ds_gen N. 6 – 2007 – Memorie//Scienza-giuridica

 

FDemariniFranca De Marini Avonzo

Università di Genova

 

I BIZANTINI E LA SACRA GENERALITAS

 

 

Rileggere le Novelle di Giustiniano è sempre un piacere, perché ormai ci sembra di conoscerle bene. I testi sono, nel complesso, affidabili; le posizioni dell’imperatore e del suo ministro Triboniano sono state minuziosamente accertate da studi autorevoli e condivisi, che hanno contribuito a farci comprendere anche qualche strano aspetto della compilazione. Ora l’arrivo degli strumenti informatici che stiamo celebrando con questo Convegno ci consentirà di studiare meglio anche le epitomi bizantine e così di affrontare temi nuovi, relativi alla lunga tradizione che va dalle ultime leggi antiche ai codici moderni: e chiedo subito scusa per la mia debolezza, se parlerò continuando a pensare all’Occidente anche con il tramite orientale.

Mi è stato affidato il compito di illustrare lo scopo e le prime conclusioni della ricerca tuttora in corso a Genova, dove il gruppo guidato da Mariagrazia Bianchini ha studiato la casistica giudiziaria delle Novelle in vista di un ideale Corpus Iudiciorum. Ritengo di poter dare per noti i precedenti del nostro lavoro[1]. In quest’ultima occasione ci si è proposti di esaminare la sopravvivenza della citazione di casi concreti nella legislazione bizantina costituita dalle Novelle e dalle loro Epitomi, che a prima vista è tutta generale. Si dice abitualmente che mentre nell’età classica la casistica giudiziaria forniva fondamento e contenuti al diritto privato, nell’età tardoantica essa si riduce a semplice occasione della legge generale, ovvero a semplice strumento d’appoggio per un legislatore intento a fornire ai pratici, in maniera sistematica, l’interpretazione e l’aggiornamento del diritto positivo.

Ma, per dirla con Gogol, «non c’è niente di peggio di una verità non vera». Le nostre certezze, per non essere banalità o luoghi comuni, devono essere controllate almeno su due punti: I) siamo sicuri di conoscere il vero significato della generalitas della legge tardoantica? II) Siamo sicuri che la generalizzazione di tutte quante le normative confermi l’esistenza di una tendenza legale di tipo sistematico analoga a quella moderna? Lo studio degli usi del caso concreto nella legislazione novellare sembrava utile a fare chiarezza sui problemi indicati. E posso aggiungere che ora, a ricerca almeno parzialmente conclusa, ho trovato un utile riscontro in una discussione d’attualità: alcuni giuristi molto attenti alle tendenze ed agli sviluppi delle teorie intorno alla formazione ed all’interpretazione delle leggi si stanno interrogando su temi analoghi. Ciò mi sembra confermare che le ipotesi di partenza del nostro lavoro erano buone: se non altro nel senso (direi ben accreditato nonostante tutte le polemiche sul modo in cui si debbano intendere oggi le vecchie convinzioni sulla ‘contemporaneità’ del mestiere dello storico) che vede la bontà di un programma di ricerca nella sua capacità di indagare problemi ancor oggi rilevanti.

Da tempo il giudice Zagrebelski ha messo l’accento sulla rilevanza del caso pratico nella legislazione ed ha portato anche sulla stampa quotidiana un’opinione appassionata, con cui continua a ribadire l’importanza prioritaria della singola fattispecie sulla norma astratta. All’opposto, non mancano i sostenitori dei vecchi modelli di tipo illuministico e positivistico; pur essendo ormai ben superata la vecchia idea del ‘giudice bocca della legge’, c’è chi diffida di quella che chiama ‘tirannia’ del caso concreto e suggerisce di non allontanarsi troppo dalle buone tradizioni occidentali[2]. Accenno solo con queste parole minime ad un problema molto superiore alle mie competenze. Non sono sicura di capire bene tutti gli aspetti della discussione odierna, ma il pensiero di Zagrebelski è suggestivo e riporta alla memoria altre riflessioni simili già sentite in gioventù: per esempio da Salvatore Satta, che in proposito amava citare Bartolo da Sassoferrato. Andando sempre più indietro ritrovo anche un brano della Politica di Aristotele, da dove traduco un po’ liberamente qualche frase: «è difficile fare una legge generale adatta a chiarire tutti i casi…..dicono che un limite alla sovranità della legge è la sua attitudine ad enunciare solo principii generali ma non a dare guida precisa per affrontare le situazioni che sorgono…..nelle materie dove è impossibile che la legge decida, i cittadini riuniti devono decidere, ma i loro giudizi sono solo su casi particolari…..i governanti sono i custodi delle leggi e i servitori delle leggi…..i magistrati hanno il potere di giudicare in certi casi sui quali la legge non può dare una enunciazione precisa…..»[3]. Dunque, l’ordine politico si identifica con la legge generale, ma il caso pratico consente al legislatore di risalire dal particolare e dal concreto ad una visione più ampia degli interessi dell’intera popolazione. Una descrizione tanto equilibrata del problema mi sembra confermare, come dicevo, l’interesse delle nostre ipotesi di partenza: è vero che ci stiamo occupando di una questione giuridica di portata universale e dunque, anche questa volta, l’attualità può utilmente passare sul ponte della storia per cercare di capire la realtà antica insieme alla realtà moderna.

