N. 6 – 2007 –
Memorie//Scienza-giuridica
Università
di Genova
I BIZANTINI E LA SACRA GENERALITAS
Rileggere
le Novelle di Giustiniano è sempre un piacere, perché ormai ci
sembra di conoscerle bene. I testi sono, nel complesso, affidabili; le
posizioni dell’imperatore e del suo ministro Triboniano sono state
minuziosamente accertate da studi autorevoli e condivisi, che hanno contribuito
a farci comprendere anche qualche strano aspetto della compilazione. Ora
l’arrivo degli strumenti informatici che stiamo celebrando con questo
Convegno ci consentirà di studiare meglio anche le epitomi bizantine e
così di affrontare temi nuovi, relativi alla lunga tradizione che va
dalle ultime leggi antiche ai codici moderni: e chiedo subito scusa per la mia
debolezza, se parlerò continuando a pensare all’Occidente anche
con il tramite orientale.
Mi
è stato affidato il compito di illustrare lo scopo e le prime
conclusioni della ricerca tuttora in corso a Genova, dove il gruppo guidato da
Mariagrazia Bianchini ha studiato la casistica giudiziaria delle Novelle in
vista di un ideale Corpus Iudiciorum. Ritengo di poter dare per noti i
precedenti del nostro lavoro[1].
In quest’ultima occasione ci si è proposti di esaminare la
sopravvivenza della citazione di casi concreti nella legislazione bizantina
costituita dalle Novelle e dalle loro Epitomi, che a prima vista è tutta
generale. Si dice abitualmente che mentre nell’età classica la
casistica giudiziaria forniva fondamento e contenuti al diritto privato,
nell’età tardoantica essa si riduce a semplice occasione della
legge generale, ovvero a semplice strumento d’appoggio per un legislatore
intento a fornire ai pratici, in maniera sistematica, l’interpretazione e
l’aggiornamento del diritto positivo.
Ma,
per dirla con Gogol, «non c’è niente di peggio di una
verità non vera». Le nostre certezze, per non essere
banalità o luoghi comuni, devono essere controllate almeno su due punti:
I) siamo sicuri di conoscere il vero significato della generalitas della
legge tardoantica? II) Siamo sicuri che la generalizzazione di tutte quante le
normative confermi l’esistenza di una tendenza legale di tipo sistematico
analoga a quella moderna? Lo studio degli usi del caso concreto nella
legislazione novellare sembrava utile a fare chiarezza sui problemi indicati. E
posso aggiungere che ora, a ricerca almeno parzialmente conclusa, ho trovato un
utile riscontro in una discussione d’attualità: alcuni giuristi
molto attenti alle tendenze ed agli sviluppi delle teorie intorno alla
formazione ed all’interpretazione delle leggi si stanno interrogando su
temi analoghi. Ciò mi sembra confermare che le ipotesi di partenza del
nostro lavoro erano buone: se non altro nel senso (direi ben accreditato
nonostante tutte le polemiche sul modo in cui si debbano intendere oggi le
vecchie convinzioni sulla ‘contemporaneità’ del mestiere
dello storico) che vede la bontà di un programma di ricerca nella sua
capacità di indagare problemi ancor oggi rilevanti.
Da
tempo il giudice Zagrebelski ha messo l’accento sulla rilevanza del caso pratico
nella legislazione ed ha portato anche sulla stampa quotidiana
un’opinione appassionata, con cui continua a ribadire l’importanza
prioritaria della singola fattispecie sulla norma astratta. All’opposto,
non mancano i sostenitori dei vecchi modelli di tipo illuministico e
positivistico; pur essendo ormai ben superata la vecchia idea del
‘giudice bocca della legge’, c’è chi diffida di quella
che chiama ‘tirannia’ del caso concreto e suggerisce di non
allontanarsi troppo dalle buone tradizioni occidentali[2].
