N. 6 – 2007 –
Memorie//Scienza-giuridica
Università di Parma
‘Omnem facultatem damus sanctissimis episcopis’. Rapporti tra gerarchia ecclesiastica e gerarchia statale
nella legislazione di Giustiniano
Il riassetto complessivo delle strutture
dello Stato promosso da Giustiniano nel periodo 535-539, è noto, si
caratterizza per la particolare ampiezza e complessità del programma di
riforma, che nell’ottica del raggiungimento di un rinnovato assetto
costituzionale non solo coinvolge il riordino di ampi settori
dell’amministrazione sia centrale che periferica, ma postula anche la
precisazione dei rapporti tra gerarchia ecclesiastica e gerarchia civile nel
quadro di una ridefinizione del ruolo e delle funzioni dell’episcopato e
del modo di porsi in confronto agli apparati dell’amministrazione locale
e segnatamente alla figura del governatore provinciale.
Tra le mansioni che
la legislazione giustinianea assegna al vescovo in ragione dell’alta
considerazione delle doti morali di probità, onestà e
fedeltà a lui riconosciute, ruolo primario assumono quelle che
comportano carichi di gestione della cosa pubblica. All’interno di esse,
per gli effetti che se ne possono trarre sul piano dell’ideologia
giustinianea e le conseguenze che si riflettono sull’ordine gerarchico,
anche non formale, delle varie magistrature, occupa il primo luogo il controllo
del vescovo sulla burocrazia statale, espletato sotto diverse forme.
Il presule
partecipa anzitutto, assieme ai primates uniuscuiusque regionis, alla
nomina attuata in forme collegiali del governatore provinciale:
App. Nov.
7.12: Provinciarum etiam iudices ab
episcopis et primatibus uniuscuiusque regionis idoneos eligendos et
sufficientes ad locorum administrationem ex ipsis videlicet iubemus fieri
provinciis, quas administraturi sunt, sine suffragio …
L’innovazione,
introdotta in anni piuttosto avanzati con
Altro compito
assolto dal vescovo, questa volta nell’ambito dell’amministrazione
urbana, riguarda la nomina di alcuni magistrati civici, prima fra tutte la
figura del defensor civitatis. Non si
può distinguere facilmente per quale motivo (perdita di prestigio di
alcune componenti il comitato elettivo, scadimento dell’autorevolezza
della carica[3])
Giustiniano nel 535, quando intraprende il programma di riforma delle
istituzioni dello Stato[4],
modifica il sistema di nomina del defensor
civitatis precedentemente stabilito da Onorio nel 409[5].
In effetti nel provvedimento giustinianeo sopravvive ancora il concetto della
competenza del comitato elettivo; ma tale comitato, nella legge onoriana
costituito dal vescovo, dal clero, dagli honorati, dai proprietari
terrieri nonché dai curiales, viene da Giustiniano sfoltito nel
senso che la designazione della persona da nominare è demandata al
vescovo, al clero e alle persone di buona fama, mentre viene soppressa
l’approvazione della curia cittadina[6].
È plausibile, insomma, ritenere che in tal modo si instauri un sistema
volto a coinvolgere le forze più integre e rappresentative delle comunità
locali (qui in civitate existimationem curant), almeno per quel tanto
che il centralismo statalistico consente[7].
Nell’ambito
della politica mirante ai controlli locali, al vescovo, quale membro di una
commissione istituita a tale scopo, è riconosciuta nel 545 la competenza
sulla nomina attuata in forme collegiali di altri magistrati cittadini (pater civitatis, frumentarius e simili), cui si aggiunge il compito di riceverne
annualmente i rendiconti finanziari e di intervenire in tutte le operazioni di
correzione o di integrazione dell’attività affidata agli stessi:
Nov. 128.16: …verum civitatis cuiusque sanctissimus
episcopus et primates civitatis nec non possessores eius patrem civitatis et
frumentarium et ceteros eiusmodi administratores instituant…
Il numero degli
eligendi comprende soprattutto due figure che hanno importanza eminentemente
sociale, perché da loro dipende la soluzione di problemi riguardanti sia
la gestione delle sostanze civiche, sia l’alimentazione della popolazione
urbana: il pater civitatis e il frumentarius[8].
Quest’ultimo specialmente, residuo del vecchio sistema delle frumentationes di origine graccana, con
i suoi interventi nel campo degli approvvigionamenti contribuiva al
contenimento dei disordini e al mantenimento dell’ordine pubblico.
Tuttavia, a
prescindere dall’interpretazione che del significato di quegli interventi
possa darsi (rivitalizzazione e difesa delle istituzioni cittadine, opposizione
all’eventuale attività lesiva degli amministratori locali nei riguardi
della Chiesa e del clero, protezione delle comunità affidate alle sue
cure), il vescovo ottiene titolo di maggior prestigio, e non soltanto morale,
rispetto agli organi dell’amministrazione locale, più che da
quella stessa partecipazione dalla capacità a lui riconosciuta di
esercitare controllo e opposizione contro le illegalità commesse dal
governatore, e in genere dai funzionari di grado elevato (magistratus, praesides, iudices), a danno degli amministrati.
Nella fattispecie
dalla legislazione giustinianea sono annoverati gli abusi che
l’autorità civile perpetra in forza dei suoi poteri (concussione,
illegalità, soprusi concretantisi soprattutto nell’impedimento
all’esercizio di attività private: ostacolo a far testamenti e
alla procedura d’appello, impedimenti alla celebrazione di matrimoni,
alla redazione di strumenti dotali, alla sepoltura dei morti, alla compilazione
di inventari). E in proposito al vescovo è conferita non solo la
facoltà di denunziare gli abusi[9],
ma anche quella di reprimere (cohibendi
facultas) l’attività illegale dei pubblici funzionari.
A disporre in
merito è anzitutto la disciplina di Nov.
8, la norma abolitiva del suffragium, che, nel fissare le regole di
condotta e i doveri assegnati ai governatori provinciali, impone al vescovo e
ai primates del luogo il dovere di sorveglianza e l’obbligo di
informare l’imperatore degli illeciti eventualmente commessi dagli
amministratori a danno dei provinciali, affinché questi, fatta debita
inchiesta attraverso l’invio di appositi funzionari, possa assoggettare i
trasgressori alle competenti pene[10].
Il dovere si trova poi ribadito nel primo dei documenti annessi alla Novella,
un editto indirizzato ad deo carissimos ubique locorum episcopos
sanctissimosque patriarchas, che, nel ricordare ai vescovi l’obbligo
della segnalazione all’imperatore degli illeciti commessi dagli
amministratori locali, ne estende la sorveglianza anche nei confronti dei defensores
civitatum in ragione dei doveri ad essi imposti, analoghi a quelli sanciti
per i maggiori iudices[11].
Dunque
l’opposizione del vescovo, intorno al 535, si esercita in primo luogo non
direttamente, ma sotto la forma della nuntiatio
delictorum, le cosiddette preces, che il prelato unitamente ai
principali cittadini ha facoltà di inoltrare all’Imperatore perché egli possa correggere le
illegalità ed eliminare gli abusi, provvedendo, una volta avutane
notizia (his cognitis), dietro
apposita ispezione, alla relativa repressione[12].
