N. 6 – 2007 – Tradizione Romana
Università di Bari
Dote ed interesse pubblico
SOMMARIO: 1. Interesse
pubblico per la salvezza della dote. – 2. Dote e familia.
– 3. L’intervento
pubblico. – 4. Radici del
presente.
L’esperienza giuridica romana mostra uno stretto
parallelismo tra il matrimonio e la dote, considerata da alcune fonti
indispensabile per la contrazione del vincolo matrimoniale.
Il legame tra dote e matrimonio fu ritenuto essenziale e,
durante il principato, determinò il passaggio della protezione della
dote dall’àmbito privato a quello pubblico.
Ne sono testimonianza alcuni frammenti dei giuristi del II
e III secolo d. C.
Su alcuni di essi mi pare opportuna una rivisitazione,
diretta ad evidenziare alcuni tratti del diritto romano riguardo alla dote e ad
interrogarci sull’eventuale influenza di essi nel diritto
dell’età contemporanea.
Per primo prendo in considerazione un brano di Pomponio.
Si tratta di un frammento estratto dal commentario ad Sabinus, il quale, proprio in ragione dell’opera
commentata, lascia intendere che riflettesse una concezione antica e
consolidata della tradizione civilistica romana[1]:
D. 24.3.1, Pomp. 15 ad Sab. [L. 612]: Dotium causa semper
et ubique praecipua est: nam et publice interest dotes mulieribus conservari
cum dotatas esse ferninas ad subolem procreandam replendamque liberis civitatem
maxime sit necessarium.
Pomponio[2] affermava che vi
era un interesse pubblico per la sorte delle doti. Egli stesso testimonia che
il riconoscimento di tale interesse era radicato nel ius civile: egli, infatti, dichiarava che la nozione da lui enunciata era
stata ritenuta semper et ubique precipua.
Nei commentari all’editto del pretore urbano si
incontra la stessa visione, espressa, sul finire dell’esperienza
giuridica del principato, dal severiano Paolo; il quale affermava che le doti
erano indispensabili per consentire l’effettuazione dei matrimonio, la
quale rientrava nelle finalità della Res
publica:
D. 23.3.2, Paul. 60 ad ed. [L. 728]: Rei publicae
interest mulieres dotes salvas habere, propter quas nubere possunt[3].
D. 42.5.18, Paul. 60 ad ed. [L. 729]: interest enim rei
publicae et hanc solidum consequi, ut aetate permittente nubere possit[4].
L’interesse della collettività dovette avere
più implicazioni e suggerì di trovare forme di difesa del
patrimonio dotale anche dinanzi ad eventuali atti di alienazione di esso e di
singoli beni di essa, dando vita alla configurazione di un privilegium dotis[5].
Esso era una chiara concretizzazione della “legislazione
protettiva delle strutture abitative urbane”, sviluppatasi tra il secondo
e terzo secolo del principato, come conseguenza del nuovo ideale, affermatosi
nell’età imperiale, «della città, simbolo del potere
e della sua dimensione universalistica»[6].
Le nuove concezioni che scaturirono dalla
centralità del ‘pubblico’ (come noi oggi diremmo) dovettero
giustificare lo spostamento degli strumenti diretti al recupero dei beni
dotali, dando luogo a forme, come quella del privilegium, che gli studiosi contemporanei ascrivono ad una
disciplina di favor dotis[7].
Esso si pose al termine di un antichissimo processo
diretto ad agevolare la contrazione dei matrimoni, attraverso la costituzione
di una dote appetibile da parte dei futuri mariti. Sappiamo che fin dalle
origini di Roma, secondo l’annalistica, Romolo avrebbe imposto ai clienti
di aiutare il proprio padrone (in eventuali difficoltà) a dotare la
figlia[8].
Vi furono anche interventi pubblici diretti ad incentivare
i matrimoni, attraverso la costituzione di patrimoni dotali. Sappiamo, infatti,
che in più occasioni il Senato costituì la dote a fanciulle, che
altrimenti (senza dote) non si sarebbero potuto sposare a causa
dell’assenza dei padri impegnati in guerra o che, comunque, si erano
dedicati alla cura della cosa pubblica e non avevano potuto provvedere alla dote delle figlie[9].
Plauto, nell’Aulularia, fa dire
ad un suo personaggio che la mancanza di dote rendeva impossibile sposare una
figlia[10].
Alla luce di questa tradizione antichissima e radicata le
affermazioni di Pomponio e dei giuristi severiani appaiono in stretta
continuità con tutta la storia dell’esperienza e del diritto
romano e con la centralità assunta dalla dote ai fini della costituzione
del matrimonio.
Va, infatti, tenuta presente la stretta corrispondenza tra
dote e matrimonio, la quale arrivava al punto che non si potesse affermare
l’esistenza di una dote nei casi nei quali mancassero i requisiti
perché una unione fosse riconosciuta come matrimonium, come nel caso di concubinato[11]
o di unione di una schiava che avesse conferito beni al presunto marito,
credendo di darli in dote[12].
Si discuteva persino se potesse ammettersi l’esistenza del matrimonio
quando non ci fosse stata la costituzione dotale[13].
Queste concezioni facevano sì
che la dote, essenziale al matrimonio, dovesse essere salvaguardata nella sua
finalità primaria, cioè rispetto alla sua destinazione alla
creazione dei matrimoni. Tuttavia per molto tempo la tutela delle doti fu
affidata ai patres familias o a limitazioni di carattere dispositivo, introdotte per la
prima volta dalla legislazione augustea attraverso il divieto di alienazione
dei fondi dotali[14].
Fra queste forme di protezione
non vi fu, per tutta l’età repubblicana e nel primo periodo del
principato, nessuna forma di ‘particolarità’ dei beni
dotali, che ne consentisse il loro perseguimento, di là dai vincoli
posti dalle leggi di Augusto, pur quando fossero stati alienati e si trovassero
nelle mani del terzo, probabilmente in buona fede.
L’affermazione, riguardo
ai beni dotali, che la loro destinazione dovesse essere tutelata tramite privilegium
ed ancor più la concezione di un interesse rei publicae alla salvezza delle doti,
appare comprensibile alla luce del ruolo centrale riconosciuto alle doti nelle
dinamiche matrimoniali, ma appare anche decisamente in contrasto con il ruolo
riconosciuto, da sempre, alle famiglie nella politica e nella disciplina dei
matrimoni.
Invero il matrimonium
e gli istituti che ad esso si collegavano riguardavano le familiae ed i singoli o la collettività erano interessati
attraverso la mediazione delle famiglie[15],
perciò l’affermazione della prevalenza o, quanto meno, della
presenza di un interesse pubblico alla conservazione delle doti appare quasi
come una sorta di capovolgimento in
virtù del quale la dote, fino ad allora funzionale alle familiae,
entrava direttamente negli istituti di interesse pubblico, in posizione anche
autonoma rispetto a quella delle famiglie.
Dinanzi a siffatta proiezione della dote appare stimolante
una rivisitazione dell’istituto.
Partiamo dalle origini sia
della composizione delle doti sia della loro disciplina.
Si ipotizza che
l’esigenza di assicurare una dote nel matrimonium forse fu avvertita a causa
dell’abbandono del matrimonium cum manu e della conseguente predisposizione di un
istituto che consentisse alla donna di ottenere (anticipatamente) la parte di
beni a lei spettante, attraverso una modalità che doveva anche indicare
il gradimento per la nuova unione, concretizzato nel conferimento di un
significativo contributo diretto a consolidare le sue prospettive di buona
riuscita[16]. Il marito che nel matrimonio cum manu
acquistava i beni della donna in seguito all’acquisto della manus su di lei[17]
(la quale faceva sì che i beni della donna sui iuris[18]
sarebbero stati acquistati ‘in blocco’ dal marito o dal di lui pater e la donna avrebbe perso ogni
aspettativa successoria rispetto al proprio pater),
nel matrimonio sine manu deve essere
rassicurato, ricevendo i beni della moglie attraverso un atto
‘specifico’ di conferimento[19].