Accenno solo con queste parole minime ad un problema molto superiore alle mie
competenze. Non sono sicura di capire bene tutti gli aspetti della discussione
odierna, ma il pensiero di Zagrebelski è suggestivo e riporta alla
memoria altre riflessioni simili già sentite in gioventù: per
esempio da Salvatore Satta, che in proposito amava citare Bartolo da
Sassoferrato. Andando sempre più indietro ritrovo anche un brano della
Politica di Aristotele, da dove traduco un po’ liberamente qualche frase:
«è difficile fare una legge generale adatta a chiarire tutti i
casi…..dicono che un limite alla sovranità della legge è la
sua attitudine ad enunciare solo principii generali ma non a dare guida precisa
per affrontare le situazioni che sorgono…..nelle materie dove è
impossibile che la legge decida, i cittadini riuniti devono decidere, ma i loro
giudizi sono solo su casi particolari…..i governanti sono i custodi delle
leggi e i servitori delle leggi…..i magistrati hanno il potere di
giudicare in certi casi sui quali la legge non può dare una enunciazione
precisa…..»[3].
Dunque, l’ordine politico si identifica con la legge generale, ma il caso
pratico consente al legislatore di risalire dal particolare e dal concreto ad
una visione più ampia degli interessi dell’intera popolazione. Una
descrizione tanto equilibrata del problema mi sembra confermare, come dicevo,
l’interesse delle nostre ipotesi di partenza: è vero che ci stiamo
occupando di una questione giuridica di portata universale e dunque, anche questa
volta, l’attualità può utilmente passare sul ponte della
storia per cercare di capire la realtà antica insieme alla realtà
moderna.
Torniamo alle Novelle.
Posso presentarvi, consegnandolo al presidente prof. Gallo, il primo risultato
concreto della ricerca: un elenco ragionato di tutti i casi specifici ricordati
nelle leggi. Si tratta di 73 citazioni, qui riprodotte in ordine cronologico e
annotate con data, destinatario, tipo di legge, tipo di sollecitazione,
eventuale recupero nelle raccolte epitomate[4].
Sappiamo che nel proemio alle nostre costituzioni si può trovare ogni
sorta di motivazione per i nuovi interventi normativi, e quindi è
inutile cercare dichiarazioni o teorie univoche (di tipo aristotelico) a
proposito della tensione tra generalità e/o specificità della
legge; tuttavia il tema è ben presente, e fin dal principio. Così
in Nov. 1 pr. (1° gen. 535) l’imperatore dichiara il suo fastidio per
i troppi postulanti che inoltrano a corte le loro richieste di pareri legali;
in Nov. 2 pr. (16 marzo 535) ammette che tali richieste sono tuttavia
indispensabili; in Nov. 3 pr. (15 apr. 535) esprime chiaramente la sua
preferenza per la legge generale, e così via di seguito sino alla fine,
senza alcuna preoccupazione di apparire incoerente. I ricercatori genovesi qui
presenti leggeranno tra poco i loro contributi ad una migliore conoscenza della
legislazione bizantina, ottenuta appunto attraverso lo studio di qualcuna tra
le Novelle emanate in seguito a suppliche o controversie di vario tipo, dalle
quali erano emerse situazioni singolari meritevoli di una regolamentazione
nuova e pertinente[5].
Io
incomincio dalla fine, con un’osservazione suggerita dall’analisi
dei testi a mio avviso più sorprendenti, tra i quali troviamo anche
formule antiche come, ad esempio, rescritti che costituiscono precedente e
diventano leggi generali. Infatti i rescritti, pur già tanto
squalificati fin dai tempi di Costantino, resistono nella legislazione
novellare, per quanto in maniera fortunosa e con qualche carattere atipico[6].
Ne citerò tre, degli anni 533, 544 e 555: queste date mostrano che
l’uso di tale strumento normativo di favore resta una costante per
Giustiniano anche nell’alternarsi dei diversi questori che scrivono i
testi[7].