Così nel 535 Giustiniano anzitutto dispone:
Nov. 8.8.1: Damus etiam provincialibus
potestatem, si quid iniusti in provincia qui magistratum gerit perpetraverit et
subditos nostros damnis quibusdam aut iniuriis affecerit, ut deo carissimus
episcopus eiusque loci primates preces ad nos mittant, quae eius qui
magistratum gerit delicta exponunt. Nos enim his cognitis in provinciam
mittemus qui ea examinet, quo ille, ubi deliquit, ibi etiam poenas delictorum
subeat, ut ne quis alius quidem tale quid perpetrare audeat ad exemplum
respiciens,
e di nuovo
nell’Ed. 12 ribadisce la medesima
competenza in relazione a imposizioni fiscali illegittime perpetrate in
Ellesponto sotto il pretesto di presunte autorizzazioni imperiali, prevedendo,
in considerazione della presunzione di illecita connivenza – tamquam
criminis socium – e della gravità dell’estorsione
fiscale perpetrata, la destituzione del funzionario colpevole e la confisca del
suo patrimonio per l’indennizzo in favore dei soggetti lesi:
Ed. 12.2: Permittimus vero etiam episcopis
ut, si provinciae praeses neglegens sit et pragmaticam formam non inhibeat, sed
ei, qui illam producit, morem gerat, ipsi eam rem nobis denuntient, qui si hoc
didicerimus, eum tamquam criminis socium et de magistratu deiciemus et cingulo
eum atque substantia privabimus et eis, qui qualibet in re iniuriam passi sunt,
indemnitatem praestabimus,
per poi, nel 545,
ulteriormente confermare la facoltà di denunzia in relazione alle
usurpazioni dei funzionari degli apparati periferici (prefettura pretoriana) che sulla
base di pretesi ordini imperiali fossero intervenuti in provincia a controllare
le spese delle entrate civiche e avessero commesso abusi ed estorsioni:
Nov. 128.17: Nulli autem eorum qui in officium
glorissimorum praefectorum vel in aliud officium aut in scholam relati sunt
talia ratiocinia committi liceat, neque ex praecepto eiusdem magistratus vel
alterius iudicis neque si pragmaticam vel aliam sanctionem vel sacrum
commonitorium accipiat quod ei tale aliquid committat. Sed si quid eiusmodi
fiat, liceat sanctissimo cuiusque civitatis episcopo et primatibus eius de
praedictis capitibus eiusmodi personis non respondere, sed ad nos referre, ut
his cognitis et illatum civitatibus damnum ex ipsorum substantia restitui
iubeamus et convenientem vindictam talibus personis infligamus[13].
a segno che il concetto
della autorità episcopale diventa realtà stabile nel pensiero
dell’imperatore.
Sotto altro profilo
l’opposizione del vescovo assume successivamente la forma di un vero e
proprio potere coercitivo e sanzionatorio. Nel 537 infatti, q[14],
Giustiniano promulga una costituzione più che altro integrativa delle
precedenti statuizioni sulla materia (Nov.
51). Il provvedimento, che reca la rubrica Ne
a scaenicis mulieribus aut fideiussio aut iusiurandum perseverantiae exigatur,
trae origine dalla necessità di reprimere l’espediente posto in
essere dai prosseneti per eludere le disposizioni ostative e repressive
adottate nel 535 contro di loro. Tale espediente consisteva nella richiesta
fatta dai prosseneti alla prostituta di prestare giuramento sull’impegno
di non abbandonare la professione (iusiurandum
perseverantiae), in sostituzione della prassi, prima seguita, con cui si
costringeva la prostituta stessa a impegnarsi tramite contratto (syngraphae), oppure a produrre garanti (fideiussores exigere) per lo stesso
scopo.
La repressione questa volta è
rapportata allo status dei soggetti.
Mentre per la prostituta si sostanzia nella remissione del reato di spergiuro,
vale a dire nella liberazione dall’obbligo di tener fede al giuramento e
concretamente nella possibilità del suo ritiro dalla prostituzione[15];
contro il lenone si sostanzia, per l’imposizione illegittima del
giuramento, nell’irrogazione della pena pecuniaria di dieci libbre
d’oro, da versare alla donna quale mezzo di sostentamento per la
conduzione di un tenore di vita onesto (ad
reliquam vitam honestam agendam); contro il governatore, poi, che si sia
reso autore della perpetrazione del reato e abbia imposto alla prostituta
giuramento sul suo impegno di continuare la professione è deciso il
trasferimento della competenza e dei poteri esecutivi al magistrato militare
della provincia, qualora ivi esistente, o, in sua assenza, al vescovo
metropolitano[16].
Così lascia intendere:
Nov. 51.1.1: Quodsi ipse provinciae praeses iusiurandum exegerit, ab ipso etiam
decem librarum auri poena quam diximus exigatur quae siquidem militaris
magistratus in illa provincia sit, per illum mulieri detur sicut dictum est; si
vero nullum habeat militarem magistratum, episcopus metropolis illius
provinciae huic rei prospiciat ad nos quoque eam, si ita iudicavit, referens,
ac praeterea qui inter vicinos erit magistratus maior …
Nella fattispecie
al vescovo viene pertanto affidato il compito di applicare ed esigere le pene
previste dalla legge[17],
e sebbene ciò possa essere giustificato dalle peculiarità del
caso, e in specie dalla offesa alla sacralità del giuramento che per
sé stessa reclama l’intervento dell’autorità
religiosa, ciò non toglie che ad essa venga riconosciuto un preciso
potere coercitivo nei confronti della stessa autorità civile.
Successivamente, a
distanza di tempo, altre disposizioni intervengono a confermare tale potere.
Tant’è che nel 553 viene attribuito al vescovo il potere di
espellere da alcune province magistrati che eccedano dalla loro sfera di
competenza senza la necessaria autorizzazione (segnatamente il dux o biocolyta
della Lidia e Lycaonia al quale, pur essendo stato istituito con funzioni di
polizia per mantenere l’ordine in cinque province della diocesi Asiana, e
segnatamente: Lycaonia, Lydia, Pisidia, Phrygia maior e Phrygia minor, essendo
venute meno – con la riorganizzazione del 541-565 seguita alla caduta di
Giovanni di Cappadocia – le ragioni di ordine che ne avevano suggerito
l’istituzione, viene inibito di ingerirsi o di estendere la propria
giurisdizione oltre l’ambito delle due province a lui conservate rispetto
alle cinque originariamente assegnategli):
Nov. 145.1: Quapropter in posteriore tempore
iis qui in Lycaonia et Lydia militarem magistratum habet vel ipse provincias
quas diximus accedere vel aliquem ex officio suo mittere ausus sit, facultatem
damus episcopis civitatium arcendi ipsum vel eos qui ab ipso mittuntur ingredi
volentes et ex locis illis expellendi …
e nel 556 Nov. 134, relativa alla nomina di
vicari, nel definire le linee di condotta dell’amministratore ideale, a
riprova della stabilità ormai assunta nella visione imperiale dal ruolo
riservato all’autorità episcopale, oltre a prevedere una
dettagliata elencazione dei delicta dei
funzionari perseguibili e la modifica in senso restrittivo del regime delle
pene applicabili ai magistrati inosservanti (destituzione dalla carica, esilio,
risarcimento in duplum del danno
inferto), ribadisce il potere di intervento e coercizione riconosciuto ai
vescovi, unitamente ai primates civitatum :
Nov. 134.3: Propterea interdicimus omnibus
magistratibus tam civilibus quam militaribus eorumque officiis vel cuilibet
alii, ne quid eiusmodi audeant. Si quis vero tale scelus in quocumque rei
publicae nostrae loco perpetrare vel ei qui haec audeat praesto esse
temptaverit, iubemus eos cingulo privatos in exilium mitti, et ex eorum
substantia damnum iis qui iniuria affecti sunt illatum in duplum restitui
… Omnem autem facultatem damus sanctissimis locorum episcopis et
primatibus civitatum eiusmodi conatus cohibendi et providendi ut haec omnia
sine impedimento et detrimento secundum legum tenorem procedant, atque de his
ad nos referendi.