Perciò l’attribuzione, l’utilizzo e la
tutela delle doti, che, per gran parte dell’età repubblicana,
consistettero essenzialmente nei ‘fondi’[20],
era questione che riguardava soltanto i mariti e l’assetto delle familiae.
Questo era conseguenza del fatto che i beni dotali erano
considerati come ‘dono’ della donna (rectius del pater della mulier) al marito[21].
Lo sforzo, operato dai giuristi, andò verso il
sempre più penetrante riconoscimento della destinazione della dote, la
quale fu finalizzata al sostegno dei costi del matrimonio[22],
tanto da spingere il giurista Paolo ad affermare che si potesse parlare di dote
solo riguardo ai beni destinati a coprire le spese da sostenere nel matrimonio[23].
Pertanto pare fuori discussione che la nascita e la
struttura della dote avvenne all’interno della familia ed era funzionale all’organizzazione di essa.
Né mai si riscontrarono forme di costituzione di
dote che non provenissero dalla familia.
Infatti la dote era creata esclusivamente dai padri, dalla stessa donna (se sui iuris) o da un terzo, vincolato alla
famiglia della futura moglie o, direttamente a lei e potevano derivare
dall’adempimento dell’obbligo di “dotare le figlie”.
Il costume registrava l’esistenza di un dovere di
dotare le figlie, in modo da consentire loro di potersi sposare.
L’obbligo sociale fu poi affiancato dal riconoscimento di un obbligo
giuridico di dotare le figlie.
Fu proprio nella configurazione di questo dovere a farsi
strada l’intervento pubblico. Esso, probabilmente, conseguì,
più o meno direttamente, dalla legislazione di Augusto[24]
e, certamente, da alcuni provvedimenti degli Imperatori Settimio Severo ed
Antonino Caracalla[25],
trovando definitiva conferma con Giustiniano[26].
È stato sostenuto[27]
che la lex Julia avrebbe consentito il ricorso al pretore urbano per
costringere il padre ad acconsentire alle nozze e dotare la figlia e
che, successivamente, i compiti del pretore furono trasferiti ai proconsoli ed
ai governatori delle province dai Severi[28].
Infine Giustiniano in una costituzione del 531 confermava
l’obbligo di dotare le figlie e dichiarava che esso era stato stabilito
da note normative precedenti:
C.I. 5.11.7.2, Imp. Iustinianus A. Ihoanni praefecto praetorio: Neque enim leges incognitae
sunt, quibus cautum est omnimodo paternum esse officium dotes vel ante nuptias
donationes pro sua dare progenie.
Il senso degli interventi succedutisi almeno dal terzo
secolo (d. C.) non pare dubbio; ci si deve chiedere se, in realtà, essi
siano la spia dell’indebolimento del ruolo delle familiae, ritenendo che proprio il fatto di dovere richiedere ai
magistrati di imporre l’obbligo di dotare le figlie sia indice
dell’affievolimento dei legami esistenti all’interno delle famiglie
e del ruolo da esse ricoperto nelle trasformazioni dell’ultimo principato
e, successivamente, del basso impero.
Certo è che nel quarto secolo l’obbligo non
solo appariva consolidato ed era affidato alla cura dei magistrati, ma
subì ulteriori estensioni, tanto che ci si interrogava
sull’estensione dell’obbligo anche alle madri[29],
poiché l’obbligo, in corrispondenza con l’assetto della familia concerneva esclusivamente i
‘padri’ ed i loro eredi[30].
L’estensione alle madri fu l’ulteriore
conseguenza della riconfigurazione della famiglia e del fatto che
cominciò ad emergere una concezione in base alla quale la familia non ruotò più solo
intorno ai patresfamilias, ma venne
considerata un istituto nel quale avevano rilievo entrambi i genitori, come
appare in una costituzione di Giustiniano del 529, nella quale, malgrado la
specificità del provvedimento (concernente gli eretici), l’obbligo
alimentare è considerato un dovere gravate su entrambi i coniugi:
C.I. 1.5.19.3, Imp. Iustinianus A. Demostheni: Sed ne videamur
morientibus quidem genitoribus liberis providere, viventibus autem nullam
inferre providentiam, quod etiam ex facto nobis cognitum est, necessitatem
imponimus talibus genitoribus, ortodoxos liberos secundum sui patrimonii
quantitatem alére, et omnia eis praestare, quae ad quotidianae vitae
conservationem sufficiant: sed et dotes pro filiabus et neptibus dare, et ante
nuptias donationes pro filiis vel nepotibus perscribere, in omni casu secundum
vires patrimonii huiusmodi liberalitatibus aestimandis, ne propter divini amoris
electionem paterna vel materna sint liberi provisione defraudati.
Dunque durante il principato ed il dominato prese forma
l’intervento pubblico in materia dotale, trovando definitiva conferma
nella legislazione di Giustiniano.
Questo intervento fu rivolto alla salvaguardia della
funzione di ‘destinazione’ dei beni dotali, la quale fu puntuale e
penetrante fin dal tempo di Augusto, come appare da una notizia di Valerio
Massimo, il quale riferiva che l’imperatore Augusto aveva negato alla
donna che si fosse sposata con un vecchio (con lo scopo di sottrarre i beni che
essa dichiarava di destinare in dote) di potere considerare ‘dote’
i beni apportati in un siffatto matrimonio, sottraendoli, quindi, ai figli da
essa odiati[31].
Ecco dunque il percorso attraverso il quale
l’interesse pubblico si insinuò ed affermò nelle famiglie
romane e diventò punto di riferimento nella politica di salvezza delle
doti.
Esso fu finalizzato alla tutela dei matrimoni e in
relazione a questa finalità si risolse in protezione delle aspettative
delle mogli, influenzando, probabilmente, anche l’appartenenza della
dote.
La dote, che in età proto-repubblicana apparteneva
al marito o al di lui pater[32],
durante il principato, seguendo una tendenza comparsa forse già
nell’ultimo secolo dell’età repubblicana, finì per
non appartenere più al marito; fu riconosciuto che essa era della
moglie, sicché il marito era divenuto soltanto un amministratore, peraltro
assoggettato a criteri molto severi di valutazione della sua gestione[33].
Alla
conclusione di quello che dovette essere un discusso e tormentato processo,
riassumendo la situazione il giurista Trifonino poteva affermare che la dote
era pur sempre della donna, ancorché nelle mani del marito:
D. 23.3.75, Tryph., 6 disput. [L. 17]: Quamvis in
bonis mariti dos sit, mulieris tamen est: et merito placuit, ut si fundum
inaestimatum dedit cuius nomine duplae stipulatione cautum habuit, isque marito
evictus sit, statim eam ex stipulatione agere posse.
Il principio affermato dal
giurista severiano, posto in apertura del frammento quasi per inciso e come a
richiamo di una nozione indiscussa, parrebbe in contrasto con le numerose fonti
che sostenevano la proprietà del marito sulla dote. Esso, in
realtà, testimonia l’approdo di un lungo percorso[34],
probabilmente iniziato con interventi dei censori o dei tribunali domestici[35], passato per la legislazione augustea e di altri
imperatori e attraverso decisioni sempre più vincolanti dei giuristi[36].
Le
ragioni profonde che potettero giustificare l’intervento pubblico, pur
contro radicate prerogative delle familiae
e dei mariti, che di essere erano il cardine, vanno ricercate nella particolare
concezione che si ebbe del ruolo della famiglia stessa all’interno della res publica.
