Cap. I della monografia: Maria
Antonietta Foddai, Sulle tracce della responsabilità. Idee e norme dell’agire
responsabile, [Recta Ratio, Quinta serie - 5] Torino, G. Giappichelli,
2005, pp. XVIII-414.
Indice Sommario
Università
di Sassari
Tracce di
responsabilità
Sommario: 1.1. Responsabilità: una storia moderna? - 1.2. Virtù competitive e virtù cooperative nella Grecia antica. – 1.2.1. Areté e agathòs una storia moderna? – 1.2.2. Etica e ruoli. - 1.2.3. Il controsenso omerico e la responsabilità di Agamennone. - 1.2.3.1. Tentativi di spiegazione. – 1.2.3.2. Volontà e sorte morale. – 1.2.4. Shame-culture e guilt-culture. – 1.2.5. Dal mondo eroico all’Atene del Liceo: le variazioni della responsabilità. – 1.2.5.1. Genitori delle proprie azioni.
Gli argomenti trattati nell’introduzione ci inducono a
considerare il concetto di responsabilità come un prodotto culturale
dell’età moderna. La mancanza di un equivalente semantico, che si
spinge ben oltre l'antichità classica e l'età medievale fino alle
soglie dell'illuminismo, segnala l'assenza di quei bisogni ed esigenze che si
coagulano intorno alla nascita di una nuova parola. Il termine
responsabilità, come aveva notato per primo Levy Bruhl, non indicherebbe
la nuova veste semantica di un concetto noto, ma l'esigenza di definire nuovi
significati dell'agire umano sconosciuti alla tradizione precedente.
Ma, d’altra parte, a ciò si può obiettare che dalla
filosofia aristotelica e dalla sapienza giuridica romana derivano alcuni dei
principi su cui si fonda il nostro attuale sistema di responsabilità, e
che il filo di continuità rappresentato da respondeo e dai suoi derivati moderni è il veicolo di un
nucleo antico di senso che si ripresenta in alcune norme del diritto e in
alcuni significati in uso. L’idea di Aristotele, secondo cui l’uomo
è genitore delle proprie azioni, costituisce il presupposto del concetto
di responsabilità, così come l’idea che ciascuno debba
essere garante del proprio e dell’altrui agire, e pronto a risponderne
davanti alla comunità, è stata progressivamente raffinata dai
giuristi romani
É opportuno precisare, quindi, in che senso si può
parlare di un concetto moderno di responsabilità, e in quali direzioni
siano stati recisi i fili della tradizione. Se, infatti, non possiamo affermare
che l’idea di responsabilità fosse sconosciuta al mondo antico,
tuttavia dobbiamo notare che né i greci né i romani sentirono il
bisogno di racchiudere in un sostantivo astratto le regole e i principi
dell’agire responsabile.
Arthur Adkins, nella sua ormai celebre analisi semantica delle
principali opere della letteratura greca antica si è spinto ben oltre la
constatazione di una semplice deficienza terminologica, arrivando a sostenere
che dalla mancanza di un intero corredo di termini, frasi e valutazioni, si
deve giungere alla conclusione che l'etica greca non conosceva il concetto di
responsabilità morale[1].
In realtà, come vedremo nei prossimi paragrafi, Adkins intende
dire che l’etica greca non conosceva quel
particolare concetto di responsabilità, frutto dell’etica
kantiana, nel quale riconosciamo uno dei tratti distintivi della cultura
occidentale. E’ per questa ragione che la ricerca di un termine che abbia
lo stesso spessore semantico si rivela vana.
L’operazione di Adkins consiste nel tentativo di sovrapporre una
griglia di concetti e principi a un sistema che, per la visione del mondo che
esprime, semplicemente è incapace di riconoscerli. Il mancato
riconoscimento del valore di un concetto come quello di responsabilità
morale consente di cogliere dei tratti fino allora ignorati negli studi
sull’etica e la società ateniese: «Se possiamo scoprire
perché il concetto di responsabilità morale è così
irrilevante per i Greci, dice Adkins, riusciremo a comprendere quindi la
differenza tra i due sistemi morali ed a individuare la natura di ciascuno di
essi»[2].
La radicale differenza, individuata tra il sistema greco antico e
quello kantiano moderno di credenze morali, non nasconde tuttavia una
persistenza e una continuità in alcuni degli aspetti del nostro sistema
di responsabilità. Alcuni dei principi dell’etica greca,
così come del pensiero giuridico romano, compongono la trama del nostro
agire, talvolta in contrapposizione o in aperto antagonismo con altri derivati dal
cristianesimo e dal giusnaturalismo moderno. Questa coesistenza di strutture di
pensiero diverse, nel variegato panorama della responsabilità
contemporanea, è probabilmente la ragione delle opposte interpretazioni
delle sue origini concettuali. Così, di fronte allo spartiacque
rappresentato dalla nascita del termine in età moderna, Villey e Ricoeur
si dividono sull’interpretazione del ruolo svolto dal pensiero
dell’antichità, sostenendo il primo che il vero antenato culturale
della responsabilità è il diritto romano[3], e il
secondo, all’opposto, che la responsabilità non può vantare
alcun antenato concettuale nell’antichità[4]. Il
fatto che entrambe le interpretazioni siano plausibili e contengano, come
vedremo, aspetti convincenti, ci fa tuttavia dubitare dell’adeguatezza di
un metodo che procede per dicotomie, imponendo la scelta tra un percorso
interpretativo che enfatizzi il retaggio della tradizione, e uno che rivendichi
il moderno come esclusivo terreno di crescita della responsabilità.
A questo metodo dogmatico, è forse più utile sostituire
un approccio dialettico, che interpreta i segnali di continuità nella
storia dell’idea di responsabilità come la coesistenza di
più sistemi di valori e credenze appartenenti a visioni del mondo
differenti e a volte inconciliabili, che entrano in conflitto generando dilemmi
morali e differenti teorie. Non è detto, infatti, che l’evoluzione
della responsabilità sia raffigurabile come una linea dritta e netta,
rappresentabile come una successione di idee e pratiche, secondo
un’ordinata sequenza temporale; è forse più probabile che,
come una corrente che trascina idee e credenze contrapposte, le norme e i
principi della responsabilità si siano formati su un insieme eterogeneo
di credenze e strutture narrative. Ad una concezione veteropositivistica che
raffigura l’idea della responsabilità come uno sviluppo lineare,
continuo e cumulativo, bisogna forse affiancare l’idea della
responsabilità come una ciclica riproposizione di istanze conflittuali.
Questo aspetto, che farebbe della ‘disarmonia’, presente
nella nostra etica storica, uno dei principi di spiegazione
dell’incongruenza del sistema pratico di responsabilità, non
è stato probabilmente sottolineato a sufficienza. La storia della responsabilità,
intesa come istituzione, viene generalmente raffigurata come un chiaro processo
unidirezionale, che va dall’età d’ombra della
responsabilità di gruppo a quella luminosa del dovere
dell’individuo di rispondere per i propri atti, spostando progressivamente
l’attenzione dall’atto delittuoso all’agente[5].
Ciò che attira la nostra attenzione è che nella ricostruzione si
va da un meno a un più valorativo, da un peggio a un meglio etico e
giuridico, assumendo surrettiziamente il modello contemporaneo e moderno di
responsabilità come il più consono e adeguato a un’idea
assoluta di perfezione sociale e umana, invece che il più adeguato a
quell’idea umana espressa dall’età moderna[6].
Nel solco del pensiero romanistico dell’Ottocento, le ricerche
sul pensiero giuridico[7]descrivono
questo processo di elaborazione e sviluppo come un progresso etico, che va dal
gruppo all’individuo, dall’assimilazione del valore del singolo
nell’indistinto plurale del gruppo, all’affermazione della persona
e delle sue prerogative. Illustrando questo processo, Henriot, distingue
quattro fasi nello sviluppo istituzionale della responsabilità[8].
Nella prima, detta di umanizzazione,
si abbandona la pratica di punire gli animali, i cadaveri e gli oggetti
inanimati, per attribuire la responsabilità all’essere umano,
riconosciuto come unico possibile soggetto d’imputazione.
La seconda consiste in un processo di individualizzazione, che vede il passaggio dalla
responsabilità di gruppo, o oggettiva, alla nozione di
responsabilità individuale. La responsabilità di gruppo si sviluppa
in un contesto in cui la famiglia o il clan rappresentano il principale
riferimento per il singolo, la cui identità deriva dalla sua
appartenenza a un gruppo determinato.
Il ruolo del gruppo è sia quello di preservare la sua
compattezza e unità, proteggendo ciascuno dei suoi membri da
ingiustificate aggressioni, sia quello di offrire una garanzia sociale di
affidabilità, assicurando il danneggiato della certa riparazione del
danno. Come scrivono Stein e Shand, citando le antiche consuetudini anglosassoni
« Se un uomo perde il senno o il giudizio, e caso voglia che uccida
qualcuno, lasciate che i suoi congiunti ripaghino la vittima ed esonerino
l’omicida dai relativi obblighi. Se poi viene ucciso, prima ancora che
sia reso noto se i membri del suo gruppo sono disposti ad intercedere in suo
favore, coloro i quali lo hanno ucciso saranno responsabili nei confronti dei
suoi familiari.»[9]. La
solidarietà del gruppo familiare, oltre a prevedere una forma di
responsabilità in solido che impegna tutti i suoi membri, si traduce
nell’ereditarietà della colpa e nel differimento della punizione.
É quanto avviene nella Grecia arcaica[10], in
cui, scrive Dodds, «(...) la famiglia era un’unità morale,
la vita del figlio un prolungamento della vita paterna, e i debiti morali del
padre si ereditavano precisamente come si ereditavano quelli pecuniari»[11]. Ma non
solo arcaica: nelle opere dei grandi tragici del V secolo i protagonisti
debbono espiare le colpe familiari, o i crimini provocati dalla
necessità. Sebbene si lamenti l’ingiustizia dell’innocente,
non si mette in dubbio tuttavia che egli debba pagare per le colpe del padre o
dei suoi antenati. Si tratta di una concezione profondamente radicata e
accettata come una legge naturale, derivante da un ordine cosmico in cui la giustizia
è rappresentata da potenze divine che agiscono arbitrariamente, e in cui
l’offesa agli dei deve essere comunque ripagata[12].
In questa fase non si registra ancora una chiara distinzione tra la
responsabilità civile e quella penale; nell’ambito del diritto
romano ad es., il furtum veniva
generalmente perseguito con un’azione civile proposta dal derubato, ma si
poteva anche procedere con un’azione penale[13].
La terza fase, che coinciderà con lo sviluppo del pensiero
cristiano e del giusnaturalismo moderno, viene detta di interiorizzazione. Questo è il processo in cui si compie lo
spostamento definitivo dall’azione all’agente, dalle condizioni
esterne della responsabilità alla sua condizione interna, dal mero nesso
causale alle condizioni soggettive d’imputazione. Per individuare il
soggetto responsabile non è più sufficiente stabilire chi ha
causato l’evento dannoso o delittuoso, ma occorre individuare la
volontà a cui è possibile imputare l’atto[14].
L’ultima fase storica dello sviluppo della responsabilità,
che si collocherebbe intorno all’Ottocento, è quella della civilizzazione, che vede il definitivo
distacco di una responsabilità civile da una responsabilità
penale e che progressivamente allontanerà il concetto di
responsabilità da quello di colpevolezza[15]. Sia
l’accertamento della responsabilità, sia la sanzione, assumono
caratteri distinti in ciascuno dei due ambiti.
In questa concezione evolutiva della responsabilità le fasi si
succedono l’una all’altra, secondo uno schema in cui la successiva
sembra sostituire integralmente quella precedente, che appare non solo remota
nel tempo, ma anche nell’immagine individuale e sociale che ci propone.
La responsabilità si scioglie progressivamente dai lacci di un mondo
arcaico, che sembra elaborare un’idea approssimativa, imprecisa e grezza
di responsabilità, in cui l’individualità è sfumata
nell’identità del gruppo e l’individuo si rivela al mondo
con le sue azioni, per raffinarsi e perfezionarsi nell’età moderna
come una prerogativa del soggetto, le cui intenzioni sono lo specchio di un
universo morale definito dalla coscienza. A ciascuna di queste fasi corrisponde
una differente visione del mondo e del ruolo che il soggetto ha in esso; un
diverso schema di credenze, che determina il concetto di bene e male, giusto e
ingiusto, avrebbe sostituito quello precedente.
Tuttavia, sembra improbabile che la differente struttura di valori e
norme, che corrisponde a ciascuna di queste fasi, abbia cancellato quella
precedente, sostituendola integralmente. E’ più credibile un
processo di sovrapposizione, in cui elementi arcaici sopravvivono, a volte
integrandosi armonicamente, altre configurandosi invece come elementi
disgreganti, nella nuova trama dell’agire. Come suggerisce Dodds, a
proposito dei movimenti religiosi che attraversano la civiltà greca, si
tratta di uno sviluppo che procede per agglomerazione, e non per sostituzione:
«Un nuovo schema di credenze raramente cancella del tutto lo schema
precedente: o l’antico sopravvive come elemento del nuovo (elemento
talvolta inconfessato e quasi inconscio), oppure ambedue sussistono uno accanto
all’altro, logicamente incompatibili, ma accettati contemporaneamente da
persone diverse, od anche dalle stesse persone.»[16].
L’argomento interessante suggerito da Dodds è la coesistenza nella
stessa struttura narrativa di strumenti logicamente incompatibili, che svolgono
tuttavia una funzione nell’elaborazione del sistema di valori che
orientano l’agire.
Sembra probabile che la nostra idea di responsabilità, come si
è affermata nel diritto e nella morale sociale, contenga,
all’interno di un sistema in cui dominano il principio individuale,
l’idea della colpa morale e il concetto di retribuzione, anche elementi
di un’etica antica, che impongono la solidarietà del gruppo, il
rispetto degli impegni assunti con la parola, e il dovere di rispondere per
altre persone, così come, in alcuni particolari casi, per le proprie
azioni involontarie[17].
Gli schemi offerti dalla civiltà greca, e dal diritto romano ci
mostrano infatti aspetti che, sotto la coltre rassicurante dell’etica
illuminista della ragione kantiana, plasmata dal pensiero cristiano, ritroviamo
in alcune forme della responsabilità contemporanea.
E’ molto difficile, per uomini e donne allevati nell’etica
moderna occidentale, accettare l’idea che possano esistere una
società e una lingua in cui risulta impossibile tradurre il concetto di
dovere morale e responsabilità, con un termine che abbia lo stesso peso
semantico e ambito espressivo. Per ciascuno di noi, la responsabilità
morale è uno di quei principi senza i quali non riusciamo a concepire un
sistema di relazioni, ordinato secondo una scala di valori; «Sotto questo
rispetto, almeno, scrive Adkins, noi tutti siamo oggi kantiani»[18]. Eppure
l’etica greca sembrava ignorare, o considerare irrilevante, il concetto
di responsabilità morale. Sembra paradossale, sostiene Adkins, che uno
dei nostri principali antenati culturali non tenga nella minima considerazione
il principio cardine dell’etica moderna occidentale[19]. Egli
segnala, infatti, una carenza semantica relativa all’insieme di termini e
frasi che denotano obbligo e responsabilità morale, alla quale
corrisponde una particolare intuizione del mondo sociale, e del tipo di
rapporti che in esso si svolgono. In questa rappresentazione, che costituiva il
mondo dell’uomo greco, non trova spazio un giudizio che loda o biasima le
azioni e i loro risultati sulla base delle intenzioni, né, di conseguenza,
appare rilevante la causa dell’errore, o la distinzione tra errore e
colpa morale.
Nella narrazione omerica, il dovere di rispondere per i propri atti,
talvolta indotti dalla forza irresistibile di un dio, viene riconosciuto come
‘naturale’, stabilito nell’ordine che governa
l’universo umano. La volontà del singolo non è un elemento
che può essere concepito al di fuori delle circostanze nelle quali si
è manifestata, ma s’intreccia alla volontà degli
déi, e agli eventi che ne compongono il destino individuale. Questo
elemento costituisce, per Adkins, il criterio distintivo tra la nostra idea di
responsabilità morale e l’obbligo di rispondere per i propri atti,
vigente nel mondo greco, che solo a partire dal V secolo a.C. comincerà
a introdurre la responsabilità morale nella visione etica dominante[20].
Per giustificare le sue conclusioni, egli spiega che una ricerca sulla
responsabilità non può portare a risultati fecondi se non si
considerano i criteri di valore morali e pratici, condivisi in un determinato
contesto sociale, su cui si modella il relativo concetto di
responsabilità: «Indubbiamente il concetto di
responsabilità morale non può avere priorità logica in
ogni sistema morale. Cioè, non può assumere una forma alla quale
tutti gli altri concetti debbano adattarsi. Tutto il contrario: è in
virtù di altri generali criteri di valore - sia morali, che
(apparentemente) pratici- che il concetto di responsabilità morale
assume la forma che ha in determinate società»[21].
Adottare una griglia interpretativa in cui alla responsabilità si
assegna una priorità logica su tutti gli altri concetti morali conduce a
risultati incoerenti e scarsamente efficaci; bisogna invece procedere con un
cammino inverso, partendo dalle concezioni di sfondo che, fornendo il concetto
di azione e agente, determinano i criteri di valutazione. Nessuno di noi
sarebbe in grado di esprimere un giudizio morale su un’azione, e
stabilire la responsabilità o meno del suo agente, unicamente sulla base
di ciò che ha visto coi propri occhi, dovremmo confrontare quella
particolare azione con un sistema di valori che ci fornisce i criteri di
valutazione intorno all’azione e al comportamento dell’agente.
Allo stesso modo, il significato di un termine che esprime un concetto
di valore, come il greco αρετή, si troverà
guardando a quali comportamenti il termine si riferisce; se la parola rimane
invariata, ma cambiano radicalmente le circostanze a cui si riferisce,
cambierà anche il suo significato[22].
E’ necessario considerare quello che Charles Taylor ha chiamato
il «quadro di riferimento»[23], quel
particolare sistema costituito da distinzioni qualitative, che compone lo
sfondo, esplicito o implicito dei nostri pensieri, sentimenti, giudizi.
«Esplicitare un quadro di riferimento significa illustrare ciò che
dà senso alle nostre risposte morali. Ossia: quando cerchiamo di
spiegare che cosa presupponiamo quando giudichiamo degna una certa forma di
vita, quando identifichiamo la nostra dignità con il conseguimento di un
certo risultato o di un certo status o quando definiamo in un certo modo i
nostri obblighi morali, non facciamo altro che esplicitare, tra le altre cose,
quelli che ho chiamato “quadri di riferimento”.»[24]
E’ quindi la particolare visione del mondo, composta da credenze
teologiche, sociali e psicologiche, che deve essere tenuta presente quando
cerchiamo di capire in cosa consiste il sistema di responsabilità in una
particolare cultura.
Le ragioni per cui si è ritenuti meritevoli o colpevoli, lodati
o biasimati, puniti o premiati sono determinate da un sistema di priorità
e di valori, che possiamo scoprire attraverso i termini impiegati nella lingua
per esprimere approvazione e disapprovazione, in riferimento alle azioni e alle
persone. Sembra chiaro che le parole utilizzate per esprimere il più
alto grado di apprezzamento, riferito a un uomo e alle sue azioni, indichino
l’insieme di valori dominante. Nel corso dei secoli si registrano
importanti cambiamenti nell’impiego degli stessi termini, che mutano
progressivamente di significato. Come vedremo, al tempo di Omero
αγαθός indica l’uomo forte e coraggioso, a
quello di Aristotele indica –anche- l’uomo giusto.
