche: Bauman R.A., The Gracchan Agrarian Commission: Four
Questions, in Historia, 28, 1979, 401 ss.; Chantraine H., Untersuchungen
zur römischen Geschichte am Ende des Jahrhunderts vor Chr.,
Kallmünz, 1959, 22; Gabba
E., Appiano e la storia delle guerre
civili, Firenze, 1956, 34 ss.
[12] FIRA
I2 n. 7 linn. 8-9: “…IIIvir
a.d.a., tr.mil. leg. IIII primis aliqua earum, dum magistratum aut imperium
habebit, nei in ious educitor …”Sul frammento si v. Licandro O., De heisce dvm mag(istratvm) avt
iNperivM Habebvnt iovdiciVm non fiet, in Minima Epigraphica
et Papirologica, 3, Roma, 2000, 90 ss., 97 n. 19. Lo studioso osserva che
il triumvirato era dotato di poteri amplissimi dai quali non si può
escludere l’imperium e, ad
ulteriore conferma di ciò, richiama i contenuti della stessa lex Latina Tabulae Bantinae sopra
citati. Anche i triumviri a.c.D.per
la deduzione di colonie, sarebbero compresi dal Licandro tra i magistrati
dotati di imperium in considerazione
del fatto che tale potere doveva sicuramente essere indispensabile per la deduzione
di colonie.
[13] La lex
Rubria de Gallia Cisalpina viene fatta risalire dalla maggior parte della
dottrina ad un periodo compreso tra il
[15] Lex Rubria de Gallia Cisalpina, XIX 1-6. Per il testo, si v. Crawford M., Roman Statutes, cit., 464
[16] In
tale sede si fa esclusivamente riferimento alla natura della remissio pubblica ovvero a quella posta
in essere per provvedimento magistratuale. Accennando alla distinzione tra remissio privata e remissio pubblica, la prima, assumeva la forma di una conventio ovvero di un pactum con il quale il denunciante
permetteva al denunciato di costruire. Essa operava in via d'eccezione in modo
da ostacolare validamente l'exsecutio
della operis novi nuntiatio. La
seconda, invece, era quella pronunciata dal pretore. Discusso tra i giuristi
era l'ambito di validità delle due forme di remissio. Labeone riteneva che la validità della remissio privata fosse limitata alla operis novi nuntiatio privata, mentre,
per opporsi alla operis novi nuntiatio
pubblica sarebbe stata necessaria una remissio
pubblica. Il problema è sollevato in D. 39.1.1.10, ma, in particolare,
in D. 2.14.7.14 (Ulp. 4 ad ed.) che di seguito si riporta: Si paciscatur, ne operis novi nuntiationem
exsequatur, quidam putant non valere pactionem, quasi in ea re praetoris
imperium versetur: Labeo autem distinguit, ut, si re ex re familiari operis
novi nuntiatio sit facta, liceat pacisci; si de re publica non liceat: quae
distinctio vera est. Al riguardo, si v. Bonfante
P., Corso di diritto romano. II,
La proprietà, sez. I, Roma, 1926, 388 ss.
[17] In
dottrina lo Stölzel, ha intravisto nell’antequam nuntiatio missa
fieret una remissione posta in essere dal pretore ed operante ipso iure,
mentre, nel frammento della lex Rubria, ha riconosciuto una remissione
operante solo in via d'eccezione che provenendo da un magistrato municipale
poteva solo rendere inefficace, ma non valeva ad annullare, una operis n.n.
nuntiatio, poiché quest’ultima trovava fondamento nell'editto
ed era difesa dalla formula dell'interdetto del pretore. Si v. Stölzel A., Die Lehre von der operis novi nuntiatio und dem interdictum quod vi aut clam: eine civilistische Abhandlung, Göttingen, 1865, 202; nello
stesso senso Burckhard U., cont.
a GlÜck C.F., Ausführliche
Erläuterung der Pandekten nach Hellfeld, Erlangen, 1790-1892, trad.it.
Commentario alle pandette, XXXIX, I,
Milano 1903, 196. Di contrario avviso sono
stati, invece, il Naber, secondo il quale la remissio avrebbe sempre
risolto completamente la operis novi nuntiatio ed il Karlowa a parere del
quale gli atti del magistrato municipale, emanati entro il limite della sua
competenza, avrebbero avuto la stessa efficacia di quelli del pretore. Si v. Naber,
Observatiunculae in Mnemosyne, 18,
1891, 123; Karlowa O., Römische Rechtsgeschichte, II, Privatrecht und Civilprozes. Strafrecht und Strafprozess,
Leipzig 1901 (2° Bände, Keip, 1997), 71, n. 23.
[18] La remissio
è stata opportunamente definita dal Marrone come un provvedimento, o
forse un decreto, per molti versi oscuro. Si v. Marrone M., Istituzioni di Diritto Romano, Palermo,
1994, 315.
[19] Al
riguardo le fonti non sono esplicite. In dottrina, a favore di una previa cognitio causae: Keller D.F. L, Pandekten, Leipzig,1866, par. 186, ma in particolare, 416; Berger A., v. “Operis novi
nuntiatio”, in Realenciclopädie Pauly Wissowa Kroll,
Stuttgart 1939, 558; Branca G., La prohibitio e la denunzia di nuova
opera come forme di autotutela cautelare, in SDHI, 7, 1941, 312 ss., in particolare 330-331-334. Il Bonfante,
invece, respingeva l'ipotesi di un”giudizio di
delibazione”poiché nelle fonti non ve ne sarebbe traccia e
riteneva, pertanto, la concessione della remissio, completamente
arbitraria; si v. Bonfante P., La
proprietà, cit., 392.
[21] D
39.1.13.2 (Iul. 41 dig.): Si in remissione a patre eius, qui
opus novum nuntiaverat, procurator interveniat, id agere praetorem oportet, ne
fasus procurator absenti noceat, cum sit indignum quolibet interveniente
beneficium praetoris amitti.
[23] D.
39.1.1.pr (Ulp. 71 ad ed.): Quod ius sit illi prohibere, ne se invito fiat, in eo nuntiatio teneat,
ceterum nuntiationem missam facio.
