N. 6 – 2007 –
Tradizione Romana
Università
di Milano-Bicocca
Actio legis Aquiliae, actio
de pauperie, edictum de feris:
responsabilità per danno cagionato da cani
SOMMARIO: 1. Problema giuridico, contesto
normativo ed elencazione dei rimedi processuali romani. – 2. L'aggressione dolosa per
mezzo del cane e la lex Aquilia de damno. – 3. Segue: D. 4.3.7.6 e dubbi
casistici sulla scelta dell’azione da esperirsi. – 4. Responsabilità
oggettiva, actio de pauperie e comportamento ‘contra naturam’ come elemento utile per la qualificazione del
tipo di danno. –
5. Segue: damnum ‘contra naturam’.
La relazione fra il criterio responsabilità, danno provocato ed
atteggiamento tenuto come criterio di valutazione delle diverse tipologie di
danni arrecabili da un cane. – 6. Lesioni avvenute in spazi
aperti al pubblico e responsabilità del dominus. – 7. Le precauzioni idonee ad
impedire i danni ai terzi. – 8. Responsabilità
per colpa e sicurezza nelle strade: l'edictum
de feris e la lex Pesolania de cane. – 9. Frammenti di
età tarda ed una illogica disposizione sulla sicurezza nelle strade.
– 10. Conclusioni.
Vi sono delle situazioni che ciclicamente, per obiettiva rilevanza
oppure per libera ed opinabile scelta editoriale dei media, tornano alla
ribalta attraendo prima l’attenzione della collettività per
giungere immediatamente dopo a quella del legislatore. Fra questi argomenti,
per così dire, di richiamo del pubblico si possono ricordare i ferimenti
causati da cani, probabilmente sia per via delle tipologie di soggetti
coinvolti (particolarmente frequenti sono i bambini, che pagano a caro prezzo
la propria ingenuità), delle drammatiche implicazioni che possono avere
nei confronti della vittima ma anche – talvolta –
dell’incolpevole responsabile della lesione arrecata, oppure,
probabilmente, perché chi si avventa contro un indifeso è proprio
l’animale che più di tutti è stato identificato come il
miglior amico dell’uomo.
Negli
ultimi anni, a partire dalle innovazioni introdotte nel 2003 dal Ministro
Sirchia[1]
fino ad arrivare alle modifiche introdotte nel dicembre 2007 dal Ministro Livia
Turco[2],
la questione delle aggressioni è stata affrontata più volte e non
stupisce, vista la comunanza della problematica, che sia possibile riscontrare
anche nell’ordinamento romano delle tracce di un interesse simile[3]. Stupiscono semmai, vista l'indubbia
frequenza e la varietà di situazioni potenzialmente lesive
dell'integrità fisica e patrimoniale dei cittadini, la laconicità
e l'esiguità dei testi riguardanti questa materia e le modalità
pratiche mediante le quali l'ordinamento romano ha tentato di disciplinare il
settore, specialmente ove si intendesse raffrontare questa casistica con le
decine e decine di passi che, nella letteratura tecnica ed atecnica, in prosa
ed in versi, hanno trattato o nominato questo particolare compagno dell'uomo.
Ben lungi dal voler trattare in modo esaustivo un
insieme di argomenti che, per mole dei testi latini e letteratura scientifica,
sarebbero inadatti ad una breve serie di considerazioni quali quelle che mi
accingo a formulare[4],
ho deciso di restringere i numerosi spunti ad una serie di circostanze e situazioni
che hanno come fulcro il soggetto che materialmente pone in essere una
fattispecie di danneggiamento e, quindi, la catena logica che consente di
individuare il soggetto legalmente responsabile del danno provocato.
Può essere interessante soffermarsi, per
introdurre le particolarità giuridiche della disciplina relativa ai
cani, una breve premessa sia sulla loro funzionalità economica sia in
merito ai risvolti che le varie tipologie di comportamento animale possono
avere in ambito giuridico. La successiva analisi delle fonti risulterà
più chiara dall’aver delineato come mai questo animale abbia
ricevuto – e certamente abbia meritato – un trattamento giuridico
particolare rispetto agli altri animali.
Gaio[5]
nel libro settimo ad edictum provinciale e,
dopo di lui, l'imperatore Giustiniano nelle Institutiones[6] classificano il cane come animale
non facente parte dei pecudes, per
ragioni che ad un primo sguardo possono apparire ovvie. Nell'economia del mondo
romano ben presto, sicuramente in epoca pre-decemvirale[7],
vennero identificate delle categorie cui ricondurre, a seconda della loro
importanza, i vari beni che potevano essere oggetto della proprietà dei cives: nacque probabilmente in questo
modo l'antica partizione fra res mancipi e res nec mancipi. Al concetto giuridico di res mancipi vennero ricondotti i beni connessi alla vita agricola
per la maggiore rilevanza di cui godevano rispetto a quelli di natura
voluttuaria (sebbene questi ultimi potessero avere potenzialmente un valore
economico consistente) poiché da essi non dipendeva la sopravvivenza del
nucleo familiare[8].
Fra i beni mancipi si possono quindi
evidenziare diverse tipologie di res,
quali gli schiavi, gli strumenti inanimati di produzione ed infine gli animali
che maggiormente agevolavano la sopravvivenza dei cittadini[9],
sia partecipando alla coltivazione dei campi, sia essendo essi stessi oggetto
di allevamento e quindi direttamente fonte di cibo o materie prime. In
relazione a quest'ultima categoria dei beni viventi, i giuristi hanno
individuato il termine ‘pecudes’[10] da intendersi non genericamente
limitato agli ovini, come il lemma potrebbe far in un primo momento supporre,
ma come cumulativo di bovini, equini e suini.
Gaio, subito dopo aver citato a supporto per una
questione affine il parere di Labeone, espone laconicamente la propria
posizione in merito alla natura dei cani, ritenendola dissimile rispetto a
quella dei pecudes[11]. A mio parere la questione,
rilevante nella trattazione ai fini della applicabilità ai cani delle
disposizioni del primo capo della lex
Aquilia, in tema di lesione mortale subita da questo animale[12],
rivela le particolarità del cane che, col passare dei secoli, verranno
ancor più accentuate dalle posizioni di Accursio[13]
nella sua Glossa. Il giurista provinciale, per spiegarci quali animali possano
essere assimilati per importanza ed utilità agli schiavi, enumera
(sempre in D. 9.2.2.2) innanzitutto i quadrupedi per poi lanciarsi in una
descrizione che, sebbene sicuramente dovesse essere funzionale alla
memorizzazione del concetto da parte dei suoi studenti, ci saremmo aspettati
più da un etologo che da un giurista: il giureconsulto identifica i pecudes come i quadrupedi soliti alla
vita 'gregatim', per alludere alle
abitudini sociali, di gregge o branco, di questi animali.
Analizzando la questione partendo da presupposti
differenti[14],
è bene alludere a due aspetti, di ordine diverso, che possono illustrare
la ragione concreta, al di là delle spiegazioni frettolose, per le quali
il cane abbia meritato e ricevuto una disciplina giuridica particolare rispetto
agli altri animali. In primo luogo è facile osservare come i pecudes vengano allevati con
finalità varie ma precise. Essi trovano posto accanto all'uomo per la
loro utilità in relazione alla produzione di cibo – per
così dire – diretta, mediante la macellazione dei capi di
bestiame, o indiretta, nel caso in cui venissero impiegati come forza lavoro a
supporto degli agricoltori o per la produzione di materie prime. Dal punto di
vista comportamentale è da evidenziarsi un ulteriore tratto distintivo
di questa tipologia di animali che, a mio avviso, si dimostra non meno
importante del precedente, e risiede sia nella possibilità sia nella facilità
di giungere ad un asservimento dell'animale, in considerazione dell'indole
normalmente mansueta di queste specie, fatto che li rende ancor più
pregiati in vista della loro finalità produttiva. Tenendo presente
queste considerazioni, penso si possa ravvisare una maggior coerenza e
logicità nell’elencazione effettuata dal giurista provinciale in
D. 9.2.2.2, dove vengono identificati animali mansueti e produttivi da un lato
e feroci (anch'essi allevati, ma con scopi diversi quali quelli militari
– penso in particolare all'elefante – o per il divertimento dei
cittadini nei ludi o nelle venationes) e improduttivi dall'altro. La stessa difficoltà nella
classificazione degli elefanti[15],
molto utili nel trasporto dei carichi in alcune regioni dell'impero e la necessità
di ricorrere all'autorevole parere del giurista repubblicano in merito ai sues, per far prevalere la loro
utilità alimentare rispetto ad una indole non propriamente mansueta,
paiono conferme delle ragioni sottostanti alla qualificazione giuridica di
queste diverse categorie di animali. Se in relazione ai suini pare esservi
indecisione, tutt'altro dimostra Gaio nei confronti dei cani, i quali vengono
lapidariamente esclusi (‘sed canis
inter pecudes non est’) dal numero dei pecudes. Le ragioni sono effettivamente abbastanza evidenti in
quanto essi non sono né direttamente produttivi di cibo né
mansueti in assoluto, benché possano essere asserviti allo scopo
produttivo, fino ad essere strumenti preziosi nella pastorizia e nell'allevamento
di altre specie. D’altro canto i cani non sono animali selvatici (per
quanto possano diventarlo) né sono normalmente pericolosi per l'essere
umano[16]
ma, anche in questo caso, mediante pratiche di addestramento finalizzate al
mettere in risalto alcuni caratteri innati, quali la territorialità e
l'aggressività, possono essere impiegati sia a scopo di difesa di
persone o luoghi sia, come vedremo, di offesa. In breve, esponendo il pensiero
del glossatore Accursio, il cane ha ricevuto una disciplina particolare
poiché incarna una sorta di tertium
genus fra le categorie degli animali, rappresentando una sorta di anello di
congiunzione fra i pecudes ed i non pecudes[17]. Per concludere il discorso circa la
varietà delle sue possibili utilizzazioni, bisogna ricordare inoltre che
il cane venne allevato (come del resto anche animali ben più esotici e
sicuramente non originari delle zone italiche, come ad esempio i dracones, grossi serpenti privi di
veleno, oppure i più feroci fra i grandi felini) a scopo di ostentazione
al fine di dimostrare la ricchezza del loro proprietario. Pare infatti che
fosse abbastanza comune, fra le persone che non potessero far mostra della
proprietà di animali particolarmente costosi ma che desiderassero in
ogni caso sentirsi osservati, far ricorso allo sfoggio di particolari esemplari
canini dagli accentuati caratteri di aggressività, come meglio
esemplificherò in seguito[18].
Escluse dalla presente trattazione le situazioni in
cui il cane rappresenti il soggetto leso e le considerazioni in merito
all’applicabilità esclusiva del terzo capo della lex Aquilia de damno[19], in virtù della predetta
esclusione di questi animali dal novero dei pecudes,
la mia attenzione si è soffermata sulle situazioni in cui
l’ordinamento giuridico debba reagire contro un danneggiamento effettuato
da un cane. Come partizione preliminare all’analisi delle varie
situazioni lesive è bene immediatamente collegare il concetto oggettivo
di danno, inteso come lesione di natura patrimoniale, a quello di
responsabilità della persona cui è imputabile la sorveglianza
dell’animale. Partendo schematicamente dal presupposto, sia in diritto
romano sia nel nostro ordinamento vigente, dell’esistenza di
comportamenti individuabili come dolosi, colposi o riconducibili alla
cosiddetta responsabilità oggettiva (altrimenti detta senza colpa),
è possibile ravvisare nell’ordinamento romano una
particolarità relativa al trattamento giuridico delle lesioni del tipo
in analisi. La differenza sostanziale in merito alle circostanze nelle quali il
danneggiamento ha avuto luogo giustifica la compresenza di diverse azioni[20]
circoscrivendo, anche se talvolta in modo non netto,
l’esperibilità dell’azione aquiliana quasi esclusivamente ai
casi in cui il danneggiamento realizzato dall’animale fosse stato la
conseguenza dell’istigazione da parte di una persona[21],
laddove l’edictum de feris esaurisce
la sua operatività nei casi in cui il danno provocato fosse imputabile
ad un comportamento imprudente del dominus,
mentre è possibile limitare i casi di applicabilità dell’actio de pauperie, comunque di certo non
rari, alle situazioni in cui non vi fosse alcun biasimo verso la condotta del
padrone dell’animale, confinando quindi questa situazione ai casi di
responsabilità che diremmo, ai giorni nostri, oggettiva. Questa
partizione parrebbe andare contro la logica usuale dei giuristi romani i quali,
in genere, hanno affrontato l’innovazione del sistema processuale con un
occhio di favore verso l'applicazione estensiva degli istituti giuridici
esistenti, indirizzata ad una economia del loro numero, al fine di evitarne una
proliferazione incontrollata: in questo caso, infatti, essi hanno agito con un
procedimento alquanto diverso.
Almeno le due azioni di maggior rilievo, l’actio de pauperie e quella derivante dal
plebiscito aquiliano, sono state studiate certamente dai giuristi romani di
età repubblicana ma, per via dell’importanza della materia
disciplinata nelle meccaniche di relazione fra individui, ritengo probabile che
affondino le proprie origini ancor più indietro nella storia, come
dimostrerebbe – per la prima – l’esistenza del concetto di pauperie nelle Dodici Tavole[22],
secondo l’attestazione tramandataci da Ulpiano nel frammento posto in
apertura del titolo ‘Si quadrupes pauperiem fecisse
dicetur’ (D. 9.1.1pr.); inoltre è
particolarmente notevole il fatto che l’elaborazione giuridica sia
rimasta materia viva e – specialmente in merito alla lex Aquilia – in costante fermento e sviluppo per numerosi
secoli[23].
Fra i tre provvedimenti l’unico con una origine molto incerta[24]
è l’edictum de feris ma,
malgrado ciò, sarebbe ipotizzabile una sua vigenza in età
repubblicana, forse addirittura nel periodo immediatamente successivo alle
guerre annibaliche[25],
in relazione alle incrementate esigenze di sicurezza per l’arrivo a Roma
della moda di esibire[26]
e condurre per le vie della città animali feroci[27].
Naturalmente, come ben ricorda Impallomeni, non era
infrequente l'impiego negli editti degli edili di modalità espressive
dal tenore piuttosto antiquato, fatto che sicuramente aggiunge un elemento
ulteriore di difficoltà nel tentativo di giungere ad una datazione del
periodo di introduzione del provvedimento. In merito si è espresso anche
Casavola[28],
il quale propone come parametro (svincolato dai riferimenti letterari) per la
datazione della emanazione di questa norma edittale il raffronto fra la
quantificazione della condemnatio[29]
relativa all’edictum de feris e
quella dell'actio de effusis et deiectis[30]:
in virtù di un progressivo inasprimento delle sanzioni, l’Autore
sarebbe propenso a credere più antico il primo dei due provvedimenti.
La prima ipotesi che intendo affrontare riguarda i casi
contemplati dal titolo secondo del nono libro del Digesto in relazione a
fattispecie di danno extracontrattuale. Uno dei passi tratti dal diciottesimo
libro di commento all’editto di Ulpiano affronta esplicitamente la
questione del danno realizzato da un cane aizzato contro il soggetto leso.
D. 9.2.11.5 (Ulpianus 18 ad ed.) Item cum eo, qui canem
irritaverat et effecerat, ut aliquem morderet, quamvis eum non tenuit[31],
Proculus respondit Aquiliae actionem esse: sed Iulianus eum demum Aquilia
teneri ait, qui tenuit et effecit ut aliquem morderet: ceterum si non tenuit,
in factum agendum.
In questo frammento[32]
troviamo la descrizione di una situazione, apparentemente semplice, in cui un
soggetto provoca una reazione aggressiva del cane, dalla quale scaturisce la
lesione di un terzo incolpevole. Preliminarmente si può notare come in
questo caso la lex Aquilia preveda
fattispecie nelle quali la lesione venga arrecata, oltre che iniuria[33], secondo l’accezione esplicitata
in D. 9.2.5.1[34],
anche corpore corpori[35],
implicando che l’animale venga inteso come di mero strumento con il quale
il soggetto intenzionato a causare un danno metta in opera il proprio intento
lesivo. In altre parole il giurista esclude in via assoluta qualsiasi rilevanza
dell’arbitrio dell'animale, tale da spingerlo a non ottemperare
all'ordine impartito oppure ad eseguirlo difformemente rispetto agli ordini
ricevuti, equiparandolo sostanzialmente ad un’arma, simile da un randello[36]
o ad un altro strumento di offesa[37]
inanimato[38].
Nella situazione considerata da Proculo[39]
è possibile notare una difformità piuttosto particolare del
pensiero del giurista in merito alla tipologia dell’azione che si sarebbe
potuta concedere al soggetto leso: mentre vi è una marcata tendenza da
parte dei giureconsulti ad indirizzare i propri clienti verso la richiesta di
azioni utili, ad exemplum od in factum[40]
nel caso non vi sia la perfetta rispondenza della fattispecie alle ipotesi
contemplate dal plebiscito aquiliano[41],
in questo caso il giurista espone il proprio responsum in termini di ‘Aquiliae
actionem esse’, attuando una
lettura piuttosto estensiva dei requisiti minimi della lex Aquilia[42].
Questa presa di posizione, ad un primo sguardo e ragionando in funzione
dell’evoluzione storica della procedura romana[43],
parrebbe essere piuttosto in controtendenza essendo più immediato
attendersi una lettura della norma via via sempre meno rigorosa. Una
spiegazione potrebbe però giungere grazie alla tesi proposta da Ziliotto[44]
circa l’evoluzione dell’interpretazione dei verba legis del
plebiscito aquiliano in una ottica in cui, col passare del tempo, si sia
affermata una sostanziale differenza fra le situazioni connesse
all’individuazione delle singole fattispecie (in relazione al significato
ampio della casistica riconducibile al rumpere, urere ed in particolar modo del verbo occidere)
in contrapposizione al concetto di ‘causam morte praestare’.
Nel passo in questione Ulpiano per avvalorare il
proprio pensiero, facendo leva su una considerazione di Giuliano –
vissuto non molto prima di lui – prende in esame ad arte la questione
delle tipologie di azioni concretamente esperibili da parte del soggetto leso,
introducendo una nuova specificazione dei fatti. Il giurista adrianeo, nel
confermare l'esperibilità di una azione ex lege Aquilia, inserisce la distinzione fra il caso in cui il
soggetto che avesse aizzato l'animale e quello che – probabilmente con
una sorta di guinzaglio – lo trattenesse fossero coincidenti e quello in
cui, al contrario, non lo fossero. In entrambi i casi l'azione sarebbe stata
riconducibile logicamente al plebiscito aquiliano, ma solamente nel primo esso
sarebbe stato applicato direttamente, obbligando invece nella seconda ipotesi
il pretore ad un intervento estensivo mediante la concessione di una azione in factum, su questo improntata.
Dal passo in analisi emerge chiaramente, grazie
all'uso coordinato dei verbi irrito
ed efficio (nella sua costruzione con
ut) l'intenzionalità
della azione lesiva: si tratta di un caso in cui la determinazione e la prefigurazione
delle conseguenze che essa avrebbe comportato non possono lasciare dubbi sulla
sua dolosità e, in mancanza di eventuali cause scriminanti[45],
della conseguente connotazione di iniuria
dell’atto. Rimarrebbe l'ipotesi, in realtà quasi esclusivamente teorica
in relazione alle innegabili differenze esistenti fra un’arma inanimata
ed un animale (ancorché privo di ogni sorta di volontà
giuridicamente rilevante) di un soggetto che, approfittando della vicinanza di
un animale al guinzaglio, desse un ordine d'attacco al cane e che questi agisse
senza che il conduttore[46]
potesse impedirlo[47].
In una situazione di questo genere, dunque, il conduttore[48]
(o il suo dominus) si troverebbe in
una condizione per cui l’evento lesivo si sarebbe verificato ad opera di
una res compresa all’interno
della propria sfera di influenza e responsabilità, senza che a lui fosse
imputabile alcun tipo di volontà lesiva. Come spiega D. 9.2.44pr., ai
fini della imputabilità aquiliana vi sono anche ragioni di opportunità
per cui si rivela necessario attribuire una responsabilità
extracontrattuale non solo in caso di dolo ma anche di culpa, per giunta levissima,
del soggetto danneggiante. Nel caso in questione il problema però non si
pone poiché non è tanto la
culpa del conduttore, il quale probabilmente poteva essere più
attento o istruire meglio il proprio cane, che l'ordinamento vorrà
perseguire quanto il vero ispiratore della lesione.
Il seguente passo, probabilmente postclassico e
certamente ellittico nella forma espressiva, completa il quadro spiegando come
la norma generale circa la responsabilità del dominus (o del
conduttore) debba essere disattesa nel caso in cui la lesione derivi da un
comportamento irresponsabile della persona lesa[49].
PS. 1.15.3 Ei, qui inritatu suo feram
bestiam vel quamcumque aliam quadrupedem in se proritaverit eaque damnum
dederit, neque in eius dominum neque in custodem actio datur.
D. 9.2.11.5, in relazione alla parificazione
aquiliana fra il danno di origine animale e quello derivante da un oggetto inanimato,
offre un ulteriore spunto a supporto mostrando la possibilità di
effettuare un parallelismo con il ben più celebre passo (di cui ritengo
superflua una esegesi accurata) tratto anch'esso dal diciottesimo libro del
commento all’editto di Ulpiano, in cui viene affrontata la
responsabilità di un tonsor
che arrecasse un danno col rasoio per non aver esercitato la propria
professione in un luogo consono.
D. 9.2.11pr. (Ulpianus 18 ad ed.) Item Mela scribit, si, cum pila quidam luderent,
vehementius quis pila percussa in tonsoris manus eam deiecerit et sic servi,
quem tonsor habebat, gula sit praecisa adiecto cultello: in quocumque eorum
culpa sit, eum lege Aquilia teneri. Proculus in tonsore esse culpam: et sane si
ibi tondebat, ubi ex consuetudine ludebatur vel ubi transitus frequens erat,
est quod ei imputetur: quamvis nec illud male dicatur, si in loco periculoso
sellam habenti tonsori se quis commiserit, ipsum de se queri debere.
In entrambi i casi ad arrecare il danno è uno
strumento sfuggito dal controllo del dominus,
ed egli si trova imputabile della lesione arrecata in funzione
dell'incapacità di adeguare il proprio comportamento all’ambiente
circostante ed ai potenziali pericoli in esso presenti.
Lasciando da parte i casi scolastici, non si pongono
problemi particolari in relazione alla legittimazione processuale del soggetto
leso, attore in sede processuale: in epoca repubblicana e preclassica, esso
sarà sicuramente identificabile nel dominus
proprietario del bene leso[50] mentre
in epoca meno risalente, dando credito alle parole di Ulpiano il quale cita
Giuliano[51]
in D. 9.2.5.3 – si potrebbe parlare dunque del periodo a cavallo fra il I
ed il II d.C. – questa sarebbe spettata comunque allo stesso soggetto ma
nelle vesti di pater piuttosto che di
dominus[52].
Le considerazioni che a questo punto dovrebbero
rilevare ai fini della tematica dei rischi del proprietario del cane sarebbero,
dunque, quella dei limiti oltre i quali non sorga alcun tipo di obbligo di
risarcimento e se in questa ipotesi possa essere ricondotta la situazione in
cui la lesione fisica venga prodotta ai danni di un uomo libero, piuttosto che
alla integrità di uno schiavo. Nella realtà dei fatti non
è verosimile che venga scartata a priori l’ipotesi per cui il soggetto
passivo di una azione lesiva fosse un uomo libero, senza rilevanza alcuna per
il fatto che esso fosse cittadino dell’Urbe o peregrinus, piuttosto che homo
in proprietà di un dominus. In
una situazione di questo tipo la lex
Aquilia dimostra i propri limiti ed i compilatori stessi, cronologicamente
distanti circa otto secoli dalla iniziale stesura del plebiscito, diversamente
da quanto faranno per la disciplina dell'edictum
de feris, non hanno ritenuto
opportuno prevedere esplicitamente all’interno del titolo D. 9.2 le
modalità con cui si sarebbe potuto offrire un rimedio equo al danno
provocato dall’aggressione di un cane ad un soggetto libero. Senza dubbio
il problema insormontabile che li trattenne dal disciplinare compiutamente la questione
fu quello che definirei il più assillante per i giuristi
all’interno del titolo in esame: individuare le modalità per
giungere ad una valutazione corretta del danno subito, tali da comprendere
tutte le possibili voci concorrenti nella determinazione di una somma che
rispecchiasse il valore oggettivo[53]
del bene leso, inteso come prezzo di mercato. La difficoltà somma per i
giuristi romani, dall’epoca repubblicana fino a quella postclassica, nel
contemplare un indennizzo per la lesione provocata ad un uomo libero pare
consistere non tanto nella possibilità di concepire che una azione
aquiliana si applicasse a reintegrazione e sanzione[54]
del danno subito da un soggetto libero, quanto nell'impossibilità di
attribuire, per mancanza di possibili termini di paragone, un valore alla sua
fisicità, come dimostrerebbe la chiusura del passo di seguito riportato
D. 9.3.7 (Gaius 6 ad ed. provinc.) Cum liberi hominis corpus ex eo, quod deiectum effusumve
quid erit, laesum fuerit, iudex computat mercedes medicis praestitas ceteraque
impendia, quae in curatione facta sunt, praeterea operarum, quibus caruit aut
cariturus est ob id, quod inutilis factus est. Cicatricium autem aut
deformitatis nulla fit aestimatio, quia liberum corpus nullam recipit
aestimationem.
Il passo non è tratto dal titolo della
responsabilità aquiliana ma, come dirò in seguito[55],
vi sono ragioni per ritenerlo connesso alla materia oggetto di queste
considerazioni. Senza entrare approfonditamente nell’ipotesi specifica
descritta nel passo, si può constatare come Gaio nel caso del corpus liberum, diversamente da come si
sarebbe comportato di fronte alle deformità provocate ad uno schiavo (in
particolar modo qualora esso fosse dotato di particolari doti artistiche o
naturalmente di bellezza[56]
ed esse fossero il suo pregio saliente), ponga l’accento sul fatto che,
essendo assolutamente impossibile conferire un valore pecuniario alla
integrità fisica di un uomo libero, non fosse possibile attribuire al
danneggiato alcun tipo di indennizzo né per le deformità subite
né per le eventuali cicatrici (indipendentemente dalla loro natura
temporanea o permanente) 'cicatricium
autem aut deformitatis nulla fit aestimatio, quia liberum corpus nullam recipit
aestimationem'[57]. La sola concessione del giurista
classico (e del legislatore giustinianeo) è dunque commisurata
all’onere, per il responsabile della lesione, di rifondere al danneggiato
quello che definiremmo il danno materiale emergente, commisurato – D.
9.3.7 – alle 'mercedes medicis
praestitas ceteraque impendia, quae in curatione facta sunt' ed il
cosiddetto lucro cessante – D. 9.2.5.3 – che prende in
considerazione quanto 'quod minus ex
operis filii sui propter vitiatum oculum sit habiturus'.
Fino a questo momento ho preso in considerazione la
situazione in cui un danneggiamento sia stato realizzato da un cane, delineando
alcuni degli aspetti connessi a questo avvenimento, ma ritengo opportuno
soffermarmi ancora sulla questione partendo nuovamente dalle considerazioni di
Ulpiano
D. 9.2.5.2 (Ulpianus 18 ad ed.) Et ideo quaerimus, si furiosus
damnum dederit, an legis Aquiliae actio sit? Et Pegasus negavit: quae enim in
eo culpa sit, cum suae mentis non sit? Et hoc est verissimum. Cessabit igitur
Aquiliae actio, quemadmodum, si quadrupes damnum dederit, Aquilia cessat, aut
si tegula ceciderit. Sed et si infans damnum dederit, idem erit dicendum.
Quodsi impubes id fecerit, Labeo ait, quia furti tenetur, teneri et Aquilia
eum: et hoc puto verum, si sit iam iniuriae capax.
Da questo testo emergono le ragioni per cui si
configurano come punibili nell'ambito della lex
Aquilia esclusivamente i danneggiamenti arrecati come conseguenza del dolo
o colpa di un essere umano e, conseguentemente, anche il motivo per cui la
volontà lesiva dell'animale, benché presente, non possa essere
considerata rilevante in questa sede[58].
Il frammento spiega inoltre il motivo per cui l'animale è considerato,
nell'ambito della legge Aquilia,
esclusivamente come strumento della realizzazione della volontà lesiva
del proprio conduttore: la mancanza in capo all'animale della capacitas iniuriarum. Ulpiano non solo
assimila gli atti compiuti dall'animale a quelli di un infans oppure di un furiosus,
soggetti incapaci per eccellenza, ma arriva al punto di equiparare, con una
similitudine decisamente estrema, le lesioni causate da un quadrupes a quelle che potrebbe causare un oggetto inanimato
– una tegula[59]
– caduto, per ragioni non meglio precisate e decisamente sfortunate, su
un ignaro passante[60].
Il fatto che la questione non dovesse essere
ritenuta di palese soluzione ancora nel periodo a cavallo fra il secondo ed il
terzo secolo d. C., epoca di attività del giurista, potrebbe dedursi
dalla forma impiegata da Ulpiano per l'esposizione del proprio parere. Nel
breve frammento possiamo notare immediatamente sia come egli ponga la questione
in forma dubitativa (aprendo la trattazione della tematica con la domanda
‘quaerimus, si furiosus damnum
dederit, an legis Aquiliae actio sit?’), sia come ritenga necessario
far riferimento a due autorevolissimi giuristi del passato a supporto della
propria posizione. Altro indizio in tal senso parrebbe essere quello per cui,
piuttosto che esprimere le proprie teorie in modo diretto, per quanto
normalmente i giuristi romani prediligano l'approccio concreto e casistico,
Ulpiano preferisca giungere alle proprie conclusioni grazie ad una serie di
paragoni (furiosus, quadrupes, tegula) che, partendo
dalla situazione maggiormente condivisa, giungano fino alla equiparazione della
lesione provocata dall'animale a quella causata dal semplice oggetto,
palesemente privo di qualsivoglia discrezionalità e capacità di
realizzare atti lesivi connotati dall'iniuria
nella accezione aquiliana. Il giurista naturalmente deve essersi reso conto
della forzatura del proprio ragionamento, che lo avrebbe potuto esporre ad
osservazioni critiche e, correttamente, conclude il proprio discorso inserendo
una sorta di gradazione della capacitas
iniuriarum, da valutarsi nelle fattispecie dubbie – come nelle
situazioni in cui fosse coinvolto un impubes
– con un esame al fine di verificare se effettivamente esistessero i
presupposti per valutare come compiuta iniuria
una lesione o meno. Naturalmente la gradazione della capacità di
prefigurazione delle conseguenze dannose di un fatto colloca gli eventi
cagionati dagli impulsi animali fra le situazioni assolutamente non
riconducibili alle fattispecie trattate dal plebiscito aquiliano[61].
Esposto fino a questo punto l'insieme delle fonti
utili a delineare la lesione provocata da un cane aizzato contro un bersaglio,
ritengo utile, esclusivamente ai fini di proporre un panorama dettagliato della
questione, riportare un ulteriore frammento
D. 4.3.7.6 (Ulpianus 11 ad ed.) Si quadrupes tua dolo alterius damnum mihi dederit,
quaeritur, an de dolo habeam adversus eum actionem. Et placuit mihi, quod Labeo
scribit, si dominus quadrupedis non sit solvendo, dari debere de dolo, quamvis,
si noxae deditio sit secuta, non puto dandam nec in id quod excedit.
Se dalle prime parole del passo ci saremmo aspettati
una dissertazione sulla tipologia d’azione da impiegarsi, come
effettivamente avviene in altri frammenti contenuti nel titolo D. 9.2 (fra i
quali non sfugge D. 9.2.11.5), in questo caso Ulpiano – oppure, come si
vedrà, più probabilmente i Compilatori[62]
nello sfrondare le monografie loro pervenute – pare abbia preferito
concentrarsi su un momento successivo dell’iter processuale.