Partecipazione
apparentemente di minor rilievo, rispetto al potere di intervento nel
procedimento di nomina e di controllo esercitato dall’episcopato sugli
organi dell’apparato burocratico, sembra essere quella stabilita da
Giustiniano nel 535 con la chiamata del vescovo, unitamente ai primates
del luogo, a ricevere il giuramento del governatore presente in provincia prima
del suo ingresso in carica. A stabilire ciò è, fra l’altro,
la stessa costituzione che abolisce il suffragium:
Nov. 8.14: Iusiurandum vero hic quidem
secundum id quod supra dictum est praestabunt. Quodsi quibus, qui in provinciis
sunt, insignia magistratus mittantur, coram deo carissimo episcopo metropolis
et primatibus qui ibi sunt iusiurandum praestabunt, atque ita magistratus
negotia suscipient ….
In realtà
anche l’ufficializzazione dell’obbligo di prestazione del
giuramento di fedeltà[18],
da parte del governatore di provincia lontana dal centro, nelle mani del
vescovo configura una forma di superiorità di questo, se non altro
«morale», perché in tal caso il vescovo assolve non funzione
di semplice rappresentanza, ma di autorità che riceve in pieno potere il
giuramento. Cosa eccezionale per il modus
sentiendi di Giustiniano, che nella legge istitutiva del relativo obbligo
riservava a sé, e solo in caso di sua indisponibilità ai maggiori
funzionari, la relativa prerogativa. Dignità maggiore è
difficilmente credibile gli si potesse attribuire, perché proprio per
tal via il vescovo finisce con l’acquistare, e non solo nel pensiero del
legislatore, carisma di autorevolezza sul magistrato, in quanto viene a coprire
il ruolo che nella generalità dei casi è assolto direttamente
dall’imperatore stesso.
Minore importanza,
invece, rivestono altri adempimenti, pur dovendosene ammettere una certa
rilevanza sotto il profilo dei rapporti fra autorità religiosa e
autorità civile. Nel 535 viene attribuito al vescovo potere di ricevere,
da parte del neoeletto governatore, dopo il suo ingresso nella provincia che
deve essere da lui amministrata ma prima di dare inizio
all’attività istituzionale, la notifica dei mandata principis, vale a dire il quadro delle attività da
realizzare e degli obblighi da eseguire per ordine imperiale o, se si vuole, i
punti del suo programma amministrativo. Come dire che la mancata comunicazione
di quelle prescrizioni burocratiche all’autorità episcopale
impedisce al governatore di entrare nella pienezza delle proprie funzioni
equivalendo, nel pensiero di Giustiniano, alla inottemperanza di un obbligo di
comunicazione presupposto della valutabilità della condotta governatoriale.
Questo si può ricavare dalla costituzione che assieme a Nov. 8 regola l’attività
dell’apparato burocratico e che al fine del coinvolgimento di componenti
significative della comunità locale ripropone un sistema di
collegialità (nella fattispecie vescovo, clero, principali cittadini),
sempre più frequentemente invocato nella legislazione di Giustiniano:
Nov. 17.16: Simulac vero provinciam ingressus
sis, convocatis omnibus qui in metropoli constituti sunt, deo carissimum
episcopum dicimus et venerabilem clerum et primores civitatis, haec nostra
sacra praecepta per actorum instrumenta manifesta reddes…
L’obbligo
della notifica al vescovo dei mandata
principis non sembrerebbe rivestire, come s’è detto, che
valore accessorio. L’importanza dell’adempimento prescritto
dall’ordine imperiale è invece da ravvisare nel fatto che esso si
impone alla valutazione come ulteriore manifestazione di quella che presenta i
caratteri di una subordinazione almeno concettuale, se non strettamente gerarchica,
del governatore rispetto al vescovo.
Non meno
significativo in proposito appare il dovere di verifica sui rendiconti degli
amministratori locali (pater civitatis, frumentarius e simili),
nominati dallo stesso vescovo (unitamente a primati del luogo e possessores)
per la gestione delle finanze cittadine, e il potere a lui riconosciuto di
provvedere alla sostituzione degli amministratori inidonei e di denunciare
all’autorità imperiale gli abusi e le distorsioni commesse da
alcuni funzionari periferici (segnatamente quelli dell’ufficio della
prefettura pretoriana) in relazione alle attività di rendicontazione (Nov.128.17[19]).
Un vero e proprio reticolo di poteri e controlli che in tal modo finisce per concentrarsi
sulla figura del vescovo, rendendolo al tempo stesso tutore e arbitro della
gestione delle comunità affidate alle sue cure:
Nov. 128.16: Singulis autem annis impletis
sanctissimus episcopus cum quinque primatibus civitatis rationes exigant ex iis
qui ab ipsis instituti sunt: et si quid ex eiusmodi rationibus debitum aut
reliquum esse appareat, id ab eiusmodi administratoribus exigatur periculo
eorum qui eos instituerunt, et quibus destinatum est usibus servetur. Si quis
vero ex praedictis administratoribus parum idoneus inveniatur, statim eum
removeri iubemus et alterum in eius locum et a sanctissimo civitatis episcopo
et a reliquis possessoribus, uti dictum est, institui: sciantque qui eos
nominant, si quid inde detrimenti civitati illatum sit, ex suis sese
facultatibus id resarturos esse[20].
Espressivo del
medesimo orientamento appare peraltro anche quanto disposto da Giustiniano con
CJ. 1.4.26 del 530 in tema di partecipazione alla gestione delle
comunità cittadine. Il caso raffigura quella forma di "patriottismo
municipale", come è già stato definito[21],
la cui ragione è da ravvisare nella necessità di difesa degli
interessi ecclesiastici e, insieme, di quelli della comunità affidata
alle sue cure. Della comunità civica il vescovo è, infatti,
"pastore e patrono"[22],
difensore dei diritti delle minoranze o socialmente deboli o prive di
rappresentanti. Giustiniano fa conoscere la consistenza della partecipazione
del vescovo all'attività dell'amministrazione locale quando da un lato
sottrae al governatore provinciale la funzione di controllo sull'esecuzione
delle opere pubbliche cittadine e sull'erogazione delle relative spese; e
dall'altro istituisce una commissione mista, della quale fa parte il vescovo,
cui demanda il compito di decidere in merito e di opporsi ad eventuali
imposizioni abusive da destinare allo scopo.
Ma più in
generale è tutta l'amministrazione locale a risultare sottoposta al
controllo e all'ingerenza del vescovo[23],
tant’è che nel caso in cui il governatore provinciale ometta il
controllo, tollerando indebite
ingerenze o l’eccessiva riscossione di tasse e di sportulae, il vescovo
praticamente assume veste di supervisore, valutando l’entità dei
diritti casuali versati ai funzionari ed esponendo all’Imperatore
denunzia sulle infrazioni commesse dall’autorità civile per i
provvedimenti di competenza:
Nov. 86.9: Si quis vero magistrianus (in rebus
agens) vel praefectianus vel cuiuscumque condicionis alius maiores sportulas
acceperit quam quae sacris nostris constitutionibus definitae sunt, iubemus
omnibus modis praesidem provinciae suo periculo secundum legem nostram id
vindicare iisque qui talia audeant castigationem inferre. Si vero praeses haec
non vindicaverit, licentiam damus sanctissimo illius civitatis episcopo
indicandi nobis de his et qualem militiam vel dignitatem habeat qui talia ausus
est, ut et praesidi periculum inferamus qui haec permisit ac nostram iussionem
contempsit, et ipsum qui talia ausus est supplicio affici iubeamus.