Attraverso queste modificazioni semantiche si nota il lento, ma
graduale, passaggio da una concezione etica ad un’altra, da un mondo di
responsabilità oggettiva, in cui l’azione viene imputata sulla
base del suo risultato, ad uno di responsabilità soggettiva, in cui
rileva la considerazione della volontà, come mostrerà Aristotele[25].
Per scoprire la distanza tra il nostro e il loro sistema etico, Adkins
propone un’originale chiave di lettura che gli consente di esplorare
sistematicamente il territorio dei valori greci, separando i valori del merito
da quelli della responsabilità.
Nel generale sistema che compone l’orizzonte etico dei Greci,
egli individua due gruppi di virtù, definite come virtù
competitive e virtù cooperative[26]. Le
prime esprimono l’onore, il coraggio e la forza del cittadino che
è in grado di difendere e salvaguardare la sicurezza della
πολις, e comprendono termini come
«successo», «riuscita» e «capacità».
Le seconde si riferiscono alla lealtà, alla moderazione e alla
giustizia dell’uomo che agisce all’interno di una comunità,
in cui ciascuno collabora con gli altri, perseguendo uno scopo comune; in esse
prevalgono termini quali «intenzione», «accordo» e
«moderazione», quelle qualità necessarie a instaurare e
conservare un sistema di relazioni basato sulla cooperazione, che definiremmo
orizzontale.
Le virtù competitive privilegiano all’opposto una
struttura verticale e rigidamente gerarchica, che è strettamente legata
alle particolari condizioni politiche che caratterizzarono la vita delle
città-stato greche. Adkins le definisce come virtù
«maggiori», per indicare che esse rappresentano il sistema
valutativo dominante nella civiltà greca, almeno fino al V secolo,
quando cominceranno ad osservarsi alcuni rilevanti cambiamenti nel pensiero
ateniese. Ma, avverte Adkins, «Gratta la figura di Trasimaco e troverai
il re Agamennone»[27], per
sottolineare che i valori competitivi, così mirabilmente tracciati da
Omero, sono presenti e ancora profondamente radicati dopo tre secoli, e che
Socrate e Platone rappresentano il vero punto di rottura con la tradizione.
Le «virtù minori»[28], e con
esse il sistema di valori che ruota intorno all’idea di giustizia, si
affermeranno infatti progressivamente a partire dal IV secolo, in cui
riscontriamo le mutate condizioni politiche di Atene, con l’affermarsi
della democrazia. Potremmo dire, semplificando, che le virtù competitive
sono i valori di una società guerresca, e che all’opposto le
virtù cooperative sono i valori della pace[29].
La transizione dal sistema di virtù competitive a quello di
virtù cooperative sarà graduale e incompleta: nella vita etica
dell’Atene di Platone e Aristotele, l’ideale dell’uomo giusto
dovrà confrontarsi con quello aristocratico dell’uomo forte e
coraggioso, che risulterà prevalente nella concezione popolare. Le
virtù competitive corrispondono, infatti, a quella che chiameremmo
un’etica del successo[30], in cui
solo chi risulta vincente, realizzando gli obiettivi della
πολις, è meritevole di onore e fama.
«Essere sempre il primo e mirare a superare gli altri»:
è con questa esortazione, nota Burckhardt nel suo monumentale trattato
sulla civiltà greca, che Glauco e Achille vengono mandati alla guerra
dai loro padri, che esprimono la concezione dominante in tutta la
civiltà greca, dall’età arcaica fino a quella classica[31].
Il sostantivo αρετή e l’aggettivo
αγαθός sono i due termini che esprimono il
più alto grado di considerazione riferito a un uomo. Nel corredo
semantico che tratteggia l’etica greca, essi indicano il possesso di
quelle doti che sono considerate più importanti rispetto a qualunque
altra, e stabiliscono, con un buon grado di approssimazione, la distanza tra il
nostro punto di vista morale e il loro.
Il termine αρετή, che noi traduciamo
comunemente con virtù[32],
esprime un concetto molto distante da quello che intendiamo oggi con
l’espressione vita virtuosa[33].
L’αρετή non implica infatti il compimento di
un’azione buona o giusta, ma indica piuttosto l’eccellenza in ogni
campo[34]. Allo
stesso modo αγαθός, che noi traduciamo col
termine buono, non indica un individuo mosso alla pietà, alla
compassione e alla giustizia, quanto piuttosto un uomo fisicamente forte,
valoroso e coraggioso in battaglia, astuto e pronto nell’ingegno:
«(...) esso significa ora nobile, ora prode o valente, laddove non ha
l’ulteriore significato di “buono” in generale, così
come areté non ha quello di
virtù morale.», scriveva Jaeger[35]. Non
corrisponde certo al nostro ideale di umanità quello dell’uomo
greco, la cui forza fisica, coraggio e astuzia sono tenute nella massima
considerazione. Sono queste le qualità necessarie per poter prevalere e
ottenere così la fama e il rispetto.
Anche Snell, che assegna ai termini considerati un ruolo determinante
per cogliere i mutamenti nell’etica greca, sostiene che l’impiego
di αρετή e αγαθός in
origine non ha niente di morale, ma indica un criterio funzionale al sistema di
vita sociale e politico che Omero ci descrive: «Quando Omero dice che un
uomo è αγαθός (buono), non intende dire
che è moralmente irreprensibile oppure di buon cuore, bensì
utile, valido, capace, ciò che noi diciamo di un buon guerriero o di un
buon arnese. Così la parola αρετή
(virtù) non si riferisce alla vita morale, ma indica nobiltà,
capacità, successo, imponenza.»[36].
Il significato fondamentale di αγαθός
è quindi quello di capacità, abilità di riuscita;
l’ανήρ αγαθός è
un uomo ‘bravo a fare le cose’, più che un uomo buono verso
gli altri. Quest’ultimo aspetto, che evoca il sistema minoritario delle
virtù cooperative, non è rilevante ai fini della definizione
dell’αγαθός; egli, infatti, conserva le sue
prerogative pur in presenza di comportamenti che noi definiremmo ingiusti e
scorretti e che, ai nostri occhi, non permetterebbero di considerare
l’uomo che li compie come buono e degno del massimo rispetto.
Adkins riporta diversi esempi a conferma del fatto che la mancanza di
alcune qualità come la giustizia, la compassione o quella che noi
chiameremmo la bontà d’animo, non è considerata rilevante
nel tributare onore e fama a un uomo[37]. I
corteggiatori di Penelope, che organizzano un complotto per ucciderne il figlio
Telemaco, vengono ciononostante denominati
αγαθοι, sebbene il loro comportamento vada contro
le regole sociali comunemente accettate. Per essere
αγαθός non bisogna dimostrare di avere quelle
qualità che appartengono al sistema delle virtù minori; anzi,
l’ αγαθός può compiere azioni
malvagie senza per questo meritare l’appellativo di
κακος, che indica chi merita il disprezzo per
ciò che ha fatto.
Agamennone, che sottrae la schiava Briseide ad Achille, scatenandone
l’ira funesta, si comporta in modo ingiusto; egli, infatti, porta via a
un aristocratico, del suo stesso livello sociale, la sua preda di guerra,
legittimamente conquistata sul campo di battaglia. Tuttavia egli rimane un
αγαθός, e Achille deve riconoscerne il valore. In
questo caso Adkins fa notare che Achille non ha argomenti per contrastare il
diritto di Agamennone a comportarsi secondo le sue prerogative, sebbene lo
stesso Agamennone riconoscerà più tardi di averne abusato[38].
Così, quando Achille farà scempio del cadavere di Ettore,
trascinandolo intorno alle mura di Troia, Apollo dirà che il suo
comportamento va contro le regole, e che potrebbe scatenare l’ira degli
dei, tuttavia nessuno dirà ad Achille che non ha diritto di farlo, e che
la sua azione farà ricadere la vergogna su di lui. Manca un sistema di
valori più elevato cui appellarsi per vietare questi comportamenti.
Ma questi valori, che per noi sono così distanti, e a volte
incomprensibili nel loro primato etico, non sono un frutto casuale o arbitrario
delle convenzioni sociali: sono strettamente collegati a quel tipo di
società e alle sue esigenze. Viene premiato il successo e disprezzato
l’insuccesso in guerra, perché dal primo viene la salvezza e
dall’altro la morte e la rovina; dinanzi ad esse le giustificazioni della
sconfitta sono inutili, così come non sono rilevanti le ragioni della
vittoria. Vengono esaltati il coraggio e la forza, perché da essi
derivano la garanzia di una buona difesa e di una prosperità economica.
«Vivere è una questione di ingegno e coraggio; dice Adkins, quindi
ingegno e coraggio debbono essere molto apprezzati»[39]. In conclusione,
possiamo dire che vengono celebrate le qualità che una società
precaria, come quella descritta da Omero, ritiene essenziali per la propria
sicurezza.
Come scrive MacIntyre, nella società eroica non è
possibile separare il sistema delle virtù dal tipo di organizzazione
sociale che le esprime, l’una e le altre si presentano strettamente
intrecciate: «(...) nella società eroica, etica e struttura
sociale sono di fatto una cosa sola. C’è soltanto un insieme di
vincoli sociali. La morale come qualcosa di autonomo non esiste ancora. Le
questioni assiologiche sono questioni di dati di fatto sociali.»[40].
E’ per questa ragione che è così difficile
concepire, nel corpo unitario dell’ηθος, l’idea
di una responsabilità soltanto morale,
come pretende di trovare Adkins, e non anche sociale, giuridica e politica, per
usare le nostre attuali classificazioni in materia. In questo modo, come
vedremo, è relativamente agevole pronunciarsi per la mancanza di un
sistema di responsabilità morale. L’uso della distinzione kantiana
tra valori morali e non-morali[41], cui
Adkins ricorre nella sua opera, trascura un elemento che ci sembra di estrema
importanza per capire la particolare forma della responsabilità che
andiamo cercando: l’etica greca comprende valori morali e non-morali,
ignorando la distinzione tra quelle norme che possiamo definire morali, e solo
morali e quelle norme definibili come giuridiche e solo giuridiche[42].
«I testi greci non conoscono queste differenze.- Scrive Martha
Nussbaum – Essi cominciano dalla questione generale: “Come dovremmo
vivere?” ed accettano che tutti i valori umani pretendano di far parte
costitutiva della vita buona; essi non presumono che ci sia un qualche gruppo
dotato di una pretesa prima facie ad
essere supremo.»[43] Se
infatti adottiamo la visione kantiana della vita morale come chiave di lettura
del pensiero greco sui problemi della vita pratica, possiamo dire, con le
parole di Nussbaum che «I Greci non si trovano in buone acque. (...)
é come se si trovassero in difficoltà perché non hanno
scoperto ciò che ha scoperto Kant, come se non avessero saputo
ciò che tutti noi kantiani ben sappiamo.»[44]
Considerare brevemente che cosa intendiamo con etica greca ci aiuta a
riconsiderare sotto un’altra luce la fuorviante conclusione, che apre il
volume di Adkins, che l’etica greca non conosceva il concetto di
responsabilità morale[45].
L’ηθος greco racchiude l’insieme delle
regole di comportamento sociali e individuali, che potremo definire culturali,
comuni a tutti, e che tutti devono conoscere. Uno dei caratteri costanti della
civiltà greca, che rimane invariato nel corso della sua storia secolare,
è il ruolo centrale che i valori e le norme morali hanno nella gestione
della vita individuale e comunitaria. La società greca, nota Vegetti,
non ha mai avuto uno stato o una magistratura coercitiva, o strutture sociali e
religiose che, in forme diverse, imponessero norme di condotta e stili di vita
omogenei alla popolazione. Questa funzione di amalgama del tessuto sociale è
stata svolta da una serie di diversi «agenti morali», quali forme
spontanee di aggregazione sociale, correnti del pensiero religioso, scuole
filosofiche, sapienti e moralisti, «Scopo comune, anche se perseguito con
strategie diverse e spesso rivali, nota Vegetti, è quello di ottenere
l’introiezione di valori e norme morali capaci di orientare la condotta,
di cementare l’assenso verso le regole della vita sociale e le sue
autorità, di ottenere insomma, mediante la persuasione, la formazione,
la teoria, ciò che non può venire imposto in modo
coercitivo»[46].
E’ questo carattere della struttura sociale e politica greca che
conferisce all’etica un ruolo così incisivo nella guida della vita
individuale.
Havelock, nel suo celebre studio sulla giustizia nella civiltà
greca, ci spiega che ηθος e νομος
in origine indicavano dei comportamenti concreti più che i concetti
astratti di ‘legge’ ed ‘etica’, con i quali noi li
identifichiamo: «(...) nel loro uso originario non significavano principi
o credenze, ma attività umane ben definite, (...) come la distribuzione
o l’amministrazione della terra nel caso di nomos, e l’atto di
vivere in un luogo o in una capanna nel caso di ethos. La loro origine è
di carattere comportamentale, non filosofico, legale o morale»[47]. Questo
deposito di conoscenze esprime la coscienza della comunità e il suo
atteggiamento verso ciò che è ritenuto giusto, adeguato e
meritevole di rispetto[48].
Elemento essenziale dell’ηθος è quindi
l’aspetto conoscitivo, che non a caso emerge in un particolare uso del
verbo ‘sapere’ da parte di Omero, che lo riferisce ai tratti del
carattere e al comportamento; nell’Odissea Polifemo viene presentato come
colui che «sa cose senza legge», così come nell’Iliade
«Achille sa cose selvatiche, come un leone»[49].
Questa spiegazione della condotta sotto forma di conoscenza, di cui
l’Iliade e l’Odissea ci forniscono numerosi esempi, non è un
vezzo stilistico di Omero, quanto piuttosto un antico retaggio che ricompare
nell’invenzione socratica dell’intellettualismo morale[50]. Tra
conoscenza e scelta etica non vi è quel salto qualitativo che
Sant’Agostino mostra così chiaramente nella sua concezione della
volontà, e che l’età moderna inaugurerà attraverso
la sua epistemologia. Nel mondo dell’etica greca vi è
un’intima relazione tra la scelta e la conoscenza, volontà e
intelletto sono racchiusi dentro una cornice storica e sociale che ammette un
ventaglio ristretto di possibilità a disposizione del singolo.
Perciò, conosco ciò che posso volere e so ciò che posso
desiderare. Come vedremo nei paragrafi seguenti, il vero errore morale consiste
nell’andare oltre le prerogative del proprio ruolo, nel non rispettare i
confini di ciò che a ciascuno è stato assegnato in sorte.
Sono quelli che MacIntyre ha definito i dati di fatto sociali, come la
nascita, l’appartenenza a una famiglia, a una città o ad
un’altra, che determinano il corpo di norme assegnato
all’individuo.
Ciascuno, nella società eroica, ‘sa’ cosa deve fare
e cosa non deve fare, conosce l’insieme delle regole che cementano la
vita del gruppo. I doveri che governano la vita individuale derivano dal posto
che il singolo ha nell’organizzazione sociale, secondo un sistema fisso e
predeterminato. E’ dal ruolo che nasce il corpo di norme e abitudini a
cui ciascuno deve fare riferimento, ed è dal modo in cui egli svolge il
suo ruolo, rispettandone le regole o meno, che viene giudicato. Potremmo dire
che il termine αρετή racchiude le doti che permettono
ad un uomo e a una donna[51] di
svolgere il proprio ruolo. Per questa ragione non è possibile definire
un uomo αγαθός, ignorando quale posizione egli
abbia nella gerarchia sociale. La sua funzione sociale è infatti
inscindibile dal suo corredo di doveri, da quella che noi moderni chiameremmo
la sua prospettiva morale. Il possesso delle qualità che rendono un uomo
αγαθός è determinato dalla conoscenza del
suo status; con αγαθός non si indicano
semplicemente le qualità di un uomo, ma anche una precisa posizione
sociale.
Gli αγαθοι sono al vertice della piramide
sociale, perché le loro armi, il loro coraggio e le loro ricchezze sono
gli strumenti che meglio possono assicurare la sopravvivenza del gruppo. A
questa posizione privilegiata corrispondono un insieme di doveri rigidamente
determinati: in un simile contesto, come vedremo, solo i risultati concreti contano,
solo il successo ha una valenza positiva. La sconfitta coincide con
l’orizzonte morale dell’uomo nella società eroica: oltre non
vi è che il nulla.
In un mondo in cui l’io si identifica con il suo ruolo, in cui
l’etica deriva dalla terra e dalla vita e in cui l’uomo sopravvive
grazie alle regole del gruppo, quali forme assume la responsabilità?
Certo non quelle dell’etica kantiana dell’intenzione, né
quelle che vedono una sanzione morale distinta da quella giuridica, ma
piuttosto quelle di una responsabilità complessa, legata al compito che
a ciascuno è assegnato, al posto che ognuno ha ricevuto in sorte.
È un intreccio di responsabilità che rende difficile distinguere
la responsabilità del singolo individuo come entità a sé
stante, ma non ci consente, con buona pace di Adkins, di dire che i Greci non
conoscevano il significato della responsabilità morale.
Nel sistema dei valori dei greci cogliamo due aspetti fondamentali: il
primo riguarda l’esclusivo rilievo assegnato all’azione compiuta,
rispetto all’intenzione del suo autore; il secondo la determinazione
esterna del valore, affidata integralmente al giudizio della comunità.
Come vedremo nelle pagine che seguono, i due aspetti sono strettamente
relati: in un mondo in cui i fatti risultano molto meno importanti delle
apparenze, anche le intenzioni sono irrilevanti rispetto ai risultati. Sono
questi caratteri che tracciano la distanza tra la nostra responsabilità
e quella ricavabile dall’ηθος greco: il primo delinea
il concetto di azione che può venire attribuita all’agente sulla
base del nesso causale[52], a
prescindere dalla considerazione della volontà, il secondo traccia
l’identità del soggetto responsabile, ricostruita
dall’esterno, in base al ruolo assegnato e all’immagine definita
dalla comunità.
L’intero impianto narrativo dell’epos omerico è
costruito sull’intreccio tra le azioni umane e l’intervento degli
dei[53]. Sono
essi che determinano ogni azione umana, che sembra fare parte di un disegno
divino. Nell’Odissea Ulisse può tornare a Itaca solo quando
saranno gli dei a permetterlo, così come nell’Iliade l’ira
di Achille viene presentata come uno strumento del progetto di Zeus. Spesso,
nella descrizione omerica dei personaggi e del loro ruolo, notiamo che vi
è una distinzione tra la volontà dell’agente e il risultato
della sua azione, indotta da un dio, tuttavia la responsabilità, che
consiste nel dovere di sottoporsi alla sanzione, è attribuita esclusivamente
sulla base dell’azione compiuta, e non delle intenzioni del suo autore[54].
Nel canto XIX dell’Iliade, Agamennone attribuisce agli déi
la responsabilità del suo gesto verso Achille, a cui ha sottratto
l’adorata Briseide: «Spesso questo discorso mi facevano gli Argivi
e mi biasimavano; pure non io son colpevole
(αιτιος), ma Zeus e la Moira e l’Erinni che
nella nebbia cammina; essi nell’assemblea gettarono contro di me stolto
errore (ατη), quel giorno che io tolsi ad Achille il suo dono.
Ma che avrei potuto fare? I numi tutto compiscono.»[55]. Come
acutamente nota Dodds, a un lettore contemporaneo il lamento di Agamennone
potrebbe sembrare un tentativo per sottrarsi alla sua responsabilità,
chiamando in causa gli déi che hanno annebbiato la sua coscienza[56],
tuttavia non è questa la sua intenzione, poiché egli,
riconoscendo il suo errore, dichiara di volervi porre rimedio, offrendo ad
Achille ricchissimi doni: «Ma dal momento che ho errato, Zeus m’ha
tolto la mente, voglio farne l’ammenda, dare doni infiniti»[57].