[24] Un
contenuto analogo, si riscontra anche in D. 43.25.1.2 (Ulp. 71 ad ed.) dove
emerge, in particolare, l'uso del verbo “tenere” riferito alla nuntiatio:
Et verba praetoris ostendunt, remissionem
ibi demum factam, ubi nunciatio non tenet: et nunciationem ibi demum voluisse
Praetorem tenere, ubi ius est nuncianti prohibere, ne se invito fiat. Ceterum
sive satisdatio interveniat, sive non remissio facta hoc tantum remittit, in
quo non tenuit nunciatio. Plane si satisdatum est, exinde remissio facta est:
non est necessaria remissio.
[26] D. 46.5.1.1 (Ulp.
70 ad ed.): Praetoriarum stipulationum tres videntur esse species,iudiciales
cautionales communes. Iudiciales eas dicimus, quae propter iudicium interponuntur
ut ratum fiat, ut iudicatum solvi et ex operis novi nuntiatione…
[28] D.
39.1.20.4 (Ulp. 71 ad ed.): Quid quid autem ante remissionem fit vel illud quod loco remissionis
habetur, pro eo habendum est, aatque si nullo iure factum esset.
[29] In tal
senso si v. Cosentini G., Appunti
sull’operis novi nuntiatio, in Annali
Seminario Giuridico Università di Catania, 4, 1950, 19. A
prescindere dall’effettivo momento in cui la remissio potesse
intervenire, in tale sede è importante sottolineare che lo studioso
giungeva alle seguenti conclusioni: «Oggi generalmente si ritiene che nel
diritto classico cautio ex operis
novi nuntiatione e remissio erano istituti soltanto analoghi
rispetto alla funzione in quanto l’una e l’altra fermavano
l’interdetto demolitorio; erano però due istituti distinti ed
alternativamente applicati».
[31] Si
distinguono in tale sede la repromissio e la satis datio. La
prima concerne la prestazione della cautio damni infecti da parte del
proprietario che si obbliga proprio nomine a garantire il vicino, nel
caso in cui si verifichi un danno futuro; la satis datio consiste,
invece, in una promessa garantita da sponsores e deve essere prestata da
chi non è proprietario del bene dal quale si teme il danno, ma che
esercita su di esso un diritto reale, come, ad esempio, il superficiario o
l’usufruttuario. Delle due forme di stipulazione pretoria, aventi ad
oggetto un danno temuto, tratta in particolare Ulpiano nel commentario
all’editto, riportandosi anche a Salvio Giuliano ed a Celso: D.
32.2.9.4-5 (Ulp. 53 ad ed.): Quaesitum est, si solum sit alterius, superficies alterius,
superficiarius utrum repromittere damni infecti an satisdare debeat. Et
Iulianus scribit, quotiens superficiaria insula vitiosa est, dominum et de soli
et de aedificii vitio repromittere aut eum, ad quem superficies pertinet, de
utroque satisdare: quod si uterque cesset, vicinum in possessionem mittendum.
Celsus certe scribit, si aedium tuarum ususfructus Titiae est, damni infecti
aut dominum repromittere aut Titiam satisdare debere. Quod si in possessionem missus fuerit is,
cui damni infecti cavendum fuit, Titiam uti frui prohibebit. Idem ait eum
quoque fructuarium, qui non reficit, a domino uti frui. prohibendum: ergo et si
de damno infecto non cavet dominusque compulsus est repromittere, prohiberi
debet frui. Secondo il Betancourt non dovrebbe, dunque, attribuirsi alcuna
importanza alle ulteriori parole di Ulpiano in D. 43.15.1.3 secondo cui:
“Is autem qui ripam vult munire, de
damno futuro debet vel cavere, vel satis dare secundum qualitatem
personae…”. Si v. Betancourt
F., RecUrsonensisos suppletorios de
la”cautio damni infecti”en
el derecho romano clasico, in AHDE
45, 1975, 24.
[32] Lex Rubria de Gallia Cisalpina, XX,
7-19. Per il testo, si v. Crawford M.,
Roman statutes, cit., 464.
[33] Lo ius
dicere, almeno in una fase iniziale, doveva molto probabilmente riferirsi
ad un'attività creatrice ed, al tempo stesso, logico- deduttiva del
diritto; successivamente è passato ad indicare il precetto o la norma giuridica o, quanto
meno, l'istituto giuridico che si sarebbe dovuto applicare al caso concreto,
riguardando l'attività creatrice del diritto svolta dal pretore
Secondo il Betti, lo ius dicere sarebbe consistito nella statuizione da
parte del magistrato di nuove regole giuridiche e sarebbe stato legato alla
creazione del diritto da parte del magistrato. Si v. Betti, La creazione del diritto nella iurisdictio del
pretore romano, in Studi Chiovenda,
Padova, 1927, 71 ss.; idem,
Iurisdictio praetoris e potere normativo, in Labeo 14, 1968, 7-23. Lo ius dicere sarebbe servito al
pretore nella creazione delle norme applicabili
secondo lo ius honorarium, nonchè nella formazione e nell'ulteriore
integrazione dell'editto, non solo prima della codificazione adrianea, ma,
probabilmente, anche dopo. A quest’ultimo riguardo: Gallo
F., “Princeps” e
“ius praetorium”,in Rivista di diritto romano on line, I, 2001, 12 ( www.rivistadidirittoromano.it
).
[34] Sulla
iurisdictio si v. Pugliese G., Lezioni sul processo civile romano. Il
processo formulare, I, Genova 1948, 45;
idem, Le legis actiones, Roma, 1962,
382; Kaser M., Zum Ursprung des geteilen röm.
Zivilprozessverfahren, in Festschrift
Wenger, München, 1944, 107 ss.
[36] Si
osserva che lo ius dicere, viene distinto della iurisdictio
simplex e, dunque, dallo iudicium dare e dal iudicare iubere
che ne costituiscono l'essenza di quest’ultima, in diversi frammenti di
fonti epigrafiche. Si può fare riferimento alle: lex Agraria (Balbia?)