Quelli sinora
enucleati sono certamente compiti che rivestono molta delicatezza e nella
deliberazione e nell’esecuzione. Ma tra gli incarichi civili affidati al
vescovo sicuramente emergono per importanza ed estensione le mansioni legate
all'amministrazione della giustizia[24],
tanto che qualche autore ha potuto
asserire che nelle leggi giustinianee «tutta l'amministrazione della
giustizia è posta sotto il controllo dell'episcopato»[25].
Appare quindi riduttiva l'opinione che, pur riconoscendo al vescovo senso dello
Stato manifestantesi nell'adesione al dovere di rispettare la legge, fa di
quest' interesse la proiezione locale della giustizia imperiale[26].
In ogni modo, qualunque sia l’incidenza della sua attività, il
vescovo è chiamato insistentemente a collaborare a tale amministrazione,
per la cui applicazione non poche difficoltà incontravano gli stessi
governatori provinciali. Anzi, nell'esercizio di questa funzione all'episcopato
è riconosciuto dalla legislazione giustinianea un ruolo di primaria
importanza incidente sulla stessa posizione del praeses in veste di
giudice.
A prescindere dal
complesso delle norme che riguardano la episcopalis
audientia, cioè la giurisdizione tipica del presule, che forma
istituto a sé stante[27],
esistono provvedimenti che riconoscono al vescovo poteri di ingerenza e di
intervento in ambito giurisdizionale attribuendogli anche veste di giudice o di
membro di collegio giudicante. Quale sia la ratio
di questa partecipazione del vescovo in compiti giudiziari si desume dalla
presumibile rete di interessi di ogni genere che coinvolgevano
Quando in
particolare Giustiniano affida al vescovo funzione giudicante ciò avviene
anzitutto perché ne concepisce la rettitudine come certezza di
imparzialità e di equidistanza, ne percepisce le virtù cristiane
come fondamento del giudicare, ne apprezza il presumibile alto grado di
moralità e di onestà, ne esalta lo spirito di superiorità
rispetto all’uso di espedienti, ne loda l’incorruttibilità e
l’astensione dagli illeciti, e gli manifesta in ogni evenienza il suo
apprezzamento quale strumento di corretta e leale applicazione della legge.
Insomma gli tributa la stima di strumento indiscusso e fedele della propria
potestà politica.
Ma motivo non meno
determinante per il conferimento della funzione giudiziaria al vescovo sta nel
fatto che Giustiniano riconosce all’episcopato il possesso di quel
carisma intrinseco che può donare l’intelligenza della legge.
È, rovesciata, la medesima ragione per cui lo stesso Giustiniano nega
all’eterodosso la capacità di svolgere funzione giudicante,
perché l’eterodosso, non avendo costituzionalmente
possibilità di intendere la parola divina, non può neanche
comprendere la legge né quindi amministrare giustizia.
In dottrina si sono
interpretate le implicazioni del vescovo nell’amministrazione della
giustizia come manifestazione di privilegio ecclesiastico, e se ne è
talora individuata la ratio
nell’esigenza di controllo dei flussi migratori della popolazione dalla
provincia verso la capitale, ovvero si è considerato l’intervento
del vescovo nel campo giudiziario come l’unica soluzione per ottenere
correttezza[28].
In realtà il tutto è da considerare da ottica più ampia,
perché ciò coincide con l’impegno giustinianeo di riforma
del processo e, in particolare, con il tentativo di risolvere, per vie
alternative, i problemi dell’abbreviazione dei tempi della giustizia,
dell’accelerazione del processo contro l’inattività del
giudice, della negazione della giustizia stessa[29]
e specialmente dei supercarichi giudiziari della corte di giustizia imperiale[30].
In questo quadro numerose
sono le disposizioni che assegnano al vescovo ampi poteri di ingerenza
nell’operato del governatore provinciale riconoscendogli anche competenze
giurisdizionali nei confronti di questi. Così il vescovo interviene
assieme al preside per risolvere amicabili compositione o per
adnotationem in scriptis factam
ovvero per decidere cognitionaliter
le cause instaurate dai sudditi davanti al governatore su cui cadono sospetti
di mancata imparzialità (iudex suspectus) (Nov. 86.2); decide in merito alle richieste di risarcimento
avanzate dai provinciali contro il governatore uscente accusato di concussione
(Nov. 8.9 e 128.23); sollecita per
una rapida soluzione della lite il governatore che nega giustizia o prolunga
ingiustificatamente il processo, in disprezzo delle regole che impongono
l'accelerazione dello stesso, e, in caso di persistente diniego, lo deferisce
all'imperatore (Nov. 86.1)[31];
è giudice nei processi per lesioni arrecate dal praeses provinciae
a danno degli amministrati (Nov.
86.4). E sotto questo profilo certo è il poter desumere dalle fonti che
attribuzione specifica del vescovo è la persecuzione del giudice
"non giusto" (Nov. 86.4)[32],
il quale vende la giustizia per ragioni di profitto e l'amministra in spregio
al proprio giuramento di imparzialità (iuro me puram conscientiam et iustum servitium… servaturum).
Nell’esercizio delle sue funzioni giurisdizionali la
deontologia del vescovo-giudice, a prescindere dal versante della fede e della
morale, ove si presumono esistere
realmente differenze,
è in tutto paragonabile o addirittura uguale a quella del magistrato
civile. Anche se non è tenuto a prestare iuramentum probitatis, come gli altri giudici, dal vescovo in veste
giurisdizionale si pretende che sia, come qualsiasi altro magistrato,
«giudice giusto» (omnemque
aequitatem servare… atque omnem iustitiam), di non violare il diritto per favoritismi (in gratiam alicuius ius non contemnere)[33],
di osservare l’equità quale ordine operativo.
Anche se non entra in discussione a questo proposito
il problema del comportamento morale del vescovo, come accade per gli altri amministratori,
valori come l’honestas,
l’humanitas, la temperanza,
l’astensione dalla turpitudine costituiscono nelle fonti, specialmente
giustinianee, parametri di correttezza per una figura ottimale di
amministratore della giustizia.
Le condotte che violano le regole, e non soltanto
quelle morali, inammissibili in ogni settore della vita pubblica, sono tanto
più da sanzionare nell’amministrazione della giustizia, dove
maggiormente rileva l’operare secondo i principi dell’honestum e del probum. Perciò, ad esempio, come Teodosio I nel 386 non
tralascia di usare severità contro figure disoneste quale quella
dell’improbus iudex[34],
così Giustiniano nel 530 disapprova ogni improba causa[35]
e nel 531 condanna anche l’improbus
litigator[36].
È comunque
rilevante che nell’assegnare questo carico di mansioni la concezione
giustinianea, nonostante ogni presunzione di correttezza e di carisma
attribuita al personaggio, preveda anche la possibilità di negazione e
di scorretta amministrazione della giustizia da parte del vescovo e
perciò non eviti di sottoporlo a pena, qualora iudex iniustus:
Nov. 86.6: Si quem
vero ex sanctissimis episcopis invenerimus in gratiam alicuius ius contemnere,
canonicam ei castigationem inferri iubemus, ut studeant cum timore dei iuste iudicare,
ne homines propterea quod ius suum non consequantur urbes et provincias et loca
sua relinquere atque huc accurrere cogantur.
Al pari del giudice ordinario, il vescovo
risponde pertanto del suo operato[37].
Anche in questo settore la legislazione giustinianea si ispira ai principi cui
risponde il programma di risanamento e di ricondizionamento non soltanto della
giustizia, ma anche di tutta l’amministrazione dello Stato, programma che
si esprime simbolicamente mediante lo «slogan» delle «mani
pulite» (kaqaraˆ ce‹rej), con l’enfatizzazione cioè del dovere
dell’onesto esercizio delle funzioni giudiziarie[38].