Agamennone ritiene quindi di essere stato indotto a compiere l’atto
ingiusto da Zeus e dal suo destino, impersonato dal richiamo alla
μοιρα, e riconosce allo stesso tempo la sua personale
responsabilità, volendo pagare per ciò che ha commesso. Da un
lato quindi egli dice di non essere αιτιος
(responsabile, causa dell’evento)[58],
dall’altro decide comunque di pagare come se lo fosse. Potremmo
distinguere, sulla base del suggerimento di Eva Cantarella, tra
responsabilità ed errore, dicendo che Agamennone esclude la sua
colpevolezza (responsabilità soggezione), e ammette il suo «stolto
errore» (responsabilità causale), ma non capiremmo la ragione per
cui, il re dei Greci, comandante supremo dell’esercito, dovrebbe sentire
il dovere di offrire ad Achille ricchi doni per la pace[59]: solo
chi ritiene di aver avuto il potere di determinare il corso degli eventi,
può ritenere di poterlo in qualche modo modificare, rimediando al suo
errore. L’episodio ci mostra che, ai fini della responsabilità,
nella concezione omerica non si fa alcuna distinzione tra errore incolpevole,
quale quello di Agamennone, ed errore colpevole: egli deve pagare integralmente
per il suo gesto[60].
«Tali sono le implicazioni della struttura competitiva dei
valori. La responsabilità morale non trova luogo fra essi.»,
scrive Adkins[61].
Egli conclude rilevando nel comportamento di Agamennone una contraddizione
presente in tutta l’opera di Omero. In essa sembrano esistere due piani
relati, quello degli uomini e quello degli déi, che tuttavia si rivelano
indipendenti e non s’intersecano quando si tratta di connotare moralmente
un’azione e attribuire a qualcuno la responsabilità degli eventi[62]. Nella
società descritta da Omero, che rappresenta con un buon grado di
approssimazione la concezione dominante nella Grecia dell’VIII e VII
secolo, con le sue credenze e narrazioni[63], il dio
è sempre αναιτιος, non
responsabile, sebbene col suo intervento determini il corso degli eventi. La
responsabilità è prerogativa degli umani, che solo in parte
contribuiscono, con la loro libera volontà, a tracciare il proprio e
l’altrui destino.
Ettore pagherà per aver ucciso Patroclo, morendo per mano di
Achille, che farà scempio del suo cadavere trascinandolo intorno alle
mura di Troia, tuttavia Ettore ha solo una parte secondaria nella morte di Patroclo,
perché Zeus e Apollo intervengono nel duello offrendogli la vittoria;
come dice Patroclo morente «Sì, Ettore, adesso vàntati: a
te hanno dato vittoria Zeus Cronide e Apollo, che m’abbatterono
facilmente: essi l’armi dalle spalle mi tolsero.(...) tu m’uccidi
per terzo»[64].
Ma, nonostante questo, Ettore pagherà per il suo gesto, le cui
conseguenze ricadranno interamente sulle sue spalle.
Sarebbe logico, secondo il nostro punto di vista morale, attenderci che
la responsabilità individuale risulti almeno attenuata di fronte a un
evento già stabilito nella trama divina, che “deve accadere”
secondo una necessità inscritta nell’ordine delle cose, tuttavia
questo non influisce in alcun modo sulla determinazione della responsabilità
individuale, che rimane piena, e non viene scalfita dalla considerazione che
l’agente non aveva l’intenzione di produrre quel determinato
risultato, e che vi è stato indotto dagli eventi o da un intervento
divino. Si tratta di quella che noi chiameremmo un’azione non libera,
determinata da condizioni esterne alla volontà dell’agente, e che
non dovrebbe, almeno secondo il nostro punto di vista morale, essere
considerata oggetto di responsabilità. E invece Agamennone si scusa e
offre i doni della riconciliazione ad Achille, Ettore muore per mano di
Achille, che vendicherà così la morte di Patroclo. Gli eroi
omerici pagano, subiscono una pena, anche nei casi in cui la loro
volontà appare sopraffatta da altre cause. Nell’Iliade e
nell’Odissea sembra mancare, infatti, il concetto di azione volontaria,
che Aristotele definirà nell’Etica Nicomachea. É per questa
ragione che la responsabilità delineata da Omero viene definita
oggettiva, perché, nell’attribuire il biasimo o la lode, non si
tiene conto della reale volontà ed intenzione dell’agente.
Nel paragrafo seguente scopriremo che questa è la tesi
più accreditata; la maggior parte degli studiosi sostiene infatti che
l’idea di responsabilità morale sia sconosciuta a Omero, o che,
tutt’al più, affiori in una forma embrionale, rispetto a quella di
una indiscussa responsabilità oggettiva.
Tuttavia si tratta di una spiegazione insoddisfacente.
Tutte le ricerche citate assumono una premessa implicita: l’idea
che la responsabilità debba derivare da un giudizio sugli atti volontari
dell’agente. È quest’idea che impone un percorso
metodologico predefinito, e ottiene come possibili esiti, a seconda dei
territori esplorati dai ricercatori, o l’affermazione di una
responsabilità morale, o la sua negazione, che equivale ad affermare una
responsabilità oggettiva. Ma cosa significa, per i greci,
responsabilità oggettiva?
Solo rovesciando la prospettiva d’indagine e modificando la
griglia dei concetti moderni ci avviciniamo alla concezione greca della
responsabilità.
Com’è possibile, ci chiediamo, che l’etica greca
mostri una lacuna così vistosa e quasi inspiegabile in un contesto di
raffinata cultura e analisi filosofica[65]? Questa
contraddizione è infatti presente nelle opere dei tragici come Eschilo,
Sofocle e Euripide, che, nel V secolo, in un’epoca ormai lontana da
quella omerica, rafforzano l’idea che la responsabilità umana non
derivi da una volontà ‘esclusivamente’ morale[66].
Rodolfo Mondolfo ed Eva Cantarella, pur con diversi approcci,
sostengono una sorta di teoria evolutiva della responsabilità
nell’etica greca, individuando un processo, già rilevabile dalle
differenze tra l’Iliade e l’Odissea, che va da un sistema di
responsabilità oggettiva, o di irresponsabilità morale, ad uno di
responsabilità soggettiva, che nasce con la scoperta della coscienza.
Il medesimo episodio, descritto nel canto XIX dell’Iliade,
è interpretato da Mondolfo in modo differente rispetto a Dodds ed
Adkins. Essi, come abbiamo visto, sostengono che Agamennone, rivolgendosi
all’assemblea degli Achei, non stia tentando di discolparsi ed eludere la
responsabilità, ma piuttosto che stia riconoscendo il suo dovere di
riparare a un’azione biasimevole, sebbene ispirata da un intervento
divino.
Mondolfo ritiene invece che Agamennone, con le sue parole, voglia
realmente sottrarsi alla responsabilità che l’assemblea sta
cercando di attribuirgli[67]; ma
è proprio il suo non riuscito tentativo a confermare l’idea,
secondo l’autore, che in Omero è presente un concetto di
responsabilità personale: «(...) il fatto che la difesa risponda
ad un’accusa è documento che di fronte alla tesi
dell’irresponsabilità, che l’accusato formula,
s’è già accampata da parte degli altri la tesi della
responsabilità dell’agente»[68].
Egli ritiene che quei versi esprimano due opposte concezioni della
responsabilità; una esemplificata nella posizione di Agamennone, che
egli chiama di irresponsabilità: gli uomini sono solo gli esecutori
dell’irresistibile volontà divina, e per questo non possono essere
considerati responsabili. L’altra concezione è espressa
dall’assemblea, che ritiene Agamennone autore dell’azione ingiusta
e pienamente responsabile per essa.
Il contrasto tra queste posizioni mostra, secondo Mondolfo, che il
concetto di responsabilità, già affermato nella società
cantata da Omero, non è ancora chiaramente delineato in essa. Egli nota,
infatti «che le due concezioni antitetiche non sono sempre del tutto
separate, ma si presentano nei singoli casi più o meno strettamente
intrecciate, a documentare l’ancora incerta oscillazione del pensiero fra
esse»[69].
E’ nell’Odissea che si avverte un cambiamento di prospettiva:
accanto all’azione compiuta, anche le intenzioni cominciano ad avere un
loro rilievo. Questo lento processo, che vede con Esiodo (VIII-VII secolo) la
sostituzione dell’ideale aristocratico della giustizia con quello
contadino, e quindi un primo passo verso l’estensione dei problemi etici
alla generalità degli uomini, si compie nel V e IV secolo, in cui il
giudizio morale diviene interiore e si afferma il concetto della coscienza
etica[70].
Anche Cantarella sostiene una tesi evolutiva della
responsabilità, ma, a differenza di Mondolfo, ritiene che Omero ci
descriva «il mondo della piena, incontrastata e indiscussa
responsabilità oggettiva, sia sul piano dei fatti, che su quello dei
sentimenti.»[71], sia
nell’Iliade che nell’Odissea. Tuttavia questa concezione, che
chiaramente emerge dai poemi omerici, convive con un’embrionale idea di
libertà[72].
Omero, infatti, distingue tra azione volontaria e azione involontaria, come si
nota ad esempio nel canto XIX, in cui Agamennone riconosce la sua
responsabilità, escludendo tuttavia la volontarietà della sua
azione, determinata da ατη.
Cantarella tenta di risolvere la contraddizione distinguendo una
responsabilità «materiale», che viene imputata sulla base
del solo nesso causale, da una responsabilità morale, che deriva dalla
volontarietà dell’atto[73].
Riconoscendo la sua azione come non libera, Agamennone ammette la prima, ma
esclude la seconda.[74].
Tuttavia la distinzione tra responsabilità materiale e
responsabilità morale, se ci aiuta a risolvere l’apparente
contraddizione omerica, risulta poco convincente. Cantarella, infatti,
interpreta come casi di responsabilità morale quelli in cui
l’azione è volontaria e non determinata dagli eventi o dagli dei,
e casi di responsabilità materiale quelli in cui si risponde comunque
per l’evento causalmente riconducibile all’agente; nei primi
l’autore prova un senso di colpa, rimorso e rincrescimento, negli altri
riconosce il dovere di rispondere, pur in mancanza di una autodeterminazione.
Potremmo dire che mentre in questi ultimi vi è una forma di accettazione
passiva degli obblighi nascenti dall’atto, in quelli vi è uno
spontaneo riconoscimento del dovere di rispondere. I personaggi di Omero
rispondono sempre e comunque, dice Cantarella, ma fanno una distinzione, non
solo fattuale, tra i casi in cui agiscono liberamente e quelli in cui agiscono
per volontà degli dei[75].
Ma, in questo modo il problema si sposta sul concetto di
causalità materiale: per quale ragione i greci riconoscono
l’obbligo di rispondere dell’azione, anche in mancanza di una
precisa volontà e intenzione? Secondo il nostro giudizio, che si fonda
sulla dicotomia di responsabilità morale e responsabilità
giuridica, può accadere che si debba rispondere per un’azione
moralmente lecita e giuridicamente dannosa, ma ci sentiremmo costretti a farlo
e non agiremmo spontaneamente riconoscendo la giustizia dell’obbligo,
anzi spesso, in quei casi la norma viene considerata ingiusta, perché
contraria ai nostri principi morali. Ma, come vedremo, il giudizio dei greci
non si fondava sulla distinzione tra valori morali e valori non morali;
Agamennone non denuncia l’ingiustizia della regola che gli impone di
riparare al suo gesto, ma anzi ne riconosce la piena legittimità; la
distinzione tra ciò che è moralmente giusto e ciò che lo
è ‘solo’ giuridicamente (o socialmente) non trova spazio in
questa struttura etica, dove appare vana la ricerca di una responsabilità
morale, separata da una responsabilità giuridica, o sociale.
I greci riconoscevano l’obbligo di rispondere delle loro azioni,
anche involontarie, per la particolare struttura etica della loro
società, dice Cantarella. Aderendo alla distinzione tra virtù
competitive e virtù collaborative, rielaborata da Adkins,
l’autrice afferma che in un’etica del successo, come quella greca,
ogni giudizio prescinde da una valutazione degli elementi psicologici
dell’azione. Il sistema di valori ‘eroici’ impone
un’etica del risultato ed esclude un’etica dell’intenzione.
A questa concezione si accompagna un particolare corredo di sentimenti
e reazioni sociali, volto a consolidare e rafforzare il sistema dei valori
eroici, che ci spiega la ragione per cui Agamennone riconosce la fondatezza del
suo dovere di riparazione. La vergogna che prova l’eroe omerico di fronte
al suo fallimento, e al conseguente biasimo sociale, è infatti lo
strumento morale che traccia i percorsi della responsabilità: Agamennone
non si sente in colpa per il torto fatto ad Achille, ma avverte il biasimo dell’assemblea
che gli attribuisce la responsabilità per le recenti sconfitte degli
Achei, privati in battaglia del valore di Achille.
Il sentimento che riflette il sistema dei doveri del singolo non
è dunque il senso di colpa, che riguarda esclusivamente la coscienza
individuale, ma la vergogna, nata da un tessuto relazionale e plurale che
compone la prospettiva morale del singolo[76].
Il ruolo della vergogna, che approfondiremo nelle pagine seguenti,
scardina l’immagine di una persona divisa tra esteriorità e interiorità
su cui poggia la nostra classificazione della responsabilità[77], e ci
aiuta a capire lo ‘strano’ senso di responsabilità degli
eroi omerici.
E’ per questa ragione che Ulisse non fa distinzione tra i proci,
uccidendoli tutti, e non separando coloro che hanno avuto intenzioni malvagie e
si sono macchiati di colpe più gravi, da quelli che, pur avendo
partecipato all’impresa, si sono distinti per un animo gentile e per aver
rispettato Penelope[78]. Con la
sua vendetta egli deve riconfermare il giudizio della comunità sul suo
valore, uccidendo tutti i suoi nemici, senza fare distinzione tra i più
e i meno colpevoli.
Nonostante questa sia ancora la concezione prevalente, dice Cantarella,
nell’Odissea cogliamo i segni di un altro mondo, «nel quale
l’uomo comincia lentamente a credere nella sua possibilità di
autodirigersi, o quanto meno, intuisce di avere questa
possibilità»[79]. Il
problema della responsabilità, che Omero lascia irrisolto, sarà
definito dai concetti etici che si affermeranno nel V secolo, con il passaggio
dal sistema dei valori aristocratici a quello dei valori democratici.
La tesi di Adkins rappresenta la posizione più estrema,
poiché nega alla radice la presenza di un qualsiasi concetto di
responsabilità morale nell’etica greca, almeno fino al V secolo.
Come abbiamo visto nel paragrafo precedente, Adkins rileva una
contraddizione ricorrente nel pensiero omerico e nella struttura di credenze
della società che esso ci svela: il fatto che si è considerati
responsabili anche per azioni non volontarie, come mostra l’episodio di
Agamennone più volte citato.
La sua spiegazione è che, poiché i Greci privilegiarono
una struttura di valori che esaltano la competizione, la forza e il coraggio,
piuttosto che la solidarietà, la giustizia e la pietà, non
potevano, nella loro struttura etica, assegnare un posto di rilievo alla
responsabilità e al dovere. La conclusione che Adkins trae da questa
argomentazione non sembra così conseguente, né tanto meno
scontata come egli la presenta: infatti, non ci spiega la ragione per cui la
responsabilità deve stare dalla parte delle virtù cooperative.
Quali caratteri affini alla pietà, compassione e solidarietà essa
presenta? E di quali caratteri difetta per poter campeggiare tra le virtù
competitive? In realtà egli non ci dice esplicitamente cosa intenda con
responsabilità morale, dando per scontato che ogni lettore
contemporaneo, in quanto kantiano, ‘sappia’ che cosa significa
l’espressione responsabilità morale. Adkins ci dice che cosa i
greci non hanno, ma non ci spiega come dovrebbe essere il concetto di cui
difettano nel loro sistema etico.
Possiamo dire che egli trae questa conclusione da una premessa
implicita nella sua tesi e dal dato che ricava da una lunga e accurata analisi.
La premessa implicita è che il sistema prevalente nella struttura etica
greca, dall’età eroica fino al cosiddetto ‘illuminismo
greco’[80],
è un sistema di valori non-morali[81]. La
forza, il coraggio, l’ingegno, il valore guerresco e agonistico, insomma
tutte quelle abilità che conferiscono il potere di prevalere e vincere,
non sono concepiti come valori morali in una prospettiva kantiana. Si tratta
infatti di ideali basati sull’egoismo, e sui vantaggi che portano o
sottraggono all’agente, che escludono la considerazione del beneficio o
del danno che ne ricaveranno gli altri. La prospettiva etica greca sembra non
avere, tra i suoi caratteri, quello fondamentale
dell’universalità. L’onore e la fama, a cui ogni uomo greco
aspira, riguardano un interesse egoistico, immediato e personale, che non
sembra tenere conto delle esigenze e della vita degli altri membri della
comunità.
A questo argomento è strettamente collegato il secondo aspetto
rilevato da Adkins: la mancanza di un concetto di volontà morale che
connota l’azione. Il fatto che le intenzioni di chi agisce non siano una
condizione sufficiente ad escludere la responsabilità, nel caso in cui
l’azione prodotta sia diversa da quella che l’agente voleva
produrre, svela la mancanza del concetto di una volontà autonoma, che
costituisce il presupposto della responsabilità morale nella teoria
kantiana.
Nel pensiero di Kant, la morale si fonda sull’idea che la
volontà non debba essere condizionata da elementi esterni, o
contingenti; tutti quei fattori che derivano dallo status sociale, dalla
costituzione del carattere, e dalle circostanze che condizionano la vita
dell’agente, non possono essere oggetto di considerazione morale, ossia
non possono giustificare moralmente l’assunzione di determinati obblighi[82].
Si tratta di una distinzione fondamentale, radicata nel nostro pensiero
morale, e rielaborata dalla filosofia contemporanea che, in alcuni dei suoi
più rilevanti contributi, è di ispirazione kantiana. Non è
casuale dunque che, nelle loro ricerche sull’etica greca, gran parte
degli autori assumano più o meno esplicitamente una simile prospettiva
teorica. In essa il punto di vista non morale coincide con quello egoistico e
quello morale presenta alcuni precisi caratteri. Secondo Williams questi sono
l’imparzialità e la sua indifferenza ad ogni «relazione
particolare con persone particolari» e a tutte quelle circostanze e
specifici tratti del carattere delle persone che non possono essere estesi
universalmente a qualsiasi situazione moralmente simile. L’ulteriore
elemento che caratterizza il punto di vista morale consiste nell’idea
«che le motivazioni di un’agente morale, conseguentemente,
comportano un’applicazione razionale del principio
d’imparzialità, e quindi differiscono per loro natura dai tipi di
motivazione che egli può avere per trattare diversamente persone
particolari (...)»[83].
É quindi l’idea di una volontà pura, non
‘contaminata’ dalla realtà fattuale, che Adkins cerca nel
tessuto dell’etica greca, e, naturalmente, non trova.
La domanda fondamentale a cui si deve rispondere è, come insegna
Socrate: «Come dobbiamo vivere?»[84],
più che: «Cosa dobbiamo fare?»[85]. La
risposta alla domanda di Socrate prevede che sia difficile
nell’esperienza pratica distinguere e separare gli interessi morali, che
riguardano il beneficio o il danno per altre persone, da altri interessi
pratici, che riguardano esclusivamente il soggetto, come ad esempio una
vocazione artistica, e che possono porsi in contrasto con i primi[86]. La
rigida classificazione morale – non morale, che caratterizza l’etica
moderna, appare riduttiva e fuorviante se applicata a quella greca.