Il passo introduce la questione giuridica partendo
da una brevissima descrizione della fattispecie (concisa al punto che della
dinamica dei fatti nulla è possibile dire, nemmeno se si stia
effettivamente parlando di cane o piuttosto di pecus) dalla quale
desumiamo che un quadrupede sia stato realizzatore materiale di un
danneggiamento nei confronti di beni in proprietà di un soggetto diverso
dal proprio dominus. Nello svolgersi
dei fatti troviamo coinvolte tre persone, a fronte di quattro fattori
compresenti che servono alla composizione del caso, identificabili come il
danneggiato – attraverso gli occhi del quale il fatto viene brevemente
esposto –, il generico responsabile del danno ‘alterius’ (ideatore pienamente conscio delle conseguenze
della propria istigazione dell’animale, avendo egli agito ‘dolo’), il quadrupede autore
materiale della lesione patrimoniale e, naturalmente, il suo dominus. Secondo il Digesto il testo,
tratto dal commento all’editto di Ulpiano, sarebbe favorevole alla
concessione di un’actio doli nei confronti del vero istigatore
dell’animale; secondo questa prospettiva l’actio de dolo verrebbe
presentata sostanzialmente come formula processuale alternativa ad un’actio
de pauperie (riconoscibile anche per la menzione della eventuale dazione
nossale dell'animale) nel caso in cui questa fosse destinata a non portare
all’attore alcuna reintegrazione del danno patito in quanto il ‘dominus quadrupedis non sit solvendo’. Sommariamente esposta la
situazione, Ulpiano riferisce quale sia stato l’oggetto del parere
richiestogli dal cliente danneggiato: stabilire se ci fosse o meno la
possibilità di agire con un’actio
de dolo nei confronti dell’istigatore dell’animale. Il passo
non ci gratifica con una risposta generale poiché si concentra su una questione
più ristretta, in quanto la ragione ultima del responsum chiesto
al giurista risiede nelle parole ‘si
dominus quadrupedis non sit solvendo’. Verosimilmente, infatti, la
legittima preoccupazione del danneggiato doveva essere quella relativa al contegno
processuale più efficace da tenere nella eventualità in cui,
condannato il legittimato passivo, questo non avesse i mezzi per adempiere
all’obbligazione derivante dalla propria condanna.
Sempre in considerazione della laconicità del
giurista[63],
si prospettano due possibili ricostruzioni del suo pensiero che, come
avrò modo di esporre fra poco, si rivelano, a mio parere, entrambe
inadatte alla comprensione del pensiero dell’allievo di Papiniano e del
caposcuola proculiano, per lo meno volendo ragionare in termini classici,
richiedendo le riforme introdotte
con l’avvento della cognito extra ordinem. In mancanza di
chiarimenti sul momento in cui si palesi la situazione di insolvenza del dominus
convenuto, volendo difendere strenuamente la classicità e
l’autenticità di questi concetti, si rendono astrattamente
percorribili due ricostruzioni della vicenda, qualificate da un diverso grado
di verosimiglianza: ipotizzare che questa condizione si sia manifestata o prima
della proposizione dell’actio de pauperie nei confronti del
padrone dell’animale – scelta di fatto obbligata volendo agire
contro questo soggetto – oppure pensare ad una impossibilità di
adempimento divenuta evidente solo in un momento successivo alla pronuncia
della sentenza di condanna.
Affrontando preliminarmente quest’ultima
– e meno plausibile – eventualità, poco vi è da dire
se non valutare l’inconciliabilità con i principi reggenti il
processo dell’epoca classica di una riproposizione (contro un soggetto
diverso oppure, al limite, contro il medesimo) di una nuova causa in merito ad
una ‘res iudicata’ (in questo caso non si tratterebbe
neppure di una controversia semplicemente ‘in iudicio deducta’)[64].
Purtroppo le deduzioni possibili in merito a D.
4.3.7.6 non sortiscono migliori risultati nel caso si ipotizzi
un’insolvenza del legittimato passivo nota prima della proposizione
dell’azione. Il dubbio del cliente danneggiato sulla possibilità
di convenire in giudizio l’istigatore dell’animale, presumibilmente
solvibile, sarebbe stato in questo caso giuridicamente più interessante
del precedente ma, con tutta probabilità, ugualmente destinato ad essere
frustrato dalle possibilità offerte dalla procedura civile romana
dell’epoca classica. Partendo da questa seconda ipotesi il giurista,
preclusa la strada maestra della richiesta di una azione contro il padrone
dell’animale danneggiatore, spinto – forse – dalla ricerca
dell’aequitas, cerca una via alternativa[65]
per giungere alla composizione del danno e risolve il dilemma affermando
‘dari debere de dolo’, ma, forse non del tutto convinto
della soluzione prospettata, specifica ulteriormente il proprio parere (questa
volta in modo più aderente a quanto già noto) evidenziando come
l’aver effettuato la dazione nossale dell’animale, autore materiale
del danneggiamento, sia ragione sufficiente per escludere ogni tipo di
ulteriore azione a reintegrazione del danno, a prescindere da qualsiasi
considerazione in merito alla effettiva copertura dei danni con il valore
dell’animale dato a nossa (‘si noxae deditio sit secuta, non
puto dandam nec in id quod excedit’).
Il problema dell’insolvenza del primo chiamato
viene affrontato quindi cambiando non solo il bersaglio dell’azione ma
anche la sua stessa tipologia. Sul fatto che vi sia stata una riconsiderazione
del legittimato passivo non vi è dubbio alcuno, posto che il frammento
è chiaro nell’individuare la responsabilità della lesione
arrecata in capo al solo aizzatore dell’animale, unico soggetto cui sia
attribuibile un comportamento doloso, mentre si profilano seri dubbi sulla
teoria giuridica esposta. Il passo, inserito nel titolo D. 4.3, sede delle
dissertazioni in tema di dolus malus, si presenta come indiziato
fortemente di alterazioni[66]
principalmente a causa dell’incompatibilità con le disposizioni
che regolano, in linea generale, l’esperibilità dell’actio
doli in considerazione della sussidiarietà[67],
sua caratteristica saliente[68].
Partendo da logiche processuali tipiche del processo per formulas,
rimarrebbe inascoltata l’esigenza di concedere un’azione sussidiaria,
di cui l’actio doli dovrebbe essere il paradigma[69],
in presenza di qualsiasi formula teoricamente idonea a raggiungere risultati
analoghi.
L’Albanese, dopo aver messo in luce come la
sussidiarietà dell’actio doli non sia necessariamente una
caratteristica irrinunciabile per questa azione[70],
si schiera a favore di una diversa ricostruzione ipotetica del tenore originale di questo
passo. L’Autore, convinto della drastica soppressione del contenuto
originale della seconda parte del frammento[71]
– da 'si dominus' fino al termine – vede nel brusco
passaggio dalla seconda persona singolare al dominus quadrupedis e
nell’inusuale composizione della struttura della frase 'quaeritur an
de dolo habeam adversus eum actionem' riscontri concettuali e formali della
propria teoria per cui
l’intervento postclassico o compilatorio avrebbe avuto il fine di
sopprimere ogni riferimento all’actio utilis ex lege Aquilia[72].
Sulla ragione, invece, che ha portato a sostituire quanto soppresso del testo
originale con il riferimento all’actio de pauperie, Albanese
ipotizza l’intervento di un modesto giurista postclassico
all’oscuro dei presupposti di questa azione[73].
Il redattore di
D. 4.3.7.6 conclude
il passo con la puntualizzazione del fatto che l'azione de dolo non possa essere concessa nel caso di dazione nossale
dell'animale che ha provocato il danno. Questa possibilità per il
convenuto di liberarsi della propria responsabilità non può che
far pensare ad un impiego in prima battuta di un'actio de pauperie[74]
sennonché sappiamo dal più corretto (in funzione della sua
collocazione specifica in seno al Digesto) frammento 1.6, contenuto nel titolo
D. 9.1, che l'applicazione della actio de
pauperie sarebbe dovuta essere esclusa in ogni ipotesi di dolosa
istigazione dell'animale.
D. 9.1.1.6 (Ulpianus 18 ad ed.) Sed et si instigatu alterius fera damnum dederit, cessabit
haec actio.
Temo, in accordo anche con il Macqueron[75], pur non potendo sottoscrivere
la sua ipotesi ricostruttiva per mancanza di elementi testuali avvaloranti, che
il passo, pur nella quasi completa identità fra la situazione in esso
riportata ed il caso riferito in D. 9.2.11.5, da cui la mia esegesi è
partita, non possa aggiungere alcunché a quanto già noto, per via
delle manifeste incongruenze giuridiche in esso inserite, tali da rendere
quanto meno improbabile una sua riferibilità ad Ulpiano – suo
presunto autore – oppure a Labeone, in esso menzionato.
Tornando ai dati di maggior attendibilità in
nostro possesso, si può constatare come all'interprete del diritto si
ponesse il quesito su come giungere ad una composizione pecuniaria degli
inevitabili danni – in una realtà variamente popolata da animali
in funzione delle esigenze agricole, di pastorizia, di trasporto e via dicendo
– cagionati da animali. Mentre la lex
Aquilia, dunque, si occupa della composizione delle lesioni animali
cagionate, dolosamente o colposamente, dall’azione dell’uomo,
l'ordinamento romano ha fatto riferimento, praticamente lungo l'intero corso
della propria storia, all'actio de
pauperie per rendere giustizia nelle situazioni in cui tali lesioni non
fossero direttamente imputabili ad una persona.
Nei passi che riporterò di seguito, tratti
dall'avvio del titolo 9.1 del
Digesto, sono sintetizzati, sempre da Ulpiano, i presupposti ed i requisiti
posti alla base della dell'azione de
pauperie ed il concetto stesso di depauperamento che questa azione aveva il
compito di ricomporre.
D. 9.1.1pr. (Ulpianus 18 ad ed.) Si quadrupes pauperiem fecisse
dicetur, actio ex lege duodecim tabularum descendit: quae lex voluit aut dari
id quod nocuit, id est id animal quod noxiam commisit, aut aestimationem noxiae
offerre.
D. 9.1.1.2 (Ulpianus 18 ad ed.) Quae actio ad omnes quadrupedes
pertinet.
D. 9.1.1.3 (Ulpianus 18 ad ed.) Ait praetor 'pauperiem fecisse'.
Pauperies est
damnum sine iniuria facientis datum: nec enim potest animal iniuria fecisse,
quod sensu caret.
D. 9.1.1.4
(Ulpianus 18 ad ed.) Itaque, ut
Servius scribit, tunc haec actio locum habet, cum commota feritate nocuit
quadrupes, puta si equus calcitrosus calce percusserit, aut bos cornu petere
solitus petierit, aut mulae propter nimiam ferociam: quod si propter loci
iniquitatem aut propter culpam mulionis, aut si plus iusto onerata quadrupes in
aliquem onus everterit, haec actio cessabit damnique iniuriae agetur.
L’azione viene presentata, con queste chiare e
sintetiche parole, come un istituto di origine antichissima, decemvirale per la
precisione, e di valore costantemente accettato dall’ordinamento romano,
che venne accolto nelle disposizioni edittali per essere definitivamente
inserito, come dimostra la sua collocazione nel Digesto, anche nel diritto giustinianeo. Si può affermare
certamente che le finalità dell'actio
de pauperie, come quelle della lex Aquilia trovino il loro comune
denominatore nella protezione del patrimonio di un soggetto, inteso in senso
strettamente materiale, attuabile con la persecuzione di chi sia stato causa
del suo decremento[76].
In accordo con quanto viene esposto in D. 9.2.5.1
(non per nulla entrambi i passi sono stati estrapolati dai compilatori dal
diciottesimo libro del commento all’editto di Ulpiano) gli animali non
sono imputabili di iniuria per
mancanza delle doti di discernimento che possono comportare la prefigurazione
delle conseguenze, legali e materiali, di un proprio atto. In questa sede, a
riprova della grande rilevanza che questa distinzione comporta
nell’ordinamento, troviamo l’indicazione di un termine tecnico, pauperies, con il quale è
possibile descrivere la fattispecie di danneggiamento provocato da un animale
che si comporti seguendo i propri impulsi naturali piuttosto che gli ordini
impartiti dal dominus.
Dal concetto stesso di pauperies proviene dunque la spiegazione della sostanziale
differenza fra l’actio legis
Aquiliae e quella de pauperie
anche in merito alle aggressioni di cani: mentre nella prima l’animale
è visto semplicemente come uno strumento a disposizione della
volontà dell’uomo, nel secondo esso viene in considerazione come
soggetto danneggiante secondo un’autonoma volontà lesiva, causata
da stimoli di natura diversa. In particolar modo il legislatore romano ha
inteso includere in queste previsioni i danneggiamenti causati dalla
'volontà' dell’animale, ma solo quando questi fossero dettati non
tanto da una indole particolarmente aggressiva, bensì da qualche ragione
che inducesse a definire innaturale (contra
naturam) il comportamento dell’animale stesso. Torna ad essere
fondamentale in questa sede il discorso inizialmente accennato circa la
tipologia dell’indole del cane. Infatti, volendo affrontare la questione
in modo analitico, bisognerebbe specificare, partendo dalla constatazione della
natura mixta dell’indole del cane, che – pur non essendovi
ai tempi dei romani la moltitudine di razze canine cui oggi siamo abituati,
esito per la maggior parte del fantasioso ed instancabile impegno degli
allevatori degli ultimi secoli – esistessero, come per tutti gli esseri
viventi, non solamente cani individualmente dall’indole più
aggressiva ed altri più propensi a reazioni moderate, ma anche razze
diverse e dalle caratteristiche di specie[77]
più portate alla aggressività di altre.
In accordo con quanto contemplato nel titolo D. 9.2,
riproponendo evidentemente le stesse difficoltà di quantificazione
patrimoniale del danno già prese in considerazione[78],
questa azione contempla espressamente sia i danneggiamenti causati da animali
ad esseri umani in funzione della finalità della reintegrazione del
patrimonio (del soggetto leso o del pater), sia quelli subiti dagli schiavi o da
animali ad opera di altri quadrupedes,
come nell’ipotetico caso di un combattimento – D. 9.1.1.11 –
fra un ariete e un toro[79].
Salta agli occhi il fatto che in questa sede non
rilevino delle classificazioni degli animali basate sulla loro tipologia
economica, come nel caso della lex
Aquilia, ma vengano inserite delle distinzioni solamente in funzione dei
loro comportamenti innati. Ne discende dunque il fatto che Ulpiano parli
semplicemente di ‘quadrupedi’[80],
senza prendere in considerazione la loro funzione all’interno delle
attività produttive (come invece aveva fatto nel caso dei pecudes) e, contemporaneamente, limiti
al minimo indispensabile i riferimenti all'indole tipica della loro specie,
come in altri casi può essere dedotto dall’uso di termini quali bestia o fera[81],
con attenzione al loro comportamento ed alla possibilità o meno di
giungere ad un asservimento dell’animale. Il giurista in questa sede
preferisce limitarsi ad un apprezzamento di tipo morfologico che poco
può aggiungere alla individuazione degli animali compresi in questa
fattispecie, se non grazie alla esclusione degli insetti, dei volatili e degli
ofidi[82].
Come dimostra il frammento D. 9.1.1.4, sempre facendo riferimento ad un
giurista del passato per dar maggior forza alla propria tesi, Ulpiano afferma
‘ut Servius scribit, tunc haec
actio locum habet, cum commota feritate nocuit quadrupes’, ad
indicare come il comportamento dell'animale debba essere stato dettato da uno
stimolo esterno che lo spinga ad un comportamento non prevedibile in quanto,
parafrasando le parole del giurista, esso sia definibile come pauperies contra naturam data. In questa
linea di pensiero si colloca naturalmente l’ultima specificazione
contenuta in
D. 9.1.1.7 (Ulpianus 18 ad ed.) Et generaliter haec actio locum
habet, quotiens contra naturam fera mota pauperiem dedit: ideoque si equus dolore
concitatus calce petierit, cessare istam actionem, sed eum, qui equum
percusserit aut vulneraverit, in factum magis quam lege Aquilia teneri, utique
ideo, quia non ipse suo corpore damnum dedit. At si, cum equum permulsisset
quis vel palpatus esset, calce eum percusserit, erit actioni locus[83].
Il giurista in questa sede, contrariamente ai passi
precedentemente analizzati, pone la sua attenzione sulle motivazioni che
possono aver spinto l'animale a provocare il danno, specificando che queste
debbano essere riconducibili ad un impulso contrario all'indole stessa
dell'animale: gli elementi sui quali intendo soffermare la mia attenzione
coinvolgono l'espressione ‘contra
naturam’ utilizzata da Ulpiano e l'ultima frase di cui il frammento
in analisi si compone.
Fattore
discriminante per valutare l’applicabilità dell’azione
è la valutazione del comportamento animale in funzione di un metro di
paragone formulato, purtroppo, in modo ellittico: il giurista parla di un
comportamento anomalo (o innaturale) senza specificare se il termine di
paragone debba essere quello tipico dell’animale stesso, oppure se si
debba prendere come riferimento quello usuale degli esemplari della stessa
specie[84].
Aderire ad una interpretazione piuttosto che all’altra implica
ripercussioni giuridiche notevoli poiché, adottando il primo criterio,
sarebbe da un lato semplice per il dominus
liberarsi del dovere di risarcimento, affermando che il proprio animale
è solito aggredire ogni persona che gli si avvicini, e dall’altro
implicherebbe per il danneggiato un onere della prova impossibile da
sostenersi. Il dubbio giuridico deve risolversi, quindi, in favore
dell’interpretazione per cui il comportamento con cui rapportarsi per
valutare l’aggressività dell’animale danneggiatore sia
quello tipico degli esemplari della propria specie, per giunta da valutarsi in
condizioni usuali o che potessero essere note alla persona entrata in contatto
con l’animale. Questo,
naturalmente, in considerazione sia di ragioni di aggravio probatorio in sede
processuale sia, dal lato pratico, per l'impossibilità da parte di un
terzo di rapportarsi a priori in modo corretto con il singolo animale –
nel momento di prendere precauzioni specifiche al fine di evitare un
danneggiamento – ritenendo, dunque, valide le norme di prudenza
applicabili alla generalità degli animali di tal specie. In altre
parole, tornando alla materia specifica delle mie considerazioni, non è
possibile da parte dell'ordinamento pretendere che un terzo tenga rispetto al
cane di Tizio un comportamento difforme e più cauto rispetto a quello
che terrebbe nelle stesse circostanze nei confronti di qualsiasi altro cane,
quanto meno della stessa specie o grandezza[85].
L'espressione contra
naturam viene impiegata nella terminologia dei giuristi romani in diverse
situazioni[86],
per lo più in contesti figurati in cui non è possibile ravvisare,
a differenza del passo in oggetto, una così immediata connessione logica
con i comportamenti innati di una specie animale, uomo compreso. Il passo di
Ulpiano delinea l'actio de pauperie
come adeguata ad una situazione in cui un quadrupede[87]
abbia provocato una lesione, valutabile in relazione alle sue conseguenze
patrimoniali, agendo in modo difforme rispetto alle inclinazioni della propria
specie. Ponendo dunque in correlazione questo passo ed il contenuto di D.
9.1.1.4[88],
anche se in questo ultimo testo non vi sono riferimenti diretti al cane,
è possibile farsi una idea chiara di cosa Ulpiano ritenesse un
comportamento contra naturam. Detto
questo, non posso esimermi dal dar conto del parere di Macqueron il quale vede
la mano dei compilatori, all’interno dei passi inseriti nel titolo D.
9.1, nei costanti riferimenti alla espressione contra naturam[89].
In D. 9.1.1.7 si ripropone lo stretto collegamento
concettuale fra le due azioni fino ad ora esaminate, ponendo l'accento sul
fatto che la pauperies data non debba
essere riconducibile ad un comportamento umano. Tale impostazione
dell’istituto si può verificare nel passo in cui un cane veniva
aizzato dal proprio conduttore, in questo la lesione è riconducibile ad
un moto di reazione dell'animale, dovuto ad una sensazione di dolore causata da
una percossa o dal suo ferimento[90].
Ritengo particolarmente utile, al fine di escludere che il contra naturam possa essere riferibile in qualche modo alla
tipologia di danneggiamento più consona alle reazioni dell'animale,
piuttosto che alle circostanze in cui esso si è verificato, il confronto
tra due passaggi, rispettivamente dell'ultimo frammento citato, 'ideoque si equus dolore concitatus calce
petierit [...] cessare istam
actionem' e quello rinvenibile in D. 9.1.1.4 'haec actio locum habet, cum commota feritate [...] si equus calcitrosus calce percusserit'.
In considerazione del fatto che in essi è contemplata la stessa
tipologia di danneggiamento materiale, derivato da un calcio di un cavallo,
stante una differente tipologia di azioni intentabili, si può
immediatamente dedurre che la differenza fra le due situazioni non possa
consistere né nella tipologia – identica – del danneggiamento,
né nel fatto che sia stato l'animale stesso a decidere di reagire in un
certo modo. Sembra abbastanza evidente, infatti, la differenza con il caso in
cui Ulpiano si esprimeva con le parole 'canem
irritaverat et effecerat, ut aliquem morderet' (D. 9.2.11.5), ad indicare,
a mio avviso, il fatto che l'aggressività dell'animale fosse stata
incanalata ed indirizzata verso un bersaglio in modo mirato e deliberato. Nel
caso in esame l'accento viene posto sul fatto che l'azione dannosa deve essere
stata esclusivamente effetto della risposta sproporzionata dell'animale ad una
situazione di normalità e, dunque, sia stata conseguenza di un
comportamento anomalo e riconducibile ad un vizio[91]
(come tale non imputabile al terzo danneggiato a causa di una propria imprudenza,
nell’accezione di comportamento colposo) del carattere dell'animale
stesso.
La chiusa del frammento in analisi ('at si, cum equum permulsisset quis vel
palpatus esset, calce eum percusserit, erit actioni locus') conferma questa
visione dei fatti, soffermandosi sulla situazione in cui la reazione lesiva
dell'animale – nel caso esposto del cavallo quasi sicuramente diretta
contro un terzo e lo stesso possiamo legittimamente dedurre anche nel caso di
un morso di cane – sia stata provocata non da un dolore infertogli,
bensì da un semplice tocco o dalle normali carezze che si è
soliti rivolgere a questo tipo di animali.
Concluso l'accenno alla questione della tipologia
dei comportamento contra naturam di
un animale, ritengo sia il caso di applicare alla fattispecie di mio principale
interesse quanto ritenuto valido sia da Ulpiano sia dai compilatori
giustinianei. L'osservazione di quanto avviene nella realtà fornisce lo
spunto per due considerazioni distinte: in primo luogo è rilevante la
questione materiale della attribuzione ad un soggetto della
responsabilità per un danneggiamento subito da altri per essere stato in
prima persona la ragione di una lesione, oppure per aver tenuto un comportamento non adeguato
alle regole di prudenza necessarie nel momento in cui si ha a che fare con un
animale. In particolar modo D. 9.1.1.4 è chiaro nello spiegare che
esistono dei comportamenti generalmente accettati i quali, come tali, debbono
essere ritenuti leciti dall'ordinamento nel momento di decidere su chi ricada
l'onere di sopportare le conseguenze patrimoniali del danneggiamento. Solamente
nel momento in cui un terzo abbia tenuto un comportamento irreprensibile dal
punto di vista della comune prudenza, ed in seguito a questo si sia verificato
un comportamento anomalo (dunque né preventivabile né
prevedibile) da parte del cane, rispetto a quello che un suo simile avrebbe
tenuto nelle identiche circostanze, si può ritenere che il padrone
dell'animale debba essere oggettivamente responsabile del danno cagionato,
soggiacendo così alle normali conseguenze che l'actio de pauperie comporta. Quest'ultima affermazione, corretta
nella sua sostanza, merita in ogni caso di essere specificata ricordando il
fatto che in periodo decemvirale, epoca di creazione di questa previsione
legislativa, l'animale veniva sentito come primo responsabile del danno e, come
tale, la composizione della questione dovesse passare attraverso la sua
consegna nelle mani del danneggiato in modo che, con la sua stessa vita,
potesse estinguere lo squilibrio causato nella pace della comunità dalla
sua azione lesiva[92]:
solo in un secondo tempo venne introdotta l'alternativa in favore del dominus dell'animale di liberarsi dalla
propria responsabilità offrendo semplicemente il valore dell'animale[93].
In secondo luogo, quanto si può dedurre
dall’espressione contra naturam
riferita al comportamento di un animale, specialmente un carnivoro come il
cane, il quale, come tutti gli appartenenti a questa categoria, ha ovviamente a
disposizione strumenti naturali d’offesa adatti al fine di procacciarsi
il cibo, offre lo spunto per analizzare il fatto che un animale ha la
facoltà di infliggere un danno non solo grazie all’uso di queste
caratteristiche fisiche innate, ma anche con comportamenti potenzialmente non
violenti e non diretti alla realizzazione di una lesione. Si sarebbe potuta
proporre una lettura del damnum contra
naturam come un danneggiamento provocato con modalità difformi da
quelle impiegate tipicamente dall'animale nei suoi atteggiamenti aggressivi[94].
Dalla osservazione empirica dei fatti risulta la possibilità per un cane
– specialmente se di grosse dimensioni – di ledere, oltre che
impiegando il proprio morso, anche provocando la caduta di un soggetto (si
pensi al caso limite di un anziano) in seguito ad esempio ad un balzo, eventualmente
causato dalla volontà di accogliere calorosamente piuttosto che
aggredire. Per quanto non sia da escludersi in senso assoluto
l’interpretazione in questo senso della formula espressiva in oggetto, e
sia indiscussa l'opinione per cui l’interpretazione della legge abbia seguito
per lunghi periodi la via della assoluta fedeltà al dato letterale delle
parole, ritengo altamente improbabile che i giuristi romani intendessero in
questo senso il concetto di damnum contra
naturam datum in considerazione delle modalità espressive impiegate
e soprattutto della casistica esposta. Resta il fatto che un cane
effettivamente possa provocare delle lesioni anche in modo diverso dal morso[95]
e che queste, ricorrendo i requisiti di punibilità, possano e debbano
essere sanzionate in modo identico alle altre lesioni da essi procurate.
Riguardo alla questione del danno cagionato
incidentalmente senza aggressività[96],
per esempio facendo inciampare una persona disattenta o facendole perdere
attivamente l’equilibrio, non ritengo vi sia la possibilità di
ottenere una composizione del danno a meno di non affrontare una costruzione
probatoria molto complessa[97],
tale da mettere in luce l’assoluta incolpevolezza del soggetto lesionato
mediante la dimostrazione della totale anomalia del comportamento animale,
posto che la condotta delle bestie mantiene sempre un margine di inestinguibile
imprevedibilità.
Rimanendo sulla questione della
responsabilità oggettiva del dominus
dell'animale nell'ambito della tipologia del comportamento dovuto all'indole
del cane, individuato singolarmente, in relazione ai requisiti
dell'esperibilità dell'actio de
pauperie, un frammento pare essere molto interessante.
D. 9.1.2.1 (Paulus 22 ad ed.) Si quis
aliquem evitans, magistratum forte, in taberna proxima se immisisset ibique a
cane feroce laesus esset, non posse agi canis nomine quidam putant: at si
solutus fuisset, contra.
Il frammento si presenta immediatamente come un caso
pratico, probabilmente tratto direttamente dalla realtà, malgrado
l'indicazione della sua provenienza dai libri di commento all'editto. Si tratta
della situazione in cui un quis, di
cui non si specifica neppure lo status
giuridico, se ingenuo o servile, entrato per qualche ragione all'interno di un
esercizio pubblico, al fine di evitare l'incontro con qualche persona sgradita
o con un magistrato[98],
venga assalito e morsicato da un cane definito apertamente come ferox. Paolo, a questo punto, riporta il
parere di non meglio identificati giuristi di non concedere una azione contro
il danneggiamento compiuto dall'animale, per poi esprimere parere decisamente
contrario – ‘at si solutus
fuisset, contra’ –
nel caso in cui questo fosse stato privo di legami e dunque libero di circolare
per il locale.
Evidentemente, ancora una volta, piuttosto che
centrare l'attenzione sulle conseguenze dell'azione, ed in particolar modo
sulla questione della quantificazione dei danni subiti dal soggetto leso,
l'interesse del giurista si volge verso il cardine della responsabilità
per danneggiamento provocato da animali: definire i casi in cui il loro
comportamento possa essere ritenuto nella norma, mettendo quindi in discussione
la responsabilità soggettiva del dominus
(in base alla lex Aquilia o all'edictum de feris) per non essere stato in grado contenere la pericolosità
dell'animale o per averlo lasciato in un luogo di passaggio, ed i casi in cui,
al contrario, il padrone potesse essere punito per responsabilità
oggettiva mediante la concessione di una actio
de pauperie. A prima vista però si può rilevare come il passo
presenti una certa anomalia nei confronti dei consueti presupposti di
quest'ultima azione se bisogna ritenere universalmente valido il principio
– D. 9.1.1.7 – ‘Et
generaliter haec actio locum habet, quotiens contra naturam fera mota pauperiem
dedit’ non solo per la collocazione in posizione iniziale del titolo
D. 9.1 ma anche per la sua costante vigenza nell'ordinamento[99],
in funzione del quale l’aggressività deve essere scatenata da
ferocia inusuale per la specie.
La constatazione dell'incongruenza del concetto
attribuito a Paolo induce Macqueron[100]
a non escludere che esistano ragioni per cui il giurista potrebbe aver trattato
di un cane feroce, non essendo stato ancora introdotto in quel momento il
concetto di azione contra naturam da
parte dell'animale, fatto che ricondurrebbe il concetto al pensiero dei
compilatori e starebbe ad indicare una interpolazione del testo originale. Mi
permetto di notare come, fra i vari mali riconducibili ai giuristi postclassici
ed alle, talvolta, numerose manchevolezza della loro preparazione non sia
lecito annoverare la mancanza di opportunità e logica. Pur nella
brevità dei tempi loro concessi per la stesura delle Pandette, non mi
sembra possibile attribuire la grossolana svista di inserire, a distanza di
poche righe l'uno dall'altro, due concetti in evidente contrasto, tanto meno se
in relazione ad una questione centrale. L'esistenza di un'aporia sarebbe
inoltre aggravata dal fatto che essa si troverebbe nella sede di trattazione
specifica dell'argomento e non di di due passi che – per fatalità
– si sono trovati in contrasto e vicini ma in una parte del Digesto in
cui l'attenzione dei compilatori era focalizzata su altre questioni giuridiche.
Preferisco pensare in questo caso, piuttosto che ad una loro grossolana
interpolazione, ad una specificazione volta a dirimere nel caso concreto quella
che in precedenza ho definito, parafrasando le parole dei Glossatori,
l'ambiguità della natura del cane, in bilico fra la mansuetudine e
l'aggressività. Senza bisogno di far riferimento a particolare fantasia
ed a interpretazioni forzatamente conservative, ma solamente ad una dose di
concretezza, mi sembra possibile interpretare questa indicazione sul
comportamento 'ferox' dell'animale,
come del resto conclude Macqueron[101],
come un riferimento all'attitudine del cane a compiere attivamente e
fattivamente il compito al quale era stato preposto dal proprio padrone: la
guardia e la difesa della proprietà. Da parte di un dominus sarebbe
stato infatti un completo non senso affidare la protezione dei propri beni a
chi non avesse i requisiti per adempiere efficacemente il compito.