Quanto alle forme secondo cui il vescovo
assolve ai compiti extraconfessionali affidatigli dalla legge, risulta evidente
dall’analisi della normazione imperiale come, oltre ai casi in cui le
mansioni affidategli impongono forme di controllo incrociato tra le due
gerarchie, egli eserciti le attribuzioni via via riconosciutegli, e in primo
luogo quella dell’attuazione delle norme imperiali, in maniera che si
può considerare parallela e, dal punto di vista giustinianeo,
concorsuale o complementare rispetto a quanto fa l’autorità
amministrativa.
Un primo indizio di
questo parallelismo è la frequenza della geminazione delle leggi,
dirette contemporaneamente, sia pure talora con modifiche formali più o
meno pronunciate, a ciascuna delle due gerarchie[39].
E se ciò si deve giudicare, come è stato affermato, «segno
della insistenza di Giustiniano su temi che gli apparivano fondamentali»,
vuol dire che il legislatore ritiene regola ineludibile di governo la
compresenza delle due gerarchie nella vita amministrativa dello Stato.
Il secondo indizio
consiste nella tendenziale identità del contenuto delle leges geminae[40].
Il legislatore non vuole creare disparità nei metodi di diffusione e
nelle competenze applicative delle disposizioni; né è da dire
che, quando invoca la partecipazione del vescovo, intende indirizzarsi alla
sola componente religiosa dei destinatari della legge, mentre, quando invoca l’attività
del governatore, intende rivolgersi solamente alla componente laica della
popolazione; anzi nell’un caso e nell’altro ovviamente delibera per
l’intera piattaforma della società. Egli integra la sfera
d’azione dell’autorità civile con la sfera d’azione di
quella religiosa, in modo da costituirsi un doppio percorso, e si procura due
strumenti di governo equivalenti per raggiungere più agevolmente il
successo dei suoi provvedimenti: da un lato mediante la forza della persuasione
politica, dall’altro mediante la sollecitazione delle coscienze.
Sicché la figura del vescovo, secondo l’ideologia di Giustiniano,
assume la posizione non solo dell’interlocutore diretto della
volontà imperiale, ma anche di cooperatore ideale del potere temporale: è
il vescovo-magistrato, in parte libero, in parte sottoposto agli ordini
dell’imperatore come strumento esecutivo dei suoi intendimenti. Il
personaggio del vescovo-amministratore, la figura del vescovo-giudice,
investito di poteri temporali oltre che spirituali, chiamato a risolvere i problemi
burocratici e a dirimere, accanto a quelle ecclesiastiche, le vertenze laiche,
prende per tal via, almeno nella legislazione giustinianea, il suo modo di
essere[41].
Quando il
vescovo è chiamato a partecipare alla nomina del governatore provinciale
e a riceverne il giuramento, prima di tutti quello di fedeltà e di
probità, l’ottica prescelta, bisogna dire, è quella di
prevalenza, non solo quanto a stima né solo quanto a tributo di formale
onorificenza, ma soprattutto quanto a effettiva posizione giuridica, del
vescovo rispetto all’autorità civile. La ratio della partecipazione episcopale alla scelta di alti
componenti dell’apparato burocratico consiste, come in altri casi, nella
ricerca da parte del legislatore di una garanzia di affidabilità,
pensando il governo centrale di riuscire a dotarsi di magistrati adeguati con
l’ausilio del potere religioso piuttosto che affidando la scelta ai
funzionari della propria amministrazione; e non altro praticamente significa
che l’istituzione di una sorta di controllo preventivo su questa carica,
esercitato dal rappresentante locale della gerarchia ecclesiastica attraverso
la sua influenza sulle operazioni di nomina, in definitiva una forma di
primazia dell’autorità religiosa su quella civile.
Quando poi il
vescovo è chiamato ad espletare in varie forme mansioni di controllo
successivo sul funzionario appartenente ai quadri della burocrazia statale,
l’aspetto rilevante della fisionomia del presule è antagonistica:
di sindacato e sorveglianza nei confronti dell’autorità civile[42].
Cosa che accade, fra l’altro, allorché il vescovo, assunto ruolo
di giudice in processi instaurati a carico del magistrato amministrativo
scorretto, acquista competenza a pronunziare sentenza sulla sua
attività.
Vi sono
altre manifestazioni, apparentemente meno significative, le quali esprimono
analoga superiorità e preminenza di giudizio. Ad esempio, il caso delle
mansioni carcerarie svolte dall’episcopato consente di allargare il
discorso. È bensì vero che generalmente le funzioni svolte dal vescovo
in tale ambito riguardano finalità assistenziali e che, pertanto,
considerato ciò quale requisito proprio del ministero ecclesiastico,
data l’attività caritativa che si presume competere a un
religioso, il coinvolgimento dell’episcopato in tale ambito è
compito strettamente a esso attinente. Ma è anche vero che
nell’esercizio di questi compiti la legge riconosce al vescovo ampi
poteri di correzione e indirizzo nei confronti dei funzionari imperiali[43].
Di tali poteri riconosciuti in favore del vescovo rispetto al governatore, e
della quasi superiorità dell’uomo di fede nei confronti del
funzionario statale, trasmette testimonianza CJ. 1.4.22. In tale costituzione
il potere ispettivo espletato dal vescovo mediante il giudizio sulla correttezza
dell’attività carceraria del governatore e dei suoi dipendenti fa
guadagnare al presule autorità sull’amministratore civile, che in
certo qual modo ne resta condizionato. E ciò conferma ancora una volta
il duplice volto, politico e religioso insieme, che l’intelligenza
imperiale intravede nella gerarchia ecclesiastica. Il principio della
preminenza episcopale, sebbene non strutturata burocraticamente in gerarchia
formale, diviene dato intrinseco dell’ideologia giustinianea.
Se poi si
volge lo sguardo alla considerazione rivolta dalle Epitomi bizantine alle
disposizioni novellari che precisano il ruolo e le attribuzioni del vescovo,
onde verificarne il grado di attenzione riservata alla definizione nuova
dell’immagine dell’episcopus che ne risulta, è
sufficiente una rapida ricognizione per constatare come di norma esse non solo
si preoccupino di confermare (riportandole più o meno stringatamente) le
norme che ne definiscono le funzioni, ma sembrino volere sottolineare il ruolo
di generale sorveglianza sull’amministrazione pubblica che rende il
vescovo responsabile della corretta gestione di questa di fronte
all’imperatore. Così l’Epitome di Atanasio, sintetizzando il
disposto del primo editto annesso a Nov.
VIII, significativamente precisa: oportet episcopis ad imperatorem referre
de magistratuum administratione, a riaffermare il ruolo di supervisione
riconosciuto ormai all’episcopato[44].
In conclusione, di
fronte alla concezione del vescovo come personaggio contemplativo, assorto
nella preghiera, dedito alle cure del sacro ministero, imperturbabile
nell’esercizio dei suoi doveri sacramentali, oggetto della riverenza
dell’Imperatore – è tale la raffigurazione che si deduce dal
complesso delle dichiarazioni contenute in leggi sia particolari che generali
–, la visione giustinianea rincorre una ben diversa figura di gerarca
religioso: quella del vescovo funzionario efficiente, l’ecclesiastico di
punta[45],
occupato per la sua stessa posizione gerarchica da problemi di natura civile e
politica, immerso nella quotidianità, «attivista» più
che mai. In altre parole subentra nell’ideologia di Giustiniano
un’«autorità» che, pur avendo connotati
fondamentalmente «spirituali», a contatto con i problemi della
società in cui vive prende volto d’uomo d’azione.