Anche il carattere di volontarietà delle azioni appare in una
luce diversa, una volta allontanato da questa dicotomia. Dalla volontà
autonoma, fondata esclusivamente su sé stessa, si passa a considerare la
volontà che lavora con la sorte, con gli eventi e con la
casualità[87].
Questa linea di riflessione impone un radicale cambiamento di
prospettiva e il conseguente abbandono dell’idea secondo cui possiamo
essere moralmente responsabili solo per quelle azioni che sono sotto il nostro
controllo. Bernard Williams ritiene che il nostro giudizio morale, fondato
sulla concezione kantiana, non coincida, almeno in alcuni rilevanti casi, con
la nostra intuizione morale. Gli schemi della teoria etica kantiana, prevalente
nella nostra morale comune, non coincidono con la realtà dei nostri
giudizi pratici, mostrando una notevole differenza tra la procedura decisionale
proposta e il nostro effettivo ragionamento pratico.
Secondo Williams i nostri giudizi morali sono condizionati da elementi
sottratti al nostro controllo, da eventi che dipendono dalla casualità e
non esclusivamente dalla nostra volontà. Il nostro giudizio non è
quindi immune dalla sorte, ma la comprende come un elemento necessario della
nostra vita etica: «La nostra storia di agenti è una trama in cui
tutto ciò che è prodotto dalla volontà è
circondato, sostenuto e in parte costituito da cose che non lo sono,
cosicché la riflessione può muoversi soltanto in una di queste
due direzioni: o affermare che il concetto di azione responsabile è del
tutto superficiale e di scarsa utilità nel dare una spiegazione armonica
di ciò che accade, oppure affermare che non è un concetto
superficiale, ma che in definitiva non è possibile isolarlo dal
resto»[88].
Egli ritiene in sostanza che l’intento di affrancare la moralità
dalla fortuna sia destinato a fallire, e che quegli elementi che Kant esclude
dal calcolo morale, come la nascita, il carattere e le circostanze della vita,
influenzino e condizionino tutti i nostri giudizi, fornendo talvolta una vera e
propria giustificazione morale alle nostre azioni[89]. Per
questa ragione, a quello di volontà morale egli affianca il concetto di
sorte morale.
Thomas Nagel, che condivide la prospettiva filosofica di Williams[90], definisce
il concetto di sorte morale: «Quando un aspetto significativo di quello
che qualcuno fa dipende da fattori sottratti al suo controllo, e tuttavia
continuiamo a trattarlo, sotto quell’aspetto, come un oggetto di giudizio
morale, siamo in presenza di un caso che denominiamo sorte morale.»[91].
La buona o la cattiva riuscita dei nostri propositi, dice Nagel,
dipende quasi sempre da fattori sottratti al nostro controllo, tuttavia,
nell’esprimere il giudizio su queste azioni, e quindi sugli agenti, non
teniamo nel debito conto il contributo del caso, separando, ai fini del
giudizio morale, ciò che dipende dalla volontà incondizionata
dell’agente da ciò che è un evento del tutto fuori dal suo
potere. Il nostro giudizio morale non include solo le intenzioni, ma comprende
anche ciò che accade oltre il punto della decisione: «Per quanto
pura e limpida possa essere di diritto la buona volontà,
c’è una differenza moralmente significativa tra il salvare
qualcuno da un edificio in fiamme e lasciarlo cadere da una finestra del
ventesimo piano mentre si cerca di salvarlo»[92].
Il tentativo di restringere l’azione al suo nucleo morale
essenziale, limitandola ai motivi e all’intenzione dell’agente, si
scontra con i nostri giudizi pratici, che si rappresentano l’azione e chi
la compie come parte di una realtà sottratta al nostro esclusivo
controllo. Infatti, continua Nagel, noi giudichiamo le persone per quello che
realmente fanno o che hanno fatto, più che per ciò che avrebbero
potuto fare in diverse circostanze[93].
La nostra, dunque, non è un’etica dell’intenzione,
almeno non solo, ma dell’azione compiuta[94]. Questo
tratto, che Williams e Nagel identificano con un’intuizione morale,
compone la nostra struttura morale, che non appare coerente con la teoria
dominante. In quanto agenti, noi ci percepiamo parte del mondo, inseriti nella
sua trama, ma è proprio la paura di esserne totalmente assorbiti che ci
spinge a rivendicare l’esigenza del controllo sui nostri atti, come
condizione della nostra identità, fisica e psicologica. Non siamo
capaci, secondo Nagel, di abbandonare il punto di vista interno dal quale
guardiamo la realtà: «L’inclusione delle conseguenze nella
concezione di quello che abbiamo fatto è un riconoscimento che siamo
parti del mondo, ma il carattere paradossale della sorte morale che emerge da
questo riconoscimento mostra che siamo incapaci di gestire un tale punto di
vista, perché non ci lascia essere nessuno.»[95].
L’idea di sorte morale apre una diversa prospettiva nella nostra
indagine, suggerendo che il problema irrisolto della responsabilità non
è tale per una presunta limitata ‘crescita’ del pensiero
morale dei Greci, ma per la consapevolezza che esiste una tensione
ineliminabile e costante tra gli assalti della fortuna e l’aspirazione
degli uomini ad esserne moralmente immuni, che la responsabilità
riflette.
Anche nel pensiero di Aristotele, che con la sua bellissima analisi
dell’azione volontaria consegna ai moderni l’impianto
dell’idea di responsabilità, cogliamo i tratti di un’azione
che s’inserisce in un contesto plurale, che dipende dalle azioni altrui,
dal caso e dai tratti del carattere che la sorte (o lotteria genetica direbbero
i moderni) ci ha assegnato. Come vedremo, nel IV secolo alcuni dei tratti della
cultura aristocratica lasciano il passo a quelli della Atene democratica, ma
altri sopravvivono accanto ai nuovi, creando tensioni tra modelli sociali e
culturali in opposizione. Uno di questi caratteri, che segna in misura profonda
la struttura etica greca, è quello della cosiddetta civiltà di
vergogna, che appartiene all’età eroica dei valori competitivi, ma
si conserva anche in epoca successiva accanto al – moralmente nuovo
– sentimento della colpa.
L’altro fondamentale aspetto, che caratterizza il sistema delle
virtù competitive nell’antica Grecia, e tutta la vita etica in
generale, è strettamente legato al primo: in un’etica del successo
è la comunità a decretarlo, a riconoscerlo e a negarlo. Se le
azioni si giudicano dai loro risultati, un uomo e una donna si giudicano in
base alle loro azioni, non alle loro qualità, personalità o
carattere; essi esprimono sé stessi attraverso il loro agire, mostrando
alla comunità che sono in grado di svolgere il ruolo che è stato
loro assegnato nella struttura sociale. Il giudizio morale si fonda su quella
che possiamo definire una logica dell’esteriorità: l’uomo
nella società eroica è come appare, egli s’identifica
totalmente con le sue azioni, perché egli è ciò che fa.
«Nel resoconto empirico [dell’epica] di ciò che gli uomini
fanno e dicono, si esprime tutto quello che gli uomini sono, poiché essi
non sono altro che ciò che fanno, dicono e subiscono»[96].
Chi è che giudica le azioni? Non certo chi le compie. Come
l’occhio che non vede sé stesso, nemmeno l’autore delle
azioni è in grado di esprimere un giudizio sul proprio agire; egli
sarà solo in grado di attribuirsi il valore che gli altri gli
riconoscono, e non di opporre un autonomo giudizio morale. É il popolo,
il demos, l’unico giudice in grado di attribuire e decretare la fama e la
pubblica stima di un uomo o una donna, così come di procurargli i mali
peggiori, gettando discredito e ridicolo sul suo nome. «La più
potente forza morale nota all’uomo greco, nota Dodds, non è il
timore di Dio, è il rispetto dell’opinione pubblica»[97].
Fin qui, potremmo dire, la principale differenza riscontrata con
l’etica kantiana, che Adkins elegge a emblema etico dell’occidente
contemporaneo, consiste nella prevalenza determinante dell’azione e delle
sue conseguenze sulle intenzioni, nella schiacciante prevalenza
dell’esteriorità fattuale sulla considerazione della
volontà morale del singolo. Ma, potremmo dire che anche in una certa
visione etica contemporanea le conseguenze dell’agire entrano nel calcolo
morale, prevalendo sulle intenzioni[98], e che
la tesi che elegge la responsabilità a principio cardine
dell’etica del terzo millennio propone di considerare preventivamente le
possibili conseguenze delle azioni, come condizione della loro adeguatezza
morale[99].
Tuttavia è un altro aspetto dell’etica eroica che ci
sorprende: infatti non è ciò che realmente si fa che è
importante, ma ciò che gli altri diranno che è stato fatto. Nel
mondo omerico, scrive Cantarella, «un uomo non “è” un
eroe, “è detto” tale. Una donna non è virtuosa,
“è detta” tale, così come “è
detta” bella o fedele: “essere detti” equivale a
essere.»[100].
Quello che il popolo dirà è, infatti, il principale criterio di
valutazione delle azioni e, di conseguenza, delle persone. «Sia per
uomini e donne non importa ciò che è stato fatto, ma ciò
che è detto che è stato fatto»[101] dice
Adkins, per spiegare che ciò che il popolo dirà è
l’unico criterio valutativo per le azioni del singolo.
In numerosi episodi dell’Iliade e dell’Odissea, i personaggi
giudicano le loro azioni in base a questo parametro esterno. L’unico vero
timore dell’eroe è quello di “perdere la faccia”:
Achille non vuole cedere Briseide ad Agamennone perché, se lo facesse,
potrebbe venir considerato un uomo di scarso valore: «Davvero vigliacco e
dappoco dovrei esser chiamato, se ti cedessi tutto, qualunque parola tu
dica»[102].
Lo stesso criterio è usato per le donne: Penelope è una
donna virtuosa perché non ha ceduto al corteggiamento dei proci, diremmo
noi; Penelope è una donna virtuosa perché si dice che sia tale,
dicono i greci. Se le virtù non vengono riconosciute, se gli atti eroici
non vengono narrati, diffusi e cantati, la loro esistenza non ha alcuna
importanza, o meglio, potremmo dire che non esistono affatto. Nell’Ifigenia in Aulide, Achille raccomanda a
Clitennestra un’estrema cautela nell’abbandonare la sua tenda,
perché, nel caso qualcuno la vedesse, potrebbe parlare, e portare
vergogna alla casa di suo padre; eppure noi sappiamo che la ragione della
visita di Clitennestra è irreprensibile, riguarda infatti la sorte di
sua figlia Ifigenia, che la madre vuole salvare dal sacrificio promesso.
Achille, tuttavia, rivela una grande preoccupazione, sapendo che, se qualcuno
parlerà, a nulla serviranno le giustificazioni, e la virtù della
donna sarà gravemente compromessa[103]
Euripide, alla fine del V secolo, esprime l’identico concetto che domina
in Omero, in cui la virtù di una donna consiste nella mancanza di
‘chiacchiere’, sia positive che negative, sul suo conto[104].
«Non certo il godimento di una coscienza tranquilla», dice
Dodds[105],
ma l’onore, la fama e la pubblica stima sono l’ideale supremo
dell’uomo omerico, così come l’altrui disprezzo e la
pubblica riprovazione sono avvertiti come il peggiore dei mali.
Per chiarire questo particolare meccanismo sociale, che impone
l’ordine attraverso la pressione del gruppo, egli ricorre alla ormai
celebre distinzione tra «civiltà di colpa» e
«civiltà di vergogna»[106].
Attraverso l’uso dei due modelli, frutto degli studi antropologici[107], Dodds
spiega l’evoluzione del sentimento religioso nella cultura greca, in cui
egli individua una prima fase che corrisponde a una Shame-culture, alla quale succede, a partire dal VI secolo, una Guilt-culture[108].
Le due culture presentano caratteri profondamente differenti che
corrispondono a opposti modelli sociali.
La civiltà di vergogna è quella «in cui
l’adeguamento alle regole non è ottenuto attraverso
l’imposizione di divieti, ma attraverso la proposizione di modelli
positivi di comportamento: e nella quale coloro che non si adeguano ai modelli
incorrono nel biasimo sociale, e in una conseguente sensazione di
“vergogna”»[109].
Quella omerica è una shame-culture,
in cui il sentimento della vergogna per l’insuccesso dell’impresa
prevale su quello della colpa per la propria condotta. Sebbene nella
società eroica di Omero i tratti del modello siano nettamente delineati,
dobbiamo osservare che questo particolare aspetto
dell’ηθος si conserverà fino al periodo
classico, sebbene in forma attenuata.[110]
Il sentimento che costituisce la più potente forma di sanzione
della società greca è infatti la vergogna.
Αιδώς ed elencheie (aidòs)[111]
esprimono il sentimento di vergogna che prova l’eroe di fronte al suo
fallimento in un’impresa di qualunque genere, che può essere la
sconfitta in battaglia, ma anche in una competizione sportiva. Se, come abbiamo
visto, il modello di vita ideale impone di primeggiare e non ammette
l’insuccesso, il mancato adeguamento ad esso avrà come sanzione la
vergogna e la pubblica riprovazione. Quest’ultima è espressa dal
sostantivo elencheie e dall’aggettivo
αισχρόν che, riferito alle azioni,
rappresenta il termine più grave di riprovazione sociale. L’azione
αισχρόν è, letteralmente, una
“brutta azione”, biasimata per la sua indecorosità, in
quanto contraria all’onore, così come
καλόν è una bella azione, che risponde ai
criteri di valore accettati nel sistema competitivo. Questi termini denotano,
secondo Dodds «non che l’azione sia benefica o dannosa per
l’agente, o buona o cattiva agli occhi di una divinità, ma
soltanto che sembra b e l l a o b r u t t a alla pubblica opinione»[112].
La civiltà di colpa rispecchia invece «una società
in cui i comportamenti vengono determinati attraverso l’imposizione di
divieti, e in cui chi tiene un comportamento vietato si sente oppresso da un
senso misto di angoscia, di colpa e di rimorso, approssimativamente espresso
dal termine guilt»[113].
Il passaggio dalla vergogna alla colpa sarebbe avvenuto, secondo Dodds,
intorno al VI - V secolo, in coincidenza con l’Illuminismo greco. Ne
è un esempio il fenomeno della contaminazione,
ritenuto estremamente rilevante per registrare i cambiamenti nel tessuto
dell’etica greca, e ateniese in particolare. Per contaminazione
s’intende una forma di impurità, derivante da azioni o eventi, che
i greci ritenevano compromettesse i rapporti tra gli uomini e il mondo divino.
Chi è ‘contaminato’ rappresenta un pericolo per sé e
per gli altri, almeno finché non si sarà purificato; egli non
solo non potrà pregare gli dei, ma dovrà stare lontano dal gruppo,
che a sua volta potrebbe rimanere macchiato dalla sua impurità.
L’evoluzione del fenomeno della contaminazione[114] rivela
il cambiamento che avviene nella struttura etica della società greca. In
Omero l’omicida deve lavare il sangue dalle sue mani prima di poter
pregare gli dei; così come la contaminazione non ha niente di metafisico
e morale, anche la conseguente purificazione corrisponde a un atto meccanico e
materiale, che ‘lava’ la sozzura che ha prodotto la contaminazione.
Il contaminato in questa concezione non è colpevole, il suo animo
può essere puro e innocente, ma la sua persona può essere
macchiata ugualmente dal miasma[115]. Nel V
secolo avvertiamo un cambiamento radicale nella credenza nella contaminazione,
che si è notevolmente diffusa, passando da un concetto materiale ed
oggettivo ad uno metafisico e soggettivo, da un’idea puramente esteriore
e meccanica, ad una interiore, che anticipa il senso di colpa e il peccato
cristiano[116].
Dalla fine del V secolo il concetto di purezza si sposta, dice Dodds, dalla
sfera magica e incontrollabile degli eventi a quella morale della coscienza:
per la purificazione non è più sufficiente che le mani siano
pulite, «dev’essere puro anche il cuore»[117].
Tuttavia, questo passaggio dalla vergogna alla colpa non avviene in maniera
netta e lineare; ogni insieme di credenze lascia la sua impronta su quelli
successivi, in maniera tale che convivono e coesistono concezioni
contraddittorie e immagini differenti di un medesimo fenomeno.
Shame-culture e guilt-culture sono due modelli
interpretativi, avverte Cantarella, che non si presentano mai nella loro
purezza, ma piuttosto in una forma mista: in alcune realtà sociali
prevarranno i caratteri della società di vergogna, mentre in altre
risulteranno dominanti quelli della colpa[118]. Lo
stesso Dodds, esponendo i limiti nell’applicazione di questi due tipi
ideali alla società greca, riconosce che si tratta di una distinzione
relativa «perché molti atteggiamenti caratteristici della
civiltà di vergogna sono sopravvissuti nel periodo arcaico e in quello
classico»[119].
Nell’insieme incoerente di concetti che costituisce la base del pensiero
del V secolo, accanto all’idea di colpa morale che si va affermando con
l’opera dei tragici e dei filosofi, è presente e radicata nella
coscienza popolare quella di una contaminazione come conseguenza automatica di
un atto. L’omicidio rimane, anche nella società ateniese del V
secolo, il caso più importante di contaminazione, ma, precisa Adkins,
«si è anche ‘contaminati’ per aver fatto un brutto
sogno; per aver avuto contatto con un morto, contatto dal quale gli dei
dell’Olimpo sono completamente liberi; per la nascita di un figlio e per
le malattie – di un certo repellente e non naturale – genere»[120].
Il processo di agglomerazione culturale, prospettato da Dodds,
tratteggia una società greca, arcaica e classica, in cui coesistono
elementi antitetici, in cui la stessa responsabilità risponde ancora
alle aspettative della civiltà di vergogna, ma comincia a piegarsi alle
esigenze morali della colpa, teorizzate da Aristotele con l’analisi della
volontà nell’Etica Nicomachea.
Nell’età
eroica cantata da Omero il giudizio su uomini e donne dipende dalle loro azioni
e da ciò che di loro viene detto. L’etica del successo e la
civiltà della vergogna forniscono, sebbene con una certa
approssimazione, le coordinate del sistema di responsabilità della
società greca eroica e arcaica. Questo sistema etico implicava un rigido
insieme di doveri, determinato dal ruolo che ciascuno svolgeva nella
comunità. Questi doveri erano le responsabilità di una persona.
«L’identità, nella società
eroica, spiega MacIntyre, implica la particolarità e la
responsabilità. Io sono responsabile del mio fare o non fare ciò
di cui chiunque rivesta il mio ruolo è debitore nei confronti degli
altri, e questa responsabilità termina solo con la morte.»[121]
L’insieme dei doveri che nascono dal ruolo è strettamente
intrecciato alla sorte assegnata a ciascuno, che plasma la sua vita morale.
L’idea della morte e della vulnerabilità accompagnano i pensieri e
le azioni degli eroi, che con la loro αρετή esaltano
la fragilità umana e tributano alla fortuna il dovuto riconoscimento[122].
«Inoltre, continua MacIntyre, questa responsabilità è
particolare, é a, per e con certi determinati individui che devo fare ciò che devo,
ed è verso questi stessi e verso altri individui, membri della medesima
comunità locale, che sono responsabile.»[123].
Nell’Atene del V secolo ci troviamo in una situazione
radicalmente diversa, in cui gli antichi valori della società
aristocratica sopravvivono in una società che scopre la democrazia, in
cui l’αγαθός è ancora colui che
vince e ha la capacità di dominare, ma in un assemblea, più che
sul campo di battaglia. Sebbene i valori omerici non definiscano più
l’orizzonte morale, tuttavia continuano a farne parte; non ci sono
più re, dice MacIntyre, ma molte virtù regali sono ancora
chiamate virtù[124]. Il
loro esercizio non è più strettamente legato a un ruolo sociale
particolare, ma si esercita in un orizzonte sociale allargato, che segna il
definitivo passaggio dai valori della famiglia e della stirpe a quelli della
πολις[125]. Ma
com’è allora il nuovo orizzonte morale dell’età
classica?