Ad
esso ci rinvia lo stesso Pomponio, il quale stabiliva un nesso stretto e
diretto tra interesse pubblico, dote e procreazione dei figli: per lui le doti
e la loro protezione non erano funzionali agli interessi delle donne o delle
sole famiglie, bensì alla superiore attribuzione della repubblica,
cioè al fatto che questa, attraverso la filiazione, dovesse
‘crescere’. Era questa la teleologia dell’intera
società ed era stata già chiaramente evidenziata durante la
repubblica, da Cicerone[37],
le cui opere erano lette da Pomponio[38].
Rispetto a queste concezioni si comprende la nascita dell’opinione di un
necessario intervento pubblico per garantire il fine primario sia della matrimonium, base della famiglia, sia
della civitas, attraverso
l’imposizione dell’obbligo di dotare le figlie e di salvaguardarne
le doti. Il fatto che sempre più, come si è ricordato, per esse
si accentò la destinazione ad
onera matrimonii sustinenda ne giustificò ulteriormente la
necessità di proteggerle, al fine di consentire, come diceva Pomponio e
ribadiva Paolo, la contrazione dei matrimoni.
La protezione accordata alle donne riguardo alla dote
appare come il risultato di una profonda riflessione e della consapevolezza che
le donne, in quanto essenziali alla crescita della Città andavano
tutelate, appunto attraverso la salvaguardia dell’integrità delle
doti. Il che era frutto del profondo ripensamento che fu operato nel diritto
romano già alla fine della Repubblica, arrivando a maturazione con il
Principàto, quando gli istituti furono innervati da nuove concezioni, le
quali permisero di superare le attribuzioni ataviche della familia e di collocare in primo piano le esigenze della Res publica, anche rispetto a questioni
in precedenza ritenute ‘private’, come nel caso delle doti[39].
L’affermazione dell’interesse pubblico alla tutela delle doti
è prova del grado raggiunto dall’esperienza e dalla giurisprudenza
romana nella maturazione della considerazione non individualistica delle
persone e dei gruppi, ivi comprese le familiae
nell’esperienza romana, la quale comunque fin dall’età
repubblicana aveva visto affermarsi la concezione che considerava la
realtà, come se fosse articolata in centri concentrici e reciprocamente
funzionali[40].
Dovette essere stato proprio
quello che Pomponio e Paolo indicavano come interesse rei publicae a dar vita a molteplici limitazioni delle facoltà
del marito, sino a ridurlo al rango di gerente qualificato e assoggettato a
molteplici vincoli di gestione, che resero persino superfluo il regime delle retentiones, attraverso le quali il
marito, nel caso che fosse stato tenuto a restituire la dote, poteva trattenere
parte dei beni. Giustiniano, con una costituzione del 529, le abolì
perché affermò che la dote spettava alla donna per diritto naturale, il quale rendeva
invalide ed immotivate le statuizioni di senso diverso, che lui con sprezzo
addebita a subtilitas legum
C.I. 5.12.30pr., Imp. Iustinianus A.
Demostheni praefecto praetorio: In
rebus dotalibus, sive mobilibus, sive immobilibus, seu semoventibus, si tamen
extant, sive aestimatae, sive inaestimatae sint, mulierem in his vindicantis
omnem habere post dissolutum matrimonium praerogativam et neminem creditorum
mariti, qui anteriores sunt, sibi potiorem causam in his per hypothecam
vindicare, cum eaedem res et ab initio uxoris fuerant et naturaliter in eius
permanserunt dominio. Non enim quod legum subtilitate transitus earum in mariti
patrimonium videntur fieri, ideo rei veritas deleta et confusa sit.
Non solo il diritto alla dote, dunque, derivava alla moglie
dal ius naturale, ma corrispondeva ad una ‘verità’
rinnegata e confusa, che, ovviamente, l’imperatore intendeva
ripristinare.
Nel
suo pensiero era raccolta e portata a completamento la riflessione che aveva
spinto a riconoscere l’interesse pubblico nei riguardi delle costituzioni
e gestioni delle doti e, (almeno al tempo dei Severi), aveva portato alla
concessione del privilegium dotis.
Esso aveva la finalità di difendere l’integrità del
patrimonio dotale anche nei confronti dei creditori, considerandolo complesso
di beni a sé stante, separato da quello del marito e della famiglia
stessa e, come poneva in evidenza Giustiniano, sottratto all’aggressione
dei creditori del marito.
Possiamo,
in conclusione, affermare che in materia di dote l’evoluzione del
pensiero giuridico romano consisté nella ricerca di uno status di separatezza e di un vincolo di
destinazione riguardo al patrimonio dotale.
Il che
costituisce un’eredità ancora viva e vitale.
L’esame
consente di scorgere le distanze ma anche le proiezioni
dell’eredità del diritto romano.
La
dote ci è apparsa nella sua veste di strumento essenziale della politica
di incentivazione dei matrimoni, attraverso i quali, come evidenziava il
giureconsulto Pomponio si doveva “procreare prole e riempire la
città di figli”[41].
In un'età nella quale ci si sposava, in genere
assai giovani, e senza avere potuto acquisire con le proprie forze adeguati
beni patrimoniali, l'istituto della dote aveva una precisa funzione di
salvaguardia e di protezione del nascente nucleo familiare, in quanto
permetteva ad esso una base economica di partenza ritenuta adeguata ai bisogni
iniziali della famiglia. Vi era, infatti, un interesse pubblico rispetto al
costume ed alle prerogative della famiglia romana, così come si evince
dalla politica e dalla legislazione di Augusto.
In Roma il matrimonio, la possibilità di sposarsi,
la fruizione dei mezzi per il sostentamento della famiglia erano, infatti,
preoccupazioni ed interessi primari della Repubblica.
Oggi, al contrario, in tempi di politica di
disincentivazione della natalità e di controllo delle nascite, non si ha
cura più di mettere le donne, rectius le persone, in condizione
di sposarsi. Si punta, piuttosto alle politiche di inserimento dei singoli ed
in particolare della donna nel mondo del lavoro, con la convinzione che risolto
il problema occupazionale creino le opportunità per la nascita e la
crescita delle famiglie.
Pur prendendo atto di ciò mi pare tuttavia utile la
rivisitazione dei concetti romani e dell’istituto della dote. Essa
potrà contribuire a riaprire un dibattito ed a richiamare l'attenzione
da parte di tutte le principali istituzioni nazionali e non sul tema della
famiglia.
Nelle legislazioni contemporanee si muovevano nel solco
della tradizione del diritto romano gli artt. 177-209 del codice civile
italiano del 1942, di recente abrogazione.
In essi si diceva che “la dote consiste in quei beni
che la moglie o altri per essa apporta espressamente a questo titolo al marito
per sostenere i pesi del matrimonio”[42]
e rifletteva una società nella quale la dote era ritenuta fondamentale
per l'assetto della famiglia italiana, secondo la disciplina proveniente dal
diritto romano, dal quale attingeva, quasi fedelmente, il modello.
Derivava, invero, dal diritto romano l'originaria
previsione della spettanza solo al marito dell'amministrazione dei beni dotali,
la loro inalienabilità e l'obbligo della restituzione allo scioglimento
del matrimonio; inoltre il marito-amministratore (paragonabile ad un
usufruttuario, ma con trattamento più benevolo) desumeva dal diritto
romano parte della disciplina da seguire nell'amministrazione e per la
restituzione dei beni dotali.
Oggi la situazione è profondamente mutata. Tuttavia
mi pare ancora presente l’eco del modello romano, il quale considerava la
dote come un patrimonio destinato ad uno scopo specifico: il sostegno della
famiglia.
La finalità affidata alla dote è ora
perseguita con strumenti di larghissima applicazione e indirizzabili in
più campi, tra i quali anche quello della famiglia.