Torniamo alle Novelle. Posso presentarvi, consegnandolo al presidente prof. Gallo, il primo risultato concreto della ricerca: un elenco ragionato di tutti i casi specifici ricordati nelle leggi. Si tratta di 73 citazioni, qui riprodotte in ordine cronologico e annotate con data, destinatario, tipo di legge, tipo di sollecitazione, eventuale recupero nelle raccolte epitomate[4]. Sappiamo che nel proemio alle nostre costituzioni si può trovare ogni sorta di motivazione per i nuovi interventi normativi, e quindi è inutile cercare dichiarazioni o teorie univoche (di tipo aristotelico) a proposito della tensione tra generalità e/o specificità della legge; tuttavia il tema è ben presente, e fin dal principio. Così in Nov. 1 pr. (1° gen. 535) l’imperatore dichiara il suo fastidio per i troppi postulanti che inoltrano a corte le loro richieste di pareri legali; in Nov. 2 pr. (16 marzo 535) ammette che tali richieste sono tuttavia indispensabili; in Nov. 3 pr. (15 apr. 535) esprime chiaramente la sua preferenza per la legge generale, e così via di seguito sino alla fine, senza alcuna preoccupazione di apparire incoerente. I ricercatori genovesi qui presenti leggeranno tra poco i loro contributi ad una migliore conoscenza della legislazione bizantina, ottenuta appunto attraverso lo studio di qualcuna tra le Novelle emanate in seguito a suppliche o controversie di vario tipo, dalle quali erano emerse situazioni singolari meritevoli di una regolamentazione nuova e pertinente[5].

Io incomincio dalla fine, con un’osservazione suggerita dall’analisi dei testi a mio avviso più sorprendenti, tra i quali troviamo anche formule antiche come, ad esempio, rescritti che costituiscono precedente e diventano leggi generali. Infatti i rescritti, pur già tanto squalificati fin dai tempi di Costantino, resistono nella legislazione novellare, per quanto in maniera fortunosa e con qualche carattere atipico[6]. Ne citerò tre, degli anni 533, 544 e 555: queste date mostrano che l’uso di tale strumento normativo di favore resta una costante per Giustiniano anche nell’alternarsi dei diversi questori che scrivono i testi[7].