35: de ea re iuris dictio, iudici iudicis recuperatorum datio esto; lex
Antonia de Termessibus, 11.4: Ita de ea re ious dicunto iudicia
recuperationes danto; lex Iulia Agraria (Mamilia Roscia Peducaea
Alliena Fabia) XIV: de ea re curatoris, qui ex hac lege erit, iuris
dictia recuperatorumque datio addictio esto, ma anche ad altri frammenti di
leges municipales tra i quali la stessa lex Rubria de Gallia Cisalpina XX,
17-18: de ea re ius deicito iudicia dato iudicareque iubeto cogito, ma,
anche: Frag. Atestinum 15: iuris dictio iudicis arbitri recuperatorum
datio adictione; Frag. Atestinum 19: de ea re ius dicat iudicem
arbitratumve dat; lex Coloniae Genitivae Iuliae (seu Ursonensis)
CV, 24: ius dicito iudiciaque reddito; lex municipi Malacitani
LXV: ita ius dicito iudiciaque dato. Tutti i passi da ultimo citati,
infatti, escluderebbero una sinonimia tra ius dicere e iudicium o
iudicia dare, soprattutto dove tali locuzioni appaiono unite da una
congiunzione. In conclusione, si può ancora una volta ribadire che lo ius
dicere doveva essere qualcosa di più e di diverso rispetto a
quell'attività moderna consistente nel trasformare una regola giuridica
astratta di ius positum in un comando concreto mediante una sentenza. Si
v. anche Pugliese G., Il
processo formulare, cit., 39.
[37] Si v.
Gioffredi C., Contributi allo studio del processo civile
romano. Note critiche e spunti costruttivi, Milano, 1947, 10 ss. e 39, il
quale definisce il dicere ius come
una manifestazione di volontà del magistrato tendente a definire un
qualsiasi rapporto giuridico, contenzioso o meno.
[39] Da
ultimo Buti I., Il praetor
e le formalità introduttive del processo formulare, Napoli, 1984,
101.
[40]
L'espressione è del Gioffredi; si v. GIOFFREDI C. Diritto e processo nelle antiche forme giuridiche romane in Labeo 2, 1956, 185 ss.
[41]
Infatti, nelle fonti si riscontra spesso, con tale accezione, anche
l'espressione sententiam dicere. Si indicano, ad esempio: D. 4.8.50; D.
1.9.12.1; D. 2.12.1.1.
[42] Lex Rubria de Gallia Cisalpina XXII,
42-43: de ieis rebus Romae apud
pr(aetorem) eumve quei de ieis rebus Romae i (ure) deicundo p(rae)esset in iure
confessus esset. Per il testo, si v. Crawford
M., Roman statutes,cit.,
466.
[43] Lex Rubria de Gallia Cisalpina, XX,
(19–27): De ea re quod ita iudicium datum iudicareve iussum
iudicatumve erit, ius ratumque esto, dum in ea verba, sei damnei infectei
repromissum non erit, iudicium det itaque iudicare iubeat: “iudex esto.
Sei antequam id iudicium qua de re agitur factum est, Q. Licinius damni
infectei eo nomine, qua de re agitur, eam stipulationem quam is quei Romae
inter peregreinos ius deicet in albo propositam habet, L. Seio
reipromeississet: tum quicquid eum Q. Licinium ex ea stipulatione L. Seio dare
facere oporteret ex fide bona dumtaxat sestertium ….
[44] In tal
senso in particolare, GLÜCK C.F.-Burckhard U., Commentario alle
pandette, cit., 54 ss.; Branca G.,
Damnum infectum, Urbino, 1934, 55 ss., secondo il quale la cautio damni infecti sarebbe stata mutuata dall'editto del praetor peregrinus; si v. anche Bonfante P., La proprietà, cit., 333 ss.
[45] D.
39.2.7.pr (Ulp. 53 ad ed.): Praetor ait: ‘damni
infecti suo nomine promitti, alieno satisdari iubebo ei, qui iuraverit non
calumniae causa id se postulare eumve cuius nomine aget postulaturum fuisse, in
eam diem, quam causa cognita statuero. si controversia erit, dominus sit nec ne
qui cavebit, sub exceptione satisdari iubebo. de eo opere, quod in flumine
publico ripave eius fiet, in annos decem satisdari iubebo. Eum, cui ita non
cavebitur, in possessionem eius rei, cuius nomine ut caveatur postulabitur, ire
et, cum iusta causa esse videbitur, etiam possidere iubebo. in eum, qui neque
caverit neque in possessione esse neque possidere passus erit, iudicium dabo,
ut tantum praestet, quantum praestare eum oporteret, si de ea re ex decreto meo
eiusve, cuius de ea re iurisdictio fuit quae mea est, cautum fuisset. eius rei
nomine, in cuius possessionem misero, si ab eo, qui in possessione erit, damni
infecti nomine satisdabitur, eum, cui non satisdabitur, simul in possessione
esse iubebo’.
[46]
Secondo la dottrina i magistrati municipali non avrebbero potuto disporre missiones in possessionem ex secundo decreto.
In tal senso Bonfante P., La proprietà, cit., 354; Branca G., Damnum infectum, cit., 336
ss., il quale, richiamando il Bonfante sostiene che la cautio damni infecti, in base al cap. XX della lex Rubria de Gallia Cisalpina, potesse essere delegata ai
magistrati municipali (D. 39.2.1) limitatamente alla pronuncia del decreto che
impone la stipulatio ed alla missio ex primo decreto. In
realtà nel cap. XX della lex
Rubria, non si riscontrano affatto riferimenti nemmeno alle missiones ex
primo decreto. Nel senso che essi avrebbero potuto disporre solo missiones
in possessionem ex primo decreto, tra gli altri, in particolare Raggi, La restitutio …cit., 96, n. 80; nel senso di una totale
incompetenza, in materia di missiones in
possessionem: Kaser
M.–Hackl K., Das Römische Zivil prozessrecht,
München 1996, 391, n. 33.
[48] In tal
senso Luzzatto G.I., Premesse
alla cognitio extra ordinem, Bologna, 1965, 330, ma anche rec. a Branca G., in IURA, 1961, 307.
[51] Che si
trattasse dell'imperium del praetor
peregrinus, appare indubitabile dall'uso della formula”is quei Romae inter peregreinos ius deicet”.
Dubbi, tuttavia, sono stati avanzati dal Laffi in relazione al fatto che fosse
effettivamente il praetor peregrinus, e non il praetor urbanus,
ad amministrare la giustizia in Roma nei confronti degli abitanti della Gallia
Cisalpina dopo il conferimento a questi della cittadinanza. Tanto, a fronte
delle certezze in tal senso del Serrao. Si v. Laffi U., La lex
Rubria,cit., p. 17 n. 29; Serrao
F., La iurisdictio del pretore peregrino, Milano, 1954, pp.