Com’è stato giustamente notato, nel personaggio del vescovo, in
ragione delle mansioni da lui esercitate, si compongono la figura del
funzionario cristiano e quella del funzionario laico; tanto che qualche autore
ha potuto ipotizzare la formazione, da parte della gerarchia episcopale, di un «corpo organizzato della ecclesia postosi di fianco al corpo
burocraticamente organizzato dell’impero» e la costituzione di «una nuova forma di guida
politica»[46].
[1] Così R. Bonini, Studi sull’età giustinianea,
2ª ed., Rimini 1990, 32; 78; 108, il quale sottolinea come la norma fosse
rivolta a evitare imposizioni troppo nette da parte del potere centrale e
avesse la finalità di «coinvolgere il più possibile gli
italici nell’amministrazione del loro territorio» in un disegno
complessivo di unificazione e concordia «fra l’impero e le forze
più vive rimaste in Italia, fra le quali emergevano
[2] In proposito si veda S. Puliatti, Antiquitatis reverentia e
funzionalità degli istituti nelle riforme costituzionali di Giustiniano,
in «Cinquanta anni della Corte Costituzionale della Repubblica
italiana». Tradizione romanistica e costituzione, diretto da
L. Labruna, II, Napoli 2006, 1377-1401.
[3] I criteri di rinnovo delle cariche
dell’amministrazione statale e le tendenze «classiciste»
nello studio di S. Puliatti, Ricerche sulla legislazione
«regionale» di Giustiniano. Lo statuto civile e l’ordinamento
militare della prefettura africana, Milano
1980, 7-16. Sul classicismo pubblicistico di Giustiniano cfr. peraltro R. Bonini, L’ultima legislazione pubblicistica di Giustiniano (543-565),
nel vol. Il mondo del diritto
nell’epoca giustinianea. Caratteri e problematiche, a cura di G.G.
Archi, Ravenna 1985, 139-71(= Idem, Studi sull’età giustinianea, Rimini, 1987, 57-92; Id., Giustiniano e il problema italico, sempre nel vol. Studi sull’età giustinianea,
93-110), seguito da P. Garbarino,
Contributo allo studio del Senato in
età giustinianea, Napoli 1992, 29 nt. 31.
[4] I problemi di datazione e
l’individuazione delle motivazioni che avrebbero ispirato il progetto di
riordino imperiale sono approfonditi in S. Puliatti,
Ricerche sulla legislazione
«regionale» di Giustiniano. Lo statuto civile e l’ordinamento
militare della prefettura africana, cit., 7-16.
[5] CJ.1.55.8 pr. L’esigenza di tutela
delle autonomie locali, minacciate dalla perdita di prestigio delle curie
cittadine e dei suoi esponenti più di spicco oltre che
dall’ingerenza sempre più oppressiva e vessatoria degli esponenti
del governo imperiale, che aveva ispirato la disposizione onoriana si traduce
in analogo provvedimento nella parte orientale dell’impero soltanto quasi
un secolo più tardi ad opera di Anastasio, con CJ.1.55.11(=1.4.19) del
505, proprio in conseguenza della maggiore vitalità ivi conservata dalle
istituzioni cittadine. Cfr. in argomento A.H.M. Jones, Il Tardo Impero Romano (284-602 d.C.), II,
Milano 1974, 973, 1009 e nt. 104
[6] Nov.
15 ep., la quale dispone che la carica di defensor sia ricoperta a turno
per un periodo di due anni dai residenti agiati di buona fama, dietro
prestazione del giuramento prescritto, allo scopo di ovviare alla
dequalificazione delle magistrature cittadine non più ricoperte da
uomini onorati e influenti, ma affidate, spesso dietro designazione del
governatore, a uomini di mezzi modesti e di scarsa autorevolezza.
[7] Sulla figura del defensor civitatis,
sulla sua istituzione e sulle motivazioni che l’avrebbero ispirata
attente considerazioni sono state di recente proposte da R.M. Frakes, Contra potentium iniurias. The
defensor civitatis and late roman Justice, München
2001; Id., The Syro-roman Law
Book and the defensor civitatis, in Byzantion 68, 1998, 347-355 e F.
Pergami, Sulla istituzione del
defensor civitatis, in SDHI 61,
1995, 413-431.
[8] Circa l’equivalenza tra pater
e curator civitatis cfr. CJ.1.4.26; 8.12.1; 10.27.2; 10.30.4; 12.63.2, e
per le funzioni ad essi affidate, con particolare riferimento alla
amministrazione delle finanze cittadine: Novv.
160 e 85; CJ.1.4.25; 1.4.26; 1.5.12; 3.2.4; 3.43.1; 8.51.3. Quanto poi
all’origine e all’evoluzione delle figure del curator e del frumentarius
cfr. rispettivamente R. Ganghoffer,
L’évolution des institutions municipales en Occident et en
Orient au Bas-Empire, Paris 1963, 155-162 e M. Clauss, Frumentarius Augusti, in Epigraphica
42, 1980, 131-34.
[11] Si sofferma sul contenuto del documento R.
Bonini, Studi
sull’età giustinianea, cit., 46, il quale sottolinea come
«l’editto lascia comunque intravedere, accanto alle vere e proprie
funzioni civili dei vescovi (aspetto già noto dell’ordinamento
postclassico e giustinianeo) anche il loro potere politico nelle civitates
(e quindi gli stretti rapporti fra stato e chiesa): ciò in quanto si
accenna alla segnalazione non solo dei delitti, ma anche del buon operato dei
governatori».
[13]
[15] È una decisione eccezionale
rispetto alla disciplina giustinianea, che, a prescindere dai risvolti morali e
religiosi, attribuisce al giuramento efficacia di strumento giuridico.
Sull’istituto cfr. Studi sul
giuramento nel mondo antico, a cura di A. Calore, Milano 1988; S. Puliatti, «Officium iudicis» e certezza del diritto in età
giustinianea, in Legislazione,
cultura giuridica, prassi dell’Impero d’Oriente in età
giustinianea tra passato e futuro, Milano 2000, 43-152, part. 61-85, con
ulteriore bibliografia.
[16] Per l’esercizio di funzioni
giurisdizionali nei confronti del governatore uscente, sottrattosi al rispetto
dell’obbligo di permanenza in provincia per i cinquanta giorni successivi
alla scadenza del mandato e resosi responsabile di malversazioni a danno dei
provinciali, attestazione in Nov.
8.9. Cfr. in argomento S. Puliatti, Le
funzioni civili del vescovo in età giustinianea, in Athenaeum
92, 1, 2004, 139-168.
[17] Così lascia intendere Nov. 51.1.1: Quodsi ipse provinciae
praeses iusiurandum exegerit, ab ipso etiam decem librarum auri poena quam
diximus exigatur quae siquidem militaris magistratus in illa provincia sit, per
illum mulieri detur sicut dictum est; si vero nullum habeat militarem
magistratum, episcopus metropolis illius provinciae huic rei prospiciat ad nos
quoque eam, si ita iudicavit, referens, ac praeterea qui inter vicinos erit
magistratus maior… In proposito ampia disamina della legislazione
giustinianea in S. Puliatti, Quae
ludibrio corporis sui quaestum faciunt. Condizione femminile, prostituzione
e lenocinio nelle fonti giuridiche dal periodo classico all’età
giustinianea, in Da Costantino a Teodosio il Grande. Cultura,
società, diritto, Atti del Convegno Internazionale, Napoli 26-28
aprile
[18] Sostiene trattarsi di un giuramento di
fedeltà e insieme di probità R. Bonini,
Ricerche sulla legislazione giustinianea dell’anno535. Nov.