In Italia, con la riforma del
diritto di famiglia del 1975[43]
è stato introdotto il fondo patrimoniale, la cui disciplina è stata inserita nel codice
civile agli artt. 167-171.
Con la costituzione del fondo
patrimoniale uno o entrambi i coniugi o ancora un terzo non appartenente al
nucleo familiare possono vincolare, tramite atto pubblico, determinati beni
immobili, mobili registrati o titoli di credito al soddisfacimento dei bisogni
della famiglia.
Manca nel testo legislativo una definizione della
figura in esame, tuttavia si può ritenere che il fondo patrimoniale è un complesso di beni
(siano essi immobili, mobili, registrati o titoli di credito) destinato a
soddisfare i bisogni della famiglia. Esso può essere
costituito dai coniugi, anche durante il matrimonio;
oppure può essere costituito da un terzo. La proprietà dei beni conferiti spetta
ad entrambi i coniugi.
Mi pare, che, pur nell’indubbia differente ed
innovativa strutturazione, l’istituto recepisce l’istanza di fondo
affermata dal diritto e dalla giurisprudenza romana nella dote: la proiezione
di un gruppo specifico di beni alle necessità della famiglia, in riferimento
ai bisogni ed alle esigenze volte al pieno mantenimento ed all'armonico
sviluppo della famiglia e da sottrarre ad ogni pretesa, ivi compresa quella dei
creditori del coniuge[44].
In altre parole l’esigenza, avvertita dai romani, di
individuare beni da destinare alla ‘vita’ della famiglia colse
un’istanza perenne, di diritto naturale, e come tale destinata a
ripresentarsi ancora ai nostri giorni, in forme e realtà differenti,
rispetto alle quali resta valida l’intuizione di tenere separati dal
resto del patrimonio dei coniugi i beni destinati ai bisogni della famiglia,
riservando ad essi forme specifiche di protezione e di intangibilità.
Ancora più interessanti eredi dell’assetto
romano sembrano alcuni provvedimenti che si stanno affacciando in àmbito
comunitario, con ricaduta nelle istituzioni dell’UE.
Al modello romano sembrerebbe ispirarsi una Comunicazione
del 2007 della Commissione europea[45],
interamente dedicata alle politiche familiari.
Nello specifico la Commissione europea, riconoscendo il
contributo di straordinaria rilevanza che le famiglie continuano a rivestire
nelle nostre società, enuncia una vasta gamma di proposte vólte a
rendere sempre più strutturale il sostegno alle famiglie, per la vita
della famiglia e per la sua ‘crescita’.
Viene rispolverata in tal modo la concezione romana
dell’augescere ed applicata alla politica ed alla disciplina della
famiglia. Si rilancia la crescita demografica anche attraverso la
reintroduzione della ‘dote’.
Essa, nel linguaggio comunitario, mantiene
l’ispirazione datale dal diritto romano e viene focalizzata sulla nascita
e la crescita dei figli.
All’interno
di questa direttrice, che risale alle radici romanistiche, si stanno muovendo
alcune società intermedie. Ed appare emblematico un provvedimento della
Regione Puglia nel quale si rispolvera il termine ‘dote’ per
individuare la ‘prima dote’ da destinare alle famiglie per i suoi
bisogni, in occasione della nascita di figli e in sostegno agli oneri della
famiglia[46].
In
Conclusione, la tutela della famiglia, quale fondamento della società
attraverso un patrimonio destinato ai suoi bisogni appare ancora oggi di grande
attualità ed attinge alle radici del diritto romano, il quale può
essere un modello di riferimento e di confronto nella delineazione della
disciplina e della sua finalizzazione non al bene individuale, bensì
all’interesse famigliare.
Soffermarsi
sulla dote e sull’emersione nella sua configurazione dell’interesse
e dell’intervento pubblico può servire a trarre indicazioni per la
realtà attuale, nella quale le posizioni tra pubblico e privato sembrano
rovesciate e si rischia di assorbire tutto nel ‘pubblico’ (tra
l’altro, come sinonimo di statualità e non espressione di
società intermedie).
Sembra
che lo sviluppo e la riflessione articolatisi intorno alla dos, con la
sottostante concezione della familia, vista come seminarium rei
publicae, apparsa obsoleta nei tempi moderni, spesso attratta dai modelli
della Common Law, vada invece rivendicata come radice del futuro della
civiltà giuridica europea.
[1]
Cfr. D. Nörr, Pomponius oder “Zum Geschichtverständnis
der römischen Juristen”, in ANRW
II Principat 15 B., Berlin - New York
1976, 544 ss.
[2] Cfr. L. Boyer, La fonction sociale des legs d'après la jurisprudence classique
, in RH 43 (1965), 395; T. Mayer-Maly, rec. di David
Daube, Roman Law, linguistic,
social and philosophical aspects), in
TR 37 (1969), 589; T. Mayer-Maly, Obligamur necessitate, in ZSS
96 (1966), 49; G. Dolezalek, Azos verschollener glossenapparat zu den
tres partes, in ZSS 98 (1968),
404; F. Wieacker, Aspetti del diritto romano, Rec. di David Daube, Roman Law. linguistic, social and philosophical aspects, Edimburgh
1969, in Labeo. 17 (1971), 59; R. Reggi, Origini e funzione dell'"actio rei uxoriae" (Alfred Soellner,
Zur Vorgeschichte und Funktion der actio rei uxoriae) in Index 3 (1972), 589; G. Longo, "Utilitas publica" in Labeo
18 (1972), 31-32; P. Leuregans, Testamenti factio non privati sed publici
iuris est, in RH 53 (1975),
248-256; T. Honsell, Gemeinwohl und oeffentliches Interesse im
klassischen römischen Recht, in ZSS
108 (1978), 117-131; M. Balestri
Fumagalli, "Spes vitae",
in SDHI 49 (1983), 349-354; M. Sargenti, Matrimonio cristiano e societa' pagana. (Spunti per una ricerca),
in SDHI 51 (1985), 384; M. Kaser, "Ius publicum" und "Ius privatum", in ZSS 116 (1986), 25-26, 41-42; H. Wieling, Privilegium exigendi, in TR
56 (1988), 292; M. Peter Orsolya,
"Liberorum quaerundorum causa".
L'image ideale du mariage et de la filiation a Rome, in RIDA 38 (1991), 321; J.Q. Whitman, A note on the medieval division of the digest, in Tijdschrift voor Rechtsgeschiedenis 59
(1991), 271.
[3] Occorre premettere che per il
giurista il matrimonium doveva essere
considerato fondamentale per l’esistenza stessa e lo sviluppo della Respublica: v. S. Tafaro, Famiglia e
matrimonio: radici romanistiche, in Rodzina
i społeczeństwo. Wczoraj i Dziś, Bialystok 2006, 11 ss. Sul
passo v.: R. Reggi, Origini e funzione dell' "actio rei
uxoriae" cit., 581-589; F.
Wieacker, Aspetti del diritto
romano cit., 59; L. Boyer , La fonction sociale des legs d'apres la
jurisprudence classique, in RH 43
(1965), 395; T. Mayer-Maly, Rec.
cit., 589; G. Longo, “Utilitas publica" cit.,
32-33; A.M. Honore', The editing of the digest titles, in ZSS 103 (1973), 291; P. Leuregans, Testamenti factio non privati sed publici iuris est cit., 248-256; G. Crifo', La donna e la tutela, Rec. di T.
Masiello, La donna tutrice.
modelli culturali e prassi giuridica fra gli antonini e i severi in Labeo 28 (1982), 54; Carcaterra, Rec. di G. Arico' Anselmo, Jus publicum, Jus privatum in Ulpiano, Gaio e Cicerone, in SDHI 50 (1984), 551; M. Kaser, "Ius publicum" und "Ius privatum” cit., 12- 42; H. Wieling, Privilegium
exigendi cit., 292.