Quanto risulta invece più interessante
è il particolare cambiamento di opinione che viene prospettato nella
conclusione del passo in merito alla applicabilità di questa azione. La
prima presa di posizione, riferita a giuristi non meglio identificati, contiene
la negazione dell'azione in oggetto nella situazione in cui il danneggiamento
fosse stato provocato da un cane legato all’interno del negozio[102],
per attribuirla invece nel caso in cui questo danno fosse stato provocato da un
cane libero di circolare in esso, senza vincoli a protezione delle persone che
vi si trovavano. Quello che mi chiedo, vista l'esistenza di antichi mosaici[103]
che chiaramente, con scritte e immagini, rappresentano il pericolo di venire
morsi da un cane di guardia presso l'ingresso delle abitazioni private,
è come sia possibile ricostruire la fattispecie della taberna, descritta dal giurista, in modo
che questa sia coerente con le soluzione giuridica adottata. Dal punto di vista
dei concetti generali di responsabilità la collocazione dell'animale da
guardia, perché venisse stabilita l'impossibilità di agire efficacemente
in giudizio, sarebbe dovuta essere tale, secondo l'elevato livello di diligenza
minima richiesto all'esercente, da non essere né di pericolo né
d'intralcio per i clienti. Se fosse stata sottointesa una prassi commerciale
per cui ogni potenziale avventore potesse e dovesse accedere all'interno della taberna per poter concludere l'acquisto
dei beni in essa posti in vendita sarebbe assolutamente logico punire
l'imprenditore che avesse lasciato un animale feroce nella zona comune. Non
sarebbe altrettanto logica la sua completa irresponsabilità nel lasciare
un animale simile, benché legato, in un luogo[104]
ove potesse danneggiare comunque i clienti o in funzione della sua collocazione
o per dell'eccessiva libertà consentitagli dalla catena.
La situazione sarebbe mutata invece, ma ancora in
modo insoddisfacente, nel caso in cui il fatto descritto si fosse riferito ad
un avvenimento occorso durante le ore
notturne o comunque di chiusura, lasciando quindi margine per intendere il magistratum citato nel passo come un
soggetto preposto alla guardia notturna delle vie[105],
quale il praefectus vigilum[106].
Nei momenti di chiusura dell'esercizio si deve però supporre che un cane
da guardia non solo potesse essere legittimamente posto presso un ingresso, come
il frammento effettivamente consente, ma che nelle facoltà del dominus ci fosse la possibilità
di lasciarlo sciolto e libero di circolare per il locale, per meglio svolgere
il suo ruolo di guardia[107].
Una ultima ipotesi, che permetterebbe di conciliare
una parziale punibilità del commerciante e spiegare la stranezza della
situazione rappresentata nel frammento, è la quella per cui la taberna descritta non fosse altro che
un piccolo spaccio posto su una via[108],
in cui esclusivamente il commerciante ed i suoi eventuali aiutanti potessero
trattenersi all'interno di una struttura chiusa e verosimilmente coperta,
intenti alla vendita di cibi ai passanti. In una situazione di questo tipo gli
avventori non avrebbero avuto necessità di entrare all'interno
dell’edificio e dunque la semplice precauzione del tenere l'animale
legato all'interno del banco di vendita avrebbe impedito l'imputabilità
del danno al negoziante, malgrado il fatto che il semplice accesso nel locale
potesse così risultare pericoloso per il passante. A conforto di questa
ipotesi nel caso prospettato nel frammento D. 9.1.2.1 l'accesso, per quanto
verificatosi nelle ore diurne, non sarebbe in ogni caso stato motivato dalla
volontà di commerciare quanto da un altro fine non meglio identificato[109].
In ogni caso il lasciare il cane da guardia sciolto sarebbe stato punibile
proprio per la potenziale pericolosità dell'animale e per i rigorosi
vincoli di responsabilità di un imprenditore nello svolgimento della
propria attività commerciale.
Il danneggiamento provocato da un cane lasciato
libero all'interno di una taberna, ad eccezione della situazione del
tentativo notturno[110]
di furto, doveva essere sanzionato, secondo le parole attribuite a Paolo,
mediante la dazione nossale dell'animale oppure per mezzo della datio del suo equivalente economico[111]:
una commisurazione sicuramente blanda del danno arrecato e quasi certamente
inferiore – ad esempio – al risarcimento della parcella del medico,
necessario alla guarigione del danneggiato.
Come ho già avuto modo di evidenziare in
precedenza, i comportamenti che l’actio
de pauperie si propone di contrastare sembrano far riferimento sia alla
cosiddetta responsabilità senza colpa od oggettiva del dominus dell’animale (D. 9.1.1.4)
sia alla responsabilità per colpa, come dimostra, prendendo proprio ad
esempio il cane, il seguente passo[112]
D. 9.1.1.5 (Ulpianus 18 ad ed.) Sed et
si canis, cum duceretur ab aliquo, asperitate sua evaserit et alicui damnum dederit:
si contineri firmius ab alio poterit vel si per eum locum induci non debuit,
haec actio cessabit et tenebitur qui canem tenebat[113].
Ulpiano descrive una situazione in cui un
conduttore, non riuscendo a contenere gli impeti dettati dall’aggressività
del proprio animale – il quale è quasi certamente condotto al
guinzaglio[114]
e non semplicemente sotto il suo sguardo – non può essere altro
che spettatore delle lesioni provocate ad un terzo che bisogna supporre –
dato il silenzio in merito del giurista – assolutamente incolpevole della
evoluzione dei fatti. In primo luogo è bene notare, secondo il pensiero
dell’Albanese[115]
e del Macqueron[116],
come l’incipit del frammento
sia sintomatico di una contrapposizione con un qualche caso precedente, di cui
non si conserva traccia, a
soluzione del quale il giurista era propenso per la concessione dell’actio de pauperie, idea con la quale
evidentemente i compilatori o furono in disaccordo o ritennero semplicemente
superflua. Nell’analisi della situazione si comprende che Ulpiano, ancora
una volta volendo troncare sul nascere le possibili discussioni in merito
all’indole del cane, in relazione ai requisiti di esperibilità
dell’actio de pauperie[117],
li risolva implicitamente in modo favorevole dando per scontata la possibilità
di agire qualora la ragione per cui l’animale abbia provocato un danno
possa essere definibile ‘asperitate’.
Presupposta l'applicabilità teorica dell'actio de pauperie, il giurista scende nel dettaglio della
fattispecie per indicare come sia preferibile ricorrere ad altre soluzioni
giuridiche – chiaramente ci viene detto ‘haec actio cessabit’ – nel caso in cui, oltre alla
mordacità del cane, vi siano state delle concause a favorire il
verificarsi dell'aggressione: le circostanze in cui questa lesione si è
verificata, piuttosto che l’indole dell’animale, di cui meglio e
più ampiamente si parla in altri frammenti, sono il fulcro giuridico di
questo passo.
Nella prima situazione – in cui si ipotizza
che qualcun' altro sarebbe stato in grado di evitare la fuga del cane –
la responsabilità del dominus
(‘tenebitur qui canem tenebat’)
mette in secondo piano la responsabilità oggettiva per il comportamento
dell'animale nel momento in cui il conduttore, avendo evidentemente tenuto un
comportamento colposo[118],
o non avendo le capacità fisiche per far fronte agli improvvisi istinti
aggressivi dell’animale, non sia stato in grado di reagire prontamente ed
efficacemente per contrastarli. In relazione a questa situazione il giurista
severiano non dimentica di specificare un termine di paragone[119],
‘contineri firmius ab alio poterit’[120],
al fine di valutare equamente l’operato del conduttore del cane[121].
Malgrado le specificazioni che in seguito mi propongo di evidenziare[122],
ritengo ancora una volta si manifesti lo stretto collegamento fra questa azione
e quella contemplata nel titolo successivo del Digesto.
Si propone, dunque, un immediato confronto fra il
passo in discussione ed il seguente, questa volta tratto dall’opera di
commento di Gaio all’editto provinciale, per evidenziare come la
situazione esposta dai giuristi sia sostanzialmente la medesima, tranne per un
fattore cui accennerò tra breve, a riprova del fatto che Ulpiano non
potesse che aver in mente l’actio
legis Aquiliae nel momento in cui scrisse quel generico ‘tenebitur’.
D. 9.2.8 (Gaius 7 ad ed. provinc.)
[…] Mulionem quoque, si per imperitiam impetum mularum retinere non
potuerit, si eae alienum hominem obtriverint, volgo dicitur culpae nomine
teneri. Idem dicitur et si propter infirmitatem sustinere mularum impetum non
potuerit: nec videtur iniquum, si infirmitas culpae adnumeretur, cum affectare
quisque non debeat, in quo vel intellegit vel intellegere debet infirmitatem
suam alii periculosam futuram. Idem iuris est in persona eius, qui impetum
equi, quo vehebatur, propter imperitiam vel infirmitatem retinere non poterit.
In questo passo la situazione prospettata pare
essere sostanzialmente identica a quella precedentemente descritta ed il
giurista provinciale non ha dubbio alcuno, stando alla collocazione in cui i
compilatori lo inserirono nella loro opera, nel classificare la fattispecie
come suscettibile di concessione di un'azione aquiliana. In questo
frammento Gaio affronta il caso di
un trasporto di un qualche materiale per mezzo di un carro condotto un
mulattiere, cioè da un professionista dei trasporti. Durante il tragitto
però le mule, normalmente scelte per la loro maggiore mansuetudine
rispetto ai maschi della loro specie, effettuarono qualche movimento anomalo e
repentino – impetum – che
il mulio per propria imperizia non
riuscì a contrastare, con l'effetto di causare la morte di uno schiavo
altrui. Il giurista prosegue l’analisi della situazione specificando che
non sarebbe servita a scusare la culpa del
cocchiere nemmeno la temporanea incapacità fisica, poiché un
soggetto consio delle proprie condizioni fisiche, inadatte allo svolgimento di
una attività potenzialmente pericolosa, avrebbe dovuto astenersene.
Ugualmente nel caso in cui il mulio,
anche in buona fede, avesse ritenuto conciliabile il proprio stato di salute
con lo svolgimento del lavoro, sarebbe stato responsabile delle lesioni provocate
poiché, applicando la diligenza del solerte artifex, non avrebbe dovuto sopravvalutare le proprie
potenzialità (vel intellegit vel
intellegere debet infirmitatem suam alii periculosam futuram).
Il passo in analisi si discosta da quello relativo
alla fattispecie del conduttore del cane per l'unico fattore di essere riferito
ad un soggetto nell'atto di svolgere una attività di tipo professionale,
fatto certamente non assimilabile a quello di una persona che conduca un cane
lungo una strada. Sul confronto delle due situazioni, l’attività
dell'artifex – incentrata sul
concetto di imperizia – e quella non professionale, pesa però la
frase terminale di D. 9.2.8. Essa suggerisce infatti un’identica
disciplina circa l'obbligo di diligenza e di persistenza di un idoneo stato
fisico anche per una attività – pur sempre tecnica – la
quale, in relazione all'epoca ed alle consuetudini esistenti, non poteva essere
considerata parificabile a quella di un professionista: cavalcare un cavallo.
Il passo si chiude infatti con le parole 'Idem
iuris est in persona eius, qui impetum equi, quo vehebatur, propter imperitiam
vel infirmitatem retinere non poterit'. E’ lampante, inoltre, come le
parole ‘idem iuris est’
vengano normalmente impiegate dai giuristi romani per correlare due situazioni
fra le quali vi sia una totale identità di soluzione.
In merito alla metodologia espositiva ed allo stato
di D. 9.1.1.5, da cui sono partite le ultime considerazioni, Macqueron[123]
fa notare il fatto che l’espressione ‘tenebitur qui canem tenebat’ sarebbe poco adeguata e
sicuramente inelegante se riferita alla situazione in cui un soggetto abbia
perso il controllo fisico del cane[124]:
si può immaginare, leggendo il passo, una situazione in cui al
conduttore sia sfuggito di mano il guinzaglio dell’animale. L’Autore
aggiunge inoltre «il faut
beacoup de volonté pour donné à ‘qui tenebat’
le sens de ‘celui qui tenait le chien avan son évasion».
Ritengo però di non poter
consentire con l’ultima affermazione dello studioso. In un contesto
sicuramente rimaneggiato, in seguito alla separazione dei concetti[125]
ricondotti ora al titolo D. 9.1 ora al D. 9.2, all’interno di in una
esposizione quasi certamente menomata ed abbreviata, ritengo al contrario che
il concetto che i postclassici desideravano trasmettere, giocando sul duplice
significato del verbo tenere, fosse esattamente l’inelegante (ma
logico) collegamento fra il soggetto che prima della fuga del cane ne fosse
materialmente responsabile e la legittimazione passiva dell’azione a
riparazione dei danni causati dall’animale[126].
Per concludere i rilievi esegetici circa le
situazioni contemplate in D. 9.1.1.5 ed introdurre l’ultima[127]
fattispecie disciplinata dalla giurisprudenza romana, bisogna evidenziare come
nel passo in analisi, accanto alla situazione di originaria o temporanea
incapacità del conduttore di tenere a freno gli impulsi
dell’animale, sia ricordata la possibilità – ‘vel si per eum locum induci non debuit’
– per cui il danno al terzo derivi da una scelta particolarmente
avventata del conduttore il quale, non previsti o sottostimati i rischi, abbia
deciso di portare con sé l’animale in un luogo non adatto alla sua
presenza. Posto che il frammento si apre con l’esplicita menzione della
spiccata tendenza alla aggressività del cane, non sembra una ipotesi
lontana dalla realtà il fatto che esso, in un ambiente affollato o
rumoroso o comunque tale da indurlo in uno stato di agitazione – immagino
un mercato o una via particolarmente trafficata – reagisca in modo
violento ed eventualmente anche indiscriminato, senza una specifica
provocazione oppure contro il soggetto sbagliato, non riuscendo ad identificare
correttamente il responsabile di una spinta o di una piccola lesione. Anche in
questo caso, come nel precedente, il giurista risolve la questione affermando
che l’azione diretta contro l’animale[128]
cui il pensiero dell’interprete avrebbe dovuto volgersi immediatamente
– proprio questo automatismo ne rende inutile, per il giurista,
l’esplicita menzione – non poteva essere concessa
dall’ordinamento (cessabit) e
dunque si dovesse ricorrere ad una soluzione diversa.
Il Cannata[129]
risolve, in questo caso, la questione della tipologia di azione concessa in
luogo dell’antico rimedio contro il danneggiamento da animali in modo
unitario[130],
attribuendo sia contro il conduttore incapace sia contro quello imprevidente
una azione basata sulla legge Aquilia. Ciò è senza dubbio
verosimile in funzione della collocazione originaria del passo ulpianeo, ma non
bisogna dimenticare che i passi del libro XVIII del commento all’editto
di Ulpiano sono stati ampiamente impiegati, dando fede alle inscriptiones che dei frammenti inseriti
nel Digesto, come fonte della disciplina delle situazioni riguardanti sia il
danneggiamento aquiliano, sia quello provocato da animali. Quanto invece mi fa
propendere per una soluzione di stampo diverso è l’esistenza di un
editto di origine edile, il quale pare disciplinare esattamente la situazione
prospettata all’interno del frammento. Il provvedimento cui mi riferisco
è noto con il nome di edictum de
feris ed ha come scopo precisamente la disincentivazione dei comportamenti
che potevano mettere a rischio l'incolumità del traffico pedonale nelle
strade a causa degli animali feroci, tramite la previsione di una sanzione
pecuniaria commisurata al risarcimento del danno provocato.
La questione giuridica prospettata all’interno
di questo frammento mi pare debba essere sciolta abbandonando la
linearità e la semplicità espositiva propria dei giuristi
classici. Anche considerando i dubbi suscitati dalla affermazione ‘tenebitur qui canem tenebat’, di
cui ho già dato cenno, e l’esistenza di una previsione edittale
specifica a rimedio dei danneggiamenti causati da animali feroci, ritengo
possibile che in questa situazione i compilatori abbiano utilizzato,
probabilmente sintetizzando o abbreviando un brano più ampio, una
espressione volutamente ambigua per porre l’accento sul fatto che
l’aggressività dell’animale fosse tale da escludere
l’applicazione dell’actio de
pauperie. Nulla dicono sulla natura dell’azione da applicarsi ma,
proprio in base a questa esposizione decisamente concisa, all’interprete
doveva risultare chiaro che la situazione dell’animale sfuggito al
proprio conduttore e quella del cane deliberatamente condotto in un luogo
affollato richiedessero distinte discipline. Nel caso della incapacità
sarebbe stata naturalmente adeguata la soluzione aquiliana, mentre per l’incauto
comportamento nulla sarebbe stato più appropriato dell’edictum de feris. Certamente non deve
essere consentito leggere i testi in modo da mettere in bocca ai giuristi
parole non dette, ma l'illogicità dell’applicazione di una
sanzione punitiva generale, quale quella derivante dall'azione aquiliana, in
considerazione dell'esistenza di rimedi più calzanti, specifici
nonché onerosi – dal punto di vista pecuniario – in modo
praticamente analogo, quali le sanzioni dell'edictum de feris, mi portano a pensare che l'azione aquilana, in
simili situazioni, potesse essere denegata in favore di altre soluzioni
giuridiche più puntuali anche in epoche precedenti [131].
L'edictum de feris, di origine edile secondo la
ricostruzione del Lenel[132],
potrebbe aver avuto il seguente tenore
Deinde aiunt
aediles: 'ne quis canem, verrem [vel minorem], aprum, lupum, ursum, pantheram,
leonem qua vulgo iter fiet, ita habuisse velit, ut cuiquam nocere damnumve dare
possit. Si adversus ea factum erit et homo liber ex ea re perierit, sesteriorum
ducentorum milium, si nocitum homini libero esse dicetur, quanti bonum aequum
iudici videbitur, condemnetur[133],
ceterarum rerum, quanti damnum datum factumve sit, dupli'.
Dal testo edittale si evince immediatamente la
consueta suddivisione in due parti delle quali la prima è funzionale
all’individuazione delle situazioni contemplate dalla norma, mentre la
seconda espone il contenuto della sanzione comminabile nel caso di
trasgressione della norma stessa. Se la prima parte dell'enunciato –
corrispondente al primo periodo fino a 'dare
possit' – non pone problemi, individuando per mezzo della
correlazione ‘et–et’
le situazioni che avrebbero potuto portare ad una condanna (vale a dire l'aver
portato in un luogo pubblico un animale potenzialmente pericoloso, in
associazione al verificarsi di una lesione provocata da questo comportamento[134]),
sulla seconda parte della ricostruzione di questa clausola dell'editto curule
vi sono dei dubbi. Già Lenel accompagna la propria opera ricostruttiva
dell'editto ponendo fra la prima e la seconda parte del testo ricostruito
l'affermazione «Hier hört
das Zitat auf und beginnt ein, dem Ediktwortlaut sich übrigens eng
anschließendes Referat», evidentemente certo – come
dopo di lui sarà Guarino[135]
- del fatto che il cambiamento di tono nell'esposizione di Ulpiano fra le due
parti del testo implichi uno iato fra la fedele riproduzione delle antiche
parole del testo edittale e la libera riproposizione del suo contenuto.
La ricomposizione delle parole degli edili curuli si
basa su quanto è possibile rinvenire in seno al Digesto, più
precisamente a partire dalle parole di Ulpiano nel titolo primo del ventunesimo
libro del Digesto dedicato al 'De aedilicio edicto et
redhibitione et quanti minoris'.
D.
21.1.40.1 (Ulpianus 2 ad ed. aedil. curul.) Deinde aiunt aediles: 'ne quis
canem, verrem vel minorem aprum, lupum, ursum, pantheram, leonem',
D. 21.1.41
(Paulus 2 ad ed. aedil. curul.) et generaliter aliudve quod noceret animal,
sive soluta sint, sive alligata, ut contineri vinculis, quo minus damnum
inferant, non possint,
D. 21.1.42
(Ulpianus 2 ad ed. aedil. curul.) 'qua vulgo iter fiet, ita habuisse velit, ut
cuiquam nocere damnumve dare possit. Si adversus ea factum erit et homo liber
ex ea re perierit, solidi ducenti, si nocitum homini libero esse dicetur,
quanti bonum aequum iudici videbitur, condemnetur, ceterarum rerum, quanti
damnum datum factumve sit, dupli'.
Come si può notare, il Lenel ha espunto dal
testo della compilazione quella che deve aver ritenuto una glossa,
principalmente esplicativa, tratta da un commentario di medesimo argomento di
Paolo. Inoltre si può vedere come, rispetto al tenore dell'opera
giustinianea, il giurista tedesco abbia eliminato una parola evidentemente
fuori dal proprio contesto, supponendo un errore di trascrizione[136],
presumibilmente di un copista il quale deve aver duplicato il termine 'maialem'[137]
con l'assonante (ma illogico) 'minorem'[138],
oltre ad aver ricondotto la prevista pena pecuniaria alla moneta in
circolazione al periodo dei due giuristi classici, effettuando quindi la
conversione da solidi a sesterzi[139].
Il contenuto dell'edictum de feris, chiaro
quanto condivisibile nella sua sostanza, consiste nella disposizione, emanata
dai soggetti responsabili del mantenimento dell'ordine e della sicurezza
all'interno dei mercati ed in generale lungo le strade della città[140],
che proibiva, stabilendo per i trasgressori una sanzione pecuniaria, di
provocare dei danni connessi al comportamento di un animale pericoloso portato
in un luogo inappropriato (come una strada) per la presenza di persone.
L’obiettivo di minimizzare questi danni veniva perseguito indirettamente,
evitando di porre il rigido divieto di trasportare o, comunque, di far sfilare
questi animali per le vie della città ma imponendo a carico del
proprietario della fera un severo ed
oneroso risarcimento dei danni eventualmente provocati.
Nella antologia dei Compilatori viene chiarito
immediatamente dal passo d’apertura di Ulpiano, evidenziando come si
tratti di una citazione letterale delle parole degli aediles[141], il fatto che in questa fattispecie
di danneggiamento vengano contemplate le lesioni arrecate da quelle che
sembrerebbero categorie distinte di animali. Nell’elencazione degli
animali definiti feroci ne troviamo da un lato, infatti, di particolarmente
temibili come lupi, orsi, pantere e leoni, mentre dall'altro vengono enumerati,
in posizione preminente, altri di natura sicuramente non mansueta, come ho
inizialmente premesso, ma di modesto spicco, di utilizzo diverso, nonché
di provenienza (ciò vale anche per i lupi) meno esotica. Gli animali di
questo gruppo, accettando la lectio
che vorrebbe l'espunzione delle parole 'vel
minorem', sono il cinghiale, il maiale[142]
e – primissimo fra gli animali ricordati – il cane. Il passo tratto
dall'opera di Paolo, si innesta – spezzandola – in questa
enumerazione al fine di far intendere come questo elenco non debba essere letto
dall'interprete come tassativo e possa, dunque, essere analogamente compresa
nella disciplina ogni lesione provocata, in circostanze analoghe, da altri
animali ugualmente pericolosi in potenza: si noti in questa prospettiva come il
termine impiegato sia volutamente neutro e non rispecchi una connotazione
d'innata ferocia.
Dal giurista severiano, inoltre, viene espressa la
ragione della pericolosità insita nella bestia accennando al fatto che
essa non potesse essere tenuta a freno, al fine di poterle impedire di arrecare
danno a terzi, né facendo ricorso a 'vincula'[143]
né tanto meno, senza il loro ausilio, per mezzo della sola
autorità del conduttore.
Per concludere le riflessioni in merito all'incipit dell’editto in analisi
direi solamente che la frequenza[144]
dell'avverarsi di questo tipo di lesioni non solo giustifica l'esistenza di una
norma la quale preveda specificatamente un danneggiamento ad opera di un cane
ma anche il suo inserimento in prima posizione nella elencazione esemplificativa
del legislatore, il quale non esitò ad anteporlo anche a quello, quasi
certamente letale, provocato da una pantera o da un leone.
Di fatto emerge dai passi in esame come la
responsabilità, una volta condotto l'animale in un luogo ad esso
inadatto, in quanto frequentato da persone o schiavi, sia automaticamente
attribuita al conduttore dell'animale, o eventualmente al suo dominus, senza possibilità di far
valere come scusante il tentativo di trattenere l'animale. Si noti
parallelamente, nell’ambito aquiliano, la diversità di disciplina
ravvisata dai giuristi nel momento in cui si stabilisce (D. 9.1.1.5) la
punibilità del conduttore qualora un soggetto diverso sarebbe potuto
riuscire a trattenere l’animale (dall’aggredire o dal fuggire). In
questo secondo caso, invece, vista la maggiore pericolosità
dell’animale, non viene lasciata al conduttore alcuna possibilità
per escludere la propria responsabilità: l'imprudenza del soggetto cui
la cura dell'animale era affidata, dunque, farebbe passare in subordine ogni
eventuale ulteriore considerazione in merito alle ragioni per cui il
danneggiamento si fosse realizzato. In questo caso, rispetto alle altre
situazioni di responsabilità extracontrattuale esaminate fino a questo
momento, pare chiaro il motivo per cui il legislatore romano possa essere
arrivato ad una scelta di tale rigore nei confronti del padrone dell'animale:
mentre nelle situazioni in cui si fossero verificate delle pauperiae vi potevano essere ragioni di utilità, di
produttività o di semplice opportunità che giustificassero la
presenza di una animale a contatto con i terzi, in una situazione di questo
tipo non ne possiamo ravvisare alcuna, se non la sconsideratezza e
probabilmente lo spirito di ostentazione che può aver spinto il conduttore
a far mostra dell'animale in pubblico[145].
La norma edittale – D. 21.1.42 – si
spinge ancora innanzi nel sanzionare il dominus
imprudente con la esplicita previsione, senza necessità di sofferte
integrazioni giurisprudenziali, di sanzioni pecuniarie diverse a seconda non
solo dell'entità della lesione arrecata ma anche dello status giuridico del terzo danneggiato.
Ulpiano fa riferimento infatti in primo luogo ad una sanzione pecuniaria fissa
nel caso in cui un 'homo liber ex ea re
perierit'[146]
riportando la previsione di una pena che, nel sesto secolo, era pari a duecento
solidi (dunque probabilmente nel terzo secolo poteva consistere in duecento
mila sesterzi): un fatto che ben si accorda con l'impossibilità di
quantificare secondo parametri diversi il valore della vita di un uomo libero.
Il frammento contempla, sempre in relazione al caso in cui il danneggiato fosse
un ingenuus, la possibilità
della semplice lesione ed, in questo caso, il riferimento è alla
più classica modalità espressiva circa la libertà di
quantificazione lasciata al giudice del processo formulare: il 'quanti bonum aequum iudici videbitur,
condemnetur'[147].
Resta dubbio quali fossero in concreto i fattori che il giudice potesse tenere
in considerazione, ma pare probabile, in accordo con i criteri propri del
danneggiamento aquiliano, che egli potesse valutare il danno emergente
provocato al terzo – da commisurarsi alle spese mediche affrontate
– ed il lucro cessante per la ridotta capacità fisica[148].
Per quanto riguarda invece l'uccisione oppure il
danno patito da un terzo di condizione servile il passo si chiude con la
previsione di una condanna in duplum
rispetto al valore del danno provocato. Si può notare come in questo
caso emergano dei criteri di quantificazione della condemnatio non solo molto più onerosi rispetto a quelli
propri dell'actio de pauperie, ma anche molto simili, escludendo la
questione del maggior valore raggiunto della
res entro un precedente lasso di tempo, a quelli delle disposizioni relative al danneggiamento
aquiliano, con l'aggravio che in ogni caso si potesse arrivare ad una pena in duplum e non solamente come
conseguenza dell'infitiatio da parte
del convenuto[149].
Entro questi termini, dunque, l'esegesi di Cannata in merito a D. 9.1.1.5
– in cui si descrive la lesione provocata dal cane che per propria asperitas sfugge al controllo del
conduttore in culpa – coglie
nel segno trattando in modo unitario sia il caso in cui l'animale sia sfuggito
per inettitudine – si contineri
firmius ab alio poterit – sia
l'ipotesi del danno prodotto per imprudenza del conduttore il quale abbia
portato il cane in un luogo non idoneo.
Interessa, inoltre, mettere in luce quanto emerge
dalle fonti in merito alle precauzioni attive che il conduttore avrebbe dovuto
tenere, per evitare i danni e le conseguenti sanzioni, nel frequentare luoghi
in cui vi fossero altre persone. Pochi passi sono pervenuti da fonti tecniche a
darci un'idea di quale dovesse essere il limite di queste attenzioni e,
purtroppo, nulla di certo dicono sul periodo classico, poichè tratti
dalla Lex Romana Burgundiorum –
dell'inizio del VI d. C. – e dalle Pauli
Sententiae, un'opera forse riconducibile al pensiero del giurista Paolo, ma
di origine quasi sicuramente postclassica.
L.R.B. 13.2 De cane etiam sub eodem
titulo comprehensum, ut, si quis saevum canem habens in plateis vel in viis
publicis in legamen diurnis horis non redegerit, quidquid damni fecerit, a
domino solvatur.
PS. 1.15.1a Si quis saevum canem habens
in plateis vel in viis publicis in ligamen diurnis horis non redegerit,
quidquid damni fecerit, a domino solvatur.
Come si può notare i due passi sono
ampiamente coincidenti[150],
oltre ad essere entrambi inseriti nel contesto della trattazione dell'actio de pauperie[151].
Purtroppo anche in questo caso l'esegesi dei frammenti conduce a numerosi dubbi
sulla loro autenticità ed effettiva applicazione nel caso di un animale
condotto in una via o in una piazza, a causa dell'elemento contenuto nell'incipit di entrambi i passi. Se devono
essere infatti ritenuti validi i presupposti di applicabilità
dell’azione contro le pauperiae
non si comprende, ancora una volta, come sia possibile riferire la soluzione
giuridica ad un cane definito come feroce o terribile (‘saevum’)[152].
Ad ogni modo i passi prevedono, nel caso di actio de pauperie, di actio ex edicto de feris (come ritengo maggiormente
probabile) o di qualunque fosse l'azione applicabile contro il dominus dell'animale convenuto in
giudizio, una responsabilità anche nell'ipotesi in cui costui avesse
predisposto per il cane – ‘in
ligamen redegerit’ – quello che definiremmo un guinzaglio[153].
Dunque l'imprudenza del conduttore nello scegliere il luogo dove condurre
l'animale feroce non poteva essere bilanciata, ai fini di evitare una condanna,
dalla predisposizione di misure di sicurezza che alla prova dei fatti (si
tratta dunque di una valutazione a posteriori) fossero risultate comunque
insufficienti.
In merito alla prassi, o forse all'obbligo, di
tenere vincolati gli animali potenzialmente pericolosi, si potrebbe citare un
ulteriore passo estrapolato sempre dalle Pauli
Sententiae, il cui valore purtroppo risulta probabilmente scarso.
PS.
1.15.2 Feram bestiam in ea parte qua populo iter est, colligari praetor
prohibet. Et ideo, sive ab ipsa sive propter eam ab alio alteri damnum datum
sit, pro modo admissi extra ordinem actio in dominum vel custodem datur, maxime
si ex eo homo perierit.
Questo
enigmatico frammento si presenta, al di là delle evidenti ma fuorvianti
ragioni di punteggiatura, diviso in tre parti: nella prima si rinviene,
rimanendo volutamente generici, una affermazione di carattere generale ‘praetor prohibet’ riguardante un
divieto imposto a tutta la collettività presente sul territorio urbano
– senza rilevanza alcuna per la condizione giuridica dei destinatari del
provvedimento – circa una condotta (‘colligari’) che il responsabile dell’animale avrebbe
dovuto evitare nel caso in cui l’animale oggetto di questa azione fosse
qualificabile come feroce. La seconda parte del passo ‘et ideo - datum sit’, indicato il
comportamento proibito, prosegue riportando, parrebbe, il parere interpretativo
del giurista (‘et ideo’)
su quali fossero le situazioni concrete per cui fosse possibile ottenere
l’intervento pretorio. La terza parte del frammento, invece, abbandonata
la descrizione delle fattispecie contemplate nelle parole del pretore, espone
le modalità giudiziali attraverso le quali sarebbe stato possibile
ottenere la composizione della lite.
L’estensore
di queste frasi, privo di ogni dubbio, esclude qualsiasi forma processuale
diversa dalla cognitio extra ordinem,
troncando di netto il dilemma procedurale dei giuristi vissuti in
un’epoca di convivenza di più sistemi processuali[154].