Nella Nov. 155, del 1° febr. 533, qualificata come pragmatica e diretta a Belisario strategós, l’imperatore risponde alla supplica di Marta contro la madre Aussenzia, ambedue clarissimae, figlia e vedova di Sergio magnificae memoriae, residenti in Antiochia. Dopo aver giurato di non risposarsi, la madre aveva assunto l’amministrazione dei beni della figlia, redigendone un inventario molto ridotto. Poi, risposatasi contro il giuramento, le aveva designato come tutore un certo Pietro il quale, giunta Marta al tredicesimo anno, aveva rinunciato all’incarico persuadendola a chiedere un curatore ed a firmare una totale rinuncia ai rendiconti dovuti per la tutela. Per l’ignoranza dell’età, Marta aveva aderito alle proposte: però crescendo si era accorta del raggiro e aveva cercato di convincere la madre a rispettare le leggi e a restituirle i beni paterni, ma inutilmente. Si deve pensare che fossero intervenuti degli avvocati, perché nel resoconto di Marta, come lo leggiamo nella Novella, appaiono ora elementi più tecnici. Infatti Aussenzia avrebbe replicato sostenendo che un’altra legge vietava ai figli (e ai liberti) di disonorare i genitori (o i patroni) presentando richieste di restitutio in integrum. La legge è identificabile: essa era recente, del 531, e sarebbe poi stata codificata nella seconda edizione del Codice come CI. 2.41.2; il testo attuale sembra corrispondere all’originale almeno su uno dei punti in questione, in quanto non include le donne tutrici tra le persone contro cui si vieta di chiedere la restitutio[8]. L’avvocato di Marta reagisce proprio con questo argomento e chiede all’imperatore un’interpretazione chiara oltre ogni dubbio. Giustiniano decide che Aussenzia non ha capito la legge citata, già di per sé chiarissima; ne ricorda un’altra di poco successiva intorno agli obblighi dei tutori e incarica quindi Belisario insieme al patriarca di Teopoli/Antiochia di procedere alla restitutio dopo aver verificato che Marta non avesse ancora superato l’età.

Il caso è solo apparentemente complicato: la normativa intorno al punto di diritto controverso non sembra presentare difficoltà tali da non poter essere risolte da qualunque giudice ordinario e da richiedere l’intervento imperiale. Questo si giustifica invece con il rango dei personaggi coinvolti, che non avranno trovato ostacoli per far pervenire a corte la loro supplicatio. Lo stesso motivo spiega anche la scelta dei giudici: per quanto ho potuto vedere, questo è l’unico caso in cui una questione così semplice come il controllo sulla veritas precum, per di più relativo ad una questione tipicamente civilistica, è stato affidato ad un generale insieme ad un patriarca cittadino[9]. Si noti che la prammatica, pur non contenendo alcuna novità né alcuna clausola generalizzante, è stata conservata nelle epitomi bizantine e nei Basilici.

Altrettanto interessante è la Nov. 158, del 14 lu. 544 e senza inscriptio[10], relativa al caso di Tecla Mano. Essa era zia paterna di Sergia, figlia morta impubere di un’altra Tecla, che aveva anche uno zio materno Cosma il quale pretendeva di aver diritto a concorrere all’eredità. Tecla Mano ha consultato Giovanni, giurista della sua provincia, che in un responso scritto ha escluso la validità della pretesa di Cosma; però poi, scelto come giudice dalla stessa Tecla, ha cambiato parere: non solo ha affermato essere Cosma coerede legittimo, ma dopo aver dato la sentenza, si è adoperato insieme all’avvocato di Cosma affinché i litiganti concludessero una transazione. A questo punto Tecla Mano si rivolge all’imperatore che, senza sconfessare una propria legge inserita nel Codice ma coordinandola con altre, con il presente rescritto ordina al giudice/destinatario di dare esecuzione ai diritti di Tecla. E in effetti molti tra gli atti della parte avversa sembrano palesemente scorretti: così in particolare il giurista Giovanni doveva conoscere il divieto di cumulare le funzioni di avvocato e di arbitro, e doveva sapere che nessun arbitro o giudice può favorire patti tra le parti sulla base della sua stessa sentenza[11].

Tuttavia non troviamo nella Novella alcun rilievo critico sulle questioni indicate. Il testo affronta solo il punto di diritto controverso tra le parti, e relativo al problema del ius deliberandi dell’impubere nei confronti dell’eredità materna: Sergia aveva o no potuto esercitarlo, trasmettendo così validamente il suo diritto all’erede del padre? La supplica, ampiamente riportata nella prefazione della Novella, permetteva di cogliere un’insolubile contraddizione tra due leggi inserite nel Codice, rispettivamente di Teodosio II e dello stesso Giustiniano; questi però afferma che il contrasto era solo apparente e procede a coordinare le due disposizioni con un’interpretazione abbastanza ardita, consistente in realtà nell’integrare la costituzione di Teodosio II con un elemento nuovo, che limitava la sua efficacia ai casi in cui fosse già trascorso il termine di un anno per l’esercizio del ius deliberandi. E’ già stato osservato che la pronuncia sul caso, favorevole a Tecla Mano, è formulata separatamente dalla nuova regola, che appare dunque del tutto autonoma rispetto alla controversia[12]. Essa infatti è tralasciata in tutte le raccolte bizantine, che conservano soltanto la norma con valore generale: nella tradizione esso diventa la sedes materiae per la regolamentazione complessiva dell’istituto.