Iustiniani 8: venalità delle cariche e riforme
dell’amministrazione periferica, 3ª ed., Bologna 1989, 81, il
quale, affermatane la natura di iusiurandum per deum, argomenta
dall’espressione iuro autem idem iusiurandum per concludere che
«i due giuramenti finiscono col saldarsi». Conferma della
competenza in proposito del vescovo (unitamente a quella del prefetto del
pretorio e dei curiali) forniscono altresì le adiectiones annesse
all’exemplar inviato a Dominico, prefetto del pretorio
dell’Illirico, di cui si conserva memoria nella versione dell’Authenticum.
Più in generale sul tema del giuramento cfr. anche A. Calore, ‹‹Iuro per deum
omnipotentem…››: il
giuramento dei funzionari imperiali all’epoca di Giustiniano, in Studi sul giuramento nel mondo antico,
Milano 1998, 107-126.
[20] Cfr. in proposito anche Nov. 128.17 sopra richiamata. Rientra in
questo ambito anche l’azione svolta dal vescovo per assicurare
un’equa ripartizione dei tributi sancita proprio da Nov. 128. La norma gli affida infatti la mansione, da svolgere in
concorso con il governatore provinciale, di fare esporre e pubblicizzare le
liste delle imposte che ciascun contribuente è tenuto a versare alle
casse dello Stato in base ai ruoli per cui risulta tassato o secondo il valore
delle sue proprietà. La fonte, attraverso l'attribuzione al vescovo di
una funzione di controllo in materia di pubblicizzazione dei ruoli, lascia
trasparire non solo la volontà del legislatore di raggiungere l'eliminazione
delle malversazioni a danno delle popolazioni e di assicurare ai sudditi la
giustizia fiscale, ma mostra in sottofondo l'intento dell'imperatore di
riconoscere al vescovo, anche in contrasto con il governatore, una posizione di
controllo sull'equa ripartizione dei tributi (Nov. 128.4).
[21] Cracco Ruggini, Pretre
et fonctionnaire. L’essort d’un modèle épiscopal au
IVe-Ve siècles,
in Antiquité
tardive 7, 1999, 175-186, 183.
[22] Per l’attività di patrono
cfr. Dovere, “Auctoritas”
episcopale e pubbliche funzioni (secc. IV-VI), in Studi
economico-giuridici 57, 1997-98, 2000, 523; per quella di governatore A. Di Bernardino, I Cristiani e la
città antica nell’evoluzione religiosa del IV secolo, in Cristianesimo
e istituzioni politiche, a cura di E. dal Covolo e R. Uglione, Roma 1997,
45-79, part.56-57.
[23] Nell’ambito delle mansioni a
carattere locale le incombenze di minor rilievo, comunque non prive di
corresponsabilità, comprendono, a salvaguardia di una corretta
amministrazione delle città, l’obbligo imposto al vescovo di
impedire l’occupazione abusiva (sine
causa) e la locazione non autorizzata (absque
sacra forma nostra elocatio) di suolo pubblico: CJ. 1.4.26.9: Religiosissimus autem episcopus et pater
ceterique bonae opinionis possessores providere debent, ut quem locum publicum
sive civitatis iuxta muros vel in publicis porticibus vel in plateis vel
ubicumque situm a quoquam sine causa teneri sinant neve locus publicus absque
sacra forma nostra cuiquam elocetur. E anche in questo caso il
conferimento dell’incarico prevede un sistema di collegialità di
decisioni, per cui sono chiamati ad espletare questa attività, assieme
al vescovo, il pater civitatis e i
possessori di buona reputazione.
[24] G. Barone
Adesi, Monachesimo ortodosso d’Oriente e diritto romano nel
Tardo Antico, Milano 1999, 252-260.
[27] In argomento cfr. G. Vismara, Episcopalis
audientia. L’attività giurisdizionale del vescovo per la
risoluzione delle controversie private tra laici nel diritto romano e nella
storia del diritto italiano fino al secolo nono, Milano 1937; G. Lepelley, Liberté, colonat et esclavage d’après la lettre
24: la jurisdiction épiscopale
«de liberali causa», in Lettres
de Saint Augustin, découvertes par Johannes Diviak, Paris 1983, 332
e nt.15; F. J. Cuena Boy, La «episcopalis audientia»,
Valladolid 1985; A. Biscardi, C.Th. 2.1.10 nel quadro della normativa
giurisdizionale d’ispirazione religiosa, in Atti dell’Accademia romanistica costantiniana, 6, 1986, 218
ss.; G. Vismara, Ancora sulla «episcopalis
audientia» (Ambrogio arbitro o giudice ?), in SDHI 53, 1987, 53-73; M.R.
Cimma, L’«episcopalis
audientia» nelle costituzioni imperiali da Costantino a Giustiniano,
Torino 1989; F. J. Cuena Boy, De nuevo sobre la «episcopalis
audientia» (a proposito del libro reciente de la profesora Cimma), in
RFDUC 16, 1992, 49 s.; P.G. Caron, La competenza dell’«episcopalis audientia» nella
legislazione degli imperatori romani cristiani, in Il diritto romano quale diritto proprio delle comunità cristiane
dell’Oriente mediterraneo, Città del Vaticano 1994, 267-76; M.R. Cimma, A proposito delle «constitutiones Sirmondinae», in Atti dell’Accademia romanistica
costantiniana, 10, 1995, 385 ss.; G.
Vismara, La giurisdizione civile
dei vescovi (secoli I-IX), Milano 1995 (rec. F. J. Cuena Boy, in Iura 46, 1995, 170-79); P.G. Caron, I tribunali della Chiesa nel diritto del Tardo Impero, in Atti dell’Accademia romanistica
costantiniana, 11, 1996, 257 ss.; I.
Cremades, Derecho romano,
communidad cristiana y «episcopalis audientia», in SCDR 8, 1996, 124 ss.
[28] Così ritiene Barone Adesi, Implicazioni della symphonia Ecclesia-Imperium nell’amministrazione
della giustizia, s.l. e a., 1. Del vescovo tanto come detentore di potere
giurisdizionale quanto come giudice «non giusto», soggetto ad
accusa e a pena, si occupa F. De Marini
Avonzo, I vescovi nelle
‘Variae’ di Cassiodoro, in Atti
dell’Accademia romanistica costantiniana, 8, 1990, 249-260.
[29] Per l’impulso da dare al processo e
per l’inattività del giudice, motivata da ragioni varie, fra cui
la concussione, cfr. Puliatti, «Officium iudicis» e certezza
del diritto in età giustinianea, cit., 110-112.
[30] A questo scopo rispondono e la
disincentivazione dei flussi migratori verso la capitale sia ad opera del quaesitor (Nov. 80), sia ad opera del vescovo, e il divieto impartito
all’autorità episcopale di recarsi a Costantinopoli senza lettere
di autorizzazione (formatae) per
risolvere problemi di giustizia. Sulle formatae o sacrae formae
cfr. Nov. 86.8 e, per quanto riguarda
il clero africano, IGR. 4 di Giustino
II del 566, su cui S. Puliatti, I privilegi della Chiesa africana nella
legislazione di Giustiniano e di Giustino II, in Estudios en homenaje al prof. Juan Iglesias, Madrid 1988,
1596-1597. Più in generale sulle funzioni del quaesitor ampia
trattazione in E. Franciosi, Riforme istituzionali e funzioni giurisdizionali nelle Novelle di Giustiniano.
Studi su Nov. 13 e Nov. 80, Milano 1998, part. 103-34.