Sia Adkins,
con la sua divisione tra virtù cooperative e virtù competitive,
sia Dodds, con la distinzione tra culture della colpa e culture della vergogna,
tentano di definire il cambiamento che investe la cultura greca, e ateniese in
particolare, a partire dal V secolo. La cultura della vergogna è
omogenea a un sistema di valori competitivi, così come quella della
colpa nasce insieme all’affermarsi delle virtù cooperative.
Tuttavia, nessuno dei modelli si presenta privo di contaminazioni, ma
all’opposto, secondo quel processo di ‘agglomerazione’
più volte segnalato, ritroviamo gli antichi valori omerici inseriti nel
nuovo contesto culturale. Infatti, l’utile distinzione di Adkins tra due
sistemi etici antagonisti non spiega adeguatamente il conflitto di valori in
atto nella società ateniese del periodo: non è un sistema
ordinato di valori che ne sostituisce un altro, ma piuttosto la presenza di
concezioni antagoniste della medesima virtù, e la pretesa di riconoscere
determinati valori come prioritari rispetto ad altri, che determina il contesto
nel quale opera Platone per ridefinire coerentemente il sistema delle
virtù[126].
Sofocle esprime nelle sue tragedie queste concezioni antagoniste, che
impongono una scelta tra valori opposti di cui è riconosciuta
l’indiscussa autorità.
Nel Filottete[127] assistiamo
al confronto e allo scontro irrisolto tra i valori aristocratici, cantati da
Omero, e i nuovi valori cooperativi, esemplificati dalle idee e di giustizia e
compassione. Ulisse e Neottolemo, figlio di Achille, devono entrare in possesso
dell’arco magico di Filottete, necessario per conquistare Troia; si
recano quindi sull’isola di Lemno, dove nove anni prima i greci hanno
crudelmente abbandonato Filottete, ferito. Le strategie elaborate per sottrarre
a Filottete l’arco mostrano due differenti interpretazioni del
comportamento onorevole di un guerriero. Ulisse, suggerendo a Neottolemo di
mentire per impadronirsi dell’arco, rappresenta il modello delle
virtù competitive: usare l’astuzia e l’inganno per riuscire
nell’impresa è una condotta onorevole, che rientra nel concetto di
αρετή. Neottolemo, rifiutandosi di ingannare un uomo
già maltrattato dai compagni, che non ha alcuna colpa della sua
condizione, rivela una diversa concezione della virtù umana, ispirata alla
giustizia. «Preferisco agire bene e fallire, piuttosto che vincere agendo
male», egli dice, ribaltando la concezione
dell’αγαθός, radicata nella coscienza
sociale greca[128].
Sofocle ci lascia di fronte al conflitto irrisolto tra i due modelli
antagonisti di comportamento e affida la soluzione del dilemma
all’intervento divino di Eracle, che salva l’arco e lo stesso
Filottete.
Se Sofocle affida alla coscienza soggettiva la scelta tra due legittime
aspettative etiche[129],
Platone definisce un sistema coerente di virtù, eliminando la
possibilità del conflitto e del significato del pensiero tragico in un
orizzonte razionale[130]. Tutto
il suo progetto filosofico è dedicato ad una critica delle virtù
competitive, che ha portato al disfacimento e alla crisi della società
ateniese, e al riuscito tentativo di costruire un modello etico cooperativo,
governato dall’idea di giustizia, virtù ancora considerata
‘minore’ nella concezione dominante[131].
Nel I libro della Repubblica,
egli ci mostra due differenti modelli etici: quello esemplificato dal brillante
sofista Trasimaco, che rappresenta i valori omerici trasferiti nel contesto
della πολις, e quello di Socrate, che esprime il nuovo
spirito critico verso la tradizione, e propone una risistemazione coerente
delle virtù, secondo i nuovi valori della città.
Trasimaco rappresenta il cittadino ateniese che non è disposto a
rinunciare al proprio interesse individuale in nome del benessere collettivo,
ed esalta l’ingiustizia come una virtù
dell’αγαθός: «E così, Socrate,
sempre che sia realizzata in misura adeguata, l’ingiustizia è
più forte e più degna di un uomo libero e di un signore di quanto
lo sia la giustizia; e, come dicevo fin dal principio, la giustizia consiste
nell’utile del più forte, e l’ingiustizia in ciò che
comporta vantaggio e utile personale.»[132].
L’ αρετή è ancora, nel V secolo, la
capacità, l’abilità di raggiungere determinati risultati, l
αγαθός’è ancora, nel V secolo, colui
che ha il coraggio, lo spirito d’iniziativa e la volontà per avere
successo. Ciò che cambia è il contesto nel quale egli dispiega la
sua αρετή:
l’αγαθός’è ormai l’
αγαθός
πολίτης, il buon amministratore, che ha il
talento per procurare alla città i massimi vantaggi[133]. Ma
anche in ciò egli persegue il suo utile e quello dei suoi amici, del
gruppo ristretto a cui è legato. L’uomo giusto, che amministra la
città nell’interesse di tutti, è un concetto che Socrate
fatica a sostenere contro le solide argomentazioni di Trasimaco, proprio
perché αγαθός, nella sua estensione, non
designa propriamente anche δικαιος. Il
principio tradizionale dell’etica aristocratica, secondo cui è
giusto fare del bene agli amici e del male ai nemici, è infatti
profondamente radicato e più volte affermato dagli interlocutori di
Socrate[134].
Essere dei buoni amministratori, secondo la concezione tradizionale, non
implica necessariamente essere giusti.
L’obiettivo di Platone è quello di sradicare questa
concezione, introducendo la novità che in nessun caso è giusto
fare del male. La frase che Socrate rivolge a Critone: «non è mai
cosa retta né fare ingiustizia, né rendere ingiustizia»[135], che
evoca in una mente moderna un concetto morale familiare[136],
nell’Atene di Trasimaco rappresenta un paradosso, generato dall’uso
improprio del termine. Per Trasimaco, infatti, se la giustizia non può
essere definita come un vizio, è tuttavia una, benché nobile,
follia[137].
La salda posizione di Trasimaco ci mostra la difficoltà del compito che
Platone si è assunto, attribuendo al sostantivo ‘giustizia’
(δικαιοσΰνη) e
all’aggettivo ‘giusto’
(δικαιος) significati fino allora esclusi
dal corredo dei termini tradizionali.
La giustizia, che nella concezione omerica e tradizionale appare
riferita alle azioni esteriori, e ha un carattere eminentemente procedurale[138],
subisce un processo di interiorizzazione, divenendo una qualità
dell’anima e della città: «essa però consiste
nell’adempiere i propri compiti non esteriormente, ma interiormente, in
un’azione che coinvolge veramente la propria personalità e
carattere, per cui l’individuo non permette che ciascuno dei suoi
elementi esplichi compiti propri di altri né che le parti
dell’anima s’ingeriscano le une nelle funzioni delle altre; ma,
instaurando un reale ordine nel suo intimo, diventa signore di sé stesso
e disciplinato e amico di sé medesimo e armonizza le tre parti della sua
anima»[139].
Entrando a far parte del territorio delle virtù, la giustizia
diventa una qualità morale, e fra queste assume un ruolo determinante,
come garante di un ordine stabile nella psiche e nella polis. La tesi di
Platone è, infatti, com’è noto, che vi sia una giustizia
nell’uomo, ed una nello stato, e che entrambe abbiano lo stesso
significato[140].
Δικαιοσΰνη è
l’armonia che governa le tre facoltà dell’anima, così
come le tre classi corrispondenti dello stato[141].
Poiché è più grande, Platone comincia la ricerca della
giustizia nello stato, che renderà in seguito più «facile
vedere che cosa essa è in un individuo»[142]. Egli
distingue la classe dei sapienti che governano lo stato, da quella dei valorosi
che lo difendono e da quella di coloro che lo rendono prospero: ciascuna delle
classi ha una funzione precisa, alla quale corrisponde una
αρετή; i governanti esercitano la virtù della
sapienza (σοφία), i guerrieri la virtù del
coraggio (ανδρεία), il popolo, che lavora e
produce, esercita la virtù della moderazione
(σωφροσΰνη), che tuttavia anche le
altre due classi devono mostrare di possedere. Giusto è quello stato in
cui ciascuna delle classi svolge adeguatamente la propria funzione. La quarta
virtù dello stato è infatti la
δικαιοσΰνη, che Socrate
definisce come «quella dote che a tutte le altre ha dato la forza di
nascervi e, quando sono nate, permette loro di conservarsi, finché viva
in esse»[143].
Anche nell’uomo, ad ogni funzione specifica corrisponde una
virtù particolare: al controllo razionale degli appetiti del corpo
corrisponde la σωφροσΰνη,
all’esercizio razionale della facoltà irascibile corrisponde
l’ανδρεία, e alla facoltà
intellettiva, educata alla conoscenza del bene, infine, corrisponde la
σοφία. La
δικαιοσΰνη, nel suo aspetto
individuale, consiste nell’equilibrio tra le tre facoltà
dell’anima. «Dobbiamo allora ricordare, dice Socrate a Glaucone,
che anche ciascuno di noi, se ciascuno dei suoi elementi adempie i suoi
compiti, sarà un individuo giusto che adempie il suo compito»[144].
Δικαιοσΰνη entra a far parte
del gruppo delle virtù maggiori, come uno strumento essenziale per il
raggiungimento
dell’ευδαιμονία. In
questo modo Platone istituisce una correlazione necessaria tra
αγαθός e δικαιος:
chiunque aspiri ad essere buono, deve necessariamente essere anche giusto.
Offrendo una nuova prospettiva per i concetti morali, Platone rappresenta il
superamento del sistema delle virtù competitive.
Ma, in cosa consiste questo superamento? Siamo davvero di fronte ad una
nuova prospettiva che ‘rompe’ con la tradizione eroica ed
aristocratica? L’argomentazione di Adkins non deve trarci in inganno.
Platone trasforma la giustizia in un concetto morale, scoprendo che la sua
fonte si trova dentro l’uomo, nell’equilibrio razionale delle sue
virtù. Lo stato deve riflettere quest’ordine rigido e immutabile,
in cui ognuno ha il suo posto. Così come le facoltà
dell’animo, anche le classi dello stato hanno ciascuna la propria
funzione e debbono attendere ognuna ai propri affari; questa rigida divisione
preclude ai cittadini la possibilità di appartenere a più di una
classe, così come di transitare agevolmente dall’una
all’altra. Ma se guardiamo l’ordine dello stato perfetto non ci
sembra poi così lontano dalla rigida divisione in ruoli che caratterizza
la società omerica, in cui ciascuno riceve in sorte le condizioni che
definiscono la sua prospettiva morale. «Τα
αυτου
πράττειν»[145], fare
la propria cosa, è la formula con cui Socrate conclude la sua lunga e
articolata indagine sulla giustizia, dicendo che è ingiusto quello stato
in cui i cittadini vogliono svolgere un ruolo che non è adatto alla loro
natura: «Quando però, credo, uno che per natura è artigiano
o un altro che per natura è uomo d’affari e che poi si eleva per
ricchezza o per numero di seguaci o per vigore o per qualche altro simile
motivo, tenta di assumere l’aspetto del guerriero; o un guerriero quello
di consigliere e guardiano, anche se non ne ha i requisiti; e costoro si
scambiano gli strumenti e gli uffici; o quando la stessa persona intraprende
tutte queste cose insieme, allora, io credo, anche tu penserai che questo loro
scambiarsi di posto e questo attendere a troppe cose sia una rovina per lo
stato»[146].
Questa conclusione appare giustificata dal principio secondo cui
ciascuno deve fare la cosa che gli è propria, ma, dice Havelock, questa
formula platonica sembra «moralmente meschina, sorprendentemente
meschina!»[147]; cosa
è, infatti, la «propria cosa», e qual è
l’origine del principio, se non l’etica tradizionale che Platone
intende conservare e consolidare su nuove basi? La formula, continua Havelock,
«(...) sottolinea il fatto che il cittadino deve fare correttamente cosa
sta facendo, che deve accettare, diremmo noi, il ruolo che gli è stato
assegnato. Chi, o che cosa, può averglielo assegnato se non lo stile di
vita stabilito dal contesto sociale nel quale vive? E che cosa è questo
se non la descrizione di una maniera di essere che corrisponde alla
tradizionale regola di buon comportamento che ha conservato e protetto gli
esistenti nomos ed ethos della società greca?»[148].
La teoria platonica, che appare rivoluzionaria[149] nei
confronti di un’etica fattuale, basata sull’esteriorità, si
inserisce tuttavia sul terreno ancora fertile dei valori competitivi, e sulla
struttura dell’etica tradizionale[150], in
cui a ciascuno viene assegnato un ruolo in ragione del suo rango, o natura,
come dice Socrate a Glaucone.
Platone può essere considerato l’ultimo degli
intellettuali che agisce in sintonia con il tessuto sociale ateniese. Dal IV
secolo, nel periodo che prelude alla conquista macedone, il distacco tra il
ceto degli intellettuali e il popolo si accentua notevolmente, mostrando una
ristretta cerchia di sapienti che ha perso il contatto con la realtà
cittadina[151].
Se il pensiero di Socrate costituisce il primo rilevante passo per la scoperta
della coscienza e di un nuovo universo morale, l’ateniese comune continua
ad agire e valutare le sue azioni secondo gli schemi della civiltà
omerica, sebbene plasmati da quattro secoli di storia. È in questo
orizzonte che si affaccia la responsabilità di Aristotele.
Aristotele non si chiede che cosa sia la responsabilità, ma
piuttosto in quali casi una persona può essere ritenuta responsabile per
le sue azioni[152].
Il suo è un problema pratico che, come egli precisa, riguarda anche i
legislatori in vista dei premi e delle punizioni che essi stabiliscono: non
è un concetto astratto quello che egli intende definire, ma le
condizioni in base alle quali il nostro agire è suscettibile di
valutazione morale.
Poiché solo le azioni volontarie possono essere oggetto di
biasimo o di lode, fin dall’inizio del terzo libro dell’Etica
Nicomachea Aristotele manifesta il proposito di definire ciò che
è volontario e ciò che è involontario. Egli procede dalle
testimonianze della realtà, oltre le quali Platone ci esorta ad andare
nella ricerca della verità[153].
Conformemente al suo metodo dialettico[154], che
va dalle opinioni per giungere ai principi, egli parte da ciò che
è comune[155], da
ciò che si dice e da ciò che si pensa: «Sembra che siano
involontarie le azioni che si compiono per forza o per ignoranza.»[156]. Forza
e ignoranza sono le due condizioni che circoscrivono il campo
dell’involontario, rendendo le nostre azioni
ακούσια, non soggette né al biasimo
né alla lode[157].
Forzate sono quelle azioni la cui origine è esterna
all’agente, in modo tale che egli non vi deve aver contribuito in alcun
modo, per esempio quando veniamo trasportati dal vento, o quando veniamo
rapiti. Solo queste azioni possono essere definite propriamente involontarie.
Diverso è il caso, dice Aristotele, in cui agiamo in un certo
modo perché vi siamo costretti dalle circostanze. Ad esempio quando
veniamo ricattati: quando un tiranno che si è impadronito dei nostri
figli o dei nostri genitori minaccia di ucciderli se non facciamo qualcosa di
turpe che non avremmo mai compiuto liberamente, oppure quando una tempesta ci
costringe a gettare in mare il carico della nave per salvare le nostre vite.
E’ chiaro, aggiunge Aristotele, che nessuna persona sana di mente
agirebbe in questo modo senza motivo, tuttavia è ragionevole aspettarsi
che in questi casi tutti agirebbero allo stesso modo.
Queste azioni sono definite miste, perché la scelta individuale,
sebbene fortemente condizionata, coopera con le circostanze. Infatti, dopo aver
manifestato il dubbio se queste azioni possano considerarsi volontarie o
involontarie, Aristotele ci dice che sono più simili a quelle
volontarie. Coerentemente con la sua definizione iniziale, secondo cui
involontarie sono le azioni il cui principio si trova fuori dall’agente,
egli dice che in questi casi il principio risiede nell’agente, che
conserva la facoltà di fare o non fare l’atto, e che, nel momento
in cui agisce, lo fa in base a una deliberazione. «Perciò tali
azioni sono volontarie, per quanto in senso assoluto forse sarebbero
involontarie: nessuno infatti, di per sé vorrebbe compiere nessuna di
esse.»[158]
La volontarietà di questi atti è segnalata anche dalla reazione
sociale che li accompagna. Talvolta, quando si sopporta qualcosa di doloroso
per fini grandi e belli, dice Aristotele, si viene lodati; in caso contrario si
viene biasimati. In altri casi, quando ad esempio si compiono atti biasimevoli
sotto tortura, si viene perdonati. Ma, per alcune azioni, chiarisce Aristotele,
non vi è giustificazione che possa esonerarci dalla
responsabilità, come nel caso del matricidio; in questo caso è
preferibile la morte.
Egli conclude la rassegna delle azioni involontarie compiute sotto
costrizione, precisando che non si può sostenere che gli atti compiuti
in vista di cose belle e piacevoli non possono essere detti involontari,
adducendo l’argomento che si tratta di oggetti che ci costringono
dall’esterno ad agire, perché in tal caso ogni atto sarebbe
compiuto sotto costrizione, perché è proprio in virtù del
piacevole e del bello che agiamo. Non basta quindi dire che il principio
dell’azione deve risiedere fuori dell’agente, si deve dire che
«chi vi è costretto non vi partecipa per nulla.»[159].
L’altra causa che esonera dalla responsabilità, rendendo
le azioni involontarie, è l’ignoranza. Nell’analisi
dell’ignoranza Aristotele introduce una rilevante distinzione che segna
il distacco dall’etica platonica. Egli distingue, infatti, tra
l’azione compiuta nell’ignoranza e quella compiuta sotto gli effetti
dell’ignoranza: solo la seconda può dirsi involontaria. Ma
procediamo con ordine, seguendo la trattazione di Aristotele.
Un primo criterio di distinzione riguarda la reazione dell’agente
al suo atto. Egli ci dice che l’azione compiuta per ignoranza è
involontaria se produce dolore e pentimento, mentre quella compiuta per
ignoranza, che non produce alcun effetto del genere nell’agente, non
potrà definirsi involontaria
(ακούσιον), ma verrà definita
non-volontaria (ουχ
εκούσιον). Così come non
agì volontariamente, l’agente non agì neppure contro la sua
volontà, come dimostra la totale mancanza di pentimento. Ross, nella sua
celebre analisi del pensiero aristotelico, ritiene che la distinzione tra
involontario e non-volontario sia insoddisfacente, perché non vi
è una reale differenza di significato tra involontario e non-volontario.
Forse, continua Ross, si può pensare che Aristotele con
ακούσιον intenda riluttante, che
esprime una volontà contraria (unwilling),
e con ουχ εκούσιον
intenda involontario, come può esserlo un atto irriflesso (involuntary), ma sembra chiaro, conclude
Ross, criticando il bell’argomento di Aristotele, che
l’atteggiamento successivo dell’agente non può essere un
criterio utile per distinguere un atto riluttante da uno involontario[160]. Non
possiamo fare a meno di notare che, sebbene breve, il commento con cui Ross
liquida l’argomento di Aristotele sull’importanza del pentimento
nella valutazione morale dell’azione, è espressione di un pensiero
moderno, che ha del tutto espropriato l’indagine etica dalla sfera dei
sentimenti[161].