Nella Nov. 159, del 1° giu. 555 e indirizzata al prefetto del pretorio Pietro, troviamo un elemento della normazione giustinianea su base casistica che risulta più facilmente comprensibile in una prospettiva odierna: la generalizzazione della legge personale si giustifica per l’inserimento nel diritto positivo di una regola nuova sulla quale è fondata la decisione specifica, anche questa volta richiesta da un personaggio di rango. L’illustre Alessandro rivolge nuovamente le sue preces all’imperatore, cui già aveva chiesto aiuto in merito a controversie nate dal testamento e dai codicilli del padre Ierio. Questi aveva diviso tra i figli le sue proprietà, oggetto di un fedecommesso di famiglia, vietandone l’alienazione a pena di perdere l’eredità a vantaggio dei fratelli. In un codicillo successivo Ierio aveva attribuito al nipote Ierio II un fondo già lasciato a suo padre, il quale avrebbe poi dovuto emancipare il nuovo erede, a sua volta onerato dal fedecommesso di famiglia. Questi, dopo la morte del padre e del nonno, aveva venduto una casa e, inoltre, disposto una sostituzione pupillare nei riguardi di un postumo, a favore della madre e della moglie. Morto Ierio II, Alessandro aveva rivendicato il fedecommesso contro le due donne, che si erano opposte, sostenendo l’efficacia della sostituzione pupillare; sostenevano altresì che nessuno aveva rispettato il testamento, poiché anche Alessandro e il terzo fratello avevano venduto beni ereditari. Giustiniano stabilisce che il divieto di alienazione cessa alla quarta generazione, anche se il testatore non aveva messo termini, e che madre e moglie fanno parte della famiglia: respinge così le pretese di Alessandro. Il prefetto destinatario è incaricato di eseguire la sentenza e di pubblicare la costituzione, che varrà come lex communis. Autorevolmente si è osservato come sia difficile ricavare una norma da questa decisione pratica[13]. E in realtà non è nemmeno chiaro se la quarta generazione fosse indicata come termine generale per il futuro, o non rispecchiasse piuttosto l’attuale situazione. Anche questo testo, mutilato della fattispecie, è conservato nelle raccolte bizantine.

A prescindere dai ‘nodi di vipere’ nelle parentele dei postulanti, che ne rendono godibile la lettura, si deve ripetere che nessuno dei casi qui ricordati sembra presentare difficoltà tali da richiedere l’intervento imperiale, mentre esso appare giustificato dal rango dei personaggi coinvolti. Solo nella Nov. 159 si è trovata una novità legislativa, forse introdotta per evitare il ripetersi della situazione considerata, ma in maniera ambigua; le altre due costituzioni, come ho già detto, si limitano a ripetere ed applicare regole note, le cui contraddizioni avrebbero dovuto far parte dell’abituale bagaglio di inevitabili contrasti normativi da risolversi a cura dei giudici. Si è poi visto inoltre che le regole specifiche, eliminando il ricordo dei casi concreti, sono raccolte con valore generale nelle Epitomi di Atanasio e Teodoro e nei Basilici. Viene spontaneo chiedersi perché Giustiniano abbia conservato queste storielle di parenti serpenti, se subito dopo esse possono essere trascurate a vantaggio di una semplificazione del contenuto legale dei testi.

 Prima di rispondere, devo aggiungere ancora una citazione, relativa al caso riportato nella Nov. 60, del 1° dic. 537, che sorprende anche di più. Si tratta questa volta di una legge generale autonoma, il cui legame con il caso specifico che ne ha fornito l’occasione è del tutto escluso dallo stesso imperatore, poiché egli dice di averlo già risolto a parte in maniera conveniente. Nel proemio della Novella si racconta di un creditore che, sapendo il debitore prossimo alla morte, lo affronta insieme a una banda di uomini armati e di schiavi provocandone la fine. Poi appone sigilli sui beni del defunto senza rispettare le necessarie procedure pubbliche. Poi pretende di impedirne il funerale fino al pagamento del debito e infine permette le esequie solo dopo aver ottenuto l’impegno di un garante. Il caso non è di per sé incredibile, ma si stenta a ritenerlo abituale. Giustiniano, pur ricordando l’esistenza di precedenti sanzioni già dettate per punire fatti almeno parzialmente analoghi, coglie l’occasione per emanare una nuova legge generale che eviti il ripetersi di simili episodi; essi vengono dunque vietati e puniti con la perdita del credito[14]. Intanto, come dicevo, l’imperatore afferma espressamente di aver già risolto a parte ed in maniera conveniente la fattispecie occasionale[15], e nondimeno la racconta prima di procedere al coordinamento ed alla generalizzazione di tutte le regole, vecchie e nuove. Anche in questo caso, come nelle leggi citate sopra, perché lo fa?