87-105; Dubbi sono stati sollevati anche da parte del Bonifacio e del Bruna. Si
v. Bonifacio F., rec. a Serrao F., La iurisdictio del
pretore peregrino, Milano,
[52] Si
pensi, nel primo caso, all'actio
Publiciana, nel secondo, invece, alla struttura che spesso presentavano le actiones ficticiae nelle restitutiones in integrum del pretore.
L'esercizio dell'imperium, risulta qui indubitabile considerando che che
le in integrum restitutiones sono atti magis imperii quam
iurisdictionis. Si veda Talamanca
M., Istituzioni di diritto romano,
Milano, 1990, 350 ss.
[53]
Così fa, ad esempio, il Branca, il quale, richiamandosi al Bonfante
sostiene che la cautio damni infecti, in base al cap. XX della lex Rubria de Gallia Cisalpina, potesse
essere delegata ai magistrati municipali limitatamente alla pronuncia del
decreto che impone la stipulatio ed alla missio ex primo decreto;
si v. Branca G., Damnum infectum,
cit., 336 ss. Si v. Anche Laffi
U., La lex Rubria, cit.,
273.
[54]
Riguardo alla questione, si v. TomulescU
C.ST., La clause ex fide bona dans la soi-distant “Lex
Rubria de Gallia Cisalpina”, in
BIDR, 78, 1975, 176; Talamanca
M., Istituzioni, cit., 298 ss.
[56]
Secondo il Krüger la clausola ex fide bona ben avrebbe potuto
figurare nella formula di una stipulatio, poiché,
originariamente, le azioni di buona fede erano azioni di stretto diritto. Si v. Krüger
H., Zür geschichte der Entstehung der bonae fidei iudicia, in ZSS, XI, 1890, 165. Tra coloro
i quali hanno escluso l’effettiva possibilità di un “oportere
ex fide bona” il Biondi ha giustificato la clausola “ex fide
bona” come corrispondente alla clausola “doli”
della stipulatio damni infecti, sul presupposto che la fictio del
cap. XX avesse ad oggetto proprio l'avvenuta stipulatio damni infecti.
Si v. Biondi B., Iudicia bonae
fidei, I, Palermo, 1920, 256 ss. Il Carcaterra, invece, ha ritenuto che
l'espressione “ex ea stipulatione” presente nella formula
determinasse il contenuto del “quiquid dare oportet”, mentre
l'espressione ex fide bona sarebbe valsa ad indicare un'ulteriore
limitazione di tale “oportere”, in modo da legarlo al
parametro della buona fede. Si v. Carcaterra
G., Intorno ai bonae fidei iudicia, Napoli, 1964, pp. 62 ss. Le teorie
più articolate appartengono a coloro i quali hanno ravvisato che vi
fosse un legame originario tra fides e stipulatio. Secondo il
Pastori la forma più antica di stipulatio sarebbe stata fondata
sulla fides che era l'unica a poter rendere vincolanti i rapporti dello ius
gentium. Il praetor peregrinus avrebbe poi, apprestato tutela alla
fidepromissio facendo riferimento nella propria formula alla fides e
si spiegherebbero così i dati epigrafici pervenutici. Successivamente,
data la sua analogia con la sponsio originaria, la stipulatio
sarebbe passata allo ius civile dove l'actio ex stipulato si
sarebbe modellata su quella a tutela della sponsio che, a sua volta, si
fondava sulla legis actio per iudicis arbitrive postulationem. La teoria
del Pastori ha suscitato diverse perplessità nel Talamanca che l'ha
ritenuta, per via di alcuni passaggi, poco fondata. Si v. Pastori F., La genesi della
stipulatio e la menzione della bona fides nella lex de Gallia
Cisalpina con riferimento all'actio ex stipulato, in Studi Betti, III, Milano, 1962 p. 584; Talamanca M., L’origine della”sponsio”e della”stipulatio”, rec. a Pastori op.cit., in Labeo 9, 1963, pp.96 ss., in
particolare, p. 105. Il Tomulescu, invece, ha spiegato la presenza della citata
clausola col fatto che le azioni di buona fede sarebbero state create dal
pretore peregrino come actiones in fidem conceptae ed avrebbero trovato
origine in una formula in factum arbitraria per poi essere
successivamente recepite dal pretore urbano come arbitria onoraria e
trasportate all'interno dello ius civile. La lex Rubria avrebbe
probabilmente rinviato alla cautio damni infecti dell'editto peregrino
nonostante l'estensione della cittadinanza alla Gallia Cisalpina, perché
la cautio damni infecti probabilmente ancora non figurava nell'editto
del pretore urbano. Si v. TomulescU
C.ST., La clause”ex fide bona”,cit., pp. 177 ss., ma,
in particolare, p. 181. Lo studioso richiama l'espressione di Cicerone: Pro
Roscio 5.15”omnia iudicia legitima, omnia arbitria onoraria”.
Secondo il Kaser, la clausola ex fide bona, invece, si spiegherebbe come
fondamento di un'obbligazione che non trovava la sua fonte nella legge. Si v. Kaser M., Oportere und ius
civile, in ZSS, LXXXIII, 1966, pp. 12
ss.
[57] Ma
soprattutto ai giudici che da questi sarebbero stati incaricati per decidere
nel merito. Si v. Talamanca M.
Istituzioni, cit., 314.
[58]
Secondo lo Simshäuser, si tratterebbe della taxatio che ricorre
nelle formule delle actiones con intentio incerta, sebbene il
Talamanca avanzi dubbi in merito alla possibiltà che, in genere, un'actio
di questo tipo potesse contenere una taxatio. Si v. Simshäuser W., Iuridici und
munizipalgerichtsbarkeit in Italien, München, 1973, 205 ss. ed,
inoltre, Talamanca M., rec. a Simshäuser W., Iuridici und Municipalbarkeit in Italien, in BIDR 77, 1974, 515.
[59].In
entrambi i capitoli risulta evidente la presenza di una taxatio nel
limite di 15.000 sesterzi. Si v. lex
Rubria de Gallia Cisalpina, XXI, 3-4: in Gallia Cisalpeina, petetur, quae
res non pluris (sestertium) (quindecim milibus) erit, sei is eam pecuniam in
iure apud eum qui ibei i(ure) d(eicundo) p(raerit). Come precisa il
Talamanca, si tratta di un vero e proprio limite di competenza per i magistrati
municipali, presente anche nel cap. XXII della legge. Si v. Talamanca M. rec. a Simshäuser W., Iuridici, cit., 516. Si v. anche lex Rubria XXII, 27: quodve
quom eo agetur, quae res non pluris (sestertium) (quindecim) (milibus) erit.