Le parole del
giurista inoltre ci informano concretamente in merito alla legittimazione
passiva del convenuto, indicando come valida citazione in giudizio sia quella
del dominus sia quella del custode
dell’animale feroce. Il frammento si conclude quindi con una
considerazione di livello – direi – paragiuridico, mettendo in
rilevo come la possibilità di convenire in giudizio, in modo alternativo
fra loro, i due soggetti sopra indicati debba essere ritenuta valida a maggior
ragione nel caso in cui un soggetto, in seguito all’aggressione
dell’animale feroce, avesse subito lesioni tali da non sopravvivere alle
ferite riportate (‘maxime si ex eo
homo perierit’). Naturalmente nulla si può imputare sul piano
della correttezza a questo corollario che completa la precedente affermazione
del giurista. Incuriosisce, semmai, che non vi sia nulla nel ragionamento a
conclusione del passo di tanto insolito da meritare una esplicita menzione,
specialmente se rapportato al tenore normalmente più che elevato dei
ragionamenti cui ci hanno abituato i frammenti delle opere di Paolo o del
florilegio composto a partire da queste dai Compilatori. Certamente non
è solo logico ma è soprattutto equo considerare punibile un
comportamento identico – dunque ugualmente antigiuridico – ad uno
sanzionato dall’ordinamento (la lesione fisica semplice causata dalle
stesse tipologie di animali), in mancanza di rimedi qualitativamente diversi da
applicarsi in casi particolarmente gravi ma dalle conseguenze innegabilmente
deteriori. Infine, da un punto di vista formale, la chiusura del frammento
dunque lascia il dubbio che, in aggiunta alle particolarità che
segnalerò di seguito, si sia verificata l’inclusione di una
annotazione di un lettore dell’opera nel testo vergato dal discepolo di
Papiniano.
Queste poche righe di testo, attribuite
a Paolo, si rivelano di interpretazione quanto meno non immediata per colui che
tenti di ricomporre le circostanza descritta dal giurista severiano. La parte
iniziale del passo ‘Feram bestiam […] colligari praetor prohibet’,
continuazione di quello pseudo-paolino citato precedentemente, descrive
un’anomala prescrizione normativa per cui il magistrato, evidentemente
con finalità di protezione dell’incolumità dei passanti in
luoghi aperti al pubblico, proibisce di tenere legato l’animale feroce
(‘in ea parte qua populo iter est’).
La prima lettura del concetto esposto conduce naturalmente ad un risultato
inaccettabile[155]:
non solo non viene vietata la presenza di animali feroci in luoghi di pubblico
passaggio, ma parrebbe che venga esplicitamente fatto divieto di tenere al
guinzaglio il proprio animale. Non solo l’improbabilità di questa
disposizione mette in allarme il lettore, ma anche l’evidente correzione
della carica ricoperta dal magistrato che ha emanato questa legge pare essere
il sintomo di un intervento di modificazione del tenore originale del testo.
Risulta, infatti, piuttosto strano pensare, per casi di relativa frequenza, ad
una sorta di usurpazione delle competenze degli edili da parte del magistrato
gerarchicamente loro superiore. La somma di queste due particolarità, in
poco più di dieci parole, spinge dunque ad approfondire l’analisi
dell’incipit del passo per
comprendere quale fosse effettivamente il comportamento vietato.
Una prima ipotesi, in linea con il
pensiero di Macqueron[156],
parte dal presupposto che il giurista volesse dire l’esatto contrario di
quanto il testo mostra. Numerosi sono i casi infatti in cui i compilatori,
assorbiti dal loro compito di sfrondare dalle parti inutili le opere dei
giuristi classici, non lo abbiano svolto in modo perfetto, mal riassumendo i
concetti espressi in una lingua di cui ormai non erano più padroni.
Seguendo questa linea ricostruttiva la prima frase del brano sarebbe potuta
essere del tenore ‘feram bestiam in
ea parte qua populo iter est, <secum duci etiam colligatum> [colligari] praetor prohibet’. Naturalmente l’assenza di prove
sostanziali e la necessità di ricorrere ad una ampia integrazione del
testo esistente inibiscono la possibilità di sposare questa
ricostruzione senza riserve. In alternativa, leggendo il testo con un occhio più
conservativo nei confronti del suo tenore letterale, il quale però non
evita lo stravolgimento del suo illogico contenuto, è possibile
ipotizzare – per quanto si riveli una ricostruzione abbastanza
improbabile – che l’errore non risieda tanto nella espunzione di
una parte fondamentale dell’originario pensiero del giurista, quanto nel
fraintendimento (e conseguente correzione sia della forma verbale sia –
inevitabilmente, visto il significato del verbo inizialmente utilizzato –
degli accusativi dal plurale al singolare[157])
del significato del verbo colligo.
Questa forma verbale al presente indicativo è coniugazione sia del verbo
‘colligare’ sia di ‘colligere’. Se si rivelasse corretta questa seconda
interpretazione, il contenuto del passo si potrebbe sintetizzare con un
divieto, questa volta di buon senso, sebbene di applicazione sporadica, di
raggruppare animali feroci in un luogo di pubblico passaggio, come sarebbe
potuto accadere nel condurre verso il luogo dello spettacolo gli animali
destinati ai ludi oppure alle venationes. Contro questa seconda
ipotesi militano gli argomenti circa l’improbabilità di un
mutamento così notevole della forma verbale mentre, perlomeno in linea
teorica, ritengo non sia da escludersi che fosse stata emanata una norma per
impedire che si formasse un assembramento durante l’ultimo tratto del
loro trasporto verso il luogo della esibizione – specialmente in
occasione degli eventi di maggior sfarzo – di animali feroci destinati
agli spettacoli cittadini. L’ultima interpretazione di PS. 1.15.2 ha, a
mio avviso, il pregio di non connotare necessariamente i giuristi postcalssici
come studiosi non all’altezza dei propri predecessori, al punto di
renderli colpevoli senza appello del fraintendimento tanto di semplici nozioni
giuridiche quanto di basilari principi di buon senso.
Se è indubbia l’illogicità di
vietare ad un soggetto di legare un proprio animale pericoloso, con
l’evidente finalità di limitarne la possibilità di nuocere
ad altri, si potrebbero però leggere le parole del giurista come un
divieto, aggiuntivo rispetto a quello lapalissiano di condurre in pubblico
animali pericolosi senza strumenti di protezione, di portare in zone di
pubblico passaggio le ferae bestiae
anche nel caso in cui esse fossero dotate di guinzagli. Ad ulteriore conforto
di questa lettura del frammento è possibile inoltre dire che la mente di
un giurista classico non avrebbe concepito che un animale feroce potesse essere
lasciato senza vincolo alcuno: un animale selvaggio libero dal controllo di un
essere umano non sarebbe stato nemmeno una res
compresa nel patrimonio di chicchessia[158],
impedendo così non solo la valida concessione di una azione nei
confronti di quest’atto imprudente ma anche una qualsiasi
possibilità di imputare il danneggiamento verificatosi ad un membro
della collettività.
Anche in questo frammento viene considerata con
rigore diverso l’ipotesi dell’uccisione del danneggiato piuttosto
che il suo semplice ferimento – ‘maxime si ex eo homo perierit’ – ma lascia perplessi la questione della legittimazione passiva
alla azione. Il passo, a prescindere da quale potesse essere l’iter processuale adottabile, fa
riferimento alla possibilità agire in giudizio in via alternativa
‘in dominum vel custodem’.
Naturalmente questo non può che proporre con ancor maggiore forza la
questione relativa a quale soggetto potesse essere validamente qualificato
nell'editto sugli animali feroci come legittimato passivo dell’azione.
Prendendo in considerazione le situazioni precedentemente analizzate possiamo
osservare che, mentre nell'actio de
pauperie troviamo una responsabilità di tipo oggettivo in capo al dominus dell'animale, non altrettanto
possiamo ipotizzare a priori nell'ipotesi
dell'azione aquiliana, relativa alle aggressioni dei cani.
Nei danneggiamenti perseguiti con la lex Aquilia in virtù
dell'esistenza di un criterio soggettivo di imputazione della
responsabilità, sia nel caso questa derivi da dolo (come nella
situazione di un cane aizzato contro un bersaglio), sia in quello originato da culpa (si veda il caso del conduttore
inabile a trattenere il cane), la sanzione dovrà essere indirizzata
verso la persona soggettivamente responsabile. Il danneggiamento colposo si
dimostra essere un terreno sdrucciolevole di discussione nel momento in cui si
deve constatare un danno ad opera di un soggetto in schiavitù[159].
Per lui, oggetto di proprietà di altri, dovrà in ogni caso essere
citato in giudizio il dominus qualora
il fatto dannoso si sia verificato nell'espletamento di un ordine ricevuto,
sebbene il compito sia stato mal eseguito o comunque senza rispettare le
indicazioni del padrone[160].
In questo caso, dunque, la giurisprudenza sfiora nuovamente, senza esprimersi
mai apertamente, il principio della responsabilità oggettiva nel momento
in cui identifica una responsabilità del padrone – D. 9.2.27.9
[…] si neglegens in eligendis
ministeriis fuit – per aver mal scelto lo schiavo da adibire ad un
certo compito[161].
Per quanto riguarda la situazione di responsabilità affrontata dai
giuristi romani in merito agli animali pericolosi bisogna rilevare ancora una
volta l'estrema affinità con il plebiscito aquiliano e dunque non
stupisce che il ruolo di convenuto nel processo da essa derivante venga
ricoperto dagli stessi soggetti pocanzi identificati.
Nell'ambito de feris ci troviamo ad osservare come l’azione presenti,
almeno supponendo che i postclassici abbiano mantenuto l'impostazione
concettuale dei giuristi loro predecessori, una alternativa logica (‘in dominum vel custodem datur’)
fra i due soggetti che concretamente potevano essere alla base della decisione
che per imprudenza ha condotto alla lesione dell'ignaro passante[162],
senza porre l'accento sul fatto che il conduttore potesse essere semplicemente
un detentore del cane. La scelta alternativa fra questi due soggetti non
può stupire nel caso di specie, mentre nella ipotesi della
responsabilità oggettiva tipica dell'actio
de pauperie la ratio della norma
è quella di individuare, pur in mancanza assoluta di una colpa, un
soggetto cui riferire il pericolo di un comportamento imprevedibile dell'animale[163].
Nella situazione, invece, in cui il danno sia esito o di un impulso
dell'animale o di una colpa del soggetto che in quel momento lo aveva sotto il
proprio controllo ed esista, inoltre, un nesso di causalità che leghi
questa circostanza al verificarsi del danno è il principio stesso
d'equità a voler che il legittimato passivo venga riconosciuto
nell’individuo che normalmente riceve i benefici dell'opera del cane:
l'ordinamento giuridico ritiene preminente la colpa umana sulla reazione
dell'animale – da intendersi in ogni caso come suo vizio di ferocitas – ed attribuisce (D.
21.1.42) al soggetto imprudente
l'intero onere del risarcimento, eventualmente aggravato dalla sanzione in duplum.
Per concludere mi sembra doveroso far
riferimento all’ipotesi in cui si manifesta la particolarità delle
situazioni che fino ad ora ho analizzato. Volendo esporre in sintesi le
situazioni per cui actio de pauperie
ed edictum de feris furono studiati
dai giuristi, è possibile affermare che la prima nacque dall'esigenza di
attribuire un risarcimento nel caso di damnum
provocato da un animale mansueto, mentre il secondo per l'opposta fattispecie
di lesione realizzata da una fiera. Come inizialmente ho premesso l'indole del
cane non è riconducibile in via esclusiva a nessuno dei due
comportamenti – dipendendo dalla situazione concreta – ragion per
cui l'eccezionalità della situazione non poteva escludere a priori,
stante una diversa natura e funzione originaria delle azioni in questione, un
loro cumulo[164],
con le conseguenze immaginabili in capo al dominus condannabile[165].
Nel caso – il più semplice in assoluto – del ferimento di
uno schiavo altrui, il convenuto riconosciuto colpevole sarebbe incorso
nell'obbligo di versare (sommando l'esito delle condemnationes) il triplum
della valutazione alla lesione provocata dall'animale o, nel caso volesse
approfittare della facoltà di dare a nossa il cane, alla sua dazione ed
al pagamento del duplum del danno cagionato.
Se, per certi versi, è possibile
rinvenire una protezione multipla da parte dell'ordinamento ciò non vuol
dire che per tutte le fattispecie in cui fosse possibile il verificarsi di un
danneggiamento provocato da un cane – evito di proposito, per scongiurare
fraintendimenti, l'uso di termini specifici quali damnum e pauperies –
fosse contemplato un modo per ottenere in qualche tipo di risarcimento.
Un frammento degli scritti attribuiti
al giurista Paolo, tramandatoci in due lezioni nelle Pauli Sententiae e
nella Lex Romana Burgundiorum – fra loro alquanto diverse[166]
– ci narra dell'esistenza di una legge denominata Pesolania, la
quale avrebbe avuto come oggetto un aspetto riguardante la disciplina delle
ipotesi di lesioni provocate dai cani, tanto che il nel suo stesso nome era
compresa la dicitura 'de cane'.
P.S. 1.15 Si
quadrupes pauperiem fecerit damnumve[167] dederit quive depasta sit, in dominum actio datur,
ut aut damni aestimationem subeat aut quadrupem dedat: quod etiam Lege
Pesolania de cane cavetur.
Purtroppo, dato lo stato delle fonti riconducibili
all'epoca classica, malgrado i recenti sforzi compiuti nel tentativo di trarre
delle notizie concrete ed attendibili circa la portata della legge che avrebbe
dovuto in qualche modo disciplinare direttamente uno o più aspetti
collegati alla condotta dei cani, poco o nulla è possibile dire, nemmeno
quale fosse originariamente il suo reale nome o l'epoca della sua possibile
introduzione nell'ordinamento. Già Cujacio[168]
e Pothier[169],
smentiti dalla critica attuale[170],
si convinsero del fatto che questa legge fosse stata importata nei suoi
principi basilari dalla Grecia, fatto per cui il nome tramandato nel passo
paolino P.S. 1.15 riporterebbe una lezione corrotta di quello originale,
storpiato in Pesolania da Solonia durante una trascrizione del testo,
attraverso una incertezza intermedia dei copisti, che avrebbero prima aggiunto
un prefisso 'pe' al nome originale, per poi incappare in una sostituzione di
vocale.
Sebbene non vi siano gli estremi per
pronunciarsi in via definitiva[171], bisogna rilevare che recentemente
Caiazzo[172]
ha letto nel testo delle Sententiae paoline l'esistenza di una norma
volta a estendere l'originario ambito dell'actio de pauperie, in cui la
menzione del cane fosse originaria, escludendo che i probabili interventi
modificativi occorsi al testo originale abbiano toccato questo aspetto del
frammento in modo interpolativo o glossatorio.
Partendo dalla precisazione ulpianea in
D. 9.1.1.3 'quae actio omnes quadrupedes pertinet' la studiosa giunge ad
affermare che essa sarebbe la riprova dell'estensione dell'applicazione
dell'azione di cui tratta il titolo D. 9.1 da un nucleo di ipotesi in cui fosse
coinvolto un ristretto di animali (individuato in epoca decemvirale) ad un
elenco più ampio, dal quale certamente non poteva essere escluso il
cane, espressamente ricompreso – sempre secondo l’Autrice –
in quest'ambito di protezione giuridica proprio dalla legge Pesolania. Solo
l’emanazione di questa legge avrebbe quindi consentito al convenuto
– parallelamente a quanto sarebbe successo in forza della applicazione
della normativa sulle pauperies – la dazione nossale dell'animale
mordace (o l'offerta della aestimatio noxae) in luogo del pagamento
della summa condemnationis[173].
L'Autrice, pienamente convinta della
autenticità del contenuto del passo, afferma che esso sarebbe inoltre
espressione di una modalità tecnica di estensione delle fattispecie
legislativamente introdotte nell'ordinamento sia in tempi abbastanza antichi
– III o II a. C. – sia in epoche più recenti fino a quella
delle prime applicazioni della cognitio extra ordinem e si spinge fino a
proporre una ipotesi circa l’epoca della sua ideazione: «[...] La
cronologia della nostra lex può porsi in epoca anteriore a quella
in cui è essenzialmente il pretore a svolgere un'attività di integrazione
del ius civile. E, dunque, [...] nella media repubblica, forse tra il
III ed il II secolo a. C.; periodo nel quale è ancora la legislazione in
forma ormai di plebiscito [...] a segnare le novità più
significative nel campo del diritto privato»[174].
L'Autrice[175]
tenta a sua volta, contestata l'ipotesi del Casavola sui rapporti cronologici
fra l'editto sugli animali feroci e l'actio de effusiis vel deiectis[176],
di collocare temporalmente l'edictum de feris e la lex Pesolania giungendo
al risultato – meramente ipotetico, come essa stessa afferma[177]
– di prediligere l'anteriore introduzione dell'editto sugli animali
feroci. Posto infatti che l'actio de pauperie è certamente la
prima azione a contemplare i danni provocati dagli animali, si può
supporre che, una volta introdotta nell'ordinamento anche la norma edile che
contemplava gli spazi urbani definiti pubblici o di passaggio, si fosse
evidenziata una notevole lacuna circa le lesioni provocate dai cani –
come detto, escluse inizialmente dal concetto tecnico di pauperies- al
di fuori dei luoghi 'qua vulgo iter fiet'.
Nelle pagine precedenti, partendo dai
pochi passi che esplicitamente prendono in considerazione le ipotesi di
danneggiamento causato da un cane, ho tentato di ricostruire il panorama delle
azioni a disposizione del danneggiato. Dallo studio delle situazioni vagliate
dalla giurisprudenza romana si può constatare come l'ordinamento abbia
studiato ipotesi nelle quali la lesione sia derivata da un atteggiamento
esclusivamente riconducibile alla volontà dell'animale oppure al dolo o
alla colpa del suo conduttore.
Sciolta la questione dell'indole del
cane e della sua connotazione come animale feroce o meno, l'actio de pauperie si è presentata
come rimedio per i casi, inquadrabili nell’ambito della
responsabilità oggettiva, ai quali l'ordinamento ha ritenuto opportuno
applicare il principio (solo successivamente formulato in questi termini) per
cui ‘cuius commoda eius et
incommoda’, riconducendo la
responsabilità per i danni provocati
al dominus che abbia goduto dei
benefici lavorativi dell'animale o che potenzialmente (viste le regole sulla
dazione nossale, e sulla valida citazione in giudizio anche per danni provocati
precedentemente all'acquisto dell'animale) potrà avvantaggiarsene in
futuro. Naturalmente, proprio l'impossibilità di imputare al dominus alcun tipo di comportamento in
disaccordo con le regole di attenzione, prudenza e diligenza che sarebbe stato
opportuno adottare, implica un meccanismo di quantificazione della lesione
subita particolarmente benevolo nei confronti del responsabile giuridico. La noxae deditio dell'animale, per lo meno
in questo caso specifico, non sembra essere un sistema volto alla punizione del
convenuto colpevole, quanto piuttosto un «escamotage» per consentirgli un’agile ed
economica via per liberarsi dall'obbligo di composizione del danno patrimoniale
provocato.
Nel caso invece di
responsabilità per dolo, dunque di esclusivo riferimento all'actio legis Aquiliae, il Digesto mostra
un esempio di ferma repressione di un comportamento non solo ingiusto ma anche
antisociale e pericoloso quanto l'utilizzo di una qualsiasi arma contro uno
schiavo altrui (o un ingenuus, con il
limiti evidenziati). In questo ambito il titolo D. 9.2 mostra l'entità e
la forza dell'intervento estensivo della giurisprudenza classica nell'ampliare
l'ambito d'applicazione del plebiscito aquiliano e nell'abbattere –
gradualmente e talvolta in modo sofferto – le originarie limitazioni
derivanti dal requisito per cui il danneggiamento potesse essere sanzionato solo qualora
compiuto corpore corpori.
Nella situazione di danneggiamento
colposo, causato da imprudenza o negligenza del conduttore, è chiara la
finalità di forte repressione e dissuasione (potenzialmente non
dissimile da quanto emerge oggigiorno dai provvedimenti del Ministro della
Salute) che l'ordinamento romano decise di perseguire nei confronti dei
soggetti non sufficientemente abili o energici dal punto di vista fisico,
oppure poco avvezzi alle reazioni che un cane può manifestare in alcune
circostanze particolari (si pensi per esempio a quanto può essere
repentino – nel bene o nel male – il cambio d'umore dell'animale
incontrando un proprio simile).
Per quanto riguarda la quantificazione
della condanna in ambito aquiliano ritengo si possa trattare, vista la quasi
identità delle norme in caso di danno provocato dolosamente o per colpa,
delle ultime due situazioni esposte in modo unitario. Se è vero che nei
principi generali le due situazioni facenti capo alla lex Aquilia sono perfettamente assimilabili, altrettanto non
è possibile dire nella maggior parte dei casi in merito alla condanna
concretamente comminabile al reo. Per quanto, sia nel caso di danneggiamento
doloso sia in quello colposo, fosse possibile sottrarsi alla condanna
assumendosi il rischio di contestare l'accusa – infitiatio – incorrendo, in caso di sconfitta processuale,
nel raddoppio della pena calcolata secondo i principi esposti, non è
inverosimile pensare che fossero prevalentemente gli accusati di lesioni
volontarie a volersi liberare delle accuse, malgrado l'alta posta in gioco. In
ogni caso, a prescindere dal fatto che la responsabilità aquiliana fosse
imputata al reus a titolo colposo o
doloso, la differenza rispetto all'actio
de pauperie è palese. In quest’ultimo caso, infatti, il dominus del cane, unico soggetto
collegato all'animale da un valido vincolo giuridico – il diritto di
proprietà sulla res – e
dotato di capacità patrimoniale, veniva inteso come soggetto
responsabile del danno provocato benché incolpevole: alla
facilità di individuazione del responsabile giuridico del danno fa da
controaltare la benevolenza adottata dall’ordinamento nella
quantificazione della somma da rifondere, che fungerà esclusivamente da
reintegrazione per l’ingiusto danno subito dall’attore senza
accanirsi sul futuro condannato poiché irreprensibile dal punto di vista
delle precauzioni preventive e della diligenza adottate per evitare il
verificarsi della lesione. Nelle fattispecie riconducibili al plebiscito
repubblicano, invece, il collegamento fra il danneggiante ed il danneggiato pur
non essendo diretto, vista la mediazione strumentale del cane nel procurare la
lesione, è pur sempre netto e sufficiente ad imporre, in caso di
condanna, una sanzione sicuramente più dura rispetto al caso precedente.
Il caso dell'edictum de feris si presenta in modo ancora diverso rispetto alle
due azioni precedenti. Se è immediatamente visibile una comunanza di
situazione con l'azione aquiliana, appare del tutto dissimile l’impulso
che muove l’ordinamento alla reazione contro le fattispecie contemplate
in questo edictum dagli edili. Laddove il danno aquiliano, in funzione
dell’ampiezza delle situazioni ad esso riconducibili, creò nella
giurisprudenza, col passare dei secoli, una sorta di equivalenza fra questa
categoria di fatti giuridici e quella della responsabilità
extracontrattuale, l’editto sugli animali feroci presupponeva per la sua
applicazione non tanto una condotta semplicemente dolosa o colposa da parte del
soggetto incaricato della sorveglianza dell’animale, quanto quella che
definiremmo una situazione in cui si possa ravvisare una sorta di presunzione
di colpa. L'ordinamento richiedeva per la punibilità che si fosse tenuto
un comportamento specifico, individuato a priori con chiarezza dalle parole
dell'editto, nel quale fosse possibile ravvisare una particolare
pericolosità. Mentre nel titolo 9.2 del Digesto venivano richieste per
l’applicazione della lex Aquilia
principalmente connotazioni soggettive dell’azione dannosa, rinvenibili
nella iniuria, in conseguenza della
progressiva svalutazione giurisprudenziale dell’importanza della
modalità concreta di realizzazione della lesione, nell’edictum il fulcro della questione era
incentrato sulla duplice volontà sia di punire sia, soprattutto, di
disincentivare comportamenti in ogni caso potenzialmente dannosi per i terzi,
quale quello di condurre in luoghi pubblici animali feroci o, ancor peggio,
feroci ed aggressivi, a prescindere da ogni possibile precauzione presa dal dominus dell’animale. Resta
naturalmente sottinteso il fatto che, per quanto mal vista, la semplice
circostanza di condurre un animale, pericoloso o meno, per le vie della
città non fosse di per sé stessa punibile, se a seguito di
ciò non si fosse verificata la lesione patrimoniale di un terzo e non vi
fosse stato un nesso causale fra l’azione ed il danneggiamento.
In considerazione della difforme finalità dei
due provvedimenti, non stupisce che al posto dell’enorme casistica
aquiliana, volta ad individuare dei criteri generali ed uniformi per giungere
ad un pieno risarcimento del danno patito (eventualmente comprensivo del
maggior interesse oltre al semplice danno emergente del dominus ad evitare il danno), si riscontri nella giurisprudenza in
tema di edictum de feris una attenzione, per quanto possiamo
dedurre dalle fonti, maggiormente incentrata sul comportamento proibito
piuttosto che sulla sanzione. Senza bisogno di ripercorrere nuovamente nel
dettaglio la casistica esposta da Ulpiano (D. 21.1.40.1-42), basta ricordare
che sin dall’origine del provvedimento vennero disciplinate, senza alcun
bisogno dell’arduo lavoro d’ingegno dei giuristi, sia la situazione
di danno – letale e non – cagionato ad un uomo libero sia quella
che possiamo vedere alla base della antica fattispecie aquiliana circa il
danneggiamento di proprietà altrui. In questo ambito specifico –
in particolare si tratta della lesione ad uno schiavo – il confronto fra
i due provvedimenti non lascia dubbi su quali fossero le finalità del
legislatore romano, sebbene dalle parole scelte dai giuristi non venga messa
particolarmente in risalto la diversità fra le due previsioni: solamente
nel caso di negazione della propria responsabilità da parte del
convenuto troviamo l’aquiliano 'adversus
infitiantem in duplum actio esset' (D.
9.2.2.1), mentre nell’edictum de
feris leggiamo 'quanti damnum datum
factumve sit, dupli' (D. 21.1.42) a prescindere dal contegno processuale
tenuto. Evidentemente sia l’interesse ad una rapida composizione della
questione, prescindendo da difficili e probabili problemi probatori, sia la
volontà di ridurre al minimo i pericoli per le strade (perlomeno quelli
non collegati alla generica criminalità od alle rischiose abitudini
degli abitanti delle insulae), portarono alla previsione di una
azione che fosse immediatamente in duplum
e come tale, nella sua pur più limitata sfera d’applicazione,
maggiormente onerosa per il reus.
[1] In
tempi recenti il Ministro della Salute G. Sirchia (in carica fino all’aprile
del 2005) ha preso posizione in merito alla protezione dei cittadini dalle
possibili aggressioni canine con due ordinanze rispettivamente del 9 settembre
2003 (pubblicata nella G.U. n° 212 12/9/2003) e del 27 agosto 2004. Il
primo provvedimento del Ministro prevedeva due articoli, nei quali erano
indicati divieti ed obblighi spettanti ai proprietari di cani appartenenti a
razze potenzialmente pericolose per la pubblica incolumità, individuando
come oggetto delle disposizioni dell’ordinanza 91 razze canine appartenenti ai gruppi 1 e 2 della
classificazione della Federazione Cinologica Internazionale. Questa
ripartizione, originariamente studiata per finalità diverse, opera una
distinzione molto sommaria tale da comprendere, oltre cani potenzialmente aggressivi
o pericolosi, sia animali notoriamente pacifici come i San Bernardo sia
scarsamente temibili come gli Schipperke (che da adulti hanno un peso variabile
fra i 3 e gli
[2] La
normativa italiana sulla questione ha trovato un successivo assetto grazie
all’ordinanza emanata il 12 dicembre 2006 (successivamente pubblicata in
G.U. 13 gennaio 2007, successivamente modificata – in modo ininfluente
per la presente trattazione – con ordinanza del 28/03/2007, pubblicata in
G.U. n° 104 del 07/05/2007). Rispetto alla disciplina previgente è
stato mantenuto l’assetto generale delle norme, contemplando limiti per
l’addestramento, la selezione, il doping e gli interventi chirurgici
(come il taglio della coda, delle orecchie o delle corde vocali
dell’animale) volti ad incrementare l’aggressività
dell’animale o a renderlo fisicamente più idoneo ai combattimenti,
pratica anch’essa fortemente osteggiata per via dei suoi connotati di
violenza e per le sue connessioni con la malavita organizzata. La nuova
disciplina della materia prevede all’art. 5, per favorire
l’incolumità pubblica, l’introduzione di un archivio presso
i servizi veterinari locali in cui venga tenuta traccia dei cani morsicatori e
di quelli “con aggressività non controllata”.
Quest’ultima categoria, parzialmente coincidente con quella dei cani
mordaci o morsicatori, viene individuata come quella del soggetto che
“non provocato, lede o minaccia di ledere l’integrità fisica
di una persona o di altri animali attraverso un comportamento aggressivo non
controllato dal proprietario o detentore dell’animale”. Lo stesso
art. 5, comma 3b, prevede, inoltre, l’istituzione presso le ASL di
“percorsi di rieducazione” dell’animale per giungere,
finalmente, alla conferma dell’obbligo a carico per il proprietario
dell’animale di stipulare un’assicurazione per la
responsabilità civile per danni cagionati dal proprio animale. Proprio
quest’ultima disposizione, per quanto non possa nulla ai fini della
prevenzione di eventuali danni ai consociati (salvo effettuare una pressione
indiretta per dissuadere i cittadini dall’acquistare o allevare i cani
ritenuti particolarmente aggressivi) merita la maggiore considerazione
poiché, a mio parere, è la norma più efficace per
razionalizzare questo genere di situazioni. Per terminare l’esame della
disciplina vigente, rimane da considerare il contenuto dell’art. 6, il
quale prevede in modo estremamente vago per i trasgressori degli obblighi
contenuti nell’ ordinanza in discussione l’applicazione di sanzioni
“a carico delle Amministrazioni competenti secondo i parametri
territoriali in vigore”.
[3]
L'elencazione esaustiva dei passi all'interno dei quali è possibile
rinvenire il termine cane comprende pochi testi e dal loro numero, ai fini
dell'esame che mi interessa condurre, sarà necessario escluderne diversi
che si riferiscono a questioni differenti, quali le venationes o le descrizioni delle modalità con le quali
veniva eseguita la terribile poena cullei.
Sicuramente in argomento sono D. 9.1.1.5, D. 9.1.2.1, D. 9.2.2.2, D. 9.2.11.5,
D. 9.2.29.6, D. 4.3.6, Gai. 3.217, I. 4.3.1, I. 4.3.13, I. 4.9, D.
21.1.40.1-42, PS. 1.15.1a, PS. Int. 1.15.1, L.R.B. 13.1-2, mentre lontani dalla
questione in analisi sono D. 33.7.12.12, D. 41.1.44, D. 48.9.9pr.
[4] La
letteratura in tema di lex Aquilia
è certamente molto estesa a causa dell’importanza del tema e della
quantità di frammenti estremamente interessanti. Visti gli stretti limiti
del presente contributo, mi limito ad elencare, in ordine cronologico, alcune
delle più recenti pubblicazioni sugli aspetti generali di questa azione,
lasciando alle pagine successive di questo lavoro la citazione puntuale delle
ulteriori opere rilevanti: F. De
Visscher, L'extension du
régime de la noxalité aux délits prevus par la lex Aquilia,
in «Symbolae ad Jus et historiam
Antiquitatis Pertinentes J.C. Van Oven, Dedicatae», Leiden, 1946,
[5] D.
9.2.2.2 (Gaius 7 ad ed. provinc.) Ut igitur apparet, servis nostris exaequat
quadrupedes, quae pecudum numero sunt et gregatim habentur, veluti oves caprae
boves equi muli asini. Sed an sues pecudum appellatione continentur, quaeritur:
et recte Labeoni placet contineri. Sed canis inter pecudes non est. Longe magis
bestiae in numero non sunt, veluti ursi leones pantherae. Elefanti autem et
cameli quasi mixti sunt (nam et iumentorum operam praestant et natura
eorum fera est) et ideo primo capite
contineri eas oportet.
[6] I. 4.3.13 Capite tertio de omni cetero damno cavetur. Itaque si quis servum,
vel eam quadrupedem quae pecudum numero est, vulneraverit, sive eam quadrupedem
quae pecudum numero non est, veluti canem aut feram bestiam, vulneraverit aut
occiderit, hoc capite actio constituitur [...].