La Novella ha un inizio giustificativo, molto noto, dove apparentemente Triboniano risponde alla mia domanda. Vale dunque la pena di rileggerlo ancora una volta, allo scopo di comprendere meglio per quale ragione i testi normativi conservino il ricordo di episodi stravaganti come questo[16]:

 

Nov. 60 pr. (1° dic. 537): «Coloro che mirano alla verità dei fatti non arriverebbero a formulare critiche avventate, se esaminassero attentamente il vero. Si può capire che taluni critichino il numero eccessivo dei provvedimenti da noi quotidianamente proposti: essi, infatti, non riflettono sul fatto che, sotto il continuo incalzare della necessità, noi siamo costretti a promulgare leggi consone alle situazioni, giacché i casi che emergono continuamente contro ogni aspettativa non possono essere sanati in base alle leggi già scritte».

 

Nell’introdurre la nuova legge intorno ai comportamenti illeciti dei creditori, Triboniano replica alle critiche di certi suoi lettori e/o fruitori insistendo sui problemi dell’attualità e della concretezza che sempre si impongono al legislatore, quasi pensasse alla necessità di produrre una regola nuova per ogni singolo avvenimento: è la realtà di tutti i giorni, sono i fatti, i casi, le situazioni che rendono indispensabile legiferare di continuo. Questa riflessione potrebbe spiegare la conservazione nei testi del ricordo delle fattispecie: un fatto, una legge. Ma non credo ci si possa accontentare di una tale spiegazione, troppo banale per un giurista tanto raffinato e tanto consapevole dell’eredità ricevuta da Roma, il quale certamente conosceva e condivideva l’idea espressa nel 528 dalla c. Haec quae necessario, dove le troppe leggi sono descritte come un impedimento e non un aiuto al lavoro dei giudici[17].

Piuttosto, è interessante chiedersi chi fossero gli autori di tante obbiezioni respinte come avventate e malevole, e viceversa ben fondate a giudizio degli antichi e dei moderni. In primo luogo torna alla mente la stessa popolazione di Costantinopoli, che già aveva manifestato anche più che malumore ai tempi della rivolta Nika. L’ipotesi appare suggestiva e dovrebbe essere controllata, poiché qua e là nelle Novelle si trovano altri spunti che sembrano confermare la persistenza di critiche popolari nei confronti del legislatore[18]. Tuttavia c’è un ostacolo a questa interpretazione: come sappiamo, la protesta del 532 aveva associato l’inutile abbondanza legislativa e la conseguente dannosa incertezza del diritto all’avidità ed alla corruzione della corte. Invece, per quanto non manchino mai le prove di abusi legislativi compiuti dietro compenso, non sembra di poterne individuare un altro esempio in una legge rivolta a perseguire con sanzioni civili e penali comportamenti mortiferi come quello che dà occasione alla Nov. 60. I critici biasimati da Triboniano saranno dunque da rintracciare altrove.

Del resto l’invito a ricercare la verità, ripetuto due volte dall’imperatore nel proemio della costituzione, ci indirizza verso un’opinione colta piuttosto che verso un’opinione popolare. In questa direzione si possono ricordare alcune conclusioni già acquisite alla ricerca, che in molti casi di ripetizioni legislative ha potuto leggere il desiderio di reagire alle critiche della pratica forense nei confronti delle riforme. Di frequente i testi rivelano come gli avvocati tendessero ad «un’interpretazione puntigliosa, e spesso addirittura capziosa, delle norme giustinianee poco gradite…..un modo di argomentare fondato non già sul senso generale della legge, ma piuttosto sull’espressione tecnica del pensiero legislativo…..»[19]. Secondo questa lettura, sembra di assistere ad una lotta senza quartiere tra la critica dei pratici contro la poca chiarezza dei testi e l’accusa del legislatore contro l’incapacità degli avvocati di capire almeno le cose più semplici, che gli imponeva di ripeterle in continuazione. Una conclusione di questo tipo rispecchia certo almeno una parte delle tensioni dell’epoca tra imperatori attivisti, giudici ignoranti, causidici maligni e cittadini sprovveduti, ma lascia senza risposta il nostro quesito di partenza, sul perché sia conservato il ricordo di tanti casi specifici occasione della legge ma superati dalla stessa.