[60] La
locuzione riportata dal Laffi corrisponde, in realtà,
all’interpretazione data al frammento epigrafico dal Pugliese. Si v. Laffi U., La lex Rubria, cit., 32-33; Pugliese G. Il Processo formulare,
cit., 250.
[61] Si
riporta l’opinione del Laffi, che reputa fosse necessaria un’actio
iudicati; si v. Laffi U., La lex Rubria, cit., 32-33. Nello stesso
senso, era stato il Püschel, secondo il quale, contro l’aeris confessus, del capitolo XXI della lex Rubria de Gallia Cisalpina sarebbe
nato uno iudicium coincidente con
l’actio iudicati. Si v. Püschel,
Confessus pro iudicato est. Bedeutung des
Satzes für den römischen Formularprozess, zugleich ein Beitrag zur
Erklärung der lex Rubria,
Heidelberg, 1924, 79 ss..
[62] Il duci
iubere dei magistrati municipali si rinviene in lex Rubria de Gallia Cisalpina XXI, 18-19. Con l'avvento del
processo formulare, esso avrebbe sostituito l'addictio con la quale si
concludeva la legis actio in personam quando il convenuto si rifiutava
di partecipare al processo. In tal senso Provera
G., Il principio del contradittorio nel processo civile romano,
Torino, 1970, 90 n. 11. Di parere contrario il Kaser, secondo il quale il
magistrato avrebbe ugualmente continuato a pronunciare l'addictio, cui
seguiva in caso di disubbidienza del vocatus, il duci iubere. Si
v. Kaser M. - Hackl K., Röm. Zivilprocessrecht, cit., 300.
[63] In tal
senso Betti E., L’effetto della “confessio”
e della “infitiatio certae
pecuniae” nel processo civile
romano, in Atti della Reale Accademia
delle Scienze di Torino, vol. 50, 1914-1915, 101. Lo studioso precisava che
le altre confessiones fatte a fronte
di un’actio in personam,
invece, sarebbero divenute esecutive solo a seguito di damnatio pecuniae. Si v. anche Aru
L., Il processo civile
contumaciale. Studio di diritto romano, Roma, 1934, 39 ss.
[64] Lex Rubria de Gallia Cisalpina XXI
(18-20): t(antae) p(ecuniae) quanta ea pecunia erit de qua tum inter eos
ambigetur dumt(axat) (sestertium) (quindecim milia), s(ine) f(raude) s(ua) duci
iubeto; lex Rubria de Gallia Cisalpina
XXII (46-47): …ita ius deicito
decernito eosque duci bona eorum possedere proscreibeive veneireque iubeto.
[65] Si
vedano in tal senso, ad esempio, Pugliese
G., Il Processo formulare, cit., 189 ss.; Kaser M. - Hackl K., Röm.
Zivilprocessrecht, cit., 201; Laffi
U., La lex Rubria, cit.,
277 ss. Di contrario avviso il Di Paola secondo il quale questa equiparazione
si sarebbe riscontrata unicamente nei municipi della Gallia Cisalpina, mentre a
Roma non avrebbe alcun motivo di essere poiché qui il magistrato avrebbe
potuto servirsi direttamente della missio
in possessionem. Lo studioso non si spiegherebbe altrimenti la
meticolosità con cui la lex Rubria
disciplina la fattispecie del confessus di certa pecunia.
Carattere eccezionale, d'altra parte, avrebbe avuto nell'Urbe
l’equiparazione tra indefensus e iudicatus. Si v. Di Paola S., Confessio in iure, Milano,
1952, 4 ss.
[67] La missio
in possessionem avrebbe avuto, peraltro, carattere di extrema ratio
come testimonierebbe Cicerone che nella Pro Quinctio sottolinea la
necessità di ricorrere a questo mezzo con cautela e suggerisce, a tal
fine, alcune accortezze: (Cic. pro Quinct. 17.54)…primum espectare:
deinde si latitare ac diutius ludificare videatur, amicos convenire. Si
veda a riguardo Buti I., Il praetor,cit., 268.
[68] Cosa
che poteva non avvenire quando, ad esempio, il patrimonio del debitore era
inferiore all'ammontare del debito per cui si agiva in giudizio.
[69] In tal
senso si possono interpretare: Varro (De
ling. lat.) 7.105: Liber qui, suas operas in servitutem propecunia quam
debet dat, dum solveret, nexus vocantur, ut ob aere oaeratus. Quint. decl. 311: ...lex dicit, addictus
donec solverit serviat. Si v. Provera
G., Il principio del contraddittorio, cit., 122 n. 45.
[71]
Propendono per il suo carattere non definitivo: Wlassak M., Konfessio in iure und Defensionsewigerung nach der Lex Rubria de Gallia Cisalpina,
München 1934, 15-25; Pugliese G., Il
Processo formulare, cit., 209-216, Kaser
M. - Hackl K., Röm. Zivilprocessrecht, cit.,
207-208; Bruna F.J., Lex Rubria,
cit., 159-160; da ultimo Laffi
U., La lex Rubria, cit.,
277. Per il loro carattere definitivo, in particolare si v.
[72] Su
questa differenza si v. in particolare Provera
G., Il principio del contraddittorio,cit., 102.
[73] Nel
senso che l'indefensus, una volta ductus,
avrebbe potuto liberarsi del suo stato di prigionia assumendo successivamente
la defensio anche di Paola
S., Confessio in iure, cit., 4 n. 5.
[77] Il Branca
ha sostenuto che la missio in possessionem nel diritto classico
sostanzialmente altro non fosse che una”pena”contro chi non aveva
voluto garantire. Si v. Branca
G., Damnum infectum, cit., 31.
[78] Al
riguardo il Buti ritiene che si applicasse il termine massimo di trenta giorni
previsto per la bonorum venditio, di cui si tratta in Gai 3.79. Si v. Buti I., Il praetor, cit., 277. Sull'efficacia
temporanea di questa missio, si veda anche Laffi U., La lex
Rubria, cit., 278.
[79] In tal
senso, anche il Provera, il quale, trattando dell'indefensus, specifica
che la missio stessa era congegnata per consentire l'assunzione di una
difesa tardiva. Si v. Provera, Il
principio del contraddittorio… cit., 122.
[80] Si v.