[7] Si
può constatare l'esistenza di questo concetto già all'interno
delle XII tabulae: tab. V, 2 'Mulieris,
quae in agnatorum tutela erat, res mancipii usucapi non poterant [...]'
cfr. Fontes Iuris Romani AnteJustiniani, pars prima, Firenze, 1968, 37.
[8] Si
veda a titolo esemplificativo Bonfante,
Corso di diritto romano, II, La
proprietà, parte I, Milano, 1966, 204.
[9] F. Gallo, Studi sulla distinzione
fra ‘res mancipi’
e ‘res nec mancipi’, Torino, 1958, 87 ss. Queste
pagine in particolare commentano il famoso Gai. 2, 18-22 traendo le proprie
conclusioni a partire dalle tesi sostenute in precedenza da Bonfante e De
Visscher; inoltre si legga G. Nicosia,
Animalia quae collo dorsove domantur,
95 nt.
[10] Il
termine 'pecus' presenta in latino
(cfr. lemma 'pecus' in A. Ernout, A. Meillet, Dictionnaire étimologique de la lange
latine, Parigi, 2001) una doppia valenza indicando senza dubbio in primo
luogo gli ovini ma anche, in senso lato, «designet indifféremment
le gros et le petite bétail, les animaux domestiques par opposition
à 'ferae'». La stretta
connessione di questo termine con un concetto economico pare confermata dalla
circostanza assodata che termine 'pecunia'
trovi in esso origine e che l’originario significato del termine
possa essere ravvisato in «richesse en bétail», a partire
dal quale si sarebbe poi sviluppato il concetto di ricchezza e successivamente
di denaro. Si legga inoltre il contributo di F.
Gnoli, Di una recente ipotesi sui rapporti tra 'pecus', 'pecunia',
'peculium', in «SDHI.», 44 (1978), 204 ss.
[11] Birks, A Point, cit., 99 «‘Pecudes’. This
concerns the relationship between the two chapters. The line between 'pecudes'
and 'non-pecudes' was never very clearly drawn, which is strange in
itself. A dog definitely was not a pecus. From the start a killed dog could not
fall under chapter I. It was either a chapter III case or it was not an
Aquilian case at all. But it was decided that it did fall within chapter III. There
was doubtful cases».
[12] Si
ritiene infatti inapplicabile la disciplina del primo capo della lex Aquilia, comportando che la
quantificazione del valore massimo dell’animale non possa essere
ricercato nel lasso temporale dei trecentosessantacinque giorni precedenti al
momento dell’avvenuta lesione ma, applicando esclusivamente il terzo capo
della stessa legge, possa essere commisurato a quello massimo toccato
nell’ultimo mese. D. 9.2.21pr. (Ulpianus
18 ad ed.) Ait lex: (capite primo) ‘quanti is homo in eo
anno plurimi fuisset’. Quae
clausula aestimationem habet damni, quod datum est. D. 9.2.23.3 (Ulpianus 18 ad ed.) Idem Iulianus scribit aestimationem hominis occisi ad id tempus
referri, quo plurimi in eo anno fuit […]. Gai. 3.218 (Capite tertio) Hoc tamen capite non quanti in eo anno, sed quanti in diebus XXX
proxumis ea res fuerit, damnatur […]. Sabino placuit proinde habendum ac si etiam hac parte 'plurimi' verbum
adiectum esset; nam legis latorem contentum fuisse, quod prima parte eo verbo
usus esset. In merito va però notato anche il fatto che, rispetto ai
cani, i pecudes subivano di certo
maggiori variazioni di valutazione all’interno dei periodi
dell’anno in relazione, per esempio, alla loro produzione di lana. Da
segnalare l'acuta ipotesi di Nicosia,
Animalia, cit., 92 ss., per cui le reali motivazioni circa la
staticità della composizione delle categorie di res mancipi e nec
mancipi ed il conseguente non inserimento di nuovi animali debbano essere
ricercate nella volontà di non voler interferire negativamente negli
scambi commerciali, richiedendo rispetto ad una semplice traditio del
bene alienato negozi giuridici più onerosi in termini di tempo e
certamente di spese. Dunque questa scelta dovrebbe essere letta non
tanto nella chiave di un conservatorismo o tradizionalismo dei giuristi ma
– molto più concretamente visto l'aumento esponenziale dei
traffici commerciali nel periodo successivo alle guerre puniche – come un
espediente giuridico per minimizzare le incombenze gravanti sui venditori di
bestiame. Questa interpretazione dei fatti viene supportata inoltre dalla
ricostruzione delle cause della diatriba fra Proculiani e Sabiniani sul momento
in cui gli animali delle specie riconducibili teoricamente alla categoria delle
res mancipi possano effettivamente assumere questa qualifica. Si veda in
merito Gai. 2.15 Sed quod diximus ea animalia, quae domari solent, mancipi
esse, [... lacuna ...] statim ut nata sunt, mancipi esse putant; Nerva
vero et Proculus et ceteri diversae scholae auctores non aliter ea mancipi esse
putant quam si domita sunt; et si propter nimiam feritatem domari non possunt,
tunc videri mancipi esse incipere, cum ad eam aetatem pervenerint, in qua domari
solent.
[13] Il
giurista, vissuto fra il XII ed il XIII secolo, pare essere perplesso nella
classificazione del cane all'interno delle categorie animali collegate ai
concetti di ferocia e mansuetudine trovando motivi di valido inserimento ed
esclusione di questo animale da entrambe le categorie. Gl., Contra naturam,
I. 4.9pr., Si quadrupes pauperies fecisse dicatur, ed. Venetiis
[14] Si
veda in merito l’attento studio di Onida, Studi sulla condizione degli animali non umani nel sistema giuridico
romano, Torino, 2002, 213 ss., nonché Il guinzaglio e la
museruola: animali, umani e non, alle origini di un obbligo, in
«Diritto e storia.it», http://www.dirittoestoria.it/3/Lavori-in-Corso/Contributi/Contributi-web/Onida%20-%20Il%20guinzaglio.htm
.
[15] Si
confronti A. Guarino, Elefanti
che imbarazzano, in «Inezie di giureconsulti», Napoli, 1978, 65
nt. 50 [= Pagine di diritto romano, II, Napoli, 1993, 328 e 329 nt. 50].
L’Autore, con il suo inconfondibile stile, ridimensiona l’intera
questione circa la rilevanza all’interno della categoria delle res
mancipi degli animali esotici «[…] Elefanti e cammelli furono
utilizzati, nel mondo romano, solo nelle provincie di appartenenza della loro
specie. Il loro rilievo economico e giuridico fu sempre e soltanto
‘provinciale’: sicchè ai romani il problema pratico
dell’inserzione degli elefanti e dei cammelli tra le res mancipi
non si pose mai, come mai si pose per i fondi provinciali».
[16]
Cicerone, spiegando le abitudini di inumazione di alcuni popoli lontani, mette
in risalto l'affinità non solo morfologica ma potenzialmente anche di
ferocia fra il cane ed altri animali selvatici scrivendo - Tusculanorum disputationum 1.45.108 – ‘In Hyrcania plebs publicos alit canes,
optumates domesticos: nobile autem genus canum illud scimus esse sed pro sua
quisque facultate parat a quibus lanietur, eamque optumam illi esse cansent
sepulturam’. Del resto è noto, grazie alle ricostruzioni
archeologiche di quanto avvenuto a Pompei ed Ercolano in seguito all'eruzione
del Vesuvio, almeno un caso in cui la fame vinse la fedeltà dell'animale
verso il proprio padrone. Parrebbe infatti che la strana disposizione al suolo,
in un ambiente sigillato dalle ceneri, di alcune ossa umane (smembrate) e di
uno scheletro canino (perfettamente composto) abbiano fatto pensare
all’epilogo di una persona che, non essendo riuscita a mettersi in salvo,
fosse morta dopo giorni di reclusione in compagnia del proprio animale
domestico. La storia si sarebbe poi conclusa con lo scempio del cadavere da
parte dell’animale, sopraffatto dalla fame e dall’istinto.
[17]
Piuttosto che adottare una contrapposizione fra ‘pecudes’ e
‘ferae’ preferisco trattare la collocazione del cane fra le
varie specie di animali mantenendo partizione fra ‘pecudes’
e ‘non pecudes’, poiché ritengo che la seconda offra
maggiore immediatezza nel comprendere la complessa posizione del cane rispetto
alla gamma di funzionalità individuate dai giuristi romani con la
partizione fra animali domestici e semi domestici.
[19] Il primo capo di questo plebiscito
protegge i pecudes e gli schiavi
mentre il terzo (riferito in D. 9.2.27.5 probabilmente in modo piuttosto
alterato rispetto al suo originario tenore) era relativo al danneggiamento e
non presenta questa limitazione come di seguito si può constatare D.
9.2.29.6 (Ulpianus 18 ad ed.) Hac actione ex hoc legis capite de omnibus
animalibus laesis, quae pecudes non sunt, agendum est, ut puta de cane: sed et
de apro et leone ceterisque feris et avibus idem erit dicendum. Gai. 3.217 Capite
tertio de omni cetero damno cavetur. Itaque si quis servum vel eam quadrupedem,
quae pecudum numero est, vulneraverit sive eam quadrupedem, quae pecudum numero
non est, velut canem [...] Si quid enim ustum aut ruptum aut fractum
fuerit, actio hoc capite constituitur, quamquam potuerit sola rupti appellatio
in omnes istas causas sufficere; ruptum enim intellegitur, quod quoquo modo
corruptum est [...]; un accenno al terzo capo della della legge, per quanto
non propriamente oggetto di queste pagine, è imprescindibile vista la
tendenza a considerarlo sbrigativamente come una sorta di duplicato –
leggermente modificato – del primo capo del plebiscito aquiliano.
Illuminanti sono le considerazioni di Cannata sull'argomento, specialmente ove
– Il terzo capo, cit.,
120 – con un esempio curiosamente in tema con i miei ragionamenti
«Il terzo capo prevede per la fattispecie delittuosa, un'unica sanzione,
consistente nel sorgere, in capo al colpevole, dell'obbligazione di pagare al
proprietario il valore della cosa danneggiata: ed è evidentemente
assurdo che chi abbia tagliato la coda ad un cane debba dare al proprietario la
stessa somma che gli dovrebbe dare se, quello stesso cane, egli l'avesse
ammazzato». Certamente l'Autore non crede che questo possa essere
risultato di una costruzione semplicistica da parte di giuristi agli albori del
proprio cammino, tanto più che, contrariamente alla datazione usuale del
plebiscito aquiliano, propende per posticiparne la datazione (Il terzo capo, cit., 132) di
circa un secolo cioè intorno all'anno
[20] Cfr. J. Macqueron, Dommages causes par chiens, in «Flores legum H. J.
Schelmata antecessori groningano oblati», Groningen, 1971, 133 ss.
[21]
Naturalmente la lex Aquilia al
momento della sua massima evoluzione ha contemplato tutte le possibili
sfumature psicologiche del soggetto danneggiante ma, come meglio
sottolineerò a suo luogo, la mia affermazione deve essere intesa nel
limitatissimo ambito del danneggiamento provocato da animali.
[22] FIRA, cit., 55, Tab. VIII, 6 'Si quadrupes pauperiem fecisse decitur, ...
lex (XII tabularum) voluit aut dari id quod nocuit ... aut aestimationem noxiae offerri'.
[23] La
data convenzionale di emanazione della lex Aquilia viene fissata,
sebbene vi siano numerose perplessità, all’inizio del III a. C.;
si vedano in merito gli articoli, specialmente di C. A. Cannata, citati supra,
nt. 19.
[24] G. Impallomeni, L’editto degli edili
curuli, Padova, 1955, 108. L’incertezza della letteratura trova
origine nella considerazione che alla base di queste ricostruzioni vi siano
indizi piuttosto che attestazioni certe, dunque, in via precauzionale, è
preferbile mantenere una datazione ipotetica di questo provvedimento malgrado
non vi siano riscontri maggiormente probanti in senso diverso.
[26] Fra i
vari esempi letterari di situazioni in cui degli animali feroci fossero
presenti nelle abitazioni romane basti citare alcune delle metafore presenti nelle
opere del filosofo Seneca, De ira,
2.31.6 'Aspice elephantorum iugo colla
submissa et taurorum pueris pariter ac feminis persultantibus terga impune
calcata et repentis inter pocula sinusque innoxio lapsu dracones et intra domum
ursorum leonumque ora placida tractantibus adulantisque dominus feras: pudebit
cum animalibus permutasse mores'; Epistulae,
85.41 'Certi sunt domitores ferarum qui saevissima animalia at ad occursum
expavescenda hominem pati subiugunt nec asperitatem excussisse contenti usque in
contubernium mitigant: leonis
faucibus magister manum insertat, obsculatur tigrim suus custos, elephantium
minimus Aethiops iubet substinere in genua et ambulare per funem
[...]’.
[27] Rodriguez Ennes, Estudio, cit., 34, passa in rassegna alcune delle motivazioni
per cui degli animali feroci trovavano spazio nell'Urbe e nei suoi dintorni,
elencando come principali motivi il loro impiego nei trionfi dei condottieri,
nelle venationes, per effettuare
esibizioni zoologiche, duelli fra animali di specie diverse oppure la
celebrazione di fastosi giochi funebri. In particolare si veda, per l'aspetto
economico del fenomeno dell'allevamento degli animali sia mansueti sia
potenzialmente pericolosi (come i cinghiali), la monografia di G. Polara, Le 'venationes' fenomeno economico e costituzione giuridica,
Milano, 1983 e la recensione di R.
Martini, Sui frutti delle
venationes, in «Labeo», II, 1986, 285. Infine, fra le finalità
dell'acquisto di animali pericolosi non si può dimenticare quello di
ostentazione della propria ricchezza, si veda il caso del tribuno della plebe
Dolabella – riferito da Plutarco, Antonio,
9 – il quale, fra gli altri sperperi, volle venissero aggiogati leoni
al suo carro. Anche nelle opere poetiche vi sono riscontri di queste abitudini,
come per esempio nel 'Leo mansuetus'
di Stazio, Silvae, II, 5, viene detto
'[...] Quid, quod abire domo rursusque in
claustra reverti / suetus et capta iam sponte recedere praeda / insertasque
manu laxo dimittere morsu? / Occidis [...] vastator docte ferarum [...] sed
victus fugiente fera. [...] Stat
cardine aperto / infelix cavea et clausas circum undique portas / hoc licuisse
nefas placidi tumuere leones [...]'. Sempre Rodriguez Ennes, Estudio,
cit., 36 nt. 31 fa menzione di una sorta di tariffario di questi animali
feroci al tempo dell'imperatore Diocleziano, in base al quale, ad esempio, un
leone poteva essere valutato fra centomila e centocinquantamila sesterzi.
[29] Si
veda infra nt. 176 l'opposta e logica considerazione della Caiazzo (Lex
Pesolania, cit., 291) in merito all'inaccettabilità di questo
parametro per la valutazione dell'epoca di introduzione del provvedimento.
[30] In
considerazione della esiguità delle nozioni giunte in merito all'edictum de feris, numerosi studiosi
hanno ritenuto necessario in più riprese far ricorso al sistema
analogico, prendendo a modello per la sua ricostruzione fattispecie
assimilabili,. Nella fattispecie il modello logico più vicino, in
considerazione del fatto che esso tratta l'ipotesi di un danneggiamento
colposo, sanzionato un modo ugualmente grave ed oneroso e soprattutto per la
sua provenienza da attribuirsi alle originarie disposizioni degli ediles è la norma riguardante i
danni provocati dalla caduta di oggetti lasciati cadere dai piani superiori
delle abitazioni. Inoltre secondo Casavola,
Studi, cit., 149, è possibile vedere fra le ‘actiones
de feris’, ‘de
effusis et deiectis’ e ‘de posito et suspenso’ un legame particolare, nato
dalla loro comune destinazione alla sicurezza dei cives per le strade.
[31] L’inciso sibillino ‘quamvis eum non tenui’, tale per l’ambiguo uso del pronome
‘eum’ grammaticalmente riferibile indifferentemente
allo schiavo o al cane, viene analizzato nel recente contributo di Lohsse, Canem vel servum tenuit?, cit. L’Autore, esposta la sua lettura del passo (268) in favore di un
riferibilità – sebbene senza elementi lessicali definitivi –
dell’espressione al cane («If it is possible to construct any argument
out of the wording of D. 9.2.11.5, it would therefore be one in favour of the
dog being held. Both suggested arguments however are
not strong enough to exclude the other possibility») dà conto
– 266 – sia delle difficoltà interpretative sia della
più autorevole dottrina in merito.
[32] Il
passo, riportante i pareri di Proculo e Salvio Giuliano, viene ritenuto immune
da rimaneggiamenti sostanziali da F. M.
De Robertis, Damnum iniuria datum, II, Bari, 2002, 190.
[33] D.
9.2.3 (Ulpianus 18 ad ed.) Si servus servave iniuria occisus occisave
fuerit, lex Aquilia locum habet. Iniuria occisum esse merito adicitur: non enim
sufficit occisum, sed oportet iniuria id esse factum.
[34] D.
9.2.5.1 (Ulpianus 18 ad ed.) Iniuriam
autem hic accipere nos oportet non quemadmodum circa iniuriarum actionem
contumeliam quandam, sed quod non iure factum est, hoc est contra ius, id est
si culpa quis occiderit: et ideo interdum utraque actio concurrit et legis Aquiliae
et iniuriarum, sed duae erunt aestimationes, alia damni, alia contumeliae.
Igitur iniuriam hic damnum accipiemus culpa datum etiam ab eo, qui nocere
noluit.
[35] Gai.
3, 219. Ceterum etiam placuit ita demum
ex ista lege actionem esse, si quis corpore suo damnum dederit, ideoque alio
modo damno dato utiles actiones dantur, velut si quis alienum hominem aut
pecudem incluserit et fame necauerit, aut iumentum tam vehementer egerit, ut
rumperetur; [...]. Il danno
aquiliano viene normalmente associato alla locuzione ‘corpore corpori datum’. Sulla
tassatività del requisito si potrebbe discutere a lungo visto che
l'espressione, parafrasata, ricorre nuovamente nelle Institutiones imperiali I. 4.3.16 'Ceterum etiam placuit ita demum ex hac lege actionem esse, si quis
praecipue corpore suo damnum dederit' dove non può sfuggire l'uso
dell'avverbio 'praecipuae' ad
indicare una notevole inversione di tendenza rispetto all'idea che Gaio doveva
avere di questa previsione normativa.
[36] D.
9.2.27.17 (Ulpianus 18 ad ed.) Rupisse eum utique accipiemus, qui
vulneraverit, vel virgis vel loris vel pugnis cecidit, vel telo vel quo alio,
ut scinderet alicui corpus, vel tumorem fecerit, sed ita demum, si damnum
iniuria datum est: ceterum si nullo servum pretio viliorem deterioremve
fecerit, Aquilia cessat iniuriarumque erit agendum dumtaxat: Aquilia enim eas
ruptiones, quae damna dant, persequitur. Ergo etsi pretio quidem non sit
deterior servus factus, verum sumptus in salutem eius et sanitatem facti sunt,
in haec mihi videri damnum datum: atque ideoque lege Aquilia agi posse. Il
passo di Ulpiano pare in realtà non voler mettere in rilievo tanto le
modalità concrete con le quali la condotta dannosa possa produrre le sue
conseguenze lesive, quanto dare una spiegazione del verbo 'rumpere' impiegato nel terzo capo della lex Aquilia, in modo da rendere incontrovertibile la
finalità estensiva della protezione da parte dell'ordinamento contro
simili avvenimenti. Non di meno ritengo si possa desumere dalle parole del
giurista, in particolar modo dalla menzione del ‘telum’ inteso come
arma da lancio, la ricezione nell'ordinamento del principio per cui fosse
definitivamente tramontata la stretta necessità sia del contatto diretto
fra la fisicità dell'aggressore e quella dell'aggredito, sia quello
– per così dire – semidiretto come nel caso di lesione
provocata da un'arma saldamente impugnata dal danneggiante. Bisogna notare come
il termine ‘telum’
possa assumere anche un significato più generico,
comprendente anche spade ed asce ma, in questa situazione, tenderei a scartare
questo contenuto semantico in quanto nel contesto esso è impiegato in
contrapposizione ad armi da mischia come bastoni, fruste e pugni.
[37] Lohsse,
Canem vel servum tenuit?, cit., 271. L’Autore nota come alla base della
differente posizione sostenuta dai giuristi in merito alla tipologia
d’azione processuale concedibile vi sia necessarimanete una diversa
interpretazione del comportamento dell’animale «The instrument used for killing is not an
inanimate object like a sword, a missile or a cart […], but there is a
psychological element involved on the part of the instrument. […]
Usually it is said, that Proculus regarded the dog as a kind of weapon like a
sword or a beam. Julian’s opinion then is explained by reference to the
own will of the dog. An animal could not be regarded as a simple tool, so that
an additional corporeal act by the person to be held liable is necessary».
[38] Mi
riservo nel prosieguo di mettere in evidenza le implicazioni cui questa considerazione
conduce in relazione a D. 9.2.5.2 [...]
Cessabit igitur Aquiliae actio, quemadmodum, si quadrupes damnum dederit,
Aquilia cessat [...].
[39] Cfr. Kerr Wylie, Actio, cit.,
469-470. L'Autore ricostruisce il tenore originale del passo in oggetto nel
modo seguente: Item cum eo, qui canem
irritaverat et effecerat, ut aliquem morderet, [quamvis eum non tenuit,] Proculus respondit Aquiliae actionem esse: sed Iulianus [eum demum Aquilia teneri] ait, [qui tenuit et effecit ut aliquem morderet: ceterum si non tenuit,] in factum agendum. Circa
l’eventuale interpolazione del frammento, al contrario, Lohsse,
Canem vel servum tenuit ?, cit., 277 ritiene, dopo aver cercato indizi
utili allo scioglimento della questione nelle le posizioni sostenute da vari
giuristi «[…] Alfenus,
Mela and Proculus regarded these cases as falling under the scope of ‘occidere’ , whereas Ofilius Julian und Ulpian were prepared to give an
‘actio in factum’ only. D. 9.2.11.5. is a perfect example
of this controversy and should therefore not be assumed to be interpolated».
[40]
L’individuazione del confine fra le situazioni che i giuristi romani
considerarono risolvibili per mezzo di formulae
utiles piuttosto che in factum
rimane tuttora un mistero – che molti autori si sono sforzati di
risolvere impiegando la logica – sul quale rimangono quanto meno dei
punti oscuri. Per una analisi della questione è d’aiuto il recente
contributo della Ziliotto, L’imputazione, cit.,
61-78, cui rinvio, per un confronto critico fra le recenti tesi dottrinali in
tema (Albanese, Valiño, von Lübtow, Sotty, Selb, Santoro). Quanto
sappiano per certo in merito, in realtà si tratta semplicemente di una
constatazione empirica, è quanto si evince da D. 19.5.11 (Pomponius 39
ad Q. Muc.) Quia actionum non
plenus numerus esset, ideo plerumque actiones in factum desiderantur. Sed et
eas actiones, quae legibus proditae sunt, si lex iusta ac necessaria sit,
supplet praetor in eo quod legi deest: quod facit in lege Aquilia reddendo
actiones in factum accommodatas legi Aquiliae, idque utilitas eius legis exigit.
Nonché, in tema di actio negotiorum gestorum, D. 3.5.46(47) (Paulus Libro primo sententiarum) […]
Nec refert directa quis an utili actione agat vel conveniatur, quia in extraordinariis
iudiciis, ubi conceptio formularum non observatur, haec subtilitas supervacua
est, maxime cum utraque actio eiusdem potestatis est eundemque habet effectum.
Recentemente A. Corbino, Il danno qualificato, cit., 207-230,
propone in merito delle interessanti riflessioni. Quello che pare poco
verosimile, in una ottica di contestualizzazione storica delle parole dei
giuristi, è l'attribuzione ad un caposcuola del primo secolo d. C.,
quale Proculo, di una soluzione così elastica, per non dire superficiale
o spregiudicata, nella valutazione dei requisiti minimi per l'applicazione
della lex Aquilia. Il giurista classico, come chiaramente esposto da Macqueron, Dommages, cit., 148, «Il est invresemblable que Proculus ait pu
croire possible l'action directe: les Proculiens compraient ordinairement de la
façon la plus stricte que le 'damnum' doit être 'corpore datum'». Vista la sede di queste considerazioni mi esimo, pur se il
discorso potrebbe presentare alcuni spunti interessanti, dall'affrontare la
questione del peso che queste modalità espressive potessero avere per i
giuristi giustinianei i quali, ormai da diversi secoli, avevano intrapreso una
via processuale ben diversa da quella per
formulas, in cui i termini utilis ed
in factum rivestivano un ruolo
incomparabile rispetto a quello da loro giocato in ambito di cognitio extra ordinem.
[41] Come
semplice esemplificazione, senza nessuna pretesa di esaustività, si
vedano in merito i passi D. 9.2.11.9-10, D. 9.2.12, D. 9.2.27.32, D. 9.2.30.1
riguardo all'actio utilis ed i
frammenti D. 9.2.7.6, D. 9.2.9pr., D. 9.2.9.2-3 esemplificativi delle azioni in factum concesse rispettivamente in
mancanza di perfetta corrispondenza rispetto ai requisiti della lesione aquiliana
e di situazioni ancor più distanti dall'originaria previsione normativa.
[42] Come
si può notare, ad esempio nel passo che riporterò di seguito, la
situazione presentata da Ulpiano è relativamente simile ma risolta in
modo difforme: durante uno spostamento a cavallo l'animale viene fatto
imbizzarrire dolosamente al fine di provocare la caduta in acqua dell'homo equitans ed il suo conseguente
annegamento. D. 9.2.9.3 (Ulpianus 18 ad
ed.) Si servum meum equitantem
concitato equo effeceris in flumen praecipitari atque ideo homo perierit, in
factum esse dandam actionem Ofilius scribit: quemadmodum si servus meus ab alio
in insidias deductus, ab alio esset occisus. Anche in questo caso si prende
in considerazione una fattispecie in cui è solamente l'azione
dell'animale – forzata dall'intenzionalità umana – a
cagionare l'evento dannoso ma la soluzione giuridica in base alla quale
chiedere giustizia e composizione pecuniaria, diversamente dal 'Aquiliae actionem esse', è
esclusivamente identificata in una azione in
factum. Si potrebbe argomentare a contrario questa situazione
sostenendo che vi è la teorica possibilità che l'attacco del
cane, diversamente dall'azione lesiva del cavallo, si sia verificato mantenendo
un contatto – per lo meno simbolico – con il corpo del conduttore
da identificarsi con il guinzaglio. L'ipotesi non mi sembra convincente per due
ordini di ragioni, in primo luogo non credo sia paragonabile il comportamento
di una spada o una freccia – indirizzate verso il bersaglio e spinte ad
esso in funzione di un impulso fisico ed alla mira dell'uomo danneggiante
– all'attacco di un animale, in cui vengono impiegate la forza, le
capacità ed abilità innate dell'animale. In secondo luogo la
sostanza dei fatti dimostra che in un caso di attacco ordinato all'animale,
come quello prospettato da Proculo ed Ulpiano, il conduttore sarebbe portato a
liberare preliminarmente l'animale dal guinzaglio o per tenersi lontano dalla
mischia o per avere l'opportunità di attaccare anch'egli
contemporaneamente il bersaglio con altri mezzi d'offesa. Solo incidentalmente,
a conforto di questa ricostruzione empirica della situazione, mi sembra il caso
di ricordare come nella nostra lingua sia accolto il significato del verbo
'sguinzagliare', accanto al predominante significato di «mandare alla
ricerca di», quello di sinonimo di «aizzare contro».
[43] Mi
riferisco all’evoluzione della procedura civile che ha comportato, col
passare del tempo ed il sovrapporsi della procedura extra ordinem a quella
formulare, un fisiologico disinteresse o un ridotto grado di attenzione dei
giuristi alla tipologia (dal punto di vista della caratterizzazione formulare)
della azione concedibile alle parti.
[44] Il
contributo dell’Autrice – più volte citato – L’imputazione, cit.,
meriterebbe maggiore spazio ma in questa sede mi limiterò a riportare
alcuni punti salienti a pag. 10-11 «[…] Colpisce che i verba
legis siano stati oggetto (in epoca classica) di una interpretazione
evolutiva in senso estensivo e per altri, invece, di una interpretazione
rigorosamente restrittiva. Sotto il primo profilo basti ricordare il processo
interpretativo che ha portato i giuristi classici ad elaborare il concetto di
colpa partendo da quello di iniuria; e inoltre il processo interpretativo
in materia di danno […] ha indotto a valutare l’entità del
danno in base all’interesse del danneggiato anziché in base al
valore della cosa. Sotto il secondo profilo, quello cioè restrittivo, va
invece notato che i giuristi […] restano ancorati ad una interpretazione
rigorosa dei verbi attraverso i quali il testo originario individuava le
condotte vietate». Inoltre a pag. 22 «L’affermazione secondo
cui la giurisprudenza repubblicana interpretava estensivamente il termine occidere
richiede una precisazione. […] Questo risultato era raggiunto facendo
perno sull’elemento dell’iniuria e ‘saltando’ il
problema della interpretazione letterale dei verbi (rectius: dei
comportamenti tipici da essi connotati)».
[45] Si
veda ad esempio la scelta dei frammenti utilizzati dai compilatori come incipit per il titolo in questione D. 9.2.4pr. (Gaius 7 ad ed. provinc.)
Itaque si servum tuum latronem insidiantem mihi occidero, securus ero: nam
adversus periculum naturalis ratio permittit se defendere. D. 9.2.4.1 (Gaius 7 ad ed. provinc.) Lex duodecim tabularum furem noctu
deprehensum occidere permittit, ut tamen id ipsum cum clamore testificetur:
interdiu autem deprehensum ita permittit occidere, si is se telo defendat, ut
tamen aeque cum clamore testificetur. D. 9.2.5pr. (Ulpianus 18 ad ed.) Sed et si
quemcumque alium ferro se petentem quis occiderit, non videbitur iniuria
occidisse: et si metu quis mortis furem occiderit, non dubitabitur, quin lege
Aquilia non teneatur. Sin autem cum posset adprehendere, maluit occidere, magis
est ut iniuria fecisse videatur: ergo et cornelia tenebitur. Sul valore e l’interpretazione del
concetto di legittima difesa si veda A. Wacke,
Defence, cit., 527 ss. ed in particolare «Similar considerations were employed to limit
the fifth commandament ‘thou shalt not kill’. The
prohibition to kill was, even by Agostinus, understood to imply the prohibition
to commit suicide (‘non occides nec alterum ergo nec te’). He who
tolerates to be slaughtered unresistingly was put on the same level as the one
who committed suicide». Il
contributo dell’Autore analizza inoltre i risvolti giuridici dell’aberratio ictus e dell’eccesso di difesa.
[46] Nel
testo ricorrerò numerose volte al termine 'conduttore' in senso tecnico
ma non giuridico. Ben lungi infatti dal volermi riferire a delle varie
fattispecie di locatio conductio,
intenderò il termine in relazione alla prassi di identificare in questo
modo il soggetto che guida il cane e da esso viene obbedito, a prescindere dal
fatto che la persona sia identificabile con il dominus o con un altro soggetto, come ad esempio un filius familias od uno schiavo,
incaricato di accudire e sorvegliare l'animale.
[47] Mi
permetto inoltre di segnalare quanto possa essere scolastico il caso di un cane
che venga aizzato contro un bersaglio da un soggetto sconosciuto o con
modalità casuali. Di norma solo un animale addestrato può agire
su comando di una persona ma l'addestramento, contestualmente, impone
all'animale di prendere ordini solo da soggetti noti. Naturalmente, ove
l'animale non agisse su ordine altrui, palesemente non si avrebbe l'esistenza
del requisito minimo per l'azione aquiliana.