[4] Il brano concerneva la fanciulla
destinata a nozze quando non avesse ancora compiuto i 12 anni.
L’espressione usata dal giurista et
hanc serviva ad ottenere un’estensione della disciplina generale
concernente le donne da marito; perciò denota il riconoscimento di un
principio di natura generale che tendeva a salvaguardare le doti. Cfr. F. Wieacker, Aspetti del diritto romano cit., 57-64; I. Boyer, La fonction
sociale des legs d' apres la jurisprudence classique cit., 333-408; T.Mayer-Maly, Rec. cit., 587-590; R. Reggi, Origini e funzione dell'"actio rei uxoriae" cit., 589; G. Longo, “Utilitas publica" cit., 65; A. M. Honore', The
editing of the digest titles cit., 262-304; P. Leuregans, Testamenti
factio non privati sed publici iuris est cit., 256; G. Crifo', La donna e
la tutela cit., 52-61; A. Carcaterra,
Rec. cit, 549-558; M. Kaser,
"Ius publicum" und "Ius
privatum" cit., 42; H. Wieling
hans, Privilegium Exigendi cit.,
290; S. Tafaro, Pubes e
viripotens nella esperienza giuridica
romana, Bari 1988, 184 nt. 42.
[5] D. 23.3.74, Hermog. 5 epit.: Si sponsa dotem dederit nec nupserit vel minor duodecim annis ut uxor
habeatur, exemplo dotis condictioni favoris ratione privilegium, quod inter
personales actiones vertitur, tribui placuit; D. 42.5.17.1, Ulp. 63 ad ed.: Si sponsa dedit dotem et nuptiis renuntiatum
est, tametsi ipsa dotem condicit, tamen aequum est hanc ad privilegium admitti,
licet nullum matrimonium contractum est: idem puto dicendum etiam, si minor
duodecim annis in domum quasi uxor deducta sit, licet nondum uxor sit; D.
46.2.29, Paul.
24 quaest.: Aliam causam esse novationis voluntariae, aliam iudicii accepti multa
exempla ostendunt. perit privilegium dotis et tutelae, si post divortium dos in
stipulationem deducatur vel post pubertatem tutelae actio novetur, si id
specialiter actum est: quod nemo dixit lite contestata: neque enim deteriorem
causam nostram facimus actionem exercentes, sed meliorem, ut solet dici in his
actionibus, quae tempore vel morte finiri possunt. Cfr., sul privilegium exigendi: H. Wieling, Privilegium erigendi cit., 279 ss.; M. Kaser, Das
römisches Zivilprozessrecht, München 1996, 402 ss.
[6] V. Scarano Ussani, «Privilegium exigendi» e ideologia della città negli anni
di Marco Aurelio, in Labeo 29
(1983), 256 s.
[9] Ce lo attesta (nel 1° sec.
d.C.) Valerio Massimo a proposito delle figlie di C. Scipione e di F. Luscinio:
Val. Max., Fact. ac dict memor. 4.4.10: Item, cum secondo punico bello, Cn. Scipio ex Hispania senatui
scripsisset petens ut sibi successor mitteretur, quia filiam virginem adultae
iam aetatis haberet, neque ei sine se dos expediri posset, senatus, ne res
publica bono duce careret, patris sibi partitibus desumptis consilioque uxoris
ac propinquorum Scipionis constituta dote, summam eius ex aerario erogavit ac
puellam nuptam dedit ...
[10]
Plaut., Aulul. 191 ss.: Meam pauperiem conqueror. / Virginem habeo
grandem dote cassam atque inlocabilem, / neque eam queo locare quoiquam.
[11] D. 23.3.3, Ulp. 63 ad ed.:
Dotis appelatio non refertur ad ea matrimonia, quae consistere non possunt:
neque enim dos sine matrimonio esse potest, ubicumque igitur matrimonii nomen
non est, nec dos est.
[12] D. 23.3.67, Procul. 6 Epist.: ...
Ancilla quae nupsit, dotisque nomine pecuniam viro tradidit, sive sciet se
ancillam esse, sive ignoret, non poterit eam pecuniam viri facere: eaque
nihilominus mansit eius, cuius fuerat antequam eo nomine viro traderetur: nisi
forte usucapta est, nec postea, quam apud eundem virum libera facta est,
pecuniae causa mutare potuit. Raque, nec facto quidem divorzio, aut dotis iure,
aut per condictionem repetere recte potest: sed is, cuius pecunia est, recte
vindicat eam.
[13]
Plaut., Trinum. 688 ss.: Nolo ego mihi te tam prospicere qui meam
egestatem leves, / sed ut inops infamis ne sim, ne mi hanc famam differant, /
me germanam meam sororem in concubinatum tibi, / si sine dote <dem>,
dedisse magis quam in matrimonium. Dal non dotare la figlia derivava quasi un delitto: Plaut.,
Trinum. 612: Flagitium quidem hercle fiet, nisi dos
dabitur virgini.
[14] Cfr., per tutti: R. Astolfi, La lex
Julia et Papia, Padova 1996 149 ss.; Idem,
Costituzione di dote in fraudem legis Papiae
durante l'età postclassica, in Studi
in onore di Giuseppe Grosso, 1, Torino 1968.
[15] Il punto è ben
evidenziato, da ultimo, in G. Lobrano,
Uxor quodammodo domina. Riflessioni su
Paul. D. 25.2.1, Sassari 1989.
[17] V.: Cic.,
Topica 4.23: Cum mulier viro in manum, convenit,
omnia quae mulieris fuerunt, viri fiunt dotis nomine.
[18] Il punto era precisato da
Cicerone: Cic., Topica 4.23: Cum mulier in manum convenit, omnia quae mulier fuerunt viri fiunt
dotis nomine.
[19] V. F. serrao, Diritto
privato, economia e società nella
storia di Roma, 1, Prima parte, Napoli 1984, 194.
[20] Emblematico è il fatto
che, Augusto per limitare il potere di disposizione dei mariti ritenne
sufficiente far riferimento esclusivamente ai fondi: Gai. 2.63: Nam dotale praedium maritus invita
muliere per legem Iuliam prohibetur alienare, quamvis ipsius sit, vel
mancipatum ei dotis causa vel in iure cessum vel usucaptum. Quod quidem ius
utrum ad italica tantum praedia an etiam ad provincialia pertineat, dubitatur. Cfr. M. Marrone, Istituzioni
di diritto romano, Palermo 1994, 235.
[21] Il termine dos derivò proprio da ciò, partendo da una radice
greca che significava proprio ‘donare’, come è attestato da
Varrone e Festo: Varro, De lingua Latina
5.175: Dos, si nuptiarum causa data; haec
Graece dwt…nh: ita enim hoc Siculi. Ab eodem donum; Fest. [Mül.] 69, De
verb. signif.: Dotem manifestum est
ex Graeco esse. Nam didònai dicitur apud eos
dare. In
realtà non si può essere sicuri che fosse stato dos il termine usato
nell’età più antica, ma non siamo in grado di risalire ai
vocaboli usati nella Roma arcaica per indicare i beni che poi furono compresi
nella parola dos; sappiamo, tuttavia, che già ai primordi di Roma le donne portavano ai
mariti una ‘dote’. Quando nel II secolo (a.C.) fu concessa alla
donna un’azione per chiedere la restituzione della dote, in caso di
scioglimento del matrimonio, questi beni furono indicati come res uxoria (patrimonio dotale). Questo,
tuttavia, non incise più di tanto sull’uso del termine dos, il quale rimase invariato per
indicare la dote, dalla nascita della Civitas
fino a Giustiniano, malgrado le continue trasformazioni e differenti discipline
giuridiche, alle quali la dote fu assoggettata. Sul punto, cfr. C. Sanfilippo, Corso di diritto
romano - La dote, Catania
1959, 8.