D. 42.4.5.pr (Ulp. 59 ad ed.): ceterum si existat aliquis, qui defendere est
paratus, cessabit rei servandae causae possessio. Con la defensio
viene meno il decreto di missio ed il missus torna in possesso
dei suoi beni. Si v. al riguardo, si v. Buti
I., Il praetor, cit.,
278.
[83] Si v. Kaser M., rec. a Provera G., Il principio del
contraddittorio, cit. in IURA 21,
1970, 231.
[84]
Definita dal Di Paola come il mezzo più efficace in assoluto; si. v. Di Paola S., Confessio in iure, cit.,
4.
[86] Dalla
provincia spagnola proviene la maggior parte delle fonti epigrafiche che
abbiamo a disposizione per lo studio delle magistrature municipali. Il ritrovamento delle sei tavole
bronzee contenenti, in buona parte, il testo della lex Irnitana, ovvero dello statuto del municipio di Irni
è avvenuto casualmente nel marzo del
[87] Lex Irnitana, 84.6-8. Si v. Gonzales
J. e Crawford M., The “Lex Irnitana”: A new copy
of the Flavian Municipal Low, in JRS,
76, 1986, 179.
[88]
[89] Si v. in tal senso Simshäuser
W., Stadtrömischen Verfahrensrecht im Spiegel der lex
Irnitana, in ZSS,RA, 1992, 165.
[90] A tale
implicita competenza, infatti, lo Simshäuser ricollega l'ulteriore ipotesi
che costoro potessero imporre una stipulatio pretoria per la prestazione
della summa vadimonii. Si v. Simshäuser W., Stadtrömischen Verfahrensrecht, cit.,
165 ss.
[91] La lex Iulia richiamata nel passo, come si
evince dallo stesso frammento citato, è chiaramente una delle due note leges augustee iudiciorum privatorum e publicorum,
e potrebbe evidentemente corrispondere a quella lex Iulia richiamata nel capitolo 91 della lex Irnitana: et si intra
tempus, quod legis Iuliae, quae de iudici(i)s privatis proxime lata est, kapite
XII senatusve consultis ( ad it kaput) ad it kaput legis pertinentibus
conpr(e)hensum est, iudicatum non sit, uti res in sudicio non sit, siremps lex
i(us) c(ausa)que esto ad que(m) uti esset si eam rem in urbe Roma praetor
p(opuli) R(omani) inter cives Romanos iudicari iussisset et de e(a) re ex
(quacumque) lege rogatione(m) quocumque plebis scito sudicia privata in urbe
Roma fient, agi fieri, denuntiari, diem diffin(den) di, diem diffi(s)sum esse,
iudicari (testo di Gonzales
J. e Crawford M., The “Lex Irnitana”, cit., 179). A favore di tale ipotesi milita
il fatto che il passo di Ulpiano menzionato, tratta della stessa questione
relativa alla vis cui fa riferimento
nel cap. 84 della Irnitana. La questione relativa alla corrispondenza tra la lex Iulia cui rinvia il cap. 91 e la
famosa lex Iulia iudiciorum privatorum
è, tuttavia, molto dibattuta. Tra i suoi sostenitori vi sono: il
Johnston che così si esprime: «….chapter
[93] Si v.
D. 39.2.4.4 (Ulp. 1 ad ed.): Si forte duretur non caveri, ut possidere liceat (quod causa cognita
fieri solet) non duumviros, sed praetorem vel praesidem permissuros: item ut ex
causa decedatur de possessione.
[94]
Probabilmente del tipo: ne quid in loco
publico facias inve eum immittas, che riporta Ulpiano nel suo commentario
all'editto D. 43.8.2.1-2 (Ulp. 68 ad ed.): Hoc interdictum prohibitorium est. Et tam publicis utilitatibus quam
privatorum per hoc prospicitur. Loca enim publica utique privatorum usibus
deserviunt, iure scilicet civitatis, non quasi propria cuiusque, et tantum
iuris habemus ad optinendum, quantum quilibet ex populo ad prohibendum habet.
Propter quod si quod forte opus in publico fiet, quod ad privati damnum
redundet, prohibitorio interdicto potest conveniri, propter quam rem hoc
interdictum propositum est. Gli interdetti non possono assolutamente essere
assimilati a degli atti amministrativi, ma devono considerarsi dei provvedimenti
giurisdizionali in senso lato fondati sull'imperium
poiché necessitavano pur sempre di un'istanza formale effettuata da
un privato nei confronti di un convenuto. Infatti, anche quando detti
provvedimenti erano volti alla tutela di un bene pubblico, tale tutela veniva
apprestata indirettamente, ovvero attraverso la tutela dell'interesse del
singolo. Di ciò si trova conferma in D. 43.8.2.17 (Ulp. 68 ad ed.): Si quis nemine prohibente in publico
aedificaverit, non esse eum cogendum tollere, ne ruinis urbs deformetur, et
quia prohibitorium est interdictum, non restitutorium. si tamen obstet id
aedificium publico usui, utique is, qui operibus publicis procurat, debebit id
deponere, aut si non obstet, solarium ei imponere: vectigal enim hoc sic appellatur
solarium ex eo, quod pro solo pendatur. In particolare, si v. Gandolfi G., Contributo allo studio del processo interdittale romano, Milano
1955, 27. Lo stesso concetto viene espresso dallo studioso anche in Lezioni sugli interdetti, Milano 1960,
35 ss.
[95] In lex Rubria de Gallia Cisalpina, XIX, 1-3
si legge: ….quisque quomque de ea re decernet interdeicetve
seive sponsionem fieri iudireive iubebit iudiciumve quod de ea re dabit, is.
Per quanto il frammento sia pervenuto a noi incompleto, dal richiamo finale ai
IIviri ed ai IIIIviri in tema di remissio è possibile desumere
che anche gli altri istituti giuridici menzionati ed, in particolare, gli
interdetti ed i decreta fossero posti in essere da magistrati locali. Il Laffi U., La lex Rubria, cit., 28, osserva che,
attribuire il quisque del frammento al magistrato locale, oltre che al
pretore, è la sua interpretazione più naturale; tuttavia
già in precedenza il Grelle aveva sostenuto che: «la lex Rubria de Gallia Cisalpina amplierebbe competenze già riconosciute
ai magistrati locali, quando nel cap. 19 prevede per loro con riferimento alle
denuncie di nuova opera, la possibilità di richiedere la satisdatio o di emanare l'interdictum demolitorium». Si v. Grelle, La giurisdizione municipale in età repubblicana, in Labeo, 20, 1974, 131.