Diverso dall’agire per ignoranza è il caso, continua
Aristotele, in cui si compie qualcosa senza averne conoscenza[162].
Così quando qualcuno agisce sotto gli effetti dell’alcool o
dell’ira, noi diciamo che non sa quello che fa, non a causa della sua ignoranza,
ma a causa di una di queste ragioni. Ma in questo caso non possiamo considerare
la sua azione come involontaria, perché chi ignora ciò che gli
giova, e quindi il suo bene, ha avuto la possibilità di agire
altrimenti.
Dal caso particolare dell’agire per mancanza di conoscenza,
Aristotele passa a trattare il caso dell’«ignoranza
dell’universale»[163], che
costituisce un netto cambio di prospettiva rispetto all’etica socratica.
La condizione di ignoranza in cui si trova l’agente nel momento della
scelta non costituisce, per Aristotele, ragione alcuna di involontarietà
dell’atto, ma all’opposto di «perversità»[164],
secondo il principio per cui ciascuno è responsabile della sua
formazione morale[165]. Chi
agisce male, secondo la prospettiva socratica condivisa da Platone[166], lo fa
perché ignora il proprio bene, per una sostanziale mancanza di
conoscenza; nessuno che conosca la via per giungere
all’ευδαιμονία agirebbe
male volontariamente[167].
Aristotele invece non attribuisce l’azione malvagia a un errore
intellettuale. Noi nasciamo con determinate capacità, che poi vanno
sviluppate attraverso l’esercizio e la pratica. Questo sviluppo, che
passa attraverso l’azione e la conoscenza, secondo un’idea
armoniosa dell’essere umano, è qualcosa che dipende da noi
compiere o meno[168].
Aristotele riprende l’argomento all’inizio del paragrafo V
del Libro III, che chiude la trattazione delle virtù in generale: sia la
virtù che il vizio, così come il fare bene e fare il male, egli
dice, dipendono da noi, perciò, conclude, «la malvagità
è volontaria»[169].
«In caso contrario, continua, occorrerebbe rimettere in discussione
ciò che fu detto e si dovrebbe dire che l’uomo non è causa
né padre delle proprie azioni, come lo è dei figli»[170].
Se l’ignoranza dell’universale non esclude la
volontarietà delle azioni, è invece l’ignoranza del
particolare che rende l’azione involontaria. Si tratta di tutti quei casi
in cui l’ignoranza riguarda qualche fatto di estrema importanza, che
determina il risultato dell’azione, come quando si scambia il proprio
figlio per un nemico, dice Aristotele, oppure, per salvare una persona, le si
fa bere una pozione, uccidendola. Si tratta di quelle circostanze a causa delle
quali si svolge l’azione. In questi casi la loro mancata conoscenza, non
attribuibile a colpa dell’agente, fa sì che il corso
dell’azione sia diverso da quello che egli si era proposto.
A questo punto Aristotele può ridefinire il concetto di azione
volontaria: «volontaria sarà dunque quell’azione il cui
principio risiede in chi agisce, se conosce le circostanze particolari in cui
si svolge l’azione»[171].
Proprio perché il principio risiede in chi agisce, sono da considerare
come volontarie le azioni compiute sotto l’effetto dell’ira o del
desiderio; in tal caso non potrebbero essere considerate volontarie nemmeno le
azioni dei bambini; inoltre sarebbe ridicolo dire che nessuna delle azioni che
compiamo per desiderio o ira sono involontarie, sarebbe come dire che le azioni
malvagie sono involontarie e quelle buone volontarie: la causa delle azioni
è sempre una.
Questa teoria aristotelica della responsabilità[172],
ricavabile dalla lettura dell’Etica Nicomachea, è stata di recente
definita incongruente e incompleta, perché non considera esplicitamente,
tra le condizioni della responsabilità, insieme alla volontarietà
degli atti, la capacità di decidere, propria di un soggetto adulto.
Irwin, a cui si deve il nuovo approccio critico, definisce come «teoria semplice» della responsabilità
quella enunciata nell’Etica Nicomachea, segnalandone alcune incongruenze.
In base a questa teoria la responsabilità deriva dall’azione
volontaria, che si ha in presenza di due condizioni negative, quali la mancanza
di forza e ignoranza. Abbiamo visto anche che Aristotele precisa che
l’azione dettata dal desiderio e dalle emozioni è volontaria. In
base a quest’argomento anche i bambini agiscono volontariamente, e
nessuno avrebbe il coraggio di negarlo, tuttavia nella teoria aristotelica i
bambini, così come gli animali, non sono ritenuti responsabili per le
loro azioni. L’incongruenza, sostiene Irwin, deriva dal fatto che, se
condizione della responsabilità sono le azioni volontarie, se i
fanciulli e gli animali sono capaci di azioni volontarie, Aristotele,
contrariamente alla logica conclusione, esclude che questi debbano essere ritenuti
responsabili delle loro azioni[173].
Per superare il limite emerso dall’Etica Nicomachea, Irwin
propone una «teoria complessa» della responsabilità,
ricavata dal confronto dell’etica Nicomachea con le altre opere e in
particolare con l’Etica Eudemia. Sebbene necessaria, la
volontarietà dell’azione non è sufficiente, dice Irwin, per
stabilire quando da questa deriva la responsabilità, è necessario
che l’azione sia compiuta in base alla capacità di decisione, che
manca agli animali e ai bambini[174]. Alla
teoria semplice, per la quale l’agente è responsabile, e quindi
suscettibile di lode o biasimo, per aver fatto x se e solo se l’agente
agisce volontariamente, egli sostituisce una teoria più complessa, in
base alla quale l’agente è responsabile per aver fatto x se e solo
se è capace di decidere effettivamente in merito a x e agisce
volontariamente.[175]
Irwin presenta quindi due modelli di responsabilità, uno
semplice, che corrisponde più da vicino a quello espresso da Aristotele
nell’Etica a Nicomaco, ed uno complesso, ricavato dal confronto tra le
etiche aristoteliche, che non ritroviamo esplicitamente nelle parole di
Aristotele, ma che, secondo Irwin, ci aiuta a capire meglio della teoria
semplice che cosa intendesse Aristotele con agente responsabile. Non credo di
aver sostituito, dice Irwin, la teoria di Aristotele con quella di qualcun
altro, «abbiamo semplicemente esplorato le implicazioni della restrizione
aristotelica della classe di agenti responsabili a quelli che sono capaci di
decisione»[176].
L’agente responsabile non è semplicemente chi agisce in assenza di
condizioni esterne negative, ma anche chi è in grado di prendere una
decisione. Per questa ragione i bambini non possono essere considerati
responsabili, sebbene siano capaci di azioni volontarie.
Presentando l’analisi della responsabilità nei termini di
un sillogismo pratico, dovremmo quindi sostituire la premessa maggiore che
subordina la pronuncia della responsabilità alle sole azioni volontarie
con quella per cui si può pronunciare la responsabilità in
presenza di azioni volontarie, compiute da persone in grado di prendere una
decisione consapevole. Potremmo pensare, accogliendo il suggerimento di Irwin,
che Aristotele nel suo ragionamento intendesse seguire uno schema di questo
tipo: si è responsabili solo se si agisce volontariamente (non costretti
da forza o ignoranza) e si ha la capacità di decidere; i bambini sono
capaci di agire volontariamente, ma non di decisioni; i bambini non sono
responsabili.
Irwin conclude accostando la responsabilità di Aristotele a quella
di Kant, per l’idea che l’azione umana responsabile non è
costretta né necessitata dagli impulsi dei sensi e deriva da un potere
di autodeterminazione, ma se ne distanzia perché Aristotele individua il
potere di autodeterminazione nella capacità di assumere una decisione
consapevole, mentre Kant lo fonda su di un atto libero (non causato) della
volontà[177].
Poiché attribuisce la condizione di responsabilità morale
solo agli individui adulti, che sono capaci di scelte ponderate, e la nega ai
bambini, capaci di azioni volontarie, ma non di deliberazione, la brillante
interpretazione di Irwin è stata criticata da Martha Nussbaum. [178] I due
modelli di responsabilità, individuati da Irwin, non sono da considerare
in alternativa, sostiene Nussbaum, come se uno solo dei due fosse adeguato, ma
complementari, secondo una logica della continuità[179].
É vero che per Aristotele solo le persone adulte, che hanno un carattere
già formato e che hanno fatto le loro scelte di vita, sono capaci di una
perfetta decisione, che implica profondi giudizi etici, ma, obietta Nussbaum,
egli ammette anche che in determinati tipi di azioni, come quelle dei bambini,
siano coerenti la lode e il biasimo, come in ogni coerente processo educativo.
Irwin ritiene che la lode o il biasimo rivolti alle azioni dei bambini abbiano
fini meramente manipolatori, per condizionarne i comportamenti, ma che non
raffigurino un reale processo di apprendimento, proprio per quella mancanza di
capacità deliberativa che escluderebbe la responsabilità dal loro
orizzonte morale[180]. Ma
ciò non spiega come avvenga il passaggio da un essere umano incapace di
responsabilità ad uno adulto capace di una perfetta deliberazione,
continua Nussbaum: «Lode e biasimo, sin dal principio, non sono soltanto
stimoli, ma modi di comunicazione appropriati ad una creatura intelligente, che
agisce secondo la sua visione del bene.»[181]. In
questo caso la teoria semplice della responsabilità appare adeguata per
consentire al bambino quel percorso educativo fondamentale, secondo Aristotele,
per condurre una vita buona. La lode e il biasimo conseguenti, che racchiudono,
insieme alle punizioni e gratificazioni, tutto quel corredo di sentimenti
legato alla valutazione morale dell’azione, sono modi di comunicazione,
non di manipolazione, rivolti a una creatura capace di modificare criticamente
la propria visione del bene, attraverso azioni volontarie[182].
L’analisi aristotelica della responsabilità ci sembra
molto familiare, richiamando alla nostra attenzione categorie come quelle di
atto volontario e involontario, e attribuendo il biasimo o la lode solo a
quelle azioni che possono considerarsi volontarie, delle quali possiamo essere
considerati il principio, come un genitore rispetto ai propri figli. Ne sono
una conferma le parole di Berti: «Questa trattazione mostra come
già in Aristotele la valutazione morale tenga conto non tanto del
contenuto materiale dell’azione, quanto piuttosto della sua intenzione,
di quella che modernamente sarà chiamata la sua forma, e quindi della
volontà e della stessa libertà. Da questo punto di vista pertanto
l’etica aristotelica presenta dei singolari tratti di
modernità.»[183].
Tuttavia, come vedremo, questa familiarità col pensiero moderno non deve
trarci in inganno: l’atto volontario di Aristotele assume significati
molto diversi da quelli che gli attribuivano Grozio o Pufendorf. Lo stesso
principio delle azioni è un animale razionale, non un ente spirituale, e
lo stesso criterio di valutazione delle azioni nasce pur sempre da quel sistema
dell’etica greca che non distingue le intenzioni dell’agire dal suo
risultato concreto[184].
Tradurre εκούσίος e
ακούσιος con i termini
‘volontario’ e ‘involontario’ induce a una
ricostruzione falsata della responsabilità in epoca classica e nel
pensiero aristotelico in particolare, dice Giuliani[185]. I
significati che noi contemporanei assegniamo alle parole volontario e
involontario derivano dal giusnaturalismo moderno che, accogliendo
l’eredità del pensiero teologico, introduce il concetto di causa
morale. La volontà nel pensiero moderno esprime un significato
‘forte’, come facoltà spirituale del soggetto, strettamente
legata al suo potere creativo. Aristotele, invece, esprime una concezione
‘debole’ della volontà, in cui l’agire umano appare
limitato nella sua capacità di controllo della realtà, e
conoscenza della causalità. L’azione è il frutto di un
intreccio di catene causali, in cui la volontà umana, guidata dalla
deliberazione, è solo una delle quattro cause che concorrono alla
produzione della realtà[186]. Il
moderno, attraverso l’elaborazione dell’epistemologia scientifica,
ricondurrà la molteplicità aristotelica delle cause ad
un’unica forma, quella della causalità naturale e meccanica,
escludendo la causa finale dal campo della conoscenza.
La creazione di una forma di causalità, che si esplica nella
realtà naturale secondo un principio meccanico ricavato
dall’osservazione dei fenomeni naturali, condurrà i filosofi a
ricercare il principio delle azioni nella volontà, intesa ormai come una
facoltà spirituale, scissa dalla fisicità della natura. I
filosofi del diritto naturale moderno, continua Giuliani, «hanno ignorato
il fatto che la dottrina aristotelica non conosce né una morale del
dovere né la distinzione tra “essere fisico” ed
“essere morale”»[187].
Nella distinzione tra una concezione classica ed una moderna di
responsabilità, anche il diritto romano partecipa dei caratteri della
‘volontà debole’, creando, come vedremo nei prossimi
paragrafi, una dottrina delle cause di giustificazione, che si oppone alla
teoria giuridica dell’imputazione, su cui il pensiero moderno ha
edificato i sistemi di responsabilità civile e penale. L’azione
umana viene valutata dal punto di vista della giusta riparazione di un danno,
secondo il concetto di giustizia aristotelica che individua in essa un equilibrio
basato sulla reciprocità e l’eguaglianza[188].
Piuttosto che il dispiegarsi di una libera volontà, il diritto romano
cerca i condizionamenti sociali dell’agire umano nell’attribuzione
della responsabilità.
[1] A. W. H.Adkins, La morale dei greci da Omero ad Aristotele, Roma-Bari, Laterza, 1987 (Merit and Responsibility. A Study on a Greek Values, Oxford University Press, 1960). É il problema intorno a cui ruota tutta l’analisi di Adkins, come egli afferma nella prima pagina del suo volume:«Il nesso conduttore della trattazione è lo sviluppo del concetto di responsabilità morale in Grecia: un concetto che, nel pensiero morale del periodo preso in esame, aveva innegabilmente un rilievo secondario.», (p. 9).
[5] Cfr. P.
Stein, J. Shand, I valori
giuridici della civiltà occidentale, Milano, Giuffré, 1981
(ed.or Legal Values in Western Society,
Edinburgh, Edinburgh University Press, 1974), p. 165 ss.cfr. inoltre P. Fauconnet, La responsabilité. Etude de sociologie, Paris, Alcan, 1920, che osserva in chiave
critica il processo di individualizzazione della responsabilità, per sua
natura oggettiva : «A se
contenter d’une formule approximative, on peut dire que la
repsonsabilité, au cours de l’évolution,
s’individualise. Collective et communicable dans les
sociétés inferieures, elle st en principe, strictemen personnelle
dans les sociétés les plus civilsées. Comment une
responsabilité communicable par nature peut-elle devenir rigoureusement
individuelle?», (p.
330)
[6] Cfr. G. Duso, Storia concettuale come filosofia politica, in Filosofia politica, 1997, n.3, pp. 393-427, il quale nota, nel quadro teorico delineato dalla Begriffsgeschichte, come la ricostruzione dei concetti moderni avvenga attraverso una loro storicizzazione, in virtù della quale l’oggetto prima viene astratto dalla realtà e poi ricostruito storicamente attraverso l’uso delle categorie moderne, assunte in una valenza universale: «(…) la storia, originata dalle scienze moderne dello spirito, è condizionata dai concetti che esse hanno elaborato e che portano a considerare le complesse situazioni del passato – in cui tali concetti non sono ancora emersi, e diverse sono sia la realtà dei rapporti umani, sia il linguaggio che li esprime – come mera preistoria, come fasi ancora incomplete e non scientifiche di uno sviluppo che si è poi venuto determinando.», p. 406; cfr. inoltre O. Brunner, alla cui opera Duso nel saggio citato si riferisce, Il pensiero storico occidentale, in P. Schiera (a cura di), Per una nuova storia costituzionale, Milano, Vita e Pensiero, 1968, p. 50 ss.
[7]L. Husson, Les
transformations de la responsabilité. Etude sur la pensée juridique, Paris, PUF, 1947., che
concentra la sua analisi sul significato giuridico della responsabilità
civile e sulla sua evoluzione.
[8] J.
Henriot, Responsabilité
(mor.), in Enyiclopédie
Philosophique Universelle,vol.II Les
Notions Philosophiques. Dictionnaire,
Paris, P.U.F., 1990, pp. 2250-2253.
[9] P. Stein, J. Shand, op. cit., p. 178.
[10] Cfr. E. Cantarella, Norma e sanzione in Omero. Contributo alla protostoria del diritto greco, Milano, Giuffré, 1979, p. 225 ss.
[11] E. Dodds, I greci e l’irrazionale,
Firenze,
[12] Cfr. M. Nussbaum, La fragilità del bene, Bologna, Il Mulino, 1986, (The Fragility of Goodness. Luck and Ethics in Greek Tragedy and Philosophy, Cambridge, Cambridge University Press, 1986), p.107 ss., Sulla maledizione ereditaria cfr. inoltre A.W.H. Adkins, op. cit., p. 170 ss.
[14] Sul processo di interiorizzazione come costruzione dell’identità del soggetto moderno, cfr. C. Taylor, Radici dell’io Milano, Feltrinelli, 1993 (Sources of the Self. The Making of Modern Identity, Cambridge MA, USA, Harvard University Press, 1989); sull’influsso di tale processo nella costruzione dell’idea di responsabilità Cfr. A. Giuliani, Imputation et justification, cit.
[15] Cfr. G. Cazzetta, Responsabilità aquiliana e frammentazione del diritto comune civilistico, Milano, Giuffré, 1991.
[17] La coesistenza nel concetto moderno di responsabilità di una pluralità di elementi di differente provenienza storica e tradizioni filosofiche e giuridiche richiama uno degli argomenti centrali della teoria della storia concettuale di R. Koselleck, Storia dei concetti e storia sociale, in Id., Futuro passato, Genova, Marietti, 1986, (Vergangene Zukunft. zur Semantik geschichtlicher Zeiten, Frankfurt a. M., Suhrkamp Verlag, 1979): «La storia concettuale spiega quindi anche come un concetto sia costituito di più strati, ossia di significati che derivano cronologicamente da tempi diversi. In tal modo essa supera la rigida alternativa diacronis-sincronia, anzi richiama la contemporaneità del contenuto non-contemporaneo che può essere presente in un concetto.», p. 107.
[19] É quello che E. Berti chiama il «paradosso di Adkins», in Introduzione a A.W.H. Adkins, La morale dei greci, cit., p. VI.
[20] A. W. H. Adkins, op. cit., cap. VIII e cap. XII. Cfr. inoltre E. Dodds, op. cit., p. 4: «(...) la giustizia greca primitiva non tiene conto dell’intenzione: solo l’azione importa».
[22] Cfr. B. Snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo, Torino, Einaudi, 1963, (ed or. Die Entdeckung des Geistes. Studien zur Entstehung des europäischen Denken bei den Griechen, Hamburg, 1946) che considera il concetto di αρετή come un fondamentale indicatore dei mutamenti nel sistema di valori della civiltà greca, p. 247 ss
[24] Ivi, p. 42. Taylor precisa che il quadro di riferimento può essere sia esplicito che implicito. Infatti può accadere che le distinzioni qualitative che definiscono lo sfondo del nostro agire siano semplicemente percepite, attraverso l’accettazione di un modello, più che discusse criticamente, attraverso una teorizzazione filosofica: «Se qui ho voluto menzionare questa distinzione è, almeno in parte, per evitare un errore, in cui s’incorre molto spesso: quello consistente nel pensare che chi opera senza un quadro di riferimento filosoficamente definito semplicemente non ce l’ha. Questo può essere totalmente falso (io, anzi, intendo sostenere che lo è sempre). L’esistenza di quelle persone, infatti, (...), può essere interamente strutturata da distinzioni qualitative sommamente importanti, in relazione alle quali essi letteralmente vivono e muoiono. (...) E’ a questo livello ancora implicito, a cui noi peraltro funzioniamo così spesso, che alludo quando parlo di “percezione” di una distinzione qualitativa.», (p. 36).