Forse però è sbagliata la domanda: chiedere perché è sempre un po’ infantile, nello studio storico è più importante interrogarsi sul ‘come’ e sul ‘quando’. Almeno questa volta il ‘perché’ non è un problema: basta guardare alla tradizione medievale e umanistica. Viviano e Francesco d’Accursio ricostruivano i casi del Digesto, e così davano l’avvio alla creazione di un genere letterario fortunato, i casus dei Glossatori, non più solo esempi ma veri commentari interpretativi[20]. Per quanto riguarda le Novelle mi limito a citare le parole che il loro maggior esperto culto, Corrado Rittershausen, premette di frequente alle sue spiegazioni dei testi: «quo plenius haec novella intelligatur ante omnia recitabo eius facti speciem»[21]. Dunque, l’esempio pratico mantiene la sua forza probante in tutta la tradizione della retorica occidentale; è l’Oriente a scegliere un’altra strada. Purtroppo io non l’ho nemmeno iniziata, ma la realizzazione informatica della ricerca illustrata in questo Convegno aiuterà i nostri giovani a percorrerla proficuamente.

Ora, per concludere il discorso, vorrei riformulare più correttamente l’interrogativo iniziale: fino a quando in Occidente si mantiene un intreccio così vistoso tra caso concreto e norma generale? Cercando la risposta, si può forse aggiungere qualcosa alle nostre nozioni intorno alla generalitas della legge tardoantica.

So bene di dover entrare qui in un argomento troppo vasto per le mie povere competenze antichistiche e mi limiterò a suggerire una traccia che mi sembra offrire qualche interesse, per quanto in apparenza essa parta da molto lontano. L’ho trovata in un’osservazione di J.É.M. Portalis: il giurista napoleonico a mio avviso può riportarci a Giustiniano. Nel presentare il Code Civil al parlamento per l’approvazione, egli disse con un velo di autocritica: «Noi ragioniamo come se i legislatori fossero degli dei, e come se i giudici non fossero nemmeno uomini»[22]. Queste parole potrebbero benissimo essere attribuite anche a Giustiniano. Non è lui che ragiona sempre come se il legislatore fosse un dio onnipotente e come se i giudici non fossero neanche uomini?

In realtà, se con questo accostamento ho voluto suggerire una certa modernità del pensiero tardoantico nell’inquadrare la superiorità del potere legislativo, intendo però soprattutto mettere in evidenza l’elemento fondamentale che distingue gli antichi dai moderni: questi ultimi hanno il Codice. Ho scelto le parole di Portalis per esemplificare rapidamente, con un nome che tutti conosciamo come quello del ‘padre’ del codice, la nuova ideologia giuridica. Quando parla, egli presuppone il nuovo strumento normativo, dà per implicita la clausola di chiusura dell’ordinamento che ormai stava nell’art. 4 del Code Civil per ordinare al giudice di decidere sempre e comunque, dato che il codice non ha lacune. Qui sta la differenza. Anche il giudice tardoantico doveva applicare la legge generale che vale per tutti; però sopra di lui non c’era solo la legge, c’era anche un imperatore assoluto che si imponeva come l’unico vero interprete della legge. La legge era ‘generale’ ma non era ancora ‘astratta’, non era ancora «la volontà generale stabilita da tutto il popolo per tutto il popolo». Per quest’ultimo passaggio bisognava aspettare Jean-Jacques Rousseau.