[31] Il vescovo, in particolare, esercita un
potere di sollecitazione contro l’inattività
dell’amministratore-giudice – che, nello specifico, è il clarissimus provinciae praeses –
in caso di negligenza o di omissione di doveri d’ufficio o di ritardo
ingiustificato nell’amministrazione della giustizia o addirittura di
rifiuto della giustizia stessa. La norma relativa, risalente al 539, prevede
infatti che sia anzitutto adito il giudice ordinario, e che solo quando ci si
trovi di fronte alla inattività, per lo più artificiosa, o al
rifiuto della giustizia da parte sua ([subiectus]
ius non consecutus est) subentri l’intervento del vescovo, che, una
volta adito dalla parte lesa, esercita potere o di sollecitazione (compellere)
nei confronti dell'amministratore-giudice ordinario perché dia corso
alla causa instaurata presso di lui, inviandogli la parte o convocandolo presso
di sé per indurlo alla definizione della lite; o infine, qualora
l'amministratore pubblico non receda, di denuncia per iscritto all'imperatore: Nov. 86.1: (Tunc praecipimus ut ad sanctissimum illius loci episcopum accedat,
atque is ad clarissimum provinciae praesidem mittat, vel etiam ipse eum
conveniat, atque efficiat ut omnibus modis actorem audiat eumque cum iure
secundum leges nostras dimittat, ne
ille ex patria sua peregre abire cogatur. Si vero etiam sanctissimo episcopo praesidem compellente, ut iuste
negotia interpellantium dirimat, praeses differat, vel causam quidem diiudicet,
litigantibus vero ius non servet, permittimus illius civitatis episcopo
litteris ad nos dare ei qui ius suum non consecutus est, quae declarent
compulsum a se praesidem supersedisse actorem audire et litem inter eum et qui ab eo postulatus sit dirimere; ut
his cognitis nos poenas inferamus provinciae praesidi, quod et interpellatus ab
eo qui iniuria affectus est
et compulsus a
sanctissimo episcopo litem non diremerit) In tema cfr. Puliatti, «Officium iudicis» e certezza del diritto in età
giustinianea, cit., 112-113.
[32] Si
quis vero ex subiectis nostris forte ab ipso clarissimo provinciae preside
iniuria affectus sit, praecipimus ut adeat sanctissimum illius civitatis
episcopum, isque inter clarissimum praesidem et eum qui se ab illo iniuria affectum
putat diiudicet. Et si
contingat ut preses legitime et iuste a sanctissimo episcopo condemnetur, ille
omnibus modis satisfaciat ei qui litem adversus eum egit. Si vero praeses id
facere recusaverit atque eadem lis ad nos deferatur, si quidem reperiamus eum
iuste et secundum leges a sanctissimo episcopo condemnatum iudicata non
fecisse, ultimis suppliciis eum subici iubebimus, quod qui vendicare iniuriam
passos debeat ipse iniuriam facere convincatur.
[36] CJ. 2.58.2.6 e Inst. 4.16.1. I comportamenti secondo morale e correttezza nella
legislazione tardoimperiale trovano favore. Non sono invece da tollerare e, se
perpetrati, sottostanno a pena i comportamenti aberranti. Una delle
disposizioni giustinianee in tema di deontologia professionale dei patroni causarum chiarisce bene questa
visuale. Non soltanto gli avvocati, ma tutti gli operatori di giustizia debbono
con tutte le loro forze e con tutte le loro capacità tecniche (omni quidem virtute sua omnique ope) sostenere le ragioni
che essi reputino fondate sul giusto e sul vero. Sono tali i concetti da cui
trae origine la serie delle disposizioni postclassiche dirette ad orientare la
condotta dei singoli, burocrati o giudici che siano. Nel 535, per esempio,
Giustiniano impone ai funzionari dello Stato, prima di entrare in carica,
l’impegno di agire sine dolo et
fraude. Nel campo delle relazioni fra magistrato e parti in causa la
deontologia del giudice esclude l’abuso d’autorità, la
prevaricazione in forza della carica ricoperta. Sono tante, al punto da non
richiedere puntualizzazione testuale, le raccomandazioni di Giustiniano a che
amministratori e giudici nell’esercizio delle loro funzioni evitino di
commettere illegalità (subditos
iniuria afficere), ma usino insieme rigore secondo giustizia e moderazione
secondo benevolenza.
[37] La pena non è soltanto la minaccia di sanzione
«trascendentale» (magni dei
metus, dominum deum infensum habebit, deo rationem reddituros), né
soltanto la canonica castigatio (Nov. 86.6); ma, almeno per alcune
condotte, anche la coercitio
temporale, sia pure frequentemente
irrogata sotto la forma astratta della imperialis
indignatio (CJ. 1.4.26.5). La particolarità delle norme impartite
con alcuni provvedimenti consiste nella minaccia di applicazione al vescovo di
sanzioni “laiche”, che tuttavia restano imprecisate, e quindi nella
testimonianza circa il principio, altre volte asserito in forma generica, della
soggiacenza dell’episcopato alla comune repressione (CJ. 1.4.26.8). Cosa
che del resto si desume anche dalla penalizzazione di altre inadempienze, come
la mancata denunzia delle violazioni commesse dai funzionari o
dell’eccessiva riscossione di sportulae
da parte degli stessi o dell’irregolare amministrazione della giustizia:
cfr. in proposito CJ. 1.4.26.6; Nov. 128.16; Nov. 86.9 ricordata supra.
Di diverso parere Biondi, Il diritto romano cristiano, I, cit.,
434, 436, il quale sostiene che la pena inflitta al vescovo è di natura
ecclesiastico-canonica, perché non è supponibile una pena
irrogata dallo Stato, e il vescovo negligente è punito secondo pene
canoniche applicate dalla stessa autorità ecclesiastica perché
è necessario iudicare iuste et cum
timore Dei.
[38] Sul tema delle «mani pulite»
quale motivo di integrità amministrativa cfr. Franciosi, Riforme
istituzionali e funzioni giurisdizionali nelle Novelle di Giustiniano. Studi su
Nov. 13 e Nov. 80, cit., 87-89; S.
Puliatti, «Officium
iudicis» e certezza del diritto in età giustinianea, cit.,
53-58, 75-76.
[39] Sul fenomeno della geminazione delle leggi
cfr. G. Rotondi, Note sulla tecnica dei compilatori del
Codice giustinianeo. La struttura e l’origine del tit. 1.4, in Scritti giuridici, Milano 1922, I, 71
ss.; Biondi, Il diritto romano cristiano, I, cit., 439.
[40] Sulle varianti introdotte in alcuni testi
di leggi geminate si soffermano P.
Pescani, Novelle di Giustiniano, in NNDI 11, Torino 1965, 438-445; G. Lanata,
Legislazione e natura nelle novelle giustinianee, Napoli 1984, 107-161 e
S. Puliatti, Le costituzioni
tardo-antiche: diffusione e autenticazione, in Atti della Società
italiana di storia del diritto. Convegno internazionale, Roma 16-18
dicembre
[42] Del
resto poteri di controllo dell’autorità religiosa su quella civile
ammette G. Martínez, Función de inspección y
vigilancia del episcopado sobre las autoridades seculares en el periodo
visigoto-católico, in Rev.
esp. de der. can. 15, 1960, 579 ss.
[43] CJ.
1.4.22.2 (=9.4.6.9): data licentia religiosissimis pro tempore episcopis, si
quid praetermitti videant ab illustribus spectabilibus clarissimis pro tempore
magistratibus vel ab officiis quae iis parent, hoc denuntiandi, ut congruens
motus in contemptores dirigatur.
[45] La rappresentanza di «punta»
è rilevata anche da E. Dovere,
«Auctoritas» episcopale e
pubbliche funzioni (Secc. IV-VI), in Studi
economico-giuridici 57, 1997-98, 2000, 517-32, part. 518
[46] Così Dovere, «Auctoritas»
episcopale e pubbliche funzioni (Secc. IV-VI), cit., 519, 522.