[22] V., per tutti, C. Sanfilippo, Corso di diritto
romano - La dote cit., 17 ss. Diverso avviso alla fine del secolo XIX aveva
espresso A. Bechmann, Das römisches Dotalrecht, Erlangen
1863, ma, specialmente dopo la scoperta del papiro qui citato le sue obiezioni,
peraltro già confutate da P.
Bonfante, Corso di diritto romano, I,
Milano 1925, 392 ss. non sono più condivisibili.
[23] D. 23.3.56.1, Paul. 6 ad Plaut. [L. 1126]: Ibi dos esset debet, ubi onera matrimonii
sunt.L’affermazione del giurista verosimilmente era inserita in una
discussione sull’attribuzione della dote al padre ed ai suoi eredi o al
figlio-marito della donna che aveva costituito la dote. Paolo, al §
successivo, precisava che in caso di morte la dote non seguiva la sorte del
patrimonio del pater, ma passava al
figlio-marito, perché aveva propria autonomia dovuta alla destinazione
al sostegno del matrimonio e non seguiva la sorte degli altri beni del pater: Post mortem patris statim onera matrimonii filium sequuntur, sicut liberi,
sicut uxor. Il
pensiero di Paolo ha trovato conferma in un papiro: Pap. Grenf. 2.107 recto: [Quia
apud eum esse debet] q(u) on[e/ra sustinet: quod si iam dis]soluto / matrimonio
[(societas) distrahatu]r, isdem dieb(us) prae/[cipi debet qui]b(us) et solvi
debet. [Ha Se]r(vius) et Lab(eo) scribunt, inserito nella collezione
Bodleiana ed è noto come fragmentum
Bodleianum.
L’ipotesi ricostruttiva è in C. Fayer,
La familia romana. Aspetti giuridici ed
antiquari. Sponsalia matrimonio dote 2, Roma 2005, 682. Il frammento
corrisponde a D. 17.2.65.16, Paul. 32
ad ed.: Si unus ex sociis, maritus sit et
distrahatur societas manente matrimonio, dotem maritum praecipere debet, quia
apud eum esse debet qui onera sustinet: quod si iam dissoluto matrimonio
societas distrahatur, eadem die recipienda est dos, qua et solvi debet.
[24] P. Moriaud, Du
consentement du père de famille au mariage en droit classique, in Mélanges Girard, Paris 1912, 291 ss.; F. Stella Maranca, Dos necessaria, II, in AUBA, 1929, 9 ss.
[25] B. Biondi, Istituzioni di diritto romano, Milano 1972, 592 ss; R. Astolfi, La lex Julia et Papia cit.,
150 ss.
[26] G. Castelli, Intorno all’origine dell’obbligo di
dotare in diritto romano, in
BIDR, 26 (1913)
164 ss.; P. Bonfante, Corso di
diritto romano cit., 405 ss.; E. Albertario,
Promessa generica e legato generico di dote, in Mélanges de droit romain, Milano 1925; C. Sanfilippo, Corso di diritto romano
cit., 45 ss.; M. lauria, Matrimonio
e dote cit., 188.
[28] Si argomenta in tal senso da un
brano di Marciano: D. 23.2.19, Marcian. 16
instit. [L. 183]: Capite
trigesimo quinto legis Iuliae qui liberos quos habent in potestate iniuria
prohibuerint ducere uxores vel pubere, vel qui dotem dare non volunt ex
constitutione divorum Severi et Antonini, per proconsules praesidiesque
provinciarum coguntur in matrimonium collocare et dotare. Prohibere autem
videtur et qui condicionem non quaerit. Il brano presuppone la
preesistenza di un obbligo a dotare le figlie, per il cui adempimento, forse al
tempo dei Severi, si concesse il ricorso ai magistrati delle province. Di tale
obbligo vi anche è traccia in un passo del giurista Celso, il quale
menzionava un dovere del padre di dotare la figlia (et quia pater filiae ... dotem dare debet): D. 37.6.6, Cels. 10 Digest. [L. 90]: Dotem,
quam dedit avus paternus, an post mortem avi, mortua in matrimonio filia, patri
reddi oporteat, quaeritur. Occurrit aequitas rei, ut, quod pater meus propter
me filiae meae nomine dedit, perinde sit atque ipse dederim: quippe officium
avi circa neptem ex officio patris erga filium pendet et quia pater filiae,
ideo avus propter filium nepti dotem dare debet. Quid si filius a patre
exheredatus est? Existimo non absurde etiam in exheredato filio idem posse
defendi, nec infavorabilis sententia est, ut hoc saltem habeat ex paternis,
quod propter ilium datum est.
[29] L’interrogativo era
presente in un rescritto di Diocleziano del 293: C.I. 5.12.14, Impp.
Diocletianus et Maximianus AA. et CC. Basilissae: Mater pro filia dotem dare non cogitur, nisi ex magna et probabili vel
lege specialiter expressa causa: pater autem de bonis uxoris suae invitae
nullam dandi habet facultatem. L’imperatore, che doveva confermare il
diritto classico (Cfr. M. Amelotti,
Per l’interpretazione della
legislazione privatistica di Diocleziano, Milano 1960), affermava che le madri
non potevano essere costrette a dotare le figlie se non in casi particolari,
previsti da norme speciali. Il testo è pertanto indice della nascita del
quesito concernente la spettanza alle madri dell’obbligo di dotare le
figlie.
[30] Quali i fratelli di una
fanciulla, come lascia supporre un brano di Paolo: D. 26.7.12.3, Paul. 38 ad ed. [L. 560]: Cum tutor non rebus duntaxat, sed
etiam moribus pupilli praeponatur: in primis mercedes praeceptoribus, non quas
minimas poterit, sed pro facultate patrimonii, pro dignitate natalium
constituet: alimenta servis, libertisque, nonnumquam etiam exteris, si hoc
pupillo expediet, praestabit: solennia munera parentibus cognatisque mittet:
sed non dabit dotem sorori alio patre natae, etiamsi aliter ea nubere non
potuit: nam etsi honeste, ex liberalitate tamen fit, quae servanda arbitrio
pupilli est. Per
la verità, il significato del passo di Paolo è controverso:
secondo P. Bonfante, Corso di
diritto romano cit., 412, la limitazione alle sorelle alio patre natae della
mancanza dell’obbligo di dotare, potrebbe essere stata inserita dai
compilatori proprio per sancire invece l’esistenza di un obbligo
giuridico nei confronti delle sorelle germane e consanguinee; per il diritto
classico invece dovrebbe parlarsi solo di dovere sociale alla costituzione
della dote da parte del fratello per la soror in generale (nel Trinummus
Plauto parlava della vergogna del fratello per non avere i mezzi per
fornire la dote alla sorella germana).
[31] Val. Max. 7.7.4: Septiciam
quoque mater Trachalorum Ariminiensium, irata fliis, in contumeliam eorum, cum
iam parére non posset, Publicio seni admodum nupsit, testamento etiam
utroque praeterito. A quibus aditus divus Augustus et nuptias mulieris et
suprema iudicia improbavit: nam hereditatem maternam filios habere iussit,
dotem, quia non creandorum liberorum causa coniugium intercesserat, virum
retinere vetuit.
[32] Cfr., tra i numerosi testi che
affermano l’appartenenza al marito dei beni dotali: D. 15.1.47.6, Paul. 4
ad Plaut.: Quae diximus in emptore et
venditore eadem sunt et si alio quovis genere dominium mutatum sit, ut legato,
dotis datione,
.... D.
23.5.13.2, Ulp. 5 de adult.: Dotale
praedium sic accipimus, cum dominium marito quaesitum est: ut tunc demum
alienatio prohibeatur.