[50] Solo
incidentalmente mi pare il caso di ricordare come l'azione aquiliana abbia come
scopo principale la persecuzione del soggetto che avesse provocato un danno
materiale e pecuniariamente valutabile, in quanto causa di una diminuzione
patrimoniale del soggetto leso. Il soggetto passivo della lesione non è
dunque direttamente lo schiavo o il bene menomato ma il soggetto che lo aveva
nel proprio patrimonium.
[51] Il
passo presenta l'estensione analogica per altri casi di diminuzione
patrimoniale dovuta a spese mediche a favore di un filius familias (di condizione ovviamente non servile), il quale
abbia ricevuto un danno permanente a causa di un insegnante troppo zelante
nell’infliggere dei correttivi. L'attenzione ed i dubbi dei giuristi
citati non si incentrano infatti sullo
status libertatis del danneggiato, quanto sulla esistenza o meno del
requisito della iniuria nell'atto di
danneggiare. D. 9.2.5.3 (Ulpianus 18 ad
ed.) Si magister in disciplina
vulneraverit servum vel occiderit, an Aquilia teneatur, quasi damnum iniuria
dederit? Et Iulianus scribit Aquilia teneri eum, qui eluscaverat discipulum in
disciplina: multo magis igitur in occiso idem erit dicendum. Proponitur autem
apud eum species talis: sutor, inquit, puero discenti ingenuo filio familias,
parum bene facienti quod demonstraverit, forma calcei cervicem percussit, ut
oculus puero perfunderetur. Dicit igitur Iulianus iniuriarum quidem actionem
non competere, quia non faciendae iniuriae causa percusserit, sed monendi et
docendi causa: an ex locato, dubitat, quia levis dumtaxat castigatio concessa
est docenti: sed lege Aquilia posse agi non dubito […] D. 9.2.7pr. (Ulpianus 18 ad ed.) Qua actione patrem consecuturum ait, quod
minus ex operis filii sui propter vitiatum oculum sit habiturus, et impendia,
quae pro eius curatione fecerit.
[52]
Situazioni di minore rilevanza, comunque espressamente contemplate nel titolo
D. 9.2, parlano di legittimazione attiva – in fattispecie di azione in factum o utilis – anche a favore del titolare di un diritto reale
minore, come ad esempio in D. 9.2.11.10, D. 9.2.12, D. 9.2.27.32. Non bisogna
dimenticare infatti la natura pecuniaria dell'azione aquiliana, pensata per
giungere alla riparazione di un danno esclusivamente patrimoniale, implichi una
legittimazione processuale anche a favore di soggetti privi del diritto di
proprietà, ma che abbiano subito, (sebbene collateralmente) un
diminuzione patrimoniale, ad esempio causata dall'impossibilità di
godere di un bene in usufrutto.
[53] D. 9.2.33pr. (Paulus
2 ad Plaut.) Si servum meum
occidisti, non affectiones aestimandas esse puto, veluti si filium tuum
naturalem quis occiderit quem tu magno emptum velles, sed quanti omnibus
valeret. Sextus quoque Pedius ait pretia rerum non ex affectione nec utilitate
singulorum, sed communiter fungi: itaque eum, qui filium naturalem possidet,
non eo locupletiorem esse, quod eum plurimo, si alius possideret, redempturus
fuit, nec illum, qui filium alienum possideat, tantum habere, quanti eum patri
vendere posset. In lege enim Aquilia damnum consequimur: et amisisse dicemur,
quod aut consequi potuimus aut erogare cogimur.
[54] In
questo contesto mi permetto di impiegare congiuntamente tali concetti; bisogna
però tenere conto, in un’ottica più generale, di come nella
lunga storia evolutiva dell'azione aquiliana si sia passati da un concetto di
quantificazione del danno a fini esclusivamente sanzionatori dell'azione penale
(cfr. Cannata, Sul testo, cit., 34) a quello maggiormente
risarcitorio del pregiudizio economico subito dal dominus. Si arrivò dunque ad un ripianamento del danno
patrimoniale in una ottica reipersecutoria all'interno della quale,
però, non venne mai cancellato il riferimento al maggior valore del bene
leso, tanto che questa componente di ‘quid
pluris’ garantì alla natura di questa azione, anche in epoca
giustinianea, una connotazione mixta.
[55] D.
9.3.7 trae la propria importanza in questo contesto dalla
possibilità di impiegare alcune delle norme giuridiche del titolo D. 9.3
‘De his qui effuderint vel
deiecerint’ ad integrazione delle nozioni in nostro possesso circa
l’actio contemplata nell’edictum de feris in tema di
danneggiamento da animale causato da colpa.
[56] Cfr.
per esempio D. 9.2.23.3 (Ulpianus 18 ad
ed.) Idem Iulianus scribit
aestimationem hominis occisi ad id tempus referri, quo plurimi in eo anno fuit:
et ideo et si pretioso pictori pollex fuerit praecisus […].
[57]Si veda
anche A. Marchi, Il risarcimento del danno morale secondo il diritto
romano, in «BIDR.»,
XVI, 1904, 202.
[58] Come
meglio dirò innanzi, tutt'altra soluzione si profilerà in
relazione alle pauperies. Sebbene l'actio
de pauperie oggi non ponga particolari problemi in relazione all'identificazione
della sua natura, si vedano per tutti Marrone,
Istituzioni, cit., 538 che definisce
l'azione in questione come «nossale ma non penale poichè
alternativo alla noxae deditio
è un risarcimento, non il pagamento di una poena» e Kerr Wylie,
Actio, cit., 466 «Theoretically, it seems, the 'actio de
pauperie' was rekoned as penal in its nature. This, however, was merely a historical reminiscence.
For pratical purposes the action in classical times fulfilled an exclusively
function and its incidents were regulated on this footing». Contra, ma in
modo isolato, De Robertis, Damnum,
cit., 87 ss. per cui l'iter evolutivo dell'azione sarebbe
esattamente opposto a quanto pensato dagli altri studiosi, per cui passando da
una originaria natura reipersecutoria essa si sarebbe trasformata in penale,
con le logiche conseguenze di elettività e cumulatività fra
azioni. La questione, nel periodo precedente agli anni '30 del XX secolo, era
invece molto più controversa e dibattuta. Ritengo, infatti, sia il caso
di ricordare il vivace dissenso che coinvolse Biondi, Lenel e De Visscher in
merito a diversi aspetti riguardanti le azioni nossali nel 1925, in seguito
alla pubblicazione del lavoro del maestro italiano (Le 'actiones noxales' nel diritto romano, cit.). In particolare ritengo
interessante sottolineare come, partendo da considerazioni in tema di capacitas
iniuriarum e di capacità di prefigurazione delle conseguenze dei una
propria azione, il Biondi ritenga impossibile, o quanto meno inesatto, inserire
all'interno delle azioni nossali in senso proprio anche l'actio de pauperie.
Essa infatti differisce dai casi di responsabilità di un soggetto sui
iuris per azioni compiute da un figlio non emancipato o da uno schiavo in
base alla lampante considerazione che non possono essere posti su uno stesso
piano l’atto di un essere umano, per quanto eventualmente di condizione
servile, e quello di un animale. A conforto della propria posizione Biondi
ricorda l’introduzione e l’uso continuo di due termini tecnici
differenti – come tali non fungibili – quali damnum e pauperies
per definire l’azione lesiva rispettivamente compiuta da un filius
o da uno schiavo in contrapposizione a quella causata da un qualsiasi
animale. Biondi, In tema, cit., 373 si chiede «Se
noxa si ricollega sempre ai concetti di pena e di colpa, e se d’altra
parte i giuristi parlano tecnicamente di pauperies per gli
animali appunto per distinguere il danno degli animali dalla iniuria è
possibile che la terminologia ed il concetto di noxa e di actio
noxalis si siano estesi anche ai danni commessi dagli animali?».
L’Autore si risponde quindi facendo riferimento a D. 9.1.1.3: 'pauperies
est damnum sine iniuria facientis datum: nec enim potest animal iniuria
fecisse, quod sensu caret'. Posizione ribadita in Sistema, cit., 403 «Certamente actio de
pauperie ed actiones noxales presentano elementi comuni, tanto che
Giustiniano, come ho sostenuto, ha inquadrato la prima nelle seconde, ma
ciò non toglie che fra i due istituti vi sia sostanziale differenza
[…]». In accordo con la teoria del Biondi sulla trasformazione
postclassica di questa azione – ma con parole pungenti verso i giuristi
del VI secolo – Kerr Wylie,
Actio, cit., 464 «In the Justinian law, however, the noxal actions
and the 'actio de pauperie' are assimilated, both being brought under a
category of noxal actions in the wide sense. [...] The result of assimilation were in many respects
grotesque: the policy of Justinian's Compilers in this matter was entirely
retrograde and, in fact, tended to make the law enter in a second childhood.
Whithout doubt, in primitive times injuries committed by animals were dealt
with in the same way as injuries committed by subordinate persons, the
vengeance idea being the basis of liability in both cases. The whole course of
evolution, culminating in the classical law, was, however, towards a separation
of the legal conseguences of the two categories of injuries». L'Autore
(476) motiva ulteriormente la ragione che avrebbe mosso i compilatori verso una
rinnovata responsabilizzazione del genus animale, indicandola in una
concezione (definita «pseudo-philosophical») basata sul 'ius
naturale'. I giustinianei, supponendo quindi l'esistenza di un disegno
generale cui fossero inseriti uomini ed animali, non poterono esimersi dal
teorizzare situazioni in cui anch'essi, discostandosene, agissero (usando
l'espressione tanto discussa dalla critica) 'contra naturam'.
[59]
L’ipotesi non doveva essere certo rara se il poeta Giovenale nella Satira
III, 268-77 scrive 'Respice nunc alia ac
diversa pericula noctis:/ quod spatium tectis sublimibus unde cerebrum/ testa
ferit, quotiens rimorsa et curta fenestris/ vasa cadant, quanto percussum
pondere signent/ et laedant silicem. Possis ignavus haberi/ et subiti casus
inprovidus, ad cenam si/ intestatus eas: adeo tot fata, quot illa/ nocte patent
vigiles te praetereunte fenestrae./ Ergo optes votumque feras miserabile
tecum,/ ut sint contentae patulas defundere pelves'. Giovenale, Satire, trad. E. Barelli, Milano, 1989, 84-85 «E pensa ora a
tutti i diversi pericoli della notte: la distanza da te alla cima dei tetti, da
dove una tegola può sempre piombar giù e spaccarti la testa: i
vasi crepati e rotti che spesso cadono dalle finestre: guarda che segni
lasciano sul marciapiede! Può capitarti d’essere preso per un
pigro o un improvvido, che non si cura degli incidenti improvvisi, se esci di
casa per recarti ad una cena da qualche parte senza prima aver fatto
testamento. Tante volte puoi morire, quante sono di notte le finestre aperte
sulla strada per la quale tu passi. Augurati quindi, e porta con te miserevole
speranza, che le finestre si accontentino di versarti sulla testa il contenuto
dei loro catini».
[60] Per
quanto l'animale non sia in grado di agire per iniuria, è
indiscutibile il fatto che possa (sebbene in modo limitato), dissimilmente da
un oggetto inanimato, prefigurarsi l'esito delle proprie azioni. E' sufficiente
constatare – il fatto è lampante in un cane – come la forza
dell'animale venga diversamente graduata nelle situazioni di gioco, di lotta
per stabilire le gerarchie all'interno dei branco o, infine, nel caso estremo
della caccia, qualora l'animale viva allo stato selvatico.
[61] Si
confronti, a dimostrazione della persistenza di questa impostazione logica,
anche il tenore di Fr. Aug. 4,87 '[...] Animalibus non est similis
tractatio in poenis his quae ratione carent’.
[62] D.
4.3.7.6 è stato tacciato di numerosi rimaneggiamenti. Levy - Rabel, Index interpolationum,
I, Weimar, 1929, segnalano un dubbio sulla originalità della seconda
parte del passo ‘quamvis–excedit’; Pernice, Marcus Antistius Labeo, II, Halle, 1873, 210 nt. 1. Sempre
sul passo Levy - Rabel, Index
interpolationum, Supplementum,
I, Weimar, 1929, segnalano come esito di una possibile modifica la
porzione ‘si dominus’ fino al termine del passo. Si vedano in merito Haymann,
Textkritische Studien zum römischen
Obligationenrecht, in «ZSS.», 40 (1919), 199 nt. 3; Pringsheim, Subsidiarität und Insolvenz, in
«ZSS.»,
41 (1920), 255 nt. 7 e 257; Levy,
Die Konkurrenz der Aktionen und Personen im klassischen römischen Recht,
vol. II-1, Berlin, 1912, 189 nt. 6, 202 nt. 3, 226 nt. 1. E’
stata inoltre segnalata la possibilità che il passo, nell’ultima
parte del passo da ‘quamvis’ fino al termine, da Krüger nel Supplementa
adnotationum.
[63] La
trattazione – dal punto di vista formale – si interrompe, dunque,
per dar modo al giurista di sottolineare come la bontà delle proprie
osservazioni fosse confermata da una coincidenza di vedute con il repubblicano
Labeone. In questo caso, lo scopo della citazione dell’illustre giurista
repubblicano, come in molti altri casi all’interno delle opere giuridiche
dell’epoca, può essere individuato in una duplice finalità
da parte dell’autore incerto o non sufficientemente convinto delle
proprie argomentazioni: ottenere un’attestazione di
validità ed anche, probabilmente, in
considerazione del lungo lasso di tempo intercorso fra i periodi di
attività dei due giuristi, di estrema stabilità e
consolidamento della teoria giuridica su cui si fondano le argomentazioni del passo.
[64] In
merito a questa ipotesi bisogna notare come l’insoddisfazione –
parziale o completa che fosse – della legittima aspettativa
dell’attore vittorioso ad una reintegrazione patrimoniale del danno
subito non poteva essere sufficiente alla concessione di una nuova azione nei
confronti di un diverso soggetto solvibile, a prescindere da quale fosse la
ragione del suo coinvolgimento nella vicenda. Anche se l’azione si
sarebbe potuta connotare di diversi elementi diversificanti rispetto a quella
precedentemente concessa (il chiamato il giudizio nonché la causa
petendi – si tratta, in effetti, della qualifica di dominus di
un animale danneggiante in un’actio de pauperie rispetto
all’ideazione di una attività lesiva in una actio doli –
in funzione del quale rispondere del fatto) il pretore avrebbe potuto solo
bloccare la nuova pretesa dell'attore. Interessante, sebbene per ampiezza del
discorso al di fuori delle finalità di queste pagine, sarebbe
identificare chiaramente il soggetto – e dunque le modalità
– al quale sarebbe spettato il compito di farsi promotore di questa
esigenza: se al nuovo convenuto mediante la richiesta di inserimento nella
formula di un’exceptio rei iudicatae vel in iudicium deductae,
oppure al pretore, anch'esso potenzialmente ignaro di quanto accaduto
precedentemente alla chiamata in giudizio dell'istigatore dell'animale, in
forza della propria autonomia nella creazione del iudicium connessa alla
sua facoltà di denegare l'azione richiesta, con le inevitabili
ripercussioni circa la necessità di svolgere o meno la fase apud
iudicem del processo. Sull'argomento si veda, anche per i rinvii alla
letteratura più recente, G.
Impallomeni, Scritti di diritto romano e tradizione romanistica,
Padova, 1996, 631-642 [= Studi in memoria di Augusto Cerino Canova, I,
Bologna, 1992, 149-160]. Volendo proseguire però – ab absurdo –
nella ricerca delle conseguenze dell’esistenza contemporanea delle due
sentenze, esito della doppia concessione pretoria sia di un’actio doli
sia di una actio de pauperie, si può notare come emerga una
aporia logica in base alla quale l’ordinamento stabilirebbe che lo stesso
avvenimento lesivo fosse contemporaneamente riconducibile a due soggetti
diversi ed a due contegni non conciliabili fra loro. Esito, infatti, della
doppia condanna basata su entrambe le azioni appena nominate sarebbe quello di
individuare nel terzo e nell’animale i soggetti cui ricondurre la
volontà lesiva, dato inverosimile poiché presupposto della condanna
in funzione dell’actio de pauperie è per l’appunto
l’autonoma determinazione dell’animale – per quanto le sue
capacità mentali possano arrivare a compiere – alla realizzazione
dell’azione lesiva, ovviamente inconciliabile con l’istigazione ad
agire da parte di chiunque altro.
[65] Alla
luce della finalità di reintegrazione della lesione patrimoniale subita,
si pone il problema di bilanciare da un lato la problematicità di
ottenere l’esborso della summa
condemnationis da parte di un cattivo pagatore, rispetto alle maggiori difficoltà
di giungere ad una effettiva condanna di convenuto solvibile. Ritengo,
sull’onda di quello che mi pare essere implicitamente lo spirito del
giurista, possa essere preferibile la prima delle due incognite favorendo
l’azione che richieda, a carico dell’attore, il minor numero
possibile di condizioni da appurarsi in sede processuale. L’azione de pauperie avrebbe il pregio, rispetto
alle altre teoricamente a disposizione (dal cui numero si esclude quella ex lege aquilia per via del contenuto di
D. 9.1.1.6), di richiedere per la condanna del convenuto di dimostrare solo che
l’animale fosse soggetto alla proprietà del dominus citato in giudizio e che il suo comportamento non fosse
riconducibile alla ‘naturale
feritatem’ (D. 9.1.1.10) della sua specie. In definitiva si tratta di
capitoli di prova il cui contenuto pare di agile raggiungimento, rispetto alla
dimostrazione della colpa o (ancor peggio) del dolo di un terzo. A
quest’ultuima ipotesi, pur sempre indicata con un ‘et placuit mihi, quod Labeo scribit’,
l’estensore del frammento probabilmente, per completezza, riserva uno
spazio per venire in contro a quelle situazioni in cui non vi fosse alcun tipo
di rimedio meno avventuroso.
[66] Macqueron, Dommages, cit., 149-151.
L'Autore, per giungere ad una conservazione del passo che eviti l'ipotesi per
cui Ulpiano abbia effettivamente scritto le «hérésies
juridiques que le texte lui attribue», teorizza una sintesi compilatoria
di un caso complesso in cui il dolo del terzo non escludesse la
responsabilità dell'animale. Si tratterebbe di una situazione nella
quale l'azione dolosa del terzo abbia influenzato non tanto l’animale
quanto il danneggiato al fine di fargli tenere un comportamento che abbia
potuto scatenare la reazione dannosa dell'animale. La ricostruzione è
senza dubbio affascinante e logica, sebbene non vi siano riscontri testuali che
possano avvalorare le invasive integrazioni necessarie al suo sostegno.
[67] D.
4.3.1.1 (Ulpianus 11 ad ed.) Verba autem edicti talia sunt: ‘quae dolo malo facta esse’
dicentur, si de his rebus alia actio non erit et iusta ‘causa esse
videbitur, iudicium dabo.’
[68] La
ricostruzione del tenore della clausola edittale secondo Lenel non prevede
positivamente questa caratteristica – Lenel,
Das Edictum, cit., 114 ss. – 'Verba autem edicti talia sunt:
quae dolo malo facta esse dicetur, si de his rebus alia actio non erit et iusta
causa esse videbatur, intra annum, cum primum experiundi potestas fuerit,
iudicium dabo'. Per giungere poi alla ricostruzione di una formula di
questo tenore 'Si paret dolo malo Ni. Negidii factum esse, ut As. Agerius
No. Negidio (Lucio Titio)
fundum quo de agitur mancipio daret neque plus quam annus est cum experiundi
potestas fuit neque ea res arbitrio iudicis restituetur, quanti ea res erit,
tantam pecuniam iudex Nm. Negidium Ao. Agerio condemnato; si non paret
absolvito'.
[69] La
questione della sussidiarietà dell’actio doli, specialmente
in relazione alla insolvenza del chiamato, ha suscitato l’interesse degli
studiosi senza risparmiare nemmeno l’apparente stabilità delle
peculiarità dell’actio de dolo. Sulla questione si vedano A. Masi, Insolvenza dell’obbligato e sussidiarietà
dell’actio doli, in «Studi Senesi», LXXIV,
1962, 40 ss., A. Guarino, La
sussidiarietà dell’actio
doli, in «Labeo», VIII, 1962, 270 ss. [= Pagine di
diritto romano, vol. VI, Napoli, 1995, 281 ss.], B. Albanese, Ancora in tema di sussidiarietà dell’actio de dolo, in
«Labeo», IX, 1963, 42
ss.; inoltre questo Autore già in precedenza si era occupato del contenuto
di questo passo in La nozione del furtum fino a Nerazio, in «Annali Palermo», XXIII, 1953, 98. Proprio in conseguenza del
dibattito fra Guarino ed Albanese, infatti, l’Autore napoletano scrisse (La
sussidiarietà, cit., 290) «La sussidiarietà dell’actio
de dolo, non stabilita espressamente nell’editto, più che in
una ferma regola, era un orientamento generale, passibile, entro certi limiti,
di molteplici deviazioni. La troppo rigida applicazione del principio di
sussidiarietà si sarebbe risolta in una negazione di quelle esigenze
equitative, cui aveva obbedito Aquilio Gallo nell’emanare l’edictum
de dolo».
[70] Albanese, Ancora in tema di
sussidiarietà, cit., 46, puntualizza come l’opera del
magistrato nella creazione di una formula adeguata all’ipotesi di
insolvenza in una fattispecie di questo tipo non rappresenti «una vera e
propria estensione positiva; bensì soltanto una rinunzia
all’interpretazione restrittiva. Non va dimenticato, infatti, che la
clausola edittale diceva si alia actio non erat e che, quindi, il farla
entrare in gioco anche nel caso di actio adversus alium costituiva una
audace interpretazione (estensiva della clausola) restrittiva
dell’applicazione dell’actio doli».
[71] B. Albanese, La sussidiarietà
dell’actio de dolo,
estratto da «Annali del
Seminario Giuridico di Palermo», Palermo, 1961, 49.
[72]
Sintetizzando il pensiero dell’Autore (Albanese,
La sussidiarietà dell’actio,
cit., 49-50), l’actio de dolo sarebbe stata esperibile non
solo nei casi in cui non vi fosse a disposizione alcun tipo di formula
specifica, ma anche in tutte le situazioni in cui vi fosse, da parte
dell’ordinamento, un legittimo dubbio sulla concreta esperibilità
di un mezzo processuale, proprio come nel caso della all’actio utilis
ex lege Aquilia. A parere dell’Autore, al tempo di Labeone, il dubbio
circa l’applicazione di una formula derivata dal plebiscito aquiliano
doveva essere legittimo, per lo meno dal punto di vista di una sistematica
applicazione di questo espediente processuale. Nell’epoca dei Severi e di
Ulpiano, al contrario, non vi sarebbe dovuta essere alcuna perplessità
circa l’esistenza di un rimedio alternativo all’actio de dolo
('an alia actio sit'), ragion per cui Albanese ritiene probabile che il
giurista, nella redazione originale di questo passo, si fosse espresso contro
l’applicazione del rimedio generale. L’Autore spiega la propria
ricostruzione teorica della parte finale di D. 4.3.7.6 affermando che essa
«Ben può spiegarsi con l’accertata volontà compilatoria
di cancellare quanto più possibile ogni traccia dell’ actio
utilis ex lege Aquilia. Quell’alterazione può spiegarsi,
inoltre, con l’intento compilatorio di eliminare il contrasto storico tra
le posizioni di Labeone e di Ulpiano».
[73] Albanese, La sussidiarietà
dell’actio,
cit., 50 «Quel che è certo è che il cenno alla
solvibilità o meno del dominus quadrupedis – legato
com’è al presupposto assurdo d’una sua responsabilità
de pauperie – non può ascriversi a mano classica».
[74]
Naturalmente, malgrado l'antica connotazione penale della lex Aquilia, persa in favore di quella di actio mixta, il riferimento alla dazione nossale del colpevole
risulterebbe abbastanza anomalo, essendo certamente più logico quello al
pagamento di un quantum.
[76] Si
veda in aggiunta, in relazione alla valutazione esclusivamente patrimoniale ed
oggettiva (fino all'inverosimile per i criteri odierni) del bene danneggiato il
già citato (supra nt. 53) D.
9.2.33pr. (Paulus 2 ad plaut.) Si servum meum occidisti, non affectiones
aestimandas esse puto [...]. In lege
enim Aquilia damnum consequimur: et amisisse dicemur, quod aut consequi
potuimus aut erogare cogimur.
[77] Ci si
riferisce normalmente sia a caratteristiche fisiche sia d'indole quali la
territorialità, l’aggressività, l’agilità e la
resistenza fisica. Columella, De
re rustica 7,12,1 enumera quali dovrebbero essere le caratteristiche di un
cane in funzione della sua destinazione produttiva 'Quare vel in primis hoc animal mercari tuerique debet agricola, quod et
villam et fructus familiamque et pecora custodit. Eius autem parandi tuendique
triplex ratio est. Namque unum genus adversus hominum insidias eligitur, et id
in villam quaequae iuncta sunt villae custodit. At alterum propellendis iniuriis hominum ac
ferarum; [...] tertium
venandi gratia comparatur; [...]
Villae custos eligendus est amplissimi corporis, vasti latratus canorique ut
prius audito maleficio, deinde etiam conspectu terreat, et tamen nonnunquam ne
visus quidem horribili fremitu suo fuget insidiantem. Sit autem coloris unius;
isque magis eligatur albus in pastorali, niger in villatico: nam varius in
neutro est laudabilis. Pastor album probat, quoniam est ferae dissimilis, [...]
Villaticus, qui hominum maleficiis
opponitur, sive luce clara fur advenit, terribilior niger conspicitur [...]. Probantur quadratus potius quam longus aut
brevis, capite tam magno ut corporis videatur pars maxima, deiectis et
propedentibus auribus, nigris vel glaucis oculis acri lumine radiantibus, amplo
villosoque pectore, latis armis, cruribus crassis et hirtis, cauda brevi,
vestigiorum articulis et unguibus amplissimis, qui Graece δρακες
appellantur'.
[78] D.
9.1.3 (Gaius 7 ad ed. provinc.) Ex hac lege iam non dubitatur etiam
liberarum personarum nomine agi posse, forte si patrem familias aut filium
familias vulneraverit quadrupes: scilicet ut non deformitatis ratio habeatur,
cum liberum corpus aestimationem non recipiat, sed impensarum in curationem
factarum et operarum amissarum quasque amissurus quis esset inutilis factus.
Wylie legge il passo in questione nel modo seguente: Ex hac lege iam non dubitatur [etiam
liberarum personarum nomine] agi
posse, [forte] si [patrem
familias aut filium familias] <liberam
personam> vulneraverit quadrupes:
scilicet ut non deformitatis ratio habeatur, cum liberum corpus aestimationem
non recipiat, [sed impensarum in
curationem factarum et operarum amissarum quasque amissurus quis esset inutilis
factus].
[79] D.
9.1.1.11 (Ulpianus 18 ad ed.) Cum arietes vel boves commisissent et alter
alterum occidit [...].
[80] D.
9.1.1pr., D. 9.1.1.2, D. 9.1.1.4, D. 9.1.1.8, D. 9.1.1.9, D. 9.1.1.12, D.
9.1.1.15, D.9.1.3, D. 9.1.4, D. 9.1.1.9, D. 9.1.1.12, D. 9.1.1.15, il titolo
del Digesto naturalmente contempla anche, per contrapposizione, categorie come
quella delle ‘ferae’ e
delle ‘bestiae’ in
relazione alle caratteristiche di aggressività, senza riferimento alla
classificazione fra le res mancipi o
meno. Sull'impiego della nozione di ‘quadrupes’ si veda Onida,
Studi, cit., 213-55.
[81] Il
lemma ‘bestia-ae’ pare essere
un termine di origine piuttosto antica, impiegato frequentemente come sinonimo
di ‘belva’, utlizzato comunemente, nelle
trattazioni di tipo giuridico, per indicare indifferentemente animali selvatici
o domestici ma con una vocazione specifica ad indicare gli «animaux
féroces terrestres». Il termine ‘fera’ non presenta alcun tipo di ambivalenza, indicando
esclusivamente animali con caratteristiche opposte a quelle tipiche della
mansuetudine. Per entrambi i lemmi cfr. A. Ernout – A. Meillet, Dictionnaire étimologique, cit.,
s. v. belva e fera. In contrapposizione all’accezione impiegata nel passo D.
3.1.1.6 (Ulpianus 6 ad ed.) […] Bestias autem accipere debemus ex feritate magis, quam ex animalis
genere […].
[82] Dovendosi
per ovvie ragioni far riferimento esclusivamente ad animali in dominio che possano presentare un
margine di pericolosità non ininfluente, questi ultimi paiono essere gli
unici realmente pericolosi. Sarebbe interessante verificare come i giuristi classici
avrebbero risolto il problema delle lesioni provocate da uno sciame d’api
allevato entro le proprietà di un civis.
Questi insetti infatti non presentano il carattere di aggressività tale
da renderle propriamente animali feroci, tanto che le persone dotate di debita
esperienza possono maneggiare con relativa sicurezza le arnie. Nel caso,
invece, di animali pericolosi ma d'indole naturalmente feroce sarebbe in ogni
caso applicato l’edictum de feris,
cfr. infra § 8.
[83] Si
veda Levy - Rabel, Index interpolationum,
Supplementum I, cit., sul
passo si segnalano interpretazioni contrastanti di Krüger, in Novum Supplementum e di De Francisci, Synallagma. Storia e
dottrina dei cosiddetti contratti innominati, II, Pavia, 1916, 66. Sono
state segnalate, inoltre, le possibili interpolazioni nella parte ‘et-dedit’
da Haymann, Textkritische Studien, cit., in «ZSS.», 40 (1919) 199 n.3; Levy,
Die Konk, II, cit., 226 nt. 7
e 227 n.1; F. Pringsheim, Beryt und
Bologna, in Festschrift fur Otto Lenel
zum Funfzigjahrigen Doctorjubilaum am 16 Dezember 1921, Leipzig, 1921, 257.
Sulla porzione del passo ‘Et–ideoque’ ha espresso la
propria opinione G. Beseler, Miscellanea, in «ZSS.»,
45 (1925), 461.
[84] Volendo
esemplificare la situazione di discrepanza fra atteggiamento prevedibile a
priori e quello effettivamente tenuto da un animale, si possono illustrare due
casi ben distinti: quello di un animale d’indole feroce, nato però
in cattività ed abituato alla presenza degli umani, che verosimilmente
terrà un atteggiamento meno aggressivo rispetto a quello dei propri
simili vissuti in libertà, in contrapposizione a quello di una femmina,
normalmente socievole e mansueta, che abbia da poco partorito ed avverta un
pericolo per la prole. In questo secondo caso non stupirebbe che essa mostri
segni di spiccata aggressività anche nei confronti di soggetti verso i
quali, in precedenza, si era comportata in modo socievole. Dovendo valutare
l’atteggiamento di chi si relaziona con l’animale, in altri termini
stabilire se vi è responsabilità del futuro danneggiato per aver
tenuto un contegno incauto, sarebbe ingiusto che si desse per scontato (in
mancanza di informazioni specifiche) un atteggiamento diverso da quello che si
sarebbe portati a tenere nella generalità delle situazioni.
[85] Pare
eccessivo negare la protezione giuridica, di fatto onerando l'attore di un
obbligo di diligenza exactissima e di
una prudenza ai limiti del fattibile, nel caso in cui fosse possibile per il dominus dell'animale negare ogni tipo di
responsabilità dimostrando che il proprio animale avesse l'abitudine di
reagire aggressivamente contro alcune categorie di persone o in risposta ad
alcune sollecitazioni (ad esempio contro tutti i cavalieri, nei confronti delle
persone che portino con loro un bastone da passeggio o se accarezzato sulla
schiena), malgrado questa peculiarità negativa potesse essere nota a
chiunque avesse una minima consuetudine con l'animale.
[86] C. 7.24.1pr, D. 1.5.4.1, D. 9.1.1.7, D. 21.1.1.7, D.
33.8.6.1, D. 41.2.3.5, D. 41.2.3.5, D. 42.1.60, D. 44.4.1.1, D. 50.16.38, Gai.