[25] Cfr. E. Cantarella, Itaca. Eroi, donne, potere tra vendetta e diritto, Milano, Feltrinelli, 2002, che delinea il passaggio da un sistema di responsabilità oggettiva ad uno di responsabilità soggettiva, già nei poemi omerici, e nell’Odissea in particolare, p. 186 ss. Cfr. inoltre R. Mondolfo, Responsabilità e sanzione nel più antico pensiero greco, in Civiltà moderna, 1930, vol. II, pp. 1-16, che ritiene che il problema della responsabilità abbia un preciso rilievo già nei poemi omerici.
[28] E. Cantarella, Itaca, cit., non condivide questa aggettivazione delle virtù cooperative: «Non virtù “minori”, come sono state definite, ma virtù nuove, espressione e simbolo di nuove concezioni affioranti nel rapporti sociali, che nei poemi coesistono, non senza difficoltà, accanto alle vecchie virtù.», (p. 112).
[29] Cfr. R. Mondolfo, Responsabilità e sanzione nel più antico pensiero greco, cit., il quale nota, nel canto XIV dell’Odissea, un primo confronto tra due differenti sistemi morali: «In questo canto dell’Odissea, in cui il lavoro e l’attività utile alla famiglia si presentan essi pure quali virtù, contrapposte alle virtù guerriere, si vede (...) un primo affermarsi, di fronte alla morale guerriera ed eroica, di una ben diversa morale casalinga ed economica: primo passo verso il capovolgimento che si presenta poi con Esiodo, in cui si ha sostituzione (non più semplice contrapposizione) del pacifico e mite ideale contadino all’avventuroso ideale dell’eroe.», (pp. 9-10).
[30] Cfr. E. Cantarella, Itaca, cit., p. 108 ss.
[31] J. Burckardt, Storia della civiltà greca, vol. II, Firenze, Sansoni, 1974
(Griechische Kulturgeschichte) p.
[32] Cfr. W Jaeger, Paideia. La formazione dell’uomo greco, Firenze, La nuova Italia, 1999, (Paideia. Die Formung des griechischen Menschen, Berlin und Leipzig, Walter de Gruyter, 1944) : « I Greci sentirono che l’areté era soprattutto una forza, una capacità di fare qualche cosa. Forza e salute sono l’areté del corpo, intelligenza e acutezza l’areté della mente.» vol. I, p. 33, nota 10.
[33] Cfr. B. Williams, L’etica e limiti della filosofia, Roma-Bari, Laterza, 1987 (Ethics and the Limits of Philosophy, Cambridge,
MA, Cambridge University Press, 1985), che così definisce la
virtù: «una virtù è una disposizione del carattere a
scegliere o ad omettere le azioni in quanto sono di un certo tipo eticamente
rilevante», precisando che si tratta di un termine considerato obsoleto
nel linguaggio contemporaneo: «La parola “virtù” in
moltissimi casi risente di associazioni che la rendono un po’ umoristica
o che comunque sono per qualche verso indesiderabili, ed oggi sono ben pochi, a
parte i filosofi, quelli che la usano (...).», (p. 12). Cfr. inoltre L. Fuller, La moralità del diritto, Milano, Giuffré, 1986 (The Morality of Law, Yale, University
Press, 1964; 1969), che considera l’attuale significato del termine
«virtù» in relazione al passaggio da un’etica
dell’intenzionalità, come quella greca a un’etica del
dovere, come quella moderna:
«Per noi la parola ‘virtù’ è stata a poco a
poco identificata con la mora del dovere. Per I moderni la parola ha in gran parte
perduto il suo senso originario di potere, efficacia, abilità e
coraggio, una serie di caratteri che una volta si collocavano senza problemi
nell’ambito della morale dell’intenzionalità.», (p.
23-24).
[34] Cfr. A. MacIntyre, Oltre la virtù, Milano, Feltrinelli, 1988 (After the Virtue. A Study in moral Theory, Indiana, U.N.D.P., 1981), p. 150.«La parola aretê, che in seguito venne ad essere tradotta con “virtù”, nei poemi omerici è usata per designare l’eccellenza di qualsiasi genere: un corridore veloce mostra l’ aretê dei suoi piedi (Iliade 20.411) e un figlio supera il padre in ogni sorta di aretè: come atleta, come soldato, e per intelligenza (Iliade 15.642).».
[36] B. Snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo, cit., p. 232; Così anche A.W.H.Adkins, op. cit., p. 53: «(...) agathos non ha nel suo impiego normale nessuna notazione puramente morale».
[38] Ivi, p.61.
Si veda inoltre E. Havelock, Dike. La nascita della
coscienza,
[39] A.W.H. Adkins, op. cit., che così continua: «L’agire ingiustamente non suscita l’ammirazione di quelli che ne subiscono le conseguenze; ma l’agire in modo giusto, virtù ‘minore’, è generalmente meno ammirato dalla società che non l’ingegno e il coraggio, perché di questi si prova più vivo il bisogno» (p. 84).
[43] M. Nussbaum, La fragilità del bene, cit., p. 51. Sulla distinzione tra etica antica ed etica moderna cfr. E. Tugendath, Problemi di etica, Torino, Einaudi, 1987, (Probleme der Ethik, Stuttgard, Philipp Reclam jr., 1984), p. 22 ss.
[45] Il volume di Adkins, che ha avuto una grande influenza sulla letteratura successiva, è stato fortemente criticato, proprio per aver assolutizzato la prospettiva kantiana, implicitamente considerata, nel suo lavoro, come unico possibile approccio al tema della responsabilità morale. Cfr B. Williams, L’etica e i limiti della filosofia, cit., p. 41 nt. 2: «L’assunto secondo cui le idee dei Greci in campo etico non reggono il confronto con quelle moderne, e in particolare con quelle di kant, è un tratto poco positivo del noto libro di A.W.H. Adkins». Sebbene questo rappresenti un limite nella prospettiva teorica di Adkins, riteniamo tuttavia che la sua ricerca minuziosa e puntuale sia una fonte preziosa e utile alla riflessione sul tema.
[48] Cfr. G. Cosi, Il logos del diritto, cit.: «(...) specie nel periodo più antico, nomos copre un’aera semantica molto vasta, che si estende a comprendere praticamente ogni tipo di norma esistente o vigente, ordine, costume, usanza, consuetudine: indica cioè tutto ciò che è in vigore nel gruppo sociale.», (p. 120).
[50] «Questo modo intellettualistico di spiegare la condotta ha lasciato un’impronta durevole sulla mentalità greca: i cosiddetti paradossi socratici che “la virtù è conoscenza” e che “nessuno fa male di proposito” non erano novità, erano formulazioni, generalizzate in forma esplicita di un antico e radicato abito mentale» Ibidem.
[51] Sul concetto di αρετή femminile nei poemi omerici cfr. E. Cantarella, Norma e sanzione in Omero, cit.,: «Le qualità che la donna omerica doveva possedere per avere αρετή ed essere quindi stimata non erano poche. In primo luogo, doveva essere bella. (...) doveva curare il suo aspetto fisico e preoccuparsi del suo abbigliamento: sono queste, come dice Atena a Nausicaa, le qualità con cui una donna si conquista “fama gloriosa”. Doveva poi eccellere nei lavori domestici. E, soprattutto, doveva obbedire.»; dopo un’analisi dei passi omerici più significativi, Cantarella conclude: «Rigoroso rispetto della divisione dei ruoli e obbedienza, dunque, sono le virtù che ci si aspetta da una donna, insieme alla pudicizia e alla fedeltà: virtù, tutte, che appartengono proverbialmente a Penelope». Ma, sostiene l’autrice, le virtù femminili, non erano collaborative, per due ragioni: la prima è che anche le donne omeriche sono in competizione fra loro per la realizzazione di un ideale femminile; la seconda riguarda il fatto, molto significativo, che i valori collaborativi, nel mondo omerico, erano maschili: «la giustizia, infatti, la virtù collaborativa per eccellenza, è virtù di Odissea, non di Penelope.», (p. 157); Cfr. inoltre A. W.H.Adkins, op. cit., che sostiene invece che «Nelle donne, quindi, l’arete pregia le virtù ‘minori’», (p. 60).
[52] Cfr. E. Cantarella, Studi sull’omicidio in diritto greco e romano, Milano, Giuffré, 1976, che, analizzando i poemi omerici, ritiene del tutto irrilevanti le intenzioni dell’agente nella determinazione della responsabilità: «L’omicidio provocava sempre e ovunque una reazione di tipo vendicativo, del tutto indipendentemente dalla considerazione di quella che era stata l’intenzione dell’omicida» (p. 35).
[53] Sul rapporto tra uomini e dei nella poesia omerica cfr. H. Fränkel, Poesia e filosofia della Grecia arcaica, Bologna, Il Mulino, 1977 (Dichtung und Philosophie des frühen Griechentums, München, C.H. Beck, 1962), p. 113 ss.
[54] A. W.H.Adkins, op. cit.,«Nella società omerica, la fede in una causa non-umana delle azioni umane è praticamente priva di conseguenze nell’attribuzione della responsabilità», (p. 43). Ma si vedano anche le p.23 ss.
[56] E. Dodds, op. cit., p. 4. Per un’analisi del concetto di ατη, inteso come uno stato d’animo, in cui vi è un annebbiamento o un temporaneo smarrimento della coscienza normale, si vedano le p. 7 ss. Cfr. inoltre E. Cantarella, Norma e sanzione in Omero, cit., che considera ’'Ατη come un concetto che esclude la volontarietà dell’azione, a differenza di άμάρτημα, che indica l’errore le cui cause stanno nell’uomo, e comporta la responsabilità morale, p.271 s.
[58] E. Cantarella, Norma e sanzione in Omero, cit., «Αίτιος, (...) nei poemi, ha un duplice significato: quello certamente più diffuso, di «causa» in senso oggettivo, esclusivamente legato alla constatazione del rapporto azione-evento, e quello, meno diffuso, ma egualmente attestato, di «responsabile», in quanto «colpevole» » (p. 273).
[59] Nell’interpretazione offerta da E. Cantarella, l’azione compiuta sotto l’influsso di ατη è considerata come un errore incolpevole, che esclude la responsabilità, si veda Norma e sanzione in Omero, cit., che descrive ’'Ατη come un concetto che esclude la volontarietà dell’azione, a differenza di άμάρτημα, che indica l’errore le cui cause stanno nell’uomo, e comporta la responsabilità morale, p.271; cfr Id., Itaca, cit., p. 183: «Ma, come che agisca, Ate produce sempre gli stessi effetti: chi è sua vittima si muove senza rendersi conto di quel che fa, e non può liberarsi di lei (...). Di conseguenza, chi agito per influsso di ate, non è colpevole (aitios). L’errore provocato da ate, insomma, esclude la responsabilità morale».
[60] Cfr. E. Havelock, Dike, cit., che analizza la dinamica del conflitto tra Agamennone e Achille come esemplificativa dell’idea di giustizia presente nell’Iliade. La ricomposizione del conflitto, descritta nel canto XIX, ha la funzione essenziale di ripristinare, attraverso la procedura assembleare, le regole che sono state violate. Non si tratta, quindi, di applicare un principio, o una serie di principi sostantivi, ma di seguire un insieme di procedure, riconosciute da tutti e stabilite in precedenza: «(...) la «giustizia» dell’Iliade è una procedura, non un principio o una qualsiasi serie di principî. Essa viene realizzata tramite un processo di negoziazione di carattere retorico tra le parti contendenti. In quanto tale, la giustizia guarda al particolare e non al generale, e ci si può riferire ad essa sia al singolare che al plurale (...). Non vi è un corpo giudiziario strutturato come un’autorità statale indipendente, ma vi sono degli esperti di «legge» orale: uomini, si penserebbe, dotati di una memoria particolarmente addestrata.» (p. 168), Si tratta di un sistema informale, come nota Havelock, che ha la funzione essenziale di mantenere un equilibrio all’interno della comunità, attraverso il riconoscimento della sua struttura di credenze e regole: «Per quanto queste procedure sembrino, in confronto alle pratiche letterarie, incerte e vaghe, erano metodi efficaci per mantenere «l’ordine legale» (eunomia) nelle prime città-stato» (p. 168).
[61] A.W.H. Adkins, op. cit., il quale, nelle righe seguenti conferma l’interpretazione di Dodds:«In queste circostanze, appellarsi ad ate non può essere un tentativo di evadere la responsabilità delle proprie azioni, anche se uno dice francamente ‘non sono aitios’, e sostiene che non meno di tre déi ne sono stati la causa: questa è un’asserzione che può implicare che l’errore è un’anormalità e una cosa che l’agente sente che ‘normalmente’ non avrebbe fatto, ma che non toglie che l’errore resti nient’altro che un errore.» e alla pagina successiva continua: «Nessuno può sperare di sottrarsi alle conseguenze dei suoi errori: e fortunato è chi è capace di correggerli. Così Agamennone ‘deve’ ricompensare Achille per correggere il suo errore e far tornare Achille nella battaglia: non ha alternative», pp. 79-80.
[63] Si è ormai creato un ampio consenso intorno alla tesi che configura la poesia, e la poesia omerica in particolare, come il principale veicolo di trasmissione della cultura in un mondo dominato dall’oralità. Sul punto cfr. H. Havelock, Dike. La nascita della coscienza, cit. Nella tesi di Havelock, Omero rappresenta uno strumento didattico, che trasmette i valori e le norme sociali, insieme a un fondamentale bagaglio di informazioni pratiche.(p.13 ss.) La società rappresentata nell’Iliade e nell’Odissea raffigura, secondo Havelock la società greca contemporanea alla data finale di composizione dei poemi, p. 70 ss. Si veda inoltre E. Cantarella, Itaca, cit.,che ritiene estrema la tesi di Havelock sull’idea della poesia omerica come una vera e propria enciclopedia culturale del tempo e rimane tuttavia una convinta sostenitrice della storicità dell’epos omerico: «Per me, credere nella storicità dell’epos omerico significa credere che l’Odissea, descrivendo la vita di Itaca e dei personaggi che la popolano, descriva i momenti dell’organizzazione sociale che i Greci si diedero in un determinato momento della loro storia. Significa credere che la poesia epica descriva, di quel momento, la cultura nel senso più ampio del termine: le credenze magiche e religiose, le regole etiche e sociali, la mentalità, i valori, la psicologia, il modo in cui venivano vissute le emozioni. Significa, in altre parole, credere che Omero trasmetta nella sua globalità la memoria del patrimonio culturale di un popolo.», p.19-20. Cfr. inoltre J. Burckardt, Storia della civiltà greca, cit., vol. II, p. 244 ss.
[65] Cfr. E. Havelock, Dike, cit., che riporta il pensiero di Nillson sull’Iliade: «Più di quarant’anni fa un critico acuto notò che l’Iliade, per quanto composizione orale, è un poema con connotazioni di carattere psicologico che dimostrano un grado di raffinatezza non comune al genere» (p. 155).
[66] Cfr. M. Nussbaum, La fragilità del bene, cit., che svolge la sua indagine sulle opere dei tragici greci, sottolineando l’importanza di estendere la ricerca anche a opere “letterarie”, che per i greci non avevano quella caratterizzazione settoriale che noi moderni assegniamo alla letteratura: «Difatti i poeti epici e tragici erano generalmente considerati come i pensatori ed i maestri più importanti della Grecia; nessuno credeva che le loro opere fossero meno serie, meno rivolte alla verità, dei trattati in prosa degli storici o dei filosofi. Platone non considera i poeti come colleghi di un altro dipartimento, dediti a scopi diversi, bensì come pericolosi rivali.», p.62. Cfr. inoltre W. Jaeger, Paideia, cit., che sottolinea il ruolo politico dei poeti tragici: «Mai, infatti, presso i contemporanei, né il carattere, né l’efficacia della tragedia furono sentiti come meramente artistici. Essa era per loro talmente regina, che la facevano responsabile dello spirito della collettività, e sebbene gli stessi sommi poeti, per il nostro pensiero storico, non siano che i rappresentanti, e non già i creatori di tale spirito, ciò non muta affatto la responsabilità del loro ufficio di capi, che nello Stato democratico ateniese era sentita ancor più grande e grave di quella, fissata dalla costituzione, dei capi politici continuamente rinnovati.», vol. I, pp. 433-434. Per una ricerca sull’etica attraverso le opere dei tragici cfr. G. Bombelli e A. Mazzei (a cura di), Dike Polypoinos. Archetipi di giustizia fra tragedia greca e dramma moderno, Padova, CLEUP, 2004.
[67] R. Mondolfo, Responsabilità e sanzione nel più antico pensiero greco, cit., «(...) dinanzi al rimprovero l’imputato rifiuta la responsabilità della propria azione, attribuendo agli Dei la determinazione della propria volontà.». e poco più avanti:«In questi, come in tutti i casi consimili, l’agente è per l’accusa autore dell’opera sua e responsabile di essa e delle sue conseguenze; per la difesa strumento di ed esecutore della volontà irresistibile degli Dei, e perciò irresponsabile.» (p. 4).
[70] Ivi, p.15: «(...) il concetto della coscienza etica, attraverso un lungo e faticoso processo di elaborazione, arriva in fine a costituirsi e ad affermarsi sul terreno proprio della interiorità e col proprio carattere di vigile spettatrice e giudice interiore.».
[72] «I poemi ci pongono di fronte, sotto questo profilo, a un momento di fondamentale importanza nella formazione dei moderni concetti etici, vale a dire al momento della loro prima apparizione nel mondo greco. Ed è un’apparizione che rivela, nella sua contraddittorietà, l’esistenza di un lungo travaglio di pensiero, di cui i poemi riportano al tempo stesso le posizioni più tradizionali e le acquisizioni più avanzate.» Così E. Cantarella, ivi, p. 277.
[73] Ivi, «La responsabilità personale per così dire materiale, è molte volte scissa dalla responsabilità morale. Se, agli effetti pratici, l’azione è valutata in sé come puro effetto, sotto il profilo morale essa è ricollegabile al suo autore solo quando è volontaria» (p. 263).
[76] Cfr. M. Vegetti L’etica degli antichi, cit., che sostiene che Agamennone non si ritiene in alcun modo responsabile per lo sgarbo fatto ad Achille: «Offendendo Achille, egli compie un errore: non un errore morale, ma di calcolo.», è per questo, continua Vegetti, che Agamennone non se ne considera in alcun modo responsabile, né dal punto di vista morale, per la sofferenza arrecata ad Achille, né dal punto di vista intellettuale, per l’errore commesso: «Del resto, ci sono molte buone ragioni perché, nel caso di Agamennone come più in generale delle figure eroiche in Omero, il problema della responsabilità delle azioni sia da considerare mal posto e anzi, improponibile. La più semplice di queste ragioni sta nel fatto che Agamennone ha agito secondo la logica e il senso dei valori della sua arete (...) Evitare la vergogna, perseguire l’onore, sono imperativi sociali fuori dei quali l’eroe perde il suo status e il suo diritto alla sovranità.». ma questo non è l’unico argomento che fa escludere a Vegetti la tematizzazione della responsabilità nell’etica omerica; le figure eroiche di Omero non sono libere nei loro comportamenti: «L’eroe è tramato dalla divinità : con esortazioni, consigli, minacce, spesso con inganni irresistibili (...). Questa determinatezza delle azioni eroiche si accompagna alla mancanza di un centro di responsabilità: l’eroe è concepito separato in una serie di funzioni, disaggregato: «Nell’uomo omerico, la vita, l’emozione, l’azione appaiono disaggregati in una pluralità di esperienze non accentrabili intorno ad un io consolidato, a un complesso psicosomatico unitariamente governato (...)» (pp. 25-26).