Il marito può agire in giudizio con tutte le azioni che spettano al
proprietario. Per la sottrazione delle cose dotali viene riconosciuta al marito
contro la moglie la rei vindicatio (l’azione che secondo il ius
civile compete esclusivamente al proprietario) o alternativamente
l’azione personale (condictio): D. 25.2.24, Ulp. 5 regul.: Ob res
amotas, vel proprias viri vel etiam dotales, tam vindicatio quam condictio viro
adversus mulierem competit, et in potestate est, qua velit actione uti. Al marito sono concesse anche
l’actio furti e l’actio legis Aquiliae, che egli, se esente da dolo e
colpa, potrà cedere alla moglie: D. 24.3.18.1, Pomp. 16 ad
Sab.: ... Ceterum si
circa interitum rei dotalis
dolus malus et culpa mariti absit, actiones
solas, quas eo nomine quasi maritus habet, praestandas mulieri, veluti furti
vel damni iniuriae. La proprietà del marito sulla dote era tanto stringente
che, per consentire alla moglie di riottenerla, nel caso di scioglimento del
matrimonio, occorreva uno specifico contratto (stipulatio), attraverso il quale il marito (o il di lui pater, se in vita) si impegnava a ridare
i beni dotali alla donna: in tal caso la dote che si chiamava recepticia, salvo che si trattasse di dos profecticia, la quale, se la moglie
fosse morta, mentre era ancora unita in matrimonio, tornava al di lei pater ancora in vita; altrimenti restava
nelle mani del marito: V. Tit. Ulp. 6.4-5. cfr. M. Marrone, Istituzioni
di diritto romano cit., 236 s. Va ricordato che il marito, in conseguenza
del suo diritto sulla dote, aveva il diritto di trasmetterne la
proprietà agli eredi (cfr. D. 23.5.1; D. 41.1.62), poteva usucapire i beni dotali che non fossero
appartenuti a chi aveva costituito la dote (cfr. D. 23.3.7.3; Gai. 2.63; D.
41.9 - titolo pro dote), poteva
manomettere gli schiavi dotali divenendone patrono e acquistando eventualmente
la successione (D. 24.3.61; D. 24.3.62; D. 24.3.63; D. 24.3.64). Inoltre gli
schiavi dotali istituiti eredi o gratificati di un legato potevano acquistare
solo a seguito di iussus del marito e nel suo interesse (D. 15.1.19.1;
D. 23.3.65). Il marito acquistava i frutti dotali, ma anche le accessioni
dotali come i parti delle schiave, la parte di tesoro che spettava al
proprietario, le alluvioni, l’usufrutto che si consolidava con la nuda
proprietà costituita in dote (D. 23.3.4; D. 23.3.69; D. 24.3.7.12);
poteva dare in pegno le cose dotali persino alla stessa moglie (C.I. 7.8.1) e
non poteva restituire le cose dotali durante il matrimonio perché
sarebbe incorso nel divieto di donazione fra coniugi(C.I. 5.19.1; D. 23.4.28).
[33] D. 23.3.17, Paul. 7 ad Sab.:
In rebus dotalibus virum prestare oportet tam dolum quam culpam, quia causa sua
dotem accipit: sed etiam diligentiam praestabit, quam in suis rebus exhibet (Nelle cose dotali il marito
è tenuto tanto per dolo quanto per colpa, perché ha ricevuto la
dote per utile suo: ma sarà tenuto anche per quella diligenza che usa
per le sue cose): cfr. S. tafaro,
Regula e ius antiquum in D. 50.17.23. Ricerche
sulla responsabilità contrattuale, Bari 1984, 126 nt. 72, 266 nt.
103; 97 ss.; De Robertis, La responsabilità contrattuale nel
sistema della grande compilazione I, Bari 1981, 46 ss.
[34] Il
processo conobbe la prima efficace tappa con l’introduzione (avvenuta
forse nella seconda metà del II sec. d.C.) dell’actio rei uxoriae, l’azione che
consentiva alla moglie (o al di lei padre, con il suo consenso) di chiedere la
restituzione della dote in caso di scioglimento del matrimonio. Già il
nome dell’azione alludeva all’appartenenza della dote alla donna. A
quel punto le possibilità che la moglie potesse riottenere la dote, in
caso di scioglimento del matrimonio, presero corpo: se vi era stata una
promessa di restituzione, essa poteva essere richiesta con l’azione
nascente dalla promessa (actio ex
stipulatu). In tal caso il marito doveva dare tutto ciò che aveva
ricevuto, salvo che fossero intervenuti eventi fortuiti o di forza maggiore, i
quali avessero causato il perimento di parte o di tutti i beni dotali. Era
possibile che nella stipulazione si inserisse una valutazione della dote (aestimatio dotis): in tal caso doveva
essere restituito l’intero ammontare della dote, senza tener conto di
eventuali perdite, anche se del tutto indipendenti dal marito. In ogni caso, la
restituzione poteva essere chiesta con l’actio rei uxoriae. Questa era nata come azione a protezione della
situazione di fatto (actio in factum)
e, per intervento dei giureconsulti, si era trasformata in azione di diritto (actio in ius), avente una struttura
particolare, la quale l’avvicinava alle azioni di buona fede (iudicia bonae fidei), per il fatto che
il giudice doveva attribuire all’attore non necessariamente
l’ammontare della dote, bensì quello che a suo giudizio gli
sembrava equo che l’istante dovesse conseguire (id quod melius equus erit). Per questo motivo il giudice consentiva
al marito di sottrarre dall’intero ammontare della dote alcune spese
sopportate durante il matrimonio. Queste spese dovevano essere motivate ed
erano poi liberamente valutate dal giudice. La giurisprudenza semplificò
il compito del giudice elaborando una casistica di riferimento, alla quale egli
poteva attenersi, la quale (ad esempio) prevedeva il diffalco (retentio): delle spese per il
mantenimento e l’educazione dei figli (propter liberos), nei limiti di un sesto per figlio e al massimo
fino alla metà della dote, spettante nel caso di matrimonio sciolto per
iniziativa del pater familias della
moglie o per divorzio imputabile alla moglie; dei doni (propter donatas) fatti dal marito alla moglie, i quali erano
vietati e, di conseguenza, davano diritto alla ripetizione; delle cose
sottratte dalla moglie (propter amotas);
per le spese che si erano rese necessarie al mantenimento dei beni (propter impensas) oppure di quelle utili
autorizzate dalla moglie; per la condotta sconveniente della moglie (propter mores), in misura che poteva
variare da un ottavo ad un sesto della dote, quando il matrimonio si fosse
sciolto per divorzio causato da motivi imputabili alla donna (adulterio o altro
comportamento riprovevole).
[35] Sull’esistenza di
siffatto ‘Tribunale’ sono stati avanzati dubbi: v. E. Volterra, v. Famiglia (Diritto romano), in ED
XVI, Milano 1967, 723 ss. ed ivi bibl.; A. Ruggiero,
Nuove riflessioni in tema di tribunale
domestico, in Sodalitas IV,
Napoli 1984, 1593 ss.