[96]
D.2.1.3. (Ulp. 2 de off. quaest.) Imperium aut merum aut mixtum est, merum est
imperium habere gladii potestatem ad animadvertendum facinorosos homines, quod
etiam potestas appellatur. Mixtum est imperium cui etiam iurisdictio inest,
quod in danda bonorum possessione consistit. Iurisdictio est etiam iudicis
dandi licentia.
[97] D.
50.16.131.1 (Ulp. 3 ad legem
Iuliam et Papiam): Inter
‘multam’ autem et ‘poenam’ multum interest, cum poena
generale sit nomen omnium delictorum coercitio, multa specialis peccati, cuius
animadversio hodie >pecuniaria est: poena autem non tantum pecuniaria, verum
capitis et>existimationis irrogari solet. Et multa quidem ex arbitrio eius
venit, qui multam dicit: poena non irrogatur, nisi quae quaque lege vel quo
alio iure specialiter huic delicto imposita est: quin immo multa ibi dicitur,
ubi specialis poena non est imposita. item multam is dicere potest, cui
iudicatio data est: magistratus solos et praesides provinciarum posse multam
diceremandatis permissum est. Poenam autem unusquisque inrogare potest, cui
huius criminis sive delicti exsecutio competit.
[98] Lex Irnitana 19.9-12: item pignus capienti a municipibus
incolisque in homines diesque singulos quod sit non pluris quam HS sestertium X
milia nummorum, item multam dicendi, damnum dandi eisdem (per il testo Gonzales J. e Crawford M., The
“Lex Irnitana”, cit., 153).
[99] Lex Irnitana, 83, 48-51: Aedilibus isve qui ei operi sive munitioni
praerunt ex decreto decurionum conscriptorumve, earum operarum indicendarum
exigendarum et pignus capienti multam dicendi, ut aliis capitibus cautum
conprehensumque est, ius potestasque esto (per il testo Gonzales J. e Crawford M., The
“Lex Irnitana”, cit., 175).
[100] Lex Irnitana, 66, 9-13: Rubrica. De multa quae dicta erit. Multas in
eo municipio ab duumviris praefectove dictas, item ab aedilibus quas aediles
dixisse se aput duumviros ambo alterumve ex his professi erunt, duumviri, qui
iure dicundo praerunt in tabulas communes municipium… (per il testo Gonzales J. e Crawford M., The
“Lex Irnitana”, cit., 168).
[101] Lex Irnitana, 66, 9-13: Rubrica. De multa quae dicta erit; lex Malacitana 66, 72-75: Rubrica. De multa quae dicta erit. Multas in eo municipio ab IIviris praefectove
dictasitem ab aedilibus quas a ediles dixisse se apud duumviros ambo alterve ex
iis professi erunt, duumvir, qui iure dicundo praeerit, in tabulas communes
municipium (per il testo si v.: D’Ors
A., Epigrafia juridica de
[102] Lex Latina Tabulae Bantinae, 9-10: [ sc(iens) d(olo) m(alo), (sestertium)
n(ummum) ??? multae esto, quei uolet petito, ] eam pequniam quei uolet
magistratus exsigito. Sei postulabit quei petet pr(aetor) recuperatores (per
il testo si v. Crawford M., Roman Statutes, cit., 200).
[103] Si
è ipotizzato da parte della dottrina che il giudizio di appellatio nel caso di multe esorbitanti
seguisse un procedimento modellato sulla provocatio
ad populum. In tal senso Laffi,
Le funzioni giudiziarie dei senati locali
nel mondo romano, Siviglia, 1989, 74. L'ipotesi che in sostituzione
dell'assemblea popolare sarebbe stato competente nei municipia il senato locale, risale all’ Huschke, Die Multa und das Sakramentum in ihren verschiedenen Anwendungen,
Leipzig, 1874, 86 ss., ed è stata poi ripresa dal Mommsen T., Römisches Staatsrecht I, 3a ed., Leipzig, 1887, 307. Si
osserva che in D. 50.16.244, sopra menzionato, si fa espresso riferimento alla
possibilità di utilizzare lo strumento della provocatio contro le multe.
[104]Lex Irnitana 66,
16-19. Si v. Gonzales J. e Crawford M., The “Lex Irnitana”, cit., 220; Lamberti F.,“Tabulae
Irnitanae”, cit., 107 ss.
[105] Lex Ursonensis 95, 32-36…vadimonium, iudicium, sacrificium, funus
familiare, feria(s) de(n)icales eumve propter magistratum potestatemve populi
romani atesse non posse, post ei earum, quarum rerum hac lege quaestio erit
actio ne esto. Per il testo si v. Crawford
M. Roman Statutes, cit, p.407.
[110] Come
testimoniato da D. 1.21.1.1 (Pap. 1 quaest.), peraltro, l’imperium,
poteva essere attribuito solo con legge e non potva costituire oggetto di
mandato da un magistrato all’altro, a differenza della iurisdictio: Qui mandatam iurisdictionem suscepit, proprium nihil habet, sed eius,
qui mandavit, iurisdictionem quidem transferri, sed merum imperium quod lege
datur non posse transire: quare nemo dicit animadversionem legatum proconsulis
habere mandata iurisdictione. Paulus notat: et imperium, quod iurisdictioni cohaeret,
mandata iurisdictione transire verius est.
[111] Su
un'originaria autonomia delle giurisdizioni municipali risalenti ad un periodo
antecedente alla legislazione di Cesare, dunque non dipendenti da quest'ultima,
si v. Simshäuser W.,
Iuridici, cit., 108.
[112]
Sarebbe stata quest’ultima, una sorta di “legge quadro”,
ovvero un vero e proprio modello tipo cui si sarebbero ispirate in vario modo
anche tutte le altre leges municipales.
Non si sarebbe trattato semplicemente di uno schema di riferimento, ma di una
vera e propria lex rogata essendo,
peraltro, risalente ad un periodo che va dalla fine dell’età
repubblicana all’impero. In tal senso Talamanca
M., Il riordinamento augusteo del
processo privato, in Gli ordinamenti
giudiziari di Roma imperiale, Copanello,1996, 216; di contrario avviso la
Lamberti, che parla, invece, di una lex
data in Lamberti F., Tabulae
irnitanae, cit., 204 n. 9.