Nella
Nov. 155, del 1° febr. 533, qualificata come pragmatica e diretta a
Belisario strategós, l’imperatore risponde alla supplica di Marta
contro la madre Aussenzia, ambedue clarissimae, figlia e vedova di
Sergio magnificae memoriae, residenti
in Antiochia. Dopo aver giurato di non risposarsi, la madre aveva assunto l’amministrazione
dei beni della figlia, redigendone un inventario molto ridotto. Poi,
risposatasi contro il giuramento, le aveva designato come tutore un certo
Pietro il quale, giunta Marta al tredicesimo anno, aveva rinunciato
all’incarico persuadendola a chiedere un curatore ed a firmare una totale
rinuncia ai rendiconti dovuti per la tutela. Per l’ignoranza
dell’età, Marta aveva aderito alle proposte: però crescendo
si era accorta del raggiro e aveva cercato di convincere la madre a rispettare
le leggi e a restituirle i beni paterni, ma inutilmente. Si deve pensare che fossero
intervenuti degli avvocati, perché nel resoconto di Marta, come lo
leggiamo nella Novella, appaiono ora elementi più tecnici. Infatti
Aussenzia avrebbe replicato sostenendo che un’altra legge vietava ai
figli (e ai liberti) di disonorare i genitori (o i patroni) presentando
richieste di restitutio in integrum. La legge è identificabile:
essa era recente, del 531, e sarebbe poi stata codificata nella seconda
edizione del Codice come CI. 2.41.2; il testo attuale sembra
corrispondere all’originale almeno su uno dei punti in questione, in
quanto non include le donne tutrici tra le persone contro cui si vieta di
chiedere la restitutio[8].
L’avvocato di Marta reagisce proprio con questo argomento e chiede
all’imperatore un’interpretazione chiara oltre ogni dubbio.
Giustiniano decide che Aussenzia non ha capito la legge citata, già di
per sé chiarissima; ne ricorda un’altra di poco successiva intorno
agli obblighi dei tutori e incarica quindi Belisario insieme al patriarca di
Teopoli/Antiochia di procedere alla restitutio dopo aver verificato che
Marta non avesse ancora superato l’età.
Il
caso è solo apparentemente complicato: la normativa intorno al punto di
diritto controverso non sembra presentare difficoltà tali da non poter
essere risolte da qualunque giudice ordinario e da richiedere
l’intervento imperiale. Questo si giustifica invece con il rango dei
personaggi coinvolti, che non avranno trovato ostacoli per far pervenire a
corte la loro supplicatio. Lo stesso motivo spiega anche la scelta dei
giudici: per quanto ho potuto vedere, questo è l’unico caso in cui
una questione così semplice come il controllo sulla veritas precum, per di più relativo
ad una questione tipicamente civilistica, è stato affidato ad un
generale insieme ad un patriarca cittadino[9].
Si noti che la prammatica, pur non contenendo alcuna novità né
alcuna clausola generalizzante, è stata conservata nelle epitomi
bizantine e nei Basilici.
Altrettanto
interessante è la Nov. 158, del 14 lu. 544 e senza inscriptio[10],
relativa al caso di Tecla Mano. Essa era zia paterna di Sergia, figlia morta
impubere di un’altra Tecla, che aveva anche uno zio materno Cosma il
quale pretendeva di aver diritto a concorrere all’eredità. Tecla
Mano ha consultato Giovanni, giurista della sua provincia, che in un responso
scritto ha escluso la validità della pretesa di Cosma; però poi,
scelto come giudice dalla stessa Tecla, ha cambiato parere: non solo ha
affermato essere Cosma coerede legittimo, ma dopo aver dato la sentenza, si
è adoperato insieme all’avvocato di Cosma affinché i
litiganti concludessero una transazione. A questo punto Tecla Mano si rivolge
all’imperatore che, senza sconfessare una propria legge inserita nel
Codice ma coordinandola con altre, con il presente rescritto ordina al
giudice/destinatario di dare esecuzione ai diritti di Tecla. E in effetti molti
tra gli atti della parte avversa sembrano palesemente scorretti: così in
particolare il giurista Giovanni doveva conoscere il divieto di cumulare le
funzioni di avvocato e di arbitro, e doveva sapere che nessun arbitro o giudice
può favorire patti tra le parti sulla base della sua stessa sentenza[11].