[77] Cfr. C. Taylor, Radici dell’io, cit., sostiene che la dicotomia interiorità/esteriorità è tipicamente moderna, e corrisponde a una particolare localizzazione dell’io: «La nozione moderna di io è strettamente legata a una certa immagine dell’interiorità (...) Nella terminologia della conoscenza di sé, l’opposizione “dentro/fuori”, o “interiore/esteriore”, gioca un ruolo importante. Noi siamo convinti che pensieri, idee e sentimenti siano “dentro” di noi, mentre gli oggetti del mondo a cui fanno riferimento questi nostri stati mentali sarebbero “fuori” di noi. (...) Ma questa spartizione del mondo, nonché la conseguente localizzazione, per quanto possano apparirci solide e ancorate nella natura dell’essere umano, sono in larga misura caratteristiche del nostro mondo, ossia del mondo dei moderni, degli occidentali.», (p. 149).
[78] Cfr. E. Cantarella, Itaca, cit.: «Chi, fra i proci, fosse più o meno responsabile dei soprusi subìti è cosa che non lo riguarda; se qualcuno di essi si è comportato male non per sua personale tracotanza, ma perché indotto da altri a farlo, è cosa del tuto irrilevante, per lui. Eurimaco deve morire, così come Anfinomo, nonostante la sua saggezza, e l’aruspice Leode (...). La strage viene portata a termine senza esitazioni, senza ripensamenti, senza pietà. (...) Coperto di sangue come una fiera che ha divorato la sua vittima, Ulisse è l’immagine stessa dell’eroe vendicatore.», (p. 167).
[80] Cfr. E. Havelock, Alle origini della filosofia greca, Roma-Bari, Laterza, 1996, che propone un’interessante rilettura dell’illuminismo greco. Egli infatti contesta l’aggettivo «presocratici», adottato da Eduard Zeller e riferito ai filosofi del IVe V secolo A.C., preferendogli quello di «preplatonici». Egli propone una revisione critica di alcune categorie ormai consolidate negli studi classici, il cui uso comporta una incongruenza cronologica, ma soprattutto una svalutazione dell’apporto filosofico di quel gruppo di pensatori, erroneamente definiti come presocratici.
[81] Sulla distinzione tra valore morale e valore non morale cfr. W. K. Frankena, Etica, Milano, Edizioni di Comunità, 1996 (Ethics, Englewood Cliffs, New Jersey, Prentice-Hall, Inc., 1973), cap. I e cap. IV; Cfr. inoltre E. Lecaldano, Etica, Torino, UTET, 1995, p.204 ss.
[82] Cfr. I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, trad. P. Chiodi, Roma-Bari, Laterza, 1988, p. 36; Cfr. inoltre, per la critica a queste posizioni, gli scritti di B. Williams, L’etica e i limiti della filosofia, cit., p. 67 ss., Id. Sorte morale, Milano, Il Saggiatore, 1987, (Moral Luck, Cambridge, Ca mbridge University Press, 1981), p. 37 ss.; si veda inoltre T. Nagel, Questioni mortali, Milano, Il Saggiatore, 2001 (Mortal Questions, Cambridge, Cambridge University Press, 1979). e in particolare il cap. 2 Sorte morale, in cui Nagel, discutendo la proposta di Williams, espone la sua teoria critica nei confronti della prospettiva kantiana.
[85] La questione che Kant pone, insieme a «Cosa posso sapere?» «Che cosa mi è lecito sperare?», in Critica della ragion pura, trad. di G. Gentile e G. Lombardo-Radice (1909-1910), ed. curata da V. Mathieu, Roma-Bari, Laterza, (1959), ((Kritik der reinen Vernunft, Riga, Hartknoch, 1781; 1787), (p. 607).
[86] E’ l’esempio che cita Williams, Sorte morale, cit., dove considera la vita di Gauguin, che abbandonò la sua famiglia e si trasferì a Tahiti per seguire la sua vocazione artistica. Williams si chiede se la scelta di Gauguin si possa considerare da un punto di vista morale, p. 36 ss.
[87] Cfr. M. Nussbaum, La fragilità del bene, cit., che indaga il rapporto tra fortuna e bene umano nella filosofia greca classica: «Questo problema, (...) era centrale per i Greci. Ma, come ho già suggerito, esso è importante anche per noi. Tuttavia in alcuni momenti della sua evoluzione si è pensato che esso non fosse affatto un vero problema. L’enorme influenza dell’etica kantiana sulla nostra cultura intellettuale ha portato a trascurare per molto tempo questi aspetti dell’etica greca. E anche quando essi vengono trattati, si finisce spesso per concludere che i Greci hanno posto il problema dell’azione e della contingenza in termini primitivi o erronei.», (p. 50).
[90] T. Nagel ha scritto il saggio Sorte morale, contenuto nel volume Questioni mortali, in risposta al lavoro
di Williams dal medesimo titolo. Sulle divergenze teoriche rispetto alla tesi
di Williams cfr., Questioni mortali,
p. 34, nt.
[93] T. Nagel, Questioni mortali., cit. riporta l’esempio del camionista che, accidentalmente, investe un bambino. Se il camionista è interamente innocente, non avrà nulla da rimproverarsi, ma proverà lo stesso un sentimento di rammarico, che non è certo assimilabile a un giudizio morale di colpevolezza. Ma se egli risulterà anche in minimo grado negligente, ad esempio per non aver fatto controllare i freni di recente, e se quella negligenza ha contribuito alla morte del bambino, allora egli si riterrà responsabile per quella morte. Il suo non sarà semplice rincrescimento, ma un vero e proprio biasimo morale. Tuttavia, nota Nagel, «ciò che rende questo un esempio di sorte morale è che egli avrebbe dovuto biasimarsi solo un poco per la negligenza in sé stessa se non si fosse prodotta alcuna situazione che gli avesse richiesto di frenare improvvisamente e violentemente per evitare di investire il bambino.» (p. 34).
[95] Ivi, p. 42. Cfr. inoltre Id., Uno sguardo da nessun luogo, Milano, Il Saggiatore, 1988 (The View from Nowhere, New York, Oxford University Press, 1986): «Una volta che gli individui sono visti come parti del mondo, determinate o non, non sembra esservi modo di assegnare loro una responsabilità di quello che fanno. Tutto ciò che li riguarda, incluse alla fine le loro stesse azioni, sembra mescolarsi con il contorno su cui essi non hanno controllo. E quando allora torniamo a considerare azioni dal punto di vista interno,non possiamo, dopo un esame attento, dare senso all’idea che quello che gli individui fanno dipende ultimativamente da loro. Tuttavia continuiamo a confrontare quello che fanno con le alternative che rifiutano, e a lodarli o condannarli per questo» (p. 149).
[98] Cfr. M.
Weber, Il lavoro intellettuale
come professione, Torino, Einaudi, 1948, (Politik als Beruf, Wissenschaft als Beruf, Berlin, Duncker &
Humblot, 1919)
[99] Cfr. H. Jonas, Il principio responsabilità, Torino, Einaudi, 1990 (Das Prinzip Verantwortung, Frankfurt a. M., 1971)
[103] Cfr. Euripide, Ifigenia in Aulide,
[104] Sulla concezione della donna e sul processo di discriminazione di cui è stata oggetto nella cultura greca cfr. E. Cantarella, L’ambiguo malanno. Condizione e immagine della donna nell’antichità greca e romana, Roma, Editori Riuniti, 1981.
[107] E stata l’antropologa Ruth
Benedict a elaborare la distinzione tra Shame-culture
e Guilt-culture,
nell’ambito di uno studio sulla società giapponese, nel volume Chrysanthemum and the Sword, Boston,
Houghton Mifflin, 1946, «In
anthropological studies of different cultures the distinction between those
which rely heavily on shame and those which rely heavily on guilt is an
important one. A society that inculcates absolute standards of morality and
relies on men’s developing a conscience is a guilt culture by
definition,(...) In a culture where a shame is a major sanction, people are
chagrined about acts which we expect people to feel guilty about» (p.
222).
[108] E.Dodds, op. cit., espone i limiti nell’uso di questi due modelli interpretativi che vengono considerati come «contrassegni, senza presupporre nessuna particolare teoria circa i mutamenti di civiltà; in secondo luogo riconosco che si tratta soltanto di una distinzione relativa, perché molti atteggiamenti caratteristici della civiltà di vergogna sono sopravvissuti nel periodo arcaico e in quello classico» (p. 35).
[111] Sulla diversa interpretazione del significato dei due termini cfr. E. Cantarella, Itaca, p. 33 s, e A.W.H. Adkins, La morale dei greci, cit., 54 ss.
[114] La contaminazione è descritta come un fenomeno estremamente complesso, le cui cause sono molteplici, legate sia all’evoluzione della coscienza morale del singolo, sia alla concezione sociale dominante. In particolare, sottolinea A. W. H. Adkins, op. cit il fenomeno si fa più intenso di fronte a situazioni alle quali la società non può trovare né una spiegazione né un rimedio, p. 132 ss.
[115] “Miasma” era il termine greco usato per indicare la contaminazione, cfr. E. Benveniste, Il vocabolario delle istituzioni indoeuropee, cit, vol. II, p. 485 ss..
[116] Mentre il peccato risponde ad una condizione della volontà, ad una sorta di malattia della coscienza interiore, E. Dodds, op. cit rileva che la contaminazione «è conseguenza automatica di un atto, appartiene al mondo degli avvenimenti esterni, ed opera con assoluta e spietata indifferenza per il movente, come il bacillo del tifo», (p. 48-49).
[122] Cfr. M. Nussbaum, La fragilità del bene, cit.: «La τύχη non implica la casualità o l’assenza di connessioni causali. Il suo significato di base è “ciò che semplicemente accade”; è l’elemento dell’esistenza umana che gli umani non controllano», p. 198. Sul concetto di fato espresso dai termini Μοιρα, Ανάγκη e Τύχη ,cfr. F. Todescan, Giustizia e destino: dalla filosofia presocratica alla tragedia attica, in G. Bombelli - A. Mazzei (a cura di), Dike Polypoinos, cit., p. 26 ss.
[126] Cfr. G. Reale, Storia della filosofia antica, Milano, Vita e Pensiero, 1993, vol. II, p. 167 ss.; cfr. inoltre Id. Platone. Alla ricerca della sapienza segreta, Milano, Rizzoli, 1996, p. 243 ss.
[127] Col Filottete
Sofocle (497-406) vinse la gara tragica del
[130] Cfr. A. Mc Intyre, op. cit., p. 174 ss. che contrappone la visione sofoclea a quella platonica delle virtù.
[132] Platone,
[136] Sulla familiarità, per noi moderni, della dottrina morale platonica esposta nella Repubblica si vedano le osservazioni di C. Taylor, Radici dell’io, cit., 154 ss.
[137] Alla
domanda di Socrate se la giustizia sia un vizio, Trasimaco risponde: «No,
ma una nobile semplicità di carattere»,
[140] Ivi, 435 b
2: «Allora un uomo giusto non differirà per niente da uno stato
giusto per ciò che riguarda l’aspetto della giustizia in sé
stesso, ma gli sarà simile». Cfr. inoltre ivi, 441 c 4:
«Ecco, feci io, che, pur a stento, abbiamo superato queste
difficoltà e ci siamo resi ben conto che le parti che costituiscono lo
stato e le parti che costituiscono l’anima di ciascun individuo, sono le
stesse e in numero uguale».
[150] Sull’opera di conservazione del nomos, intrapresa da Platone, cfr. G. Cosi, Il logos del diritto, cit., p. 122 ss.
[152] «Aristotle is not explicitly asking when someone acts responsibly but
when someone acts voluntarily (hekousiōs), così T. Irwin, Reason and Responsibility in Aristotle, in A. Oksenberg Rorty (ed.), Essays
on Aristotle’s Ethics, Berkeley, Los Angeles-London, University of
California Press, 1980, p. 118.
[154] Cfr. D. Ross, Aristotle,
London, Methuen & Co. Ltd.1964 (I° ed.1923), p. 189: «The first principles of ethics are too
deeply immersed in the detail of conduct to be thus easily picked out, and the
substance of ethics consists in picking them out»; Cfr. Inoltre E. Berti. Profilo di Aristotele, Roma, Edizioni Studium, 1979, cap. III.
[155] Cfr. A. Giuliani, Imputation et justification, cit.: «La recherche est conduite en termes nègatives (ce qui est involontaire), en procédant du simple au complexe en analysant le langage ordinaire: voici un exémple de définition dialectique. (...) Les définitions dialectiques ne sont, ni tout à fait claires, ni tout à afit obscures, car elles ont leur point de départ dans les opinions communes. La définition dialectique nous permet d’analyser les notoins confuses, omme la responsabilité, et se détermine à travers la réfutation: ce sera la preuve qui garantira de leur verité.» (p. 95). cfr. inoltre sul metodo della filosofia pratica aristotelica E. Berti, Le ragioni di Aristotele, Roma Bari, Laterza, 1989, p. 113 ss.
[156] Aristotele, Etica Nicomachea, in Opere,
vol. 7, trad. di A. Plebe, Roma-Bari, Laterza,
[157] Cfr. T. Irwin, op. cit., che nota i due differenti tipi di approccio al tema della
volontarietà sperimentati da Aristotele nell’Etica Nicomachea e
nell’Etica Eudemia; in quest’ultima egli considera le condizioni
positive dell’atto volontario, ne indaga gli aspetti psicologici e conclude
che il pensiero è una condizione sufficiente e necessaria per rendere
un’azione volontaria. Nell’Etica Nicomachea, Aristotele considera
le condizioni negative dell’atto volontario: «The NE tries a different approach. The common beliefs
considered are not about conditions of voluntariness but about conditions of
involuntariness
(1109b35- 1110a1): Aristotle finds it
more fruitful to begin there than to begin with positive conditions.»,
p. 121. Cfr. A. Giuliani, Imputation et justification, cit.: «La recherche est conduite en termes nègatives (ce qui est
involontaire), en procédant du simple au complexe en analysant le
langage ordinaire: voici un exémple de définition dialectique.»
(p. 95).
[160] D.
Ross, Aristotle,
cit., «This distinction is not
satisfactory. There is no real difference between ‘involuntary’ and
‘non-voluntary’. It might be suggested that by ακούσιον Aristotle means ‘unwilling’ and by ουχ εκούσιον ‘involuntary; but it is clear that unwilling and merely involuntary
acts cannot be differentiated by the agent’s subsequent attitude.», (p. 198).
[165] L’argomento della responsabilità della formazione costituisce un nodo centrale nel dibattito sul pensiero etico di Aristotele. Egli infatti, attribuisce all’educazione un ruolo determinante nella formazione del carattere, cfr. D. Ross, Aristotle, cit., p. 192 ss.; T. Irwin, Reason and Responsibility, cit., p. 139 ss.; cfr. inoltre R. Sorabji, Aristotle on the role of intellect in virtue, in A. Oksenberg Rorty, (ed.) Essays on Aristotle’s Ethics , cit., p. 201 ss.; M.C. Donnini Macciò, Educazione e filosofia in Aristotele, Torino, Loescher, 1979, p. 67 ss.
[167] Questa posizione crea a Platone una serie di problemi al momento in cui si trova a giustificare i premi e le pene dello stato, cfr. A. W.H.Adkins, ibidem.
[168] Sul tema della formazione del carattere in relazione al dibattito sul determinismo della teoria aristotelica, si veda l’ampia e argomentata ricognizione di. C. Natali, Responsabilità e determinismo nell’etica aristotelica, in M. Migliori ( a cura di) Il dibattito etico e politico in Grecia tra il V e il IV secolo, Roma, La città del Sole, 2002, che, dopo aver considerato le più recenti teorie sull’argomento conclude, interpretando il pensiero di Aristotele: «qualunque sia il carattere che abbiamo, noi siamo κύριοι, padroni, delle nostre azioni, dal principio alla fine.», p. 493.
[173] T.
Irwin, op. cit.,«Aristotle seems to believe these things: (8)
A is responsible (a proper candidate for praise and blame) for doing x if and
only if A does x voluntarily. (9) Animals and children act voluntarily.(10)
Animals and children are nor responsible for their actions.His account of
voluntary action and responsibility seems to result in a contradiction.»,
(p125).
[176] «I do not think we have replaced Aristotle’s theory with someone
else’s. We have simply explored the implications of Aristotle’s
restriction of the class of responsible agents to those who are capable of
decision. It is not unreasonable to call this Aristotle’s conception of
responsibility, even though he never presents it as explicitly as he should; we
can now understand his judgements about who is responsible, and when, better
than we could from the simple theory», Ibidem.
[177] Ivi, p. 143: «Now Aristotle’s complex theory agrees
with Kant on the conditions of human responsibility.», tuttavia,
precisa Irwin, le due teorie appaiono radicalmente divise sul fronte del
determinismo:«Aristotle, however,
finds the power of self-determination in the capacity for effective decision,
not in uncaused acts of will».
[179] «Le due classificazioni non sembrano costituire (come crede Irwin) due dottrine rivali su una stessa nozione, bensì due descrizioni che riguardano due nozioni correlate ed hanno un ruolo complementare nella sua teoria etica.», Ivi, p. 524.
[180] Cfr. T. Irwin, op. cit., p. 136; si veda inoltre J.
Glover, Responsibility, cit.,
che critica l’argomento aristotelico secondo cui le azioni dei bambini e
degli animali sarebbero caratterizzate dal desiderio e
dall’impulsività, che connotano anche le azioni degli adulti:
«It is not clear what is meant by
saying that animals or children always act out of desire or impulsively. If it just means that they do what they want to do, in that elastic
sense of ‘want’ in which it can be said that any action is what the
agent ‘wanted’ to do, then this applies to adults also. But if
‘desire’ is being used here in such a way that we are to understand
that children and animals can never refuse to gratify such desires as for food
or sex, the doctrine is surely false. Both children and animals can be taught
to reject food in certain circumstances, even if they are hungry. And there is
a similar difficulty about the notion of ‘impulsive’ action. If it
is merely being asserted that children and animals sometimes act without having
any rational plan in mind, then this is equally true of adults. If, on the
other hand, Aristotle means that children and animals never act on a rational
plan, this is again simply false» (p.8).
[182] «Se non accettiamo la visione assai pessimistica che Irwin esprime sugli animali e sui bambini, non dobbiamo necessariamente disprezzare lo hekousion “semplice”: esso è la base per i successivi sviluppi più complessi. E se pensiamo a ciò che accade quando si educa un bambino, l’insistenza di Aristotele sull’importanza dell’intenzionalità e dell’attenzione selettiva sembrano accordarsi con l’esperienza molto più del quadro comportamentista di Irwin. Aristotele ci offre un’interessante descrizione della base animale su cui si fonda lo sviluppo del carattere morale.», Ibidem.
[183] E. Berti, Profilo di Aristotele, cit., p. 258. Cfr. per un’interpretazione antideterministica del pensiero di Aristotele cfr. C. Natali, Responsabilità e determinismo nell’etica aristotelica, cit.
[184] Cfr. AW.H. Adkins, op. cit., che così conclude il suo volume: «Perché i Greci del periodo che abbiamo trattato potessero avere un concetto della responsabilità morale affatto simile al nostro, sarebbe necessario che la nostra concezione del mondo e quella greca coincidessero completamente; e, tenendo conto di questa considerazione, non parrà strano che anche Aristotele si differenzi dalle concezioni cui siamo abituati.», (p. 475).