[116] Si v.
al riguardo, Bianchi E., Fictio
iuris. Ricerche sulla finzione in diritto
romano dal periodo arcaico all'epoca augustea, Padova, 1997, 10 ss. ed,
inoltre, Garcia Garrido M.J.,
rec. a Bianchi, Fictio iuris. Ricerche
sulla finzione, cit., in IURA,
48, 1997, 170-171; Mantovani D., La diei diffissio, cit., 222–223
ss., in particolare in nota.
[117] Si v.
voce “siremps” in Calonghi
F., Dizionario Latino-Italiano, 3a
ed., Torino, 1950, XVIII rist. 1990, 2546.
[119]
Secondo il Bruna il frammento andrebbe interpretato nel senso dell'attribuzione
di un potere particolare conferito appositamente dalla lex Rubria. Si v. Bruna,
F.J., Lex Rubria,cit, 77-78. Dello stesso avviso è anche Laffi U., Studi di storia romana e di
diritto, Roma, 2001, 268 n. 58, il quale però si chiede se il decreverit,
indichi necessariamente un conferimento del potere o possa anche riferirsi al
regolamento di tale potere. Secondo lo Simshäuser, invece, il frammento
rimarcherebbe il fatto che l'imposizione della cautio damni infecti cui esso si riferisce, faceva parte dei poteri
inerenti alla stessa magistratura municipale. Si v. Simshäuser W., Iuridici, cit., 210.
[120] Si v. GLÜCK C.F., Ausführliche Erläuterung der
Pandekten nach Hellfeld, Erlangen, 1790-1892, trad.it. De Marinis
G.,
Commentario alle pandette, II, Milano, 1805, 85 n. a), secondo cui i
magistrati municipali avrebbero subito notevoli limitazioni dei propri poteri
sul finire della repubblica. In tal senso, inoltre, si v. Bruna F.J., Lex Rubria, cit., 78 ss.
Anche lo Simshäuser aveva rilevato quanto fosse recente il criterio
elaborato dai giuristi severiani in ordine alla limitazione delle competenze
dei magistrati municipali e basato sul rapporto tra iurisdictio ed imperium,
a fronte delle originarie competenze di tali magistrati cosi come esse
sarebbero emerse da fonti precedenti. Lo studioso prendeva in considerazione la
lex Rubria per rilevare il servirsi
da parte di tali magistrature dello iussum
cavendi e della formula ficticia
che sarebbero stati concessi addirittura senza limiti di valore, nonché
la possibilità da parte di tali magistrati di servirsi di azioni penali,
anche per tutelare la propria giurisdizione. Nelle sue argomentazioni egli
fissava con certezza, una tale ampiezza di competenze sul finire
dell’età repubblicana. In realtà, incongruenze tra le
limitazioni riportate in D. 2.1.4 e D. 50.1.26, e l’effettiva estensione
dei poteri di tali magistrature, si riscontrano anche, per quanto concerne
l’età flavia, nella lex
Irnitana, ma quest’ultima, all’epoca del contributo citato, non
era stata ancora scoperta. Si v. Simshäuser
W., Iuridici, cit., 186., 218 ss. Lo Simshäuser, in ogni caso, ha voluto
individuare il discrimen tra le
competenze dei magistrati municipali e quelle riservate al pretore, nella
necessità o meno di una cognitio
causae. Non si colgono le motivazioni di una simile scelta atteso che, in
particolare le fonti che ricollegano la cognitio
causae solo al pretore, come ad esempio D. 50.17.105: ( Pal. 1 ad ed.): Ubicumque causae cognitio est, ibi praetor
desideratur, risalgono pur sempre all’età dei Severi,
esattamente come quelle che negano le competenze dei magistrati municipali in
materia di atti magis imperii quam
iurisdictionis.
Inoltre,
se, come si è voluto evidenziare, è possibile convincersi del
fatto che, nella pratica, ai magistrati municipali fosse consentito porre in
essere atti magis imperii quam
iurisdictionis, non si vede perché ad essi dovesse essere negata la
possibilità di svolgere cognitio
causae, atteso che, quest’ultima assurgeva ad elemento
imprescindibile e tipizzante di tale categoria di atti. Infine, non si sottace
la circostanza che, mentre nelle leggi municipali in nostro possesso emergono
con certezza competenze in materia di atti magis
imperii quam iurisdictionis riferite ai magistrati municipali, nelle stesse
fonti non sembrano, invece, emergere disposizioni che sia pure indirettamente
neghino loro la possibilità di compiere cognitio causae.
[121]
D’altra parte appare pacifico in dottrina il fatto che la categoria degli
atti magis imperii quam iurisdictionis abbia avuto origine,
in particolare, dalla necessità di definire alcuni problemi inerenti
alle competenze dei magistrati municipali e di riorganizzare tali competenze,
oltre che dal tentativo, sia pure evidente, di classificare alcuni
provvedimenti magistratuali a seconda del rapporto tra iurisdictio ed imperium
che li caratterizzava. Nel senso che il contenuto di D. 50.1.26 ( e di D. 2.1.4
che a questo si aggiunge) fosse finalizzato ad indicare quali provvedimenti
dovevano essere riservati ai magistrati supremi romani, titolari di imperium
poiché la complessa organizzazione imperiale aveva comportato il
moltiplicarsi delle funzioni che possono genericamente definirsi
giurisdizionali, nonché dei soggetti in esse coinvolti e da ciò
sarebbe sorta l’esigenza di operare una distinzione tra poteri, si
vedano, in particolare: Leifer F.,
Die Einheit des Gewaltgedankens im römischen Staatsrecht, Leipzig,
1914, 89 ss. e 124 ss.; Lauria M.
Iurisdictio, cit., 489; De Francisci P., secondo il quale la iurisdictio,
pur derivando dall'imperium, sarebbe stata a questo contrapposto per distinguere
la bassa giurisdizione dell’autorità municipale priva d’imperium ma titolare di potestas, dall’alta giurisdizione
del magistrato romano, in Storia
del diritto romano, Milano, 1939, 243; Impallomeni G., L'editto degli edili
curuli, Padova, 1955, 109; Raggi L., La restitutio in integrum nella cognitio extra ordinem.
Contributo allo studio dei rapporti tra diritto pretorio e diritto imperiale, Milano, 1965, 103; Spagnuolo Vigorita T., Imperium mixtum.
Ulpiano, Alessandro e la giurisdizione
procuratoria, in INDEX 18, 1990,
115 ss.