Tuttavia
non troviamo nella Novella alcun rilievo critico sulle questioni indicate. Il
testo affronta solo il punto di diritto controverso tra le parti, e relativo al
problema del ius deliberandi dell’impubere nei confronti
dell’eredità materna: Sergia aveva o no potuto esercitarlo,
trasmettendo così validamente il suo diritto all’erede del padre?
La supplica, ampiamente riportata nella prefazione della Novella,
permetteva di cogliere un’insolubile contraddizione tra due leggi
inserite nel Codice, rispettivamente di Teodosio II e dello stesso Giustiniano;
questi però afferma che il contrasto era solo apparente e procede a
coordinare le due disposizioni con un’interpretazione abbastanza ardita,
consistente in realtà nell’integrare la costituzione di Teodosio
II con un elemento nuovo, che limitava la sua efficacia ai casi in cui fosse
già trascorso il termine di un anno per l’esercizio del ius
deliberandi. E’ già stato osservato che la pronuncia sul
caso, favorevole a Tecla Mano, è formulata separatamente dalla nuova
regola, che appare dunque del tutto autonoma rispetto alla controversia[12].
Essa infatti è tralasciata in tutte le raccolte bizantine, che
conservano soltanto la norma con valore generale: nella tradizione esso diventa
la sedes materiae per la regolamentazione complessiva
dell’istituto.
Nella
Nov. 159, del 1° giu. 555 e indirizzata al prefetto del pretorio Pietro,
troviamo un elemento della normazione giustinianea su base casistica che
risulta più facilmente comprensibile in una prospettiva odierna: la
generalizzazione della legge personale si giustifica per l’inserimento
nel diritto positivo di una regola nuova sulla quale è fondata la
decisione specifica, anche questa volta richiesta da un personaggio di rango.
L’illustre Alessandro rivolge nuovamente le sue preces all’imperatore,
cui già aveva chiesto aiuto in merito a controversie nate dal testamento
e dai codicilli del padre Ierio. Questi aveva diviso tra i figli le sue
proprietà, oggetto di un fedecommesso di famiglia, vietandone
l’alienazione a pena di perdere l’eredità a vantaggio dei
fratelli. In un codicillo successivo Ierio aveva attribuito al nipote Ierio II
un fondo già lasciato a suo padre, il quale avrebbe poi dovuto
emancipare il nuovo erede, a sua volta onerato dal fedecommesso di famiglia.
Questi, dopo la morte del padre e del nonno, aveva venduto una casa e, inoltre,
disposto una sostituzione pupillare nei riguardi di un postumo, a favore della
madre e della moglie. Morto Ierio II, Alessandro aveva rivendicato il
fedecommesso contro le due donne, che si erano opposte, sostenendo
l’efficacia della sostituzione pupillare; sostenevano altresì che
nessuno aveva rispettato il testamento, poiché anche Alessandro e il
terzo fratello avevano venduto beni ereditari. Giustiniano stabilisce che il
divieto di alienazione cessa alla quarta generazione, anche se il testatore non
aveva messo termini, e che madre e moglie fanno parte della famiglia: respinge
così le pretese di Alessandro. Il prefetto destinatario è
incaricato di eseguire la sentenza e di pubblicare la costituzione, che
varrà come lex communis. Autorevolmente si è osservato
come sia difficile ricavare una norma da questa decisione pratica[13].
E in realtà non è nemmeno chiaro se la quarta generazione fosse
indicata come termine generale per il futuro, o non rispecchiasse piuttosto
l’attuale situazione. Anche questo testo, mutilato della fattispecie,
è conservato nelle raccolte bizantine.