3.149. In questa espressione Macqueron,
Dommages, cit., 135, rinviene
l’opera interpolativa dei compilatori adducendo una notevole letteratura
che associa questo principio di responsabilità a metri di giudizio
postclassici mettendone in rilievo la scarsa chiarezza del contenuto. Sempre a favore di questo inquadramento
della espressione 'contra naturam' Kerr
Wylie, Actio, cit., 471 «The whole idea of an animal acting
'contra naturam', is post-classic: the classical jurists expressly ruled
out any suggestion of an animal being chargeable with wrongdoing or
fault». Malgrado la logicità degli argomenti apportati, non mi
sembra essi siano definitivi al fine di accettare o rifiutare questa
interpretazione; non si può dimenticare, infatti, l’esistenza di
diversi esempi in ambito giuridico dell’uso di questa espressione. Fra i
vari, ve ne sono alcuni che meglio di altri esprimono le sfaccettature che essa
può assumere, partendo da una connotazione più naturalistica
– come per certi versi il passo da cui prendo spunto – D. 21.1.1.7
(Ulpianus libro primo ad ed. aedilium curulium) Sed sciendum est morbum apud Sabinum sic definitum esse habitum cuiusque
corporis contra naturam, qui usum eius ad id facit deteriorem, cuius causa
natura nobis eius corporis sanitatem dedit [...] oppure D. 50.16.38 (Ulpianus libro vicensimo quinto ad ed.) ‘Ostentum’ Labeo definit
omne contra naturam cuiusque rei genitum factumque. Duo genera autem sunt
ostentorum: unum, quotiens quid contra naturam nascitur, tribus manibus forte
aut pedibus aut qua alia parte corporis, quae naturae contraria est [...].
In altri casi, invece, l'espressione passa ad indicare casi maggiormente
figurati come manifestazione di comportamenti fuori dalla normalità D.
27.1.36.1 (Paulus libro nono responsorum) Lucius Titius ex tribus filiis incolumibus
unum habet emancipatum eius aetatis, ut curatores accipere debeat: [...] Sed cum filio suo curator petatur, contra
naturales stimulos facit, si tali excusatione utendum esse temptaverit. Per
giungere infine a svolgere un ruolo maggiormente esemplificativo, in ambito
prettamente tecnico-giuridico, per l'impiego di un istituto al di fuori di
quella che i giuristi identificavano esserne la ratio D. 33.8.6.1 (Ulpianus
libro vicesimo quinto ad Sab.) Et si
fuerit legatum peculium non deducto aere alieno, verendum, ne inutile legatum
sit, quia quod adicitur contra naturam legati sit. Oppure il più
ampio esempio in ambito processuale D. 44.4.1.1 (Paulus libro septuagensimo
primo ad ed.) Ideo autem hanc
exceptionem praetor proposuit, ne cui dolus suus per occasionem iuris civilis
contra naturalem aequitatem prosit. Si vedano inoltre le celeberrime
affermazioni circa il diritto di proprietà in D. 41.2.3.5 (Paulus libro quinquagensimo quarto ad ed.) Ex contrario plures eandem rem in solidum
possidere non possunt: contra naturam quippe est, ut, cum ego aliquid teneam,
tu quoque id tenere videaris. O in relazione alla natura del contratto di
società in G. 3.149 [...] An ita
coiri possit societas, ut quis maiorem partem lucreretur, minorem damni
praestet. Quod Quintus Mucius contra naturam societatis esse exixstimavit.
[87] Si noti come venga impiegato il termine fera nella sua accezione neutra, o
addirittura negativa, per indicare l'animale danneggiante in luogo di altri
sostantivi come animal o quadrupes.
[88] D.
9.1.1.4 (Ulpianus 18 ad ed.) Itaque, ut Servius scribit, tunc haec actio
locum habet, cum commota feritate nocuit quadrupes, puta si equus calcitrosus
calce percusserit, aut bos cornu petere solitus petierit, aut mulae propter
nimiam ferociam: quod si propter loci iniquitatem aut propter culpam mulionis,
aut si plus iusto onerata quadrupes in aliquem onus everterit, haec actio
cessabit damnique iniuriae agetur.
[89] Macqueron, Dommages, cit.,
142 nt. 24. Conseguentemente l’Autore interpreta il sostantivo ‘fera’ come termine che nelle
parole di Ulpiano dovesse avere il significato di animale feroce, vista la
mancanza della specificazione dell’atto contra naturam, e che costantemente all’interno del titolo
del Digesto debba essere semplicemente letto come sinonimo di animale
aggressivo. Il fatto stesso di richiedere che l’azione dannosa debba
verificarsi a causa di un animale che agisca contro i suoi normali istinti,
implicherebbe dunque che esso non debba essere feroce di natura. Contra si veda supra nt. 81 per
una diversa interpretazione etimologica del termine e quindi della questione.
[90] Il
giurista a questo punto, invece di dilungarsi ulteriormente sulla
specificità dell’azione in discussione, espone immediatamente il
proprio parere riguardo l’esatta tipologia di azione aquiliana
richiedibile, facendo seguire l'esposizione delle ragioni della sua decisione.
[91] Logicamente
ogni peculiarità che possa con la sua presenza diminuire il valore di
una res, quale sicuramente può
essere considerata la tendenza a reagire in modo violento ed inappropriato alle
sollecitazioni esterne, non può essere valutata se non come un vizio. D.
21.1.43pr. (Paulus 1 ad ed. aedil. curul.)
Bovem qui cornu petit vitiosum esse plerique dicunt, item mulas quae cessum
dant: ea quoque iumenta, quae sine causa turbantur et semet ipsa eripiunt,
vitiosa esse dicuntur.
[92] A
favore di questa interpretazione rimane la previsione legislativa per cui
l'animale danneggiatore da dare a nossa dovesse essere necessariamente vivo,
probabilmente in modo che su di lui si potesse abbattere la vendetta del
danneggiato. D. 9.1.1.14 (Ulpianus 18 ad
ed.) Noxae autem dedere est animal
tradere vivum [...]. In merito il Biondi (Sistema, cit., 404)
«Non credo infatti che si voglia ammettere che la deditio dell’animale
abbia la stessa funzione punitiva della deditio dello schiavo o del filius.
Questa diversità di funzione è segnalata accuratamente da Frag.
Aug. 2,82, che, in piena corrispondenza con i resti del lacunoso Gaio veronese,
ammette l’efficacia liberatoria del cadavere del filius o dello
schiavo, mentre tutto ciò rimane escluso per l’animale che deve essere
consegnato vivo. […] la consegna dell’animale morto non è
consentita perché non ha la stessa funzione punitiva (impedirne la
sepoltura) che ha la consegna del cadavere dell’uomo». Non è
da escludere il fatto che, abbandonata l'ottica arcaica della conservazione
della pax deorum, la ratio della noma volesse un simile
comportamento al fine di concedere al danneggiato la via per ottenere un valore
maggiore della condanna in proprio favore, potendo sfruttare anche la forza
lavorativa dell'animale (fosse esso un cane da guardia, da pastore o un altro
qualsiasi animale da lavoro). Del resto se talvolta è possibile
attribuire all'animale un valore anche da morto, mi riferisco alla
macellabilità di un animale aggressivo ma commestibile come un toro o un
ariete, bisogna tener conto del fatto che in altri casi – per l'appunto
nell'ipotesi di un cane – la nossa dell'animale non avrebbe sortito
alcuna soddisfazione per il danneggiato, vista l'impossibilità di una
efficace vendetta sul suo corpo inanimato od altro suo impiego. Ne consegue,
dunque, che questa norma potrebbe avere lo scopo di garantire per lo meno un
minimo di valore economico alla datio di
un animale come un cane mordace. Kerr Wylie,
Actio, cit., 463 «[...] In the case of injuries of animals the 'actio
de pauperie', which lay against their owners, had, apparently even in the
time of XII Tables, abandoned this basis (primitive vengeance idea). The
legally-minded Romans, it would seem, had at comparatively early stage in their
history perceived the futility of seeking to wreak an idle vengeance on brute
beasts». Il passo seguente ricorda il principio generale – in ambito
delle vere e proprie azioni nossali – della responsabilità
dell'attuale dominus per le azioni
delle persone e delle cose ricadenti nella sua sfera di controllo – manus, mancipium o dominium secondo il noto principio D.
9.1.1.12 (Ulpianus 18 ad ed.) Et cum
etiam in quadrupedibus noxa caput sequitur, adversus dominum haec actio datur,
non cuius fuerit quadrupes, cum noceret, sed cuius nunc est. Si vedano, in
merito alla questione della qualificazione come propriamente nossale o meno
dell'actio de pauperie (in funzione della sua contestualizzazione
storica), le tesi di Biondi, De Visscher e Wylie supra nt. 58.
[93] Molto
interessante è il passo di argomento processuale in funzione del quale
l'azione va considerata come estinta nel momento in cui, proposta la formula
mentre l'animale fosse in vita, esso morisse (senza che il convenuto ne fosse
imputabile) prima della sentenza. Il giurista è assolutamente certo
delle particolari conseguenze di questo fatto giuridico, rispetto
all’esito che normalmente collegheremmo agli effetti della litis contestatio, da introdurre
l’affermazione con l’avverbio 'plane'.
D. 9.1.1.13 (Ulpianus 18 ad ed.) Plane si ante litem contestatam decesserit
animal, extincta erit actio. Per Wylie la problematica dell'estinzione
dell'azione nel caso di pauperies può essere riassunta secondo il
principio per cui – nel VI secolo d. C. – la morte prima della litis
contestatio dell'animale colpevole (per meglio dire, incolpato) estingua
sempre l'azione; per l'Autore lo stesso lo stesso esito si avrebbe nel caso di
morte del cane – fatto effettivamente notevole rispetto alle regole
generali – dopo la litis contestatio in tutti i casi tranne quello
in cui il convenuto (proprietario dell'animale danneggiatore) avesse a sua
volta la possibilità di convenire in giudizio, senza dubbio in base al
terzo capo della lex Aquilia, l'uccisore del cane. «The general principle of the
Justinian law that an 'actio de pauperie' is extinguished by the death
of the animal after litiscontestation, represent an application to this action
of the Justinian rule governing noxal actions [...] I think, be equally little
doubt that Javolenus used the words in question (D. 9.2.37.1, in tema di
quantificazione del danno aquiliano in pendenza dell'altra azione) [...]
because under the classical law the 'actio de pauperie' survived the
animal's death before or after litiscontestation alike» Kerr Wylie, Actio, cit.,
505-506.
[94] In
questo senso si potrebbe citare il contenuto di un passo, infra §
9, citato per ragioni diverse, che pare alludere a questo genere di
comportamenti potenzialmente produttivi di conseguenze nefaste: PS. 1.15.2
‘[…] sive ab ipsa sive
propter eam ab alio alteri damnum datum sit’. Nel passo pseudo paolino troviamo un accenno ad una doppia
modalità di realizzazione della lesione, che sembra contrapporre un
danno provocato da cane in modo diretto (‘sive ab ipsa’) ad
un danneggiamento meno netto nelle modalità della sua realizzazione
(‘sive propter eam’).
[95] La
fattispecie che intendo affrontare non vuol essere confusa con la semplice
possibilità per un animale di provocare un danno indirettamente, come
conseguenza di una propria azione non immediatamente lesiva come descritto in
D. 9.2.9.3, dove un cavallo concitatus, disarcionato in un fiume lo schiavo
che lo cavalcava, ne provoca l’affogamento. Analogamente si veda D.
9.1.1.9 (Ulpianus 18 ad ed.) Sive autem corpore suo pauperiem quadrupes
dedit, sive per aliam rem, quam tetigit quadrupes, haec actio locum habebit: ut
puta si plaustro bos obtrivit aliquem vel alia re deiecta.
[96] Nella
società arcaica esisteva almeno un caso di responsabilità senza
colpa dell’animale gravante sull’animale stesso. Fest., De
verborum significatu quae supersunt cum Pauli epitome, s.v. Termino
'Termino sacra faciebant, quod in eius tutela fines agrorum esse putabant. Denique Numa Pompilius statuit, eum qui terminum
exarasset, et ipsum et boves sacros esse'. Il caso tratta di un
animale da soma, nella fattispecie un bue, il quale avesse intaccato durante
l’aratura di un campo i sacri confini del pomerium,
esponendosi così automaticamente alle sanzioni giuridiche e religiose a
composizione dell’offesa arrecata agli dei, pur non essendoci per
l’animale né volontà lesiva né culpa imputabile: non solo esso veniva palesemente costretto al
lavoro ma era indirizzato nello svolgimento di tale attività, senza
contare il fatto che, ovviamente, non potesse in alcun modo recepire la portata
e le conseguenze del proprio atto lesivo. Biondi,
Sistema, cit., 401-2 «Io sono convinto della profonda diversità
di struttura tra pauperies e delictum, che determina la
separazione delle rispettive azioni; tale separazione, riconosciuta da non
pochi autori, è negata da De Visscher, il quale ammette che la
estensione della responsabilità degli animali, così sorprendente
ai nostri occhi, si giustifichi con l’antica concezione della colpabilità
degli stessi. […] Che in epoca prestorica si potesse parlare di
responsabilità degli animali, considerati sullo stesso piano degli
uomini, non si può né ammettere né nagare, a meno che
questo vuoto non si voglia colmare con i dati di comparazione giuridica, la
quale attesta la possibilità di processi e pene a carico degli
animali». Concluso questo brevissimo excursus,
terminerei affermando che non ritengo che il caso riportato da Festo sia in
alcun modo assimilabile alla situazione oggetto del mio lavoro, per via della
connotazione e dell’origine prettamente sacrale dell’atto e delle
sue conseguenze, rispetto a fattispecie che traggono la loro ragion
d’essere dalla quotidianità e dalle esigenze agricole, pastorali e
di sicurezza cittadina in genere.
[97] Trattandosi
di una fattispecie di responsabilità extracontrattuale la questione
della costruzione probatoria a carico dell’attore doveva in ogni caso
comportare una serie di problemi, specialmente in merito alle cause scatenanti
il danneggiamento, ed alla sua connotazione come contra naturam. Posta la costante validità del brocardo
‘actore non probante, reus
absolvitur’, non si
può che pensare che ogni ulteriore fatto di cui venisse richiesta la
prova apud iudicem non potesse che
aggravare esponenzialmente l’onere probatorio dell’attore.
[98] Macqueron, Dommages, cit. 137 e poi nella nt. 14, ipotizza anche la
situazione di un magistrato che, preceduto dalla sua scorta di littori, abbia
occupato tutta la sede stradale, imponendo così ad un ignaro passante di
rifugiarsi all'interno della taberna.
[99] Si
veda anche Frag. Augustodunensia. 4.81 Committitur si per lasciviam aut fervorem aut feritatem damnum factum
est et tenetur dominus ut aut damnum sustineat aut in noxam tradat animal. L'associazione
della fattispecie alla possibilità di liberarsi della
responsabilità con la dazione nossale dell'animale fa inequivocabilmente
pensare all'actio de pauperie.
[102] Esiste
almeno un'altra ricostruzione plausibile, a mio parere meno probabile, dei
fatti prospettati in questo passo. Bisogna ricordare di come esista la
possibilità che il termine taberna
assuma il significato generico di baracca o casa di modesta levatura. In questo
caso, non essendo ovviamente concepibile la presenza di servi deputati alla
cura della porta, è facile pensare che una persona non autorizzata
potesse essersi introdotta all'interno della costruzione (o del suo atrio) ed
in quel luogo egli potesse aver effettuato lo sgradevole incontro. Cfr. E. Forcellini, Totius latinitatis
lexicon, s.v. Taberna, III,
Prati, 1845, riporta fra i significati sia 'omne
utile ad habitandum aedificium' sia 'saepe
dicitur de loco ubi merces venduntur, et ubi artifices artem suam profitentur'.
Forcellini chiaramente riprende le parole di Ulpiano D. 50.16.183 (Ulpianus
28 ad ed.) 'Tabernae' appellatio declarat omne utile ad habitandum aedificium, non
ex eo quod tabulis cluditur. Inoltre D. 50.16.185 (Ulpianus 28 ad ed.) 'Instructam'
autem tabernam sic accipiemus, quae et rebus et hominibus ad negotiationem
paratis constat.
[103] Sono
celebri i mosaici rinvenuti ad Ercolano e Pompei che illustrano, con la
didascalia 'cave canem', veri e
propri moniti per i passanti sprovveduti o contro i malintenzionati.
[104]
Naturalmente deve essere esclusa a priori la possibilità di collocare
l'animale, come nelle case private, presso l'entrata se non altro per ragioni
commerciali: qualsiasi cane feroce avrebbe senza dubbio scoraggiato ogni avventore
dall'avvicinarsi.
[105]
Ipotesi marginalmente affrontata anche da Macqueron,
Dommages, cit., 139 nt. 19. Accanto alle competenze di ordine
pubblico che erano prerogativa del praefectus
urbi, l'ordinamento romano ha conosciuto la figura del praefectus vigilum, un soggetto
normalmente nominato fra gli appartenenti all'ordine equestre che, esclusi i
casi di maggior rilievo per i quali era competente il praefectus urbi, aveva compito di vigilare sia sulla prevenzione
degli incendi sia sui reati di ordine pubblico quali furti, scassi, rapine e
ricettazioni. Per tutti si veda M.
Talamanca, Lineamenti di storia
del diritto romano, Milano, 1989, 483 ss.
[106] Resta
in ogni caso sottinteso che dovesse essere esclusa ogni finalità lesiva,
quale il furto, del soggetto entrato nella struttura, sarebbe infatti
inconcepibile la concessione a suo vantaggio un’azione a riparazione del
danno subito. Si veda, a scopo esemplificativo, un caso in cui nemmeno una
lesione mortale provocata ad un ladro comporti la concessione di una azione: D.
9.2.4.1 (Gai. 7 ad ed. provinc.) Lex duodecim tabularum furem noctu
deprehensum occidere permittit, ut tamen id ipsum cum clamore testificetur:
interdiu autem deprehensum ita permittit occidere, si is se telo defendat, ut
tamen aeque cum clamore testificetur.
[107] Cicerone, De natura deorum 2.158
'Canum vero tam fida custodia tamque amans dominorum adulatio tantumque
odium in externos et tam incredibilis ad investigandum sagacitas narium tanta
alacritas in venando quis significat aliud nisi se ad hominum commoditates esse
generatos'; Catone, De
agri cultura, ca 124, 'Canes interdiu clausos esse oportet, ut noctu
acriores et vigilantiores sint'; Isidoro,
Etymologiarum sive originum,
12.2.25-26, '[...] Nihil autem
sagacius canibus; plus enim sensus ceteris animalibus habent. Namque soli sua
nomina recognoscunt; dominos suos diligunt; dominorum tecta defendunt [...]'. Columella, De re rustica 7, 12,1
'[...] Canis falso dicitur mutus custos. Nam quis hominum clarius aut tanta
vociferatione bestiam vel furem praedicat, quam iste latratu? Quis famulus
amantior domini? Quis fidelior comes? Quis custos incorruptior? Quis excubitor
inveniri potest vigilantior? Quis denique ultor aut vindex constantior?'.
[108]
L'esistenza e la frequenza di questi esercizi commerciali, specialmente nelle
vie di grande passaggio è dimostrata da alcuni scavi archeologici fra i
quali spiccano quelli di Pompei ed Ercolano. In essi venivano spesso vendute, a
seconda della stagione, bevande e pietanze calde o fredde.
[109] Solo
marginalmente mi sembra il caso di aggiungere che le probabilità di una
reazione aggressiva di un animale da guardia aumentino esponenzialmente nel
caso in cui il comportamento scatenante la reazione fosse inconsueto, repentino
o addirittura dettato da paura, come quello di un soggetto che si getta nel
primo riparo possibile per sfuggire alla vista di uno scocciatore o magari di
un magistrato accompagnato della propria scorta. Inoltre è possibile
formulare anche l'ipotesi per cui il soggetto fosse non solo agitato ma
addirittura in fuga da un funzionario pubblico al suo inseguimento.
[110] La
parte del giorno durante la quale si svolge il danneggiamento pare avere una
qualche influenza nella previsione giuridica del fatto. Si veda in merito infra anche l'accenno alla questione
relativa alla esegesi di S. 1.15.1a.
[111]
Incidentalmente desidero sottolineare come non potesse essere concepita dai
giuristi romani, fino alla piena affermazione della cognitio extra ordinem,
una alternativa fra la condanna al pagamento di una somma di denaro e la
condanna alla dazione nossale dell’animale, la quale null’altro
poteva essere che una facoltà concessa al convenuto, alternativa in
toto ad una qualsiasi condanna. Impiegando le parole del Biondi a commento
di Gai. 4.48, In tema, cit., 391, «Possiamo ben invocare
come punto fermo l’attestazione gaiana per dire che una condemnatio in
noxae deditionem non era consentita nel processo formulare, come non era
consentita alcuna condanna in ipsam rem». Si veda anche Kerr Wylie, Actio, cit., 467.
[112] Di D.
9.1.1.5 si è interessata più volte la critica, segnalando alcune
proposte di correzione del suo attuale tenore. Si vedano in proposito Levy – Rabel, Index
interpolationum, I, cit., sostiene la sostituzione, tutto
sommato dalle conseguenze minime, del verbo ‘induci’,
probabilmente giustinianeo, in ‘duci’. Sul passo nuovamente Levy
- Rabel, Index interpolationum, Supplementum, cit.,
segnala i pareri di Haymann, Zur Haftung für Tierschaden, cit., 386-388; Eisele, in Jahrbücher für die Dogmatik des
heutigen römischen und deutschen Privatrechts, 24 (1886), 485; Müller-Erzbach, Gefährdungshaftung und
Gefahrtragung II, in
«Archiv für die civilistische Praxis», 109 (1912), 24 nt. 23.
[113] Kerr Wylie, Actio, cit., 482 ss. interpreta il passo come
pesantemente interpolato e così lo ricostruisce: Sed et si canis, cum duceretur ab aliquo, asperitate sua evaserit et
alicui damnum dederit: [si contineri
firmius ab alio poterit vel si per eum locum induci non debuit,] haec actio [cessabit] <locum habebit> [et tenebitur qui canem
tenebat]. Inoltre 485 «From the formal
standpoint we note 'firmius', comparative of a suspicious adverb 'firmiter';
'poterit' (perf. Subj.) – 'debuit' (perf.
[114] Il
seguente comparativo ‘firmius’
fa pensare ad una situazione di questo tipo, piuttosto che alla capacità
del conduttore di farsi ubbidire dall'animale per rispetto o timore.
[115] Albanese, Studi sulla legge Aquilia, cit.,
127, nt. 1. definisce il frammento come «rielaborato a fini di
semplificazione».
[116] Cfr. Macqueron, Dommages, cit., 140. L’Autore mette giustamente
in risalto il fatto che sia il passo in analisi sia il precedente trattino di
situazioni in cui l’azione de
pauperie, per ragioni diverse, non può essere concessa. Ne consegue
logicamente il fatto che, se i passi fossero originariamente stati accostati,
sarebbe stato illogico introdurre la seconda situazione con una particella
avversativa.
[117] D.
9.1.1.10 (Ulpianus 18 ad ed.) In bestiis autem propter naturalem
feritatem haec actio locum non habet: et ideo si ursus fugit et sic nocuit, non
potest quondam dominus conveniri, quia desinit dominus esse, ubi fera evasit:
et ideo et si eum occidi, meum corpus est. In questo frammento
l’azione verrebbe meno per due ragioni concomitanti: in primo luogo per
il fatto, già affrontato, che l’animale deve manifestare un
comportamento contra naturam per
l’applicabilità di questa azione, praticamente incompatibile con
la feritas ed in secondo luogo per la
ragione squisitamente sostanziale per cui un animale selvatico (come nella
fattispecie dell’orso), una volta uscito dallo stretto controllo del
padrone, cessi immediatamente di essere di sua proprietà –
riacquistando la condizione di res
nullius – ed impedendo in questo modo che l’ormai
ex-proprietario possa essere validamente chiamato in causa per rispondere degli
atti compiuti dall’animale, come spiega Gai. 2.67-68 Itaque si feram bestiam […] nostrum esse intellegitur, donec nostra custodia coerceatur; cum vero
custodiam nostram evaserit et in naturalem se libertatem receperit, rursus
occupantis fit, quia nostrum esse desinit: naturalem autem libertatem recipere
videtur, cum aut oculos nostros evaserit, aut licet in conspectu sit nostro,
difficilis tamen eius persecutio sit.
[118] C. A. Cannata, Sul problema della responsabilità nel diritto romano,
Catania, 1996,
[119] Si
tenga presente Cannata, Sul problema, cit., 59-62. Ai fini della
comprensione della fattispecie in analisi, si rivela importante ed interessante
l'espressione 'contineri firmius ab alio
poterit' impiegata da Ulpiano per individuare il modello altamente generico
con cui effettuare il raffronto fra il comportamento tenuto dal conduttore del
cane ed il modello astratto di comportamento corretto. Sappiamo come nelle
attività di tipo tecnico e professionale sia stato elaborato il criterio
per cui la diligenza dovesse essere commisurata all'opera di un artifex, inteso come soggetto astratto e
scrupolosamente ligio a tutte le accortezze che non solo le leggi ma la pratica
del mestiere gli suggerissero per evitare danni: D. 45.1.137.3 (Venonius 1 stipul.) [...] sed modus
adhibendus est secundum rationem diligentis aedificatoris et temporum
locorumque [...]. Invece, per attività non professionali, si pongono come metro
di giudizio la responsabilità per negligenza e l’imprudenza, da
valutarsi secondo le capacità medie di persone di età e
condizioni simili D. 45.1.137.2 (Venonius
1 stipul.) [...] habita ratione temporis aetatis sexus
valetudinis, cum id agat, ut mature perveniat, id est eodem tempore, quo
plerique eiusdem condicionis homines solent pervenire [...]. Detto questo,
valido particolarmente in situazioni contrattuali, bisogna tenere presente che
in ambito extracontrattuale, dove non può rilevare la qualifica di artifex – diversamente da quanto
accade nel frammento D. 19.2.9.5 (Ulpianus
32 ad ed.) ‘[...] eum praestare debere et quod imperitia
peccavit, culpam esse: quippe ut artifex, inquit, conduxit’ –
il concetto di colpa imperizia dovrà essere riferito esclusivamente alla
tipologia dell’attività svolta, dalla quale sia scaturito il
danno. Nel caso in cui l'attività, pur potendo essere potenzialmente
pericolosa non sia identificabile con lo svolgimento di un’ars, come nel caso prospettato da D.
9.1.1.5 in analisi, la responsabilità non potrà essere che essere
per negligenza e da raffrontarsi semplicemente col comportamento 'ab alio'.
[120] Cfr. Macqueron, Dommages, cit., 146, fa notare come l'espressione
'si contineri firmius ab alio poterit' pare
corrispondere in modo evidente alla frase contenuta in I. 3.14.2 'si alius diligenter potuit rem custodire'
– impiegata per definire la responsabilità del comodatario –
che, a sua volta, corrisponde al concetto di 'et levissima culpa venit', in tema di danno aquiliano, rinvenibile
in D. 9.2.44. L'Autore impiega questa assonanza (non solo concettuale) in
connessione con i dubbi circa l'ineleganza della parte terminale del passo
‘tenebitur qui canem tenebat’
– di cui infra – per
supportare la sua ipotesi di interpolazione del passo. Il raffronto con
l'ipotesi di responsabilità del comodatario mi sembra alquanto forzato
in relazione al principio per cui il criterio di attribuzione della
responsabilità ad un soggetto sia tanto più stringente e invasivo
quanto più il margine di vantaggio per il beneficiario sia ampio o il
pericolo per la comunità sia esteso, che troverà espressione nel
brocardo ‘cuius commoda eius et
incommoda’. Si vedano ad
esempio D. 40.12.13.1 (Gaius ad ed. pu.
de liberali c.) Item certum est tam
res nostras quam res alienas, quae tamen periculo nostro sunt, in hanc actionem
deduci, veluti commodatas et locatas: certe depositae apud nos res, quia nostro
periculo non sunt, ad hanc actionem non pertinent. D. 19.2.40 (Gaius 5 ad ed. provinc.) Qui mercedem accipit pro custodia alicuius
rei, is huius periculum custodiae praestat. Dunque ritengo questo
parallelismo, dal punto di vista logico e non formale, debba essere posto in
secondo piano, a meno che l'avere in proprietà un cane non fosse sentito
all'epoca come una attività assolutamente inutile oppure eccessivamente
pericolosa rispetto ai benefici apportati, fatto di cui non mi pare vi sia
riscontro e che venga anzi smentito dalle fonti.
[121]
Sarebbe eccessivo ai fini della individuazione dei criteri di responsabilità,
specialmente se gravosa come quella relativa all’actio legis Aquiliae, includere situazioni di forza maggiore o caso
fortuito; entrambe vengono escluse dal fatto che sicuramente, impiegando
l'espressione del giurista, il cane ‘ab
alio contineri poterit’. Il tema della cosiddetta forza maggiore in
ambito aquiliano è affrontato con maggiore estensione nella casistica in tema nautico D. 9.2.29.2 (Ulpianus 18 ad ed.) Si navis tua impacta in meam scapham damnum mihi dedit, quaesitum est,
quae actio mihi competeret. Et ait Proculus, si in potestate nautarum fuit, ne
id accideret, et culpa eorum factum sit, lege Aquilia cum nautis agendum,
[…] sed si fune rupto aut cum a
nullo regeretur navis incurrisset, cum domino agendum non esse. D. 9.2.29.3
(Ulpianus 18 ad ed.) Item Labeo scribit, si, cum vi ventorum
navis impulsa esset in funes anchorarum alterius et nautae funes praecidissent,
si nullo alio modo nisi praecisis funibus explicare se potuit, nullam actionem
dandam […]. D. 9.2.29.4 (Ulpianus
18 ad ed.) Si navis alteram contra se
venientem obruisset, […] sed si
tanta vis navi facta sit, quae temperari non potuit, nullam in dominum dandam
actionem: sin autem culpa nautarum id factum sit, puto Aquiliae sufficere.
[122]
Ritengo infatti vi sia spazio per interpretare la seconda situazione trattata
dal giurista come connessa ad un tipo di azione più specifica.
[124] Vi
è anche la possibilità che il riferimento all’atto di
‘tenere’ un cane possa
riguardare l’atto di cingere fra le proprie braccia l’animale. La
situazione è senza dubbio plausibile ma (sebbene fosse frequente come
dimostrano le parole riferite da Plutarco,
Vite parallele - Fabio Massimo, 1.1,
trad. R. Guerrini, Milano, 1999, 132 per cui era la moda importata
dall’estero di portare in braccio dei cuccioli) in questo caso non
ritengo possa essere dato molto peso a questa eventualità per il
semplice fatto che le lesioni provocate da un cane di piccola taglia, o ancor peggio
da un cucciolo, non possono essere sicuramente paragonate (per gravità e
rilevanza) alle altre ipotizzate dai giuristi. Cfr. Macqueron, Dommages, cit., 148.
[125] Per
apprezzare quanto siano connessi il danneggiamento aquiliano e l'actio de pauperie, con tutti gli
insormontabili limiti di questa geniale opera, si veda la ricostruzione del
libro XVIII ad edictum di Ulpiano di O. Lenel, Palingenesia iuris civilis, volumen alterum, Lipsia 1889, rist.
2000, 520 ss.
[126]
Macqueron propone la seguente ricostruzione del passo: D. 9.1.1.5 (Ulpianus 18 ad ed.) Sed et si canis, cum duceretur [ab aliquo], asperitate sua
evaserit et alicui damnum dederit: si contineri firmius ab alio poterit [vel si per eum locum induci non debuit,] haec actio cessabit et <actione in
factum tenebitur qui canem ducebat>; <Sed si (caso espunto) Aquilia> tenebitur qui canem tenebat.
Macqueron, Dommages, cit., 147. L’ipotesi è
plausibile ma, per la stessa necessità di ricorrere a così ampie
integrazioni, ne è impossibile la verifica. L’idea
dell’Autore pone inoltre il problema della completa espunzione del
riferimento alla seconda fattispecie esplicitamente affrontata
all’interno del passo riconducendola, da un raffronto con i Basilici
(scolio 60.11), ad una completa innovazione – vista la supposta mancanza
di commento da parte di Cirillo – introdotta in un momento non meglio
determinabile. Anche in questo caso la congettura è plausibile.