[36] Bisogna capire il processo, partendo dalle
possibilità offerte alla moglie dall’introduzione dell’a. rei uxoriae. L’efficacia
dell’azione era in ogni caso limitata dal beneficium competentiae, a causa del quale il marito non poteva
essere condannato a dare quello che non fosse stato in grado di pagare. Proprio
per questo motivo si poteva verificare un paradosso, consistente nel fatto che
la donna avrebbe ottenuto massima protezione nei confronti del marito accorto,
il quale avesse gestito bene la dote ed il proprio patrimonio, mentre restava
priva di tutela nei confronti del marito scialacquatore, che avesse dissipato i
propri beni ed il patrimonio dotale. Vi era bisogno di una forma più incisiva
di tutela delle aspettative della moglie; ad essa provvide Augusto con la lex Iulia de fundo dotali, nel
[37] Cic., De off. 1.17.54: Nam cum sit hoc natura commune animantium, ut habeant libidinem
procreandi, prima societas in ipso coniugio est, proxima in liberis, deinde una
domus, communia omnia; id autem est principium urbis et quasi seminarium rei
publicae. Sequuntur fratrum coniunctiones, post consobrinorum sobrinorumque,
qui cum una domo iam capi non possint, in alias domos tamquam in colonias
exeunt. Sequuntur
conubia et affinitates ex quibus etiam plures propinqui; quae propagatio et
suboles origo est rerum publicarum. Cfr. S. Tafaro, Famiglia e matrimonio cit., 21 ed ivi bibl. Sul punto v. S. Tafaro, Famiglia e matrimonio: le radici romanistiche, in [cur. F. Lempa - S. Tafaro] Rodizna i spoleczenstwo wczoraj i dzis. Atti
del Convegno svoltosi a Bialystok nel novembre del 2004 sulla Famiglia, 20
ss. L’a., commentando il noto passo di Cic., De
off. 1.17.54, dove si parla della familia,
proiettata alla procreazione di figli per sé e per
[39] Della copiosa e cospicua letteratura mi limito qui a
menzionare M. Bretone, Storia del diritto romano, Bari
[40] S. Tafaro, Famiglia e matrimonio cit., 22, il
quale, per l’appunto, ricorda quanti «ritenevano che
[42] Così R. De Ruggiero- F. Maroi, Istituzioni
di diritto privato, VIII ed., Milano –Messina 1950, 305 ss.
[43] Con la legge n. 151 del 19.05.1975. Per la
dottrina formatasi sotto il vigore della disciplina precedente alla legge
cosiddetta di riforma del diritto di famiglia, v. C. Tedeschi, Il regime patrimoniale della famiglia, Tratt.
Vassalli, Torino 1952, 84-253. Per la dottrina formatasi sulla normativa
vigente, R. Sacco, in Commentario
alla riforma del diritto di famiglia [cur. L. Carraio- A.
Oppo Trabucchi], t. I, parte I, Padova 1977, sub. art. 166 bis, 341 ss; A. Finocchiaro - M. Finocchiaro, Diritto
di famiglia, I, Milano 1984, 787 ss.; F.
Corsi, Il regime patrimoniale della famiglia, Tratt. Cicu e
Messineo, continuato da Mengoni,
I, Milano 1979, 14 ss.; AA. VV., Il
nuovo diritto di famiglia. Contributi notarili, Milano 1975; G. Tamburino, Lineamenti del nuovo
diritto di famiglia italiano, II, Torino, 1978; G. Cattaneo, in Commentario alla riforma del diritto di
famiglia cit., sub. artt. 1-89, 478 ss.; A.
Villani, “Dote”, in NN.D.I., App., II,
Torino 1988.
[44] Nel senso
dell’inderogabilità del vincolo di destinazione al
soddisfacimento dei bisogni familiare v. G.
Gabrielli, Patrimonio familiare e fondo patrimoniale, in ED, Milano 1982, vol.
XXXII, 293; P. Coppola, Gratuità
e liberalità della costituzione di fondo patrimoniale, in Rass. dir. civ., 1983,
653; g. cian, Fondo
patrimoniale - Bisogni della famiglia (Nota a Cass., 7 gennaio 1984, n.
134), in Nuova giur. civ.,
1985, I, 22; m.c. pinto borea, Patrimonio
familiare e fondo patrimoniale: caratteri comuni e note differenziali (Nota
a Cass., 31 maggio 1988, n. 3703), in Giur. it., 1989, I, 1, 873; R. Lenzi, Struttura e funzione del
fondo patrimoniale, in Riv. not., 1991, 53; T. Auletta, Destinazione di beni dei coniugi alla
costituzione del fondo patrimoniale ed opponibilità dell’atto ai
creditori (Nota a Cass., 28 novembre 1990, n. 11449 e T. Milano, 5 novembre
1990), in Banca, borsa e tit. credito, 1991, II, 694; m. del
prete, Il fondo patrimoniale nella crisi della famiglia, in Notariato,
1999, 47; S. Sicurella, Destinazione
di beni alla costituzione di fondo patrimoniale e tutela dei creditori
personali dei coniugi (Nota a T. Ragusa, 21 dicembre 1999), in Giust.
civ., 2000, I, 275; R. Quadri,
Alienazione di beni costituiti in fondo patrimoniale e autorizzazione
giudiziale (Nota a T. Verona, 30 maggio 2000), in Nuova giur. civ.,
2001, I, 170; V. De Paola, Il
diritto patrimoniale della famiglia nel sistema del diritto privato - tomo III, Il regime patrimoniale della famiglia -
Separazione dei beni - Fondo patrimoniale - L’impresa familiare,
XI-250, II ed. aggiornata ed ampliata con la collaborazione di S. De Paola, Milano 2002; A. Bartalena, Il fondo patrimoniale,
in Riv. dir. comm., 2002, I, 27; D.
Rossano, Fondo patrimoniale e patrimoni destinati: spunti di
riflessione, in Notariato, 2003, 423; C. Portale, Del fondo patrimoniale (Nota a T. Catania,
21 marzo 2003), in Vita not., 2003, 756; R.G. Piscitelli, L’inopponibilità del fondo
patrimoniale a fronte di obbligazioni risarcitorie da fatto illecito
vantaggiose per la famiglia (Nota a Cass., sez. I, 5 giugno 2003, n. 8991),
in Giust. civ., 2004, I, 3099; M.
Capecchi, I limiti allo scioglimento convenzionale del fondo
patrimoniale (Nota a Trib. Savona, 24 aprile 2003), in Famiglia e dir.,
2004, 68; f. longo, Responsabilità
aquiliana ed esecutività sui beni del fondo patrimoniale (Nota a
Cass., sez. I, 18 luglio 2003, n. 11230), in Famiglia e dir., 2004, 353; P.G. Demarchi, Fondo patrimoniale, in Diritto
privato oggi [cur. P. Cendon],
Milano 2005, 766; f. longo, Bisogni
della famiglia, debiti d’impresa condotta da uno solo dei coniugi ed
esecutività sui beni conferiti nel fondo patrimoniale (Nota a T.
Mondovì, 13 ottobre 2005), in Giur. merito, 2006, 1910; L. Pascucci, Le obbligazioni
contratte dal coniuge nell’interesse della famiglia tra diritto
giurisprudenziale e possibile evoluzione legislativa, in Famiglia e
diritto, 6 (2007).
[45] Commissione europea 244/2007, Promuovere
la solidarietà tra generazione, sulle pagine della DG Occupazione
ed affari sociali.
[46] L. n. 18/07/06 in Bollettino
Ufficiale della Regione Puglia n. 163 del 12/12/06, nonché il
relativo bando pubblico del 29/11/06, pubblicato sul Bollettino Ufficiale
Regione Puglia n. 10 del 18/01/07. Il provvedimento appare profondamente
ispirato e sembra riflettere le visioni ciceroniane e romane sulla famiglia come
‘prima società’: «Sostenere le famiglie che hanno
assunto la scelta responsabile di accogliere una nuova vita e concorrere a
rimuovere i possibili ostacoli, anche di natura economica, connessi alla
presenza di un minore molto piccolo in famiglia. Tale intervento non può
prescindere dall’obiettivo specifico di promuovere, dal lato della
domanda, l’accesso ai servizi per la prima infanzia quale concreta leva
per la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro delle famiglie pugliesi e per
rimuovere gli ostacoli all’ingresso e alla permanenza di giovani donne
con figli nel mondo del lavoro».