A
prescindere dai ‘nodi di vipere’ nelle parentele dei postulanti,
che ne rendono godibile la lettura, si deve ripetere che nessuno dei casi qui
ricordati sembra presentare difficoltà tali da richiedere
l’intervento imperiale, mentre esso appare giustificato dal rango dei
personaggi coinvolti. Solo nella Nov. 159 si è trovata una novità
legislativa, forse introdotta per evitare il ripetersi della situazione
considerata, ma in maniera ambigua; le altre due costituzioni, come ho
già detto, si limitano a ripetere ed applicare regole note, le cui
contraddizioni avrebbero dovuto far parte dell’abituale bagaglio di
inevitabili contrasti normativi da risolversi a cura dei giudici. Si è
poi visto inoltre che le regole specifiche, eliminando il ricordo dei casi
concreti, sono raccolte con valore generale nelle Epitomi di Atanasio e Teodoro
e nei Basilici. Viene spontaneo chiedersi perché Giustiniano abbia
conservato queste storielle di parenti serpenti, se subito dopo esse possono
essere trascurate a vantaggio di una semplificazione del contenuto legale dei
testi.
Prima di rispondere, devo aggiungere
ancora una citazione, relativa al caso riportato nella Nov. 60, del 1° dic.
537, che sorprende anche di più. Si tratta questa volta di una legge
generale autonoma, il cui legame con il caso specifico che ne ha fornito
l’occasione è del tutto escluso dallo stesso imperatore,
poiché egli dice di averlo già risolto a parte in maniera
conveniente. Nel proemio della Novella si racconta di un creditore che,
sapendo il debitore prossimo alla morte, lo affronta insieme a una banda di
uomini armati e di schiavi provocandone la fine. Poi appone sigilli sui beni
del defunto senza rispettare le necessarie procedure pubbliche. Poi pretende di
impedirne il funerale fino al pagamento del debito e infine permette le esequie
solo dopo aver ottenuto l’impegno di un garante. Il caso non è di
per sé incredibile, ma si stenta a ritenerlo abituale. Giustiniano, pur
ricordando l’esistenza di precedenti sanzioni già dettate per
punire fatti almeno parzialmente analoghi, coglie l’occasione per emanare
una nuova legge generale che eviti il ripetersi di simili episodi; essi vengono
dunque vietati e puniti con la perdita del credito[14].
Intanto, come dicevo, l’imperatore afferma espressamente di aver
già risolto a parte ed in maniera conveniente la fattispecie occasionale[15],
e nondimeno la racconta prima di procedere al coordinamento ed alla
generalizzazione di tutte le regole, vecchie e nuove. Anche in questo caso,
come nelle leggi citate sopra, perché lo fa?
La
Novella ha un inizio giustificativo, molto noto, dove apparentemente Triboniano
risponde alla mia domanda. Vale dunque la pena di rileggerlo ancora una volta,
allo scopo di comprendere meglio per quale ragione i testi normativi conservino
il ricordo di episodi stravaganti come questo[16]:
Nov. 60 pr. (1° dic. 537): «Coloro che mirano alla
verità dei fatti non arriverebbero a formulare critiche avventate, se
esaminassero attentamente il vero. Si può capire che taluni critichino
il numero eccessivo dei provvedimenti da noi quotidianamente proposti: essi,
infatti, non riflettono sul fatto che, sotto il continuo incalzare della
necessità, noi siamo costretti a promulgare leggi consone alle
situazioni, giacché i casi che emergono continuamente contro ogni
aspettativa non possono essere sanati in base alle leggi già
scritte».
[1] Cfr.
M. Bianchini - G. Crifò - F.M.
D’Ippolito, Materiali per un Corpus Iudiciorum, Torino
2002, VII-XV.
[2] G. Zagrebelski, Il diritto mite,
Torino 1992, 180-3, 203-7; Id., Il
giudice la legge e i diritti di Welby, in «
[4]
L’elenco può essere consultato presso la sezione di diritto romano
del Dipartimento di cultura giuridica «Giovanni Tarello»
dell’Università di Genova.
[5] Alla
ricerca hanno collaborato anche M. Bianchini, J. Caimi e A.M. Demicheli, i cui
contributi vengono pubblicati altrove.