Rimanendo però aderenti al dato testuale è possibile constatare
come il riferimento alla azione esercitabile, scartata
l’applicabilità dell’actio
de pauperie, è assolutamente implicito e, quindi, viene lasciato
all’interprete il compito di desumere, rimanendo saldo solamente il dato
di cosa non fosse consentito, quale fosse il rimedio processuale adeguato.
[127] Per
completezza, Macqueron, Dommages,
cit., 141 nota come il giurista
consideri implicitamente nel passo una terza ipotesi. Vi è, in aggiunta,
la possibilità che l’ordinamento consenta la valida proposizione
dell’actio de pauperie essendosi
verificato il danneggiamento in un luogo all’interno del quale non solo
non fosse proibito condurre l’animale, ma in una situazione in cui non si
potesse pretendere dal conduttore alcuna ulteriore precauzione rispetto a
quelle adottate.
[130] In
merito si veda inoltre, infra § 9, quanto specificato in
merito alla esegesi di D. 21.1.42.
[131] Si
potrebbe, come esercizio intellettuale, ragionando in prospettiva storica su
casi ipotetici, valutare quale potesse essere la soluzione effettiva nel
momento intermedio fra l'emanazione delle due norme giuridiche. Parlo di casi
ipotetici poiché tutti i passi citati sono databili – per logica
lapalissiana – per lo meno al periodo di vita del giurista cui fa
riferimento l'inscriptio tramandata
dai compilatori giustinianei, ed ognuno di essi è vissuto dopo
l'emanazione dell'ultimo dei provvedimenti citati in queste pagine. Purtroppo,
senza una valida e solida datazione sia del plebiscito aquiliano sia
dell'editto sugli animali feroci, l'unica certezza è che i due
provvedimenti abbiano convissuto per lo meno per sei secoli. L'interpretazione
di D. 9.1.1.5 (e soprattuto della tematica che ne è alla base) riveste
maggior importanza sia dal punto di vista quantitativo sia nell'ambito
dell'evoluzione della interpretazione delle norme giuridiche nel periodo di
compresenza dei due provvedimenti.
[133] Lenel, Das
Edictum, cit., 566, nt. 13. L’Autore scrive anche 'Im Edikt heisst es: iudicium dabimus, ut [...]
condemnetur'.
[134]
L'esistenza contemporanea di entrambi i requisiti rende impossibile
l'inserimento dell'edictum de feris
nella categoria che oggigiorno in diritto penale definiamo dei reati di pericolo
astratto o presunto (come l'incendio art. 423 c., anche di cosa propria se
idoneo a danneggiare terzi), in cui la punibilità è stabilita
dall'ordinamento semplicemente in funzione di una regola d’esperienza, in
base alla quale al compimento di una certa azione si possa collegare
l'insorgere di un pericolo. La correlazione 'et-et'
e l'impossibilità di giungere a valida quantificazione della condanna in
caso di mancanza di un danno materiale, sono elementi sicuramente sufficienti
ad affermare che la disposizione edittale non era diretta a colpire una
semplice condotta incurante dei pericoli ad essa connessi, quanto a sanzionare
colui che con il suo comportamento poco lungimirante avesse permesso che il
proprio animale feroce provocasse un danno.
[135] A. Guarino, 'Actiones in aequum conceptae', in «Labeo», VIII, 1962, 10-11: «Ma è discutibile che
Ulpiano riporti letteralmente il tenore dell'editto de feris. Come ha giustamente osservato il Lenel, la citazione
letterale si ferma a 'damnum dare possit'
[...]».
[136] Scialoja, Nota, cit., 81 ss.
interpreta creativamente questo illogico inserimento del termine ‘minorem’ come il risultato
dell'opera di uno scrupoloso copista il quale, rinvenuta una abbreviazione o
una parola di dubbia lettura, colto da un dubbio interpretativo, fece seguire
alla lettura maggiormente probabile -maialem-
quella più improbabile, facendola però precedere da una sua nota
nella quale esplicitava la propria incertezza di lettura con un vel. Dal successivo inglobamento della
nota del copista all'interno del testo sarebbe dunque derivato per l'Autore il
'maialem vel minorem' che oggi
leggiamo.
[137] Lenel, Das
Edictum perpetum, cit., 566 nt. 7. Si veda in merito anche il parere
di Ph. E. Huschke, Zur Pandektenkritik. Ein versuch sie auf festere wissenschaftliche grundsätze
zurückzuführen, Leipzig, 1875, 52.
[138] Scialoja, Nota, cit., 82-83
«Né di migliore accoglienza mi par degna la correzione di proposta
da Huschke, alla quale Lenel ha fatto troppo buon viso. [...] Sarebbe poi
addirittura assurdo che si fossero preoccupati di menzionare espressamente il
porco castrato (maialem) accanto al porco intero (verrem),
laddove per gli altri animali non hanno nemmeno distinto la femmina dal
maschio; [...] Già persino il distinguere tra verres e aper doveva
parer molto, per quanto tale distinzione fosse di grande importanza e
preparasse in certo modo la transizione da animali domestici pericolosi ad
animali selvaggi. [...] Le parole da togliere nel nostro testo sono le sole 'vel
minorem' [...]».
[140]Il
fatto che dovesse essere sentita come prioritaria la sicurezza della
circolazione, specialmente in una città – che in alcuni momenti
della storia possiamo definire metropoli – è dimostrato anche da
un altro passo tratto dal titolo de
effusis vel deiectis: D. 9.3.1.1 (Ulpianus 23 ad ed.) Summa cum
utilitate id praetorem edixisse nemo est qui neget: publice enim utile est sine
metu et periculo per itinera commeari. Per proseguire quindi con
l'estensione logica, in funzione della finalità di proteggere la
sicurezza e l'incolumità dei passanti, non solo nei luoghi pubblici ma
ovunque vi fosse realmente transito, D. 9.3.1.2 (Ulpianus 23 ad ed.) Parvi
autem interesse debet, utrum publicus locus sit an vero privatus, dummodo per
eum volgo iter fiat, quia iter facientibus prospicitur, non publicis viis
studetur: semper enim ea loca, per quae volgo iter solet fieri, eandem
securitatem debent habere. Ceterum si aliquando vulgus in illa via non
commeabat et tunc deiectum quid vel effusum, cum adhuc secreta loca essent,
modo coepit commeari, non debet hoc edicto teneri. Si tenga però
conto anche del parere di L. Rodriguez
Ennes, Estudio sobre el edictum de
feris, Madrid, 1992, 23, per cui il concetto di 'utilitas publica' non potrebbe essere ricondotto né a
principi giuridici né a modalità espressive propri
dell’epoca repubblicana o classica e dovrebbe essere dunque inteso come
una interpolazione postclassica. Si veda in merito anche J. Gaudemet, Utilitas publica, in «RHD.»,
XXIX, 1951, 465 ss. [= Etudes de droit
romain, 2, Napoli, 1979, 174-75]. L'Autore, ripercorsa l'evoluzione del
concetto di utilità pubblica in senso sia filosofico sia giuridico a
partire dall'epoca repubblicana, illustra a pag. 476 come solamente con
«le triomphe de l'absolutisme» politico dei Severi, si possano
trovare nelle parole della «triade di giureconsulti» a cavallo del
terzo secolo, riferimenti alla pubblica utilità intesa nell'accezione di
«intérête direct de l'Etat», intesa in
contrapposizione al concetto di utilitas privatorum. L'espressione in
oggetto in D. 9.3.1.2 però, a prescindere dall'attribuzione dalla sua
paternità e dunque dalla sua datazione, non può essere, a mio
avviso, inserita logicamente in un contesto di contrapposizione fra
finalità dello Stato ed interesse dei cittadini, quanto piuttosto in una
più piana accezione di salvaguardia della collettività da rischi
evitabili. Si vedano anche D. 9.3.5.6 (Ulpianus
23 ad ed.) Praetor ait:'ne quis in
suggrunda protectove supra eum locum, [qua] (quo) volgo iter fiet inve quo consistetur, id
positum habeat, cuius casus nocere cui possit. Qui adversus ea fecerit,
[...] in factum iudicium dabo. Si servus
insciente domino fecisse dicetur, aut noxae dedi iubebo'; D. 9.2.28pr.-1 (Paulus 10 ad Sab.) Qui foveas ursorum cervorumque capiendorum causa faciunt, si in
itineribus fecerunt eoque aliquid decidit factumque deterius est, lege Aquilia
obligati sunt: at si in aliis locis, ubi fieri solent, fecerunt, nihil
tenentur. 1- Haec tamen actio ex
causa danda est, id est si neque denuntiatum est neque scierit aut providere
potuerit: et multa huiusmodi deprehenduntur, quibus summovetur petitor, si
evitare periculum poterit.
[141] Si
noti come nell’esposizione di questi argomenti relativi a situazioni di
responsabilità extracontrattuale, le parole iniziali del titolo relativo
all'actio de pauperie – D.
9.1.1.3 (Ulpianus 18 ad ed.) Ait
praetor 'pauperiem fecisse'. Pauperies est damnum sine iniuria [...]
– nonché quelle relative alla lex
Aquilia adottino la stessa modalità espressiva di riferimento
letterale al testo originale del provvedimento – D. 9.2.1.1 (Ulpianus 18 ad ed.) Quae lex Aquilia plebiscitum est, cum eam Aquilius tribunus plebis a
plebe rogaverit. D. 9.2.2pr. (Gaius 7
ad ed. provinc.) Lege Aquilia capite
primo cavetur: 'ut qui servum servamve alienum [...] occiderit, quanti id in eo anno plurimi fuit, tantum aes dare domino
damnas esto'.
[142]
Secondo Rodriguez Ennes (Estudio, cit., 30) la menzione del
cinghiale e del maiale sarebbe superflua ed indicativa di un confuso
rimaneggiamento, non potendola presumere una glossa esplicativa per una doppia
ragione: i due animali si sarebbero dovuti distinguere per un diversissimo
grado di aggressività senza contare il fatto che, vista la loro
diffusione, una tale precisazione sarebbe risultata superflua.
[143] Vista
la concisione del giurista sulla natura degli espedienti impiegati per evitare
morsi, balzi o zampate dell'animale non vi è modo di essere più
chiari. Verosimilmente, nel caso di trasporto od ostentazione di leoni o
pantere, dovevano essere presumibilmente adottati diversi meccanismi di
sicurezza, dimostrandosi palesemente inadeguati guinzagli o museruole.
[144] Si
noti però come nelle fonti sia ricordata l'esistenza di intere zone
dell'antico Lazio dedicate all'allevamento di animali esotici fra cui quelli
feroci da destinare ai ludi. Ad esempio Plinio, Naturalis historiae 8.78 'Vivaria
eorum ceterarum silvestrium primus togati generis invenit Fulvius Lippinus: is
in Tarquiniensi feras pascere instituit [...]'; Varrone, Rerum rusticarum de agri cultura 3.12-15
'T. Pompeus tantum saeptum venationis, ut circiter ∞ ∞ ∞ ∞ passum locum inclusum
habeat. [...] Apros quidem posse
haberi in leporario nec magno negotio ibi et captivos et cicuris, qui ibi nati
sint, pingues solere fieri scis, inquit, Axi. [...] Nam silva erat, ut
dicebat, supra quinquaginta iugerum maceria saepta, quod non leporarium, sed
therotrophium appellabat [...] ut tanta circumfluxerit nos cervorum
aprorum et ceterarum quadripedum moltitudo, ut non minus formosum mihi visum
sit spectaculum, quam in Circo Maximo aedilium sine Africanis bestiis cum fiunt
venationes'. Inoltre si vedano in merito le diverse citazioni in riferimento
alle opere di Varrone e Columella evidenziate da Polara, Le venationes,
cit., 98 nt. 60 e 102 nt. 66 e 67.
[145] Non
è da escludersi in verità che in ipotesi di questo genere
potessero rientrare anche i trasporti degli animali feroci da destinarsi ai
ludi pubblici, per i quali, forzando leggermente la terminilogia, potremmo
probabilmente parlare di trasporti di pubblica utilità, poiché
indirizzati – nel contesto romano – verso una finalità di
ampia rilevanza.
[146] F. Casavola, cit., 160, mette a confronto l'edictum
de feris e l'actio de posito et suspenso
per quanto riguarda l'ordine delle previsioni edittali fra morte e semplice
lesione del passante. Nel caso dell'editto in analisi, secondo l'Autore, la
previsione riguardo la lesione mortale sarebbe esaminata con precedenza
rispetto all'altro caso poiché, in caso di attacco di un animale feroce,
sarebbe più probabile l'esito maggiormente nefasto.
[147] Si
vedano, fra gli altri, in merito alla questione ed alla attendibilità
del tenore del frammento Beretta,
Condemnatio in bonum et aequum, in «Studi in onore di Siro Solazzi nel cinquantesimo anniversario del suo
insegnamento universitario», Napoli, 1949, 274 ss. nt. 19 e
implicitamente Impallomeni (L’editto, cit., 87) il quale commenta il tenore della norma senza far
riferimento alla possibile alterazione del concetto rispetto alla sua iniziale
formulazione. Inoltre Guarino, Actiones, cit., 7 puntualizza i limiti della libertà concessa al
giudice individuandoli entro ristretti margini di discrezionalità e tali
da essere riconducibili a valutazioni tecniche, che nel concreto sarebbero
state uniformi anche fra giudici diversi poiché basate su riscontri
oggettivi: si veda incidentalmente, circa i metri di valutazione, D. 9.2.33pr.,
già citato per esteso supra nt.
[149] D.
9.2.2.1 (Gaius 7 ad ed. provinc.) Et infra deinde cavetur, ut adversus
infitiantem in duplum actio esset.
[150] Si
noti come, oltre all’incipit
più esteso del frammento tratto dalla legge romanico barbarica, vi sia o
un errore di trascrizione o una degradazione del latino relativo alla parola
‘ligamen’ che vede una
variazione di vocale tale da renderla scarsamente conciliabile con il contesto,
secondo l'ortografia del periodo classico.
[151] LRB.
13.1 Si animal cuiuscumque damnum
intulerit, aut estimationem damni dominus solvat, aut animal cedat; quod etiam
de cane et bipede placuit, observari, secundum speciem Pauli sententiarum libro
primo sub titulo: si quadrupes pauperiem fecerit. PS. Int. 1.15.1 Si
alienum animal cuicumque damnum intulerit aut alicuius fructus laeserit,
dominus eius aut aestimationem damni reddat aut ipsum animal tradat. Quod etiam
de cane similiter est statutum. S. 1.15 Si
quadrupes pauperiem fecerit damnumve dederit quive depasta sit, in dominum
actio datur, ut aut damni aestimationem subeat aut quadrupem dedat: quod etiam
Lege Pesolania de cane cavetur. Il secondo passo, forse tratto dal pensiero
di Paolo, è stato inoltre spesso commentato in riferimento alla menzione
di una fantomatica legge Pesolania, riguardante la disciplina giuridica sancita
in merito al cane. Purtroppo non vi sono riscontri definitivi riguardo ad una
sua effettiva esistenza, fatto che ha condotto diversi Autori ad ipotizzare che
in realtà essa fosse una citazione di una altrettanto ignota Lex Solonia de cane (si vedano infra
ntt. 168 e 169 i riferimenti al pensiero di Cujacio e Pothier), ma difficilmente
pare sostenibile l'ipotesi di una influenza sul punto del mondo greco su quello
latino. Circa l'esistenza della legge in discussione si vedano Macqueron, Dommages, cit., 136; F. Girard, Les actions
noxales, in «Nouvelle revue
historique de droit francais et etranger», XI, 1888, 316 e
soprattutto E. Caiazzo, Lex
Pesolania, cit, ntt. 9-13, 293-294 per una esaustiva e recente
panoramica in merito alle posizioni assunte dalla letteratura in merito
all'esistenza ed al contenuto della Lex Pesolania.
[152] Solo
incidentalmente, a dimostrazione di quanto l'actio de pauperie e l'azione derivante dall'edictum de feris fossero ritenute collegate dal punto di vista
sostanziale, interessa in questa sede il passo delle Institutiones giustinianee in cui, trattando dell'actio de pauperie, viene citato in modo
strettamente legato, il contenuto della seconda disposizione I. 4.9.pr.-1 Animalium [...] pauperiem fecerint, noxalis actio lege duodecim tabularum prodita est
[...]. 1- Ceterum sciendum est aedilitio
edicto prohiberi nos canem, [...] ibi
habere qua vulgo iter fit.
[153]
Naturalmente non ci è dato sapere se il ligamen in questione
fosse adatto solo a trattenere il cane, come un semplice guinzaglio, oppure se
contemporaneamente bloccasse le fauci dell’animale sommando alla
costrizione dei movimenti anche gli effetti di una museruola.
[154] Se vi
fosse necessità di ulteriori considerazioni in merito alla difficile
collocazione delle Pauli sententiae fra le opere riconducibili al
giurista da cui prendono il nome, si potrebbe accennare al fatto che in un
testo, come quello in analisi, teoricamente redatto in un'epoca, quale il terzo
secolo d. C., formalmente di transizione per la maggior parte delle province
dell'impero fra due procedure processuali, per
formulas e cognitio extra ordinem, sarebbe
stato più logico, se non altro per uniformità verso le generali
modalità espressive adottate dai giuristi, attendersi un formulazione
più vaga nel riferimento alla tipologia giudiziaria, piuttosto che una
presa di posizione verso l'applicazione esclusiva della più recente. Sfugge dalla materia di questo scritto
affrontare in modo appropriato l’affascinante questione della evoluzione
delle tipologie processuali. Mi sia semplicemente permesso far cenno alla
questione della presunta abolizione nel 342 d. C. da parte degli Imperatori
Costanzo e Costante della procedura formulare: data ovviamente inconciliabile
con l’esclusiva menzione da parte del giurista Paolo della cognitio extra ordinem quale
modalità procedurale per ottenere la soluzione della controversia. Si
veda in merito G. Bassanelli Sommariva, Costanzo e Costante hanno davvero abolito il processo
formulare?, in «Rivista di Diritto Romano – Periodico
di Storia del Diritto Romano, di diritti antichi e della tradizione romanistica
medioevale e moderna», pagina web http://www.ledonline.it/rivistadirittoromano/allegati/dirittoromano0102bassanelli.pdf
, pubblicata nel gennaio 2002.
[155] Si veda il pensiero di Macqueron,
Dommages, cit., 144 «Cela signifie qu'une bête féroce ne
doit pas être enchainée dans le rues, autrement dit qu'on doit laisser
divaguer in liberté! Le rédacteur maladroit a certainement voulu
dire que la présence d'une 'fera bestia' était interdite
dans le rues, même si elle est enchainée». L’Autore, esposto il suo rifiuto per il tenore letterale
con cui questo testo ci è giunto, espone la ricostruzione che più
di ogni altra, dal punto di vista contenutistico, ci saremmo aspettati di
trovare in un passo di questo argomento.
[157] Il
tenore originale del passo potrebbe in questo caso essere ipotizzato come: [Feram bestiam] <Feras bestias> in ea parte
qua populo iter est [colligari]
<collegi>, praetor prohibet. Et ideo, sive ab ipsa sive propter eam ab alio
alteri damnum datum sit, pro modo admissi extra ordinem actio in dominum vel
custodem datur, maxime si ex eo homo perierit.
[158] Gai.
2.67 Itaque si feram bestiam aut volucrem
aut piscem ceperimus, simul atque captum fuerit hoc animal, statim nostrum fit,
et eo usque nostrum esse intellegitur, donec nostra custodia coerceatur; cum
vero custodiam nostram evaserit et in naturalem se libertatem receperit, rursus
occupantis fit, quia nostrum esse desinit: naturalem autem libertatem recipere
videtur, cum aut oculos nostros evaserit, aut licet in conspectu sit nostro,
difficilis tamen eius persecutio sit.
[159] Nel
qual caso, decisamente più complesso, si sarebbe dovuto far riferimento
alle consuete norme per l'attribuzione della legittimazione passiva in capo al dominus per responsabilità del
fatto altrui con eventuali ripercussioni, una volta di più, in campo
nossale. Salvo naturalmente che il padrone non fosse stato a sua volta mandante
o consapevole dell'intento lesivo, fatto che gli avrebbe non solo inibito la
facoltà di liberarsi dalla responsabilità con la noxae deditio dello schiavo, ma avrebbe
implicato la sua responsabilità diretta per la lesione provocata,
escludendo quindi quella del servo. D. 9.4.2.1 (Ulpianus 18 ad ed.)
[...] Celsus tamen differentiam facit inter legem Aquiliam et legem duodecim
tabularum: nam in lege antiqua, si servus sciente domino furtum fecit vel aliam
noxam commisit, servi nomine actio est noxalis nec dominus suo nomine tenetur,
at in lege Aquilia, inquit, dominus suo nomine tenetur, non servi [...]. Si
veda anche lo studio basato su D. 9.4.2 e D. 9.4.4 – per alcuni versi
esplicitamente in contraddizione col Biondi – di B. Albanese, Sulla
responsabilità del 'dominus sciens' per i delitti del servo, in
«BIDR.», LXX, 1967, 120
«Noi riteniamo che, al contrario, avessero ragione gli studiosi meno recenti
(Pampaloni, specialmente), che pensavano essere stata una innovazione
giustinianea la generalizzazione dell'accennata rilevanza della scientia
domini, mentre i classici avrebbero ammesso quella rilevanza solo per un
limitato numero di fattispecie di illecito privato» continuando –
circa la questione di nostro interesse – a pag. 129 «In
conclusione, sembra estremamente probabile l'esistenza di una previsione
espressa della scientia nel plebiscito aquiliano. Tanto più che
[...] sarebbe veramente far troppo credito alla giurisprudenza l'attribuirle il
potere di derogare così gravemente al principio civilistico del normale
regime nossale [...] in mancanza di un appiglio diretto nel testo legislativo
aquiliano». A favore di quest'ultima affermazione la ricostruzione della lex
Aquilia teorizzata da Cannata – Il terzo capo, cit., 111
– in cui l'Autore inserisce in calce al terzo capo della legge le parole
'Si servus sciente domino faxit, adversus erum in solidum actio esto, si
insciente, noxalis esto'. Come eccezione al regime comunemente ricondotto
alle azioni nossali – ed in particolare al brocardo noxa caput
sequitur – ritengo di grande interesse D. 9.4.2.1 (Ulpianus 18 ad
ed.) Is qui non prohibuit, sive dominus manet sive desiit esse dominus,
hac actione tenetur: sufficit enim, si eo tempore dominus, quo non prohibeat,
fuit, in tantum, ut Celsus putet, si fuerit alienatus servus in totum vel in
partem vel manumissus, noxam caput non sequi: nam servum nihil deliquisse, qui
domino iubenti obtemperavit. A favore
Kerr Wylie, Actio, cit.,
468 «If the animal were alienated, there was no passing of liability from
the alienor to the alienee. On the contrary, the alienor simply lost his power
of making a transfer of the animal to the injured party (unless, of course, he
could persuade the alienee to restore the animal), and had no alternative but
to pay pecuniary damages: in no case did the alienee incur any
obligation». Si veda inoltre sulla responsabilità del dominus in
ambito aquiliano D. 9.2.45pr. (Paulus 10
ad Sab.) Scientiam hic pro patientia
accipimus, ut qui prohibere potuit teneatur, si non fecerit.
[160] D.
9.2.27.9 (Ulpianus 18 ad ed.) Si fornicarius servus coloni ad fornacem
obdormisset et villa fuerit exusta, Neratius scribit ex locato conventum
praestare debere, si neglegens in eligendis ministeriis fuit: ceterum si alius
ignem subiecerit fornaci, alius neglegenter custodierit, an tenebitur qui
subiecerit? Nam qui custodit, nihil fecit, qui recte ignem subiecit, non
peccavit: quid ergo est? Puto utilem competere actionem tam in eum qui ad
fornacem obdormivit quam in eum qui neglegenter custodit, nec quisquam dixerit
in eo qui obdormivit rem eum humanam et naturalem passum, cum deberet vel ignem
extinguere vel ita munire, ne evagetur. Si veda inoltre in merito, anche se
il passo esula dal contesto aquiliano, D. 44.7.5.6 (Gaius 3 aur.) Item exercitor
navis aut cauponae aut stabuli de damno aut furto, quod in nave aut caupona aut
stabulo factum sit, quasi ex maleficio teneri videtur, si modo ipsius nullum
est maleficium, sed alicuius eorum, quorum opera navem aut cauponam aut
stabulum exerceret: cum enim neque ex contractu sit adversus eum constituta
haec actio et aliquatenus culpae reus est, quod opera malorum hominum uteretur,
ideo quasi ex maleficio teneri videtur.
[161] Pare
quasi superfluo precisare che la situazione sarebbe nuovamente mutata verso la
colpa semplice nel momento in cui il dominus
fosse stato al corrente della incapacità dello schiavo di portare a
termine il compito affidatogli.
[163] In
altre parole si potrebbe dire che si tratta di una situazione in cui –
non esistendo alcun nesso soggettivo fra il comportamento, le precauzioni
adottate dal dominus dell'animale e
la lesione verificatasi – può constatarsi esclusivamente un
rapporto diretto fra il diritto di proprietà e la legittimazione passiva
all'azione, tipico della responsabilità oggettiva.
[165] In merito le Institutiones, malgrado usino una
perifrasi per indicare l'edictum de feris, sono chiare sulla questione
del cumulo d'azioni: I. 4.9.1 Ceterum sciendum est aedilitio edicto
prohiberi nos canem, verrem, aprum, ursum, leonem ibi habere qua vulgo iter
fit: et si adversus ea factum erit et nocitum homini libero esse dicetur, quod
bonum et aequum iudici videtur, tanti dominus condemnetur, ceterarum rerum,
quanti damnum datum sit, dupli. Praeter has autem aedilicias actiones et de
pauperie locum habebit: numquam enim actiones praesertim poenales de eadem re
concurrentes alia aliam consumit. Al
contrario, in merito al periodo classico, non ci sono stati tramandati passi
altrettanto indicativi, Kerr Wylie,
Actio, cit., 472 «But whether the classical jurisprudence allowed
'cumulation' to operate freely, so that the plaintiff could recover
under both concurrent actions, or whether the cumulation was restricted by some
form of 'pretorian' or 'judicial' consumption these are hard
questions into which we cannot possibly enter here».
[166] In
questa sede mi limito a trascrivere il testo del frammento tratto dalla legge
dei Burgundi rinviando, per un esame comparato dei due frammenti allo scritto
di E. Caiazzo, Lex Pesolania, cit., 279-
[167]
Interessante ma solo da segnalarsi, vista la marginalità rispetto al
fulcro di della ricostruzione delle varie tipologie di responsabilità in
cui potesse incorrere il padrone di un cane, è la considerazione
sull'accezione dei termini damnum e pauperie in questo testo. E. Caiazzo, Lex Pesolania, cit.,
281, ipotizza che «La menzione del damnum sia gradualmente
apparsa [...] nelle varie rielaborazioni del testo delle Sententiae, non
con riferimento al damnum tecnico, del terzo capo della legge Aquilia,
ma come espressione di una dilatazione di questo concetto [...]».
[168] J. Cujacio, Opera, tomo V, Prato, 1838, 2042 ss. L'Autore nel titolo XXIII
intitolato 'Si quadrupes damnum intulerit'
scrive a proposito del nome della legge in questione 'Sed idem etiam de lege, inquit, Pesulania de cane cavetur. In libro Lutetiae
edito, curante Almarico Bouchardo, duobus annis antequam Basiliensem editionem
Jo. Sichardus procurasset, legitur Pesolonia. Equidem legendum opinor: Solonia'.
In nota al nome Solonia si legge inoltre 'Hanc
Cujacii conjecturam magnopere probarunt Antonius [...] Sed sane vocabuli terminatio magis Romanam quam Atticam legem videtur
indicare. Quis unquam Solonis leges vocavit Solonias? Et cur Paulus in libro,
quo prima juris Romani elementa complexus est, legem quamdam Graecam
adduxisset? Si recte se habet scriptura, ac non potius Petidiana, vel alio modo
scriptum fuit, vero similius est Pesulanum quemdam quisquis is demum fuerit,
Tribunum plebis speciatim de cane sanxisse quod lex XII tabularum generatim de
quadrpedibus sanxerat, adeoque lege Pesulaniam plebiscitum quoddam esse, cujus
tamen auctorem aeque ac aetatem scimus juxta cum ignarissimis'.
[169] R. G. Pothier, Pandette di Giustiniano, I, Venezia, 1841, 453. Pothier da credito
alla lezione che vuole in ‘Lege
Pesulania’ il
corretto riferimento a questa legge.
[170] E. Caiazzo, Lex Pesolania, cit.,
283 «Sicché la congettura, pur antica ed autorevolmente ripresa,
di un richiamo erudito di Paolo alla legge ateniese sembra smentita da tutta la
storia testuale successiva. D'altra parte il testo di Plutarco – Solon.
24.3, si veda inoltre la letteratura citata dalla Autrice – serva la
menzione di n×moj di Solone contenente in un'unica legge previsioni sui quadrupedi
(tÀtrapodwn), fra
le quali figuravano anche disposizioni sui cani, con la singolare sanzione che
il cane che avesse morso qualcuno doveva essere punito portando al collo un
collare di tre cubiti. Troppe differenze, evidentemente, sia per ipotizzare un
richiamo di Paolo fornito di un contenuto comparatistico di qualche
attendibilità sia per negare qualunque fede a tre testi che, citando o
meno la lex Pesolania, alludono comunque ad un provvedimento legislativo
specifico per i cani e diverso, dunque, dalla previsione decemvirale delle pauperies
compiute da quadrupes. Si aggiunga che la fonte greca sembra
sottolineare il il carattere di misura di sicurezza pubblica [...] che mira a
porre il cane, rivelatosi mordace, in condizioni di non nuocere».
[171] Si veda anche Provera, Lezioni, cit., 324-325. Brevemente l'Autore, oltre a propendere per la lezione lex Pesolana, ricostruisce il regime introdotto da questa norma con l'estensione dell'actio de pauperie la quale sarebbe stata esclusa per il cane in quanto fera bestia per i giuristi romani. A giustificazione dell'inclusione di questo animale nella schiera degli animali feroci, espressa comunque in forma dubitativa, sarebbe la concatenazione fra S. 1.15.1 e S. 1.15.1a, in considerazione del fatto che in questo secondo passo il caso esposto riguarda un 'saevus canis'.
[172] E. Caiazzo, Lex Pesolania, cit.,
[175]
Ponendosi in contrapposizione con la tesi (di tenore esattamente opposto) sostenuta
da Giangrieco Pessi, Ricerche,
cit., 155 ss. ed in particolare 156-157 «[...] La dottrina , in
genere ha dubitato dell'esistenza della legge Pesolania, o ha tentato,
modificandone il nome (ad es. Pesolania in Soloniana) di spostarne il
significato da citazione di un precedente normativo dell'ordinamento romano a
richiamo di diritto comparato di un precedente normativo dell'ordinamento
greco. A noi sembra questa la via da percorrere. Concordiamo, infatti, con chi
sostiene che il passo sia autentico e che la legge sia attribuibile
all'ordinamento romano – probabilmente posteriore alla lex Aquilia
ed antecedente all'editto de feris – anche se deformata, in quanto
al nome, dai copisti».
[176]
«Ma la congettura, pur finemente argomentata, non sembra convincente. Le
fattispecie di questi due editti erano del tutto diverse tra loro e non
può stupire che il comportamento dell'effudere vel deiecere,
lecito peraltro di notte, meritasse una sanzione meno grave di chi conducesse a
spasso un leone. Sicchè escluderei che nella diversità fra le due
condanne abbia avuto 'gran parte quella distanza nel tempo che è sempre
accompagnata da un aggravamento della condanne pecuniarie'». E. Caiazzo, Lex Pesolania, cit., 291.
Si veda supra § 1 per maggiori dettagli in merito alla tesi di
Casavola.