[6] Si
tratta di testi, probabilmente provenienti da una raccolta privata, aggiunti
senza un preciso ordine cronologico alla Collezione greca delle 168 Novelle:
qui ne ha già parlato Fausto Goria.
[7] Solo
la Nov. 155 può essere attribuita a Triboniano; la Nov. 158 è di
Giunillo, questore nel 544 e la Nov. 159 del questore Costantino: cfr. G. Lanata, Legislazione e natura nelle
Novelle Giustinianee, Napoli
1984, 94 nt. 31; T. Honoré,
Tribonian, London
1978, 237-42.
[8] Sul
caso e sulla normativa applicata v. G. Crifò,
Rapporti tutelari nelle novelle giustinianee, Napoli 1965, 23 s.
[9] La
competenza del magister militum era limitata alle cause in cui fosse
parte un militare, cfr. A.H.M. Jones,
Il tardo impero romano, 284 – 602 d.C. (1964), tr. it. Milano 1974,
II, 704 s. Il titolo del destinatario è tramandato solo
dall’Epitome di Atanasio.
[10] Nel
cap. 1 il destinatario è qualificato come endoxotes, titolo
spettante ai più alti funzionari. Per la ricostruzione e per
l’analisi del caso in tutti i suoi aspetti v. M. Bianchini, Annotazioni in margine alla Novella 158 di
Giustiniano, in «Annali Genova» XVI/2, 1977, 620-31.
[11] Val. et Val., C.I. 2.6.6, a. 368: quisquis
vult esse causidicus, non idem in eodem negozio sit advocatus et iudex. Lo
stesso Giustiniano sembra considerare invalido il patto imposto dal giudice a
Tecla Mano, poiché rinvia la causa a nuovo giudice; però gli accordi
per l’esecuzione della sentenza erano diffusi nella prassi: cfr. Bianchini, op. cit., 625-6.
[13] P. Voci, Diritto ereditario romano, Milano 1963, II, 245 nt. 32;
v. anche 983 s. per un esame completo del testo.
[14] R. Bonini, Comportamenti illegali del
creditore e perdita dell’azione o del diritto (nelle Novelle
Giustinianee), in
«Studia et Documenta» XL, 1974, 120-29 esamina il caso e la legge
insieme a tutti i precedenti.
[15] Bonini, op. cit., 123 nt. 33, osserva
come sia impossibile sapere quale tipo di provvedimento giudiziario avesse
concluso la vicenda.
[18]
Ciò non risulta dai casi pratici analizzati a Genova, che riguardano
quasi sempre personaggi di rango, i quali erano ovviamente ben provvisti di
avvocati. Però voglio citare almeno un esempio diverso. La Nov. 23, del
3 gen. 536, corregge la vecchia regola che prevedeva un termine di due giorni
per l’appello in causa propria e di tre giorni per il procuratore,
portando a dieci giorni il termine per tutti gli appelli; nel proemio la
novità è presentata come un beneficio offerto ai «molti
uomini ignoranti della sottigliezza delle leggi» che lasciavano passare i
due giorni e perdevano così la causa. Però sappiamo che la
distinzione tra biduum e triduum nei termini per gli appelli era
stata fissata nell’età dei Severi e ribadita da Diocleziano in un
editto conservato nel Codex: se aveva funzionato per oltre tre secoli
doveva essere ben nota a tutti i pratici del diritto. Le critiche alla subtilitas
legum provenivano dunque da cittadini incolti, caduti per caso in una
trappola legale.
[20] Cfr. F.C. von
Savigny, Geschichte des römischen Rechts im
Mittelalter, IV (1826),
tr. it. Torino 1857, II, 391-412.
[21] C. Rittershutii (Rittershausen), Expositio methodica Novellarum imp.
Iustiniani, 1609. La
frase citata, o altre simili, sono utilizzate per spiegare tutte le leggi
studiate qui: cfr. ed. Florentiae 1840, cc.
593, 553, 457.
[22] J.Ė.M.
Portalis, Présentation au corps
légilatif. Exposé des motifs:
traduco la citazione che ho trovato in Carbone,
«Materiali cit.», 159.