Nel 1762 Rousseau iniziava così quella sua riflessione sulla legge che doveva esercitare, nel bene e nel male, la massima influenza su tutta quanta la cultura costituzionalistica occidentale: «Ma in definitiva che cosa è dunque una legge? Finché ci accontenteremo di collegare a questa parola soltanto delle idee metafisiche, continueremo a ragionare senza capirci…»[23]. Già da molto tempo in Francia si era giunti a pensare che le idee in grado di determinare i comportamenti umani possono essere comunicate, comprese e trasmesse in maniera efficace soltanto se formulate in una lingua tanto più perfetta quanto più capace di riprodurre chiaramente ed esattamente la realtà. Filosofi e giuristi secenteschi avevano lavorato per preparare la nozione dell’astrattezza del dettato legislativo, pensando ad una scrittura dei testi basata su una grammatica ideale, coincidente con la struttura logica della ragione. Il diritto poteva in tal modo essere descritto come un insieme di principii razionali collegati tra loro. Per Rousseau, come per tutti gli Illuministi, la razionalità dell’ordine giuridico costituiva un ovvio punto di partenza, che egli completò con una teoria della legge di grande e duraturo successo. Per noi, che abbiamo dovuto confinare nell’utopia questo tipo di pensiero senza essere capaci di sostituirlo, resta qualche nostalgia.

 

 



 

[1] Cfr. M. Bianchini - G. Crifò - F.M. D’Ippolito, Materiali per un Corpus Iudiciorum, Torino 2002, VII-XV.

 

[2] G. Zagrebelski, Il diritto mite, Torino 1992, 180-3, 203-7; Id., Il giudice la legge e i diritti di Welby, in «la Repubblica», 19/3/2007; contro, e richiamandosi al pensiero di G. Tarello, si sono espressi R. Guastini, Diritto mite, diritto incerto, in «Materiali per una storia della cultura giuridica», XXVI-2, 1996, 523-5; E. Carbone, “Candidus Iudex”. Il diritto dei giudici e lo scetticismo sulle norme, in «Materiali cit.», XXXVII-1, 2007, 143-59.

 

[3] Aristotele, Politica, 1282b, 1286a, 1287a/b.

 

[4] L’elenco può essere consultato presso la sezione di diritto romano del Dipartimento di cultura giuridica «Giovanni Tarello» dell’Università di Genova.

 

[5] Alla ricerca hanno collaborato anche M. Bianchini, J. Caimi e A.M. Demicheli, i cui contributi vengono pubblicati altrove. 

 

[6] Si tratta di testi, probabilmente provenienti da una raccolta privata, aggiunti senza un preciso ordine cronologico alla Collezione greca delle 168 Novelle: qui ne ha già parlato Fausto Goria.

 

[7] Solo la Nov. 155 può essere attribuita a Triboniano; la Nov. 158 è di Giunillo, questore nel 544 e la Nov. 159 del questore Costantino: cfr. G. Lanata, Legislazione e natura nelle Novelle Giustinianee, Napoli 1984, 94 nt. 31; T. Honoré, Tribonian, London 1978, 237-42.

 

[8] Sul caso e sulla normativa applicata v. G. Crifò, Rapporti tutelari nelle novelle giustinianee, Napoli 1965, 23 s.

 

[9] La competenza del magister militum era limitata alle cause in cui fosse parte un militare, cfr. A.H.M. Jones, Il tardo impero romano, 284 – 602 d.C. (1964), tr. it. Milano 1974, II, 704 s. Il titolo del destinatario è tramandato solo dall’Epitome di Atanasio.

 

[10] Nel cap. 1 il destinatario è qualificato come endoxotes, titolo spettante ai più alti funzionari. Per la ricostruzione e per l’analisi del caso in tutti i suoi aspetti v. M. Bianchini, Annotazioni in margine alla Novella 158 di Giustiniano, in «Annali Genova» XVI/2, 1977, 620-31.

 

[11] Val. et  Val., C.I. 2.6.6, a. 368: quisquis vult esse causidicus, non idem in eodem negozio sit advocatus et iudex. Lo stesso Giustiniano sembra considerare invalido il patto imposto dal giudice a Tecla Mano, poiché rinvia la causa a nuovo giudice; però gli accordi per l’esecuzione della sentenza erano diffusi nella prassi: cfr. Bianchini, op. cit., 625-6.

 

[12] Bianchini, op. cit., 628.

 

[13] P. Voci, Diritto ereditario romano, Milano 1963, II, 245 nt. 32; v. anche 983 s. per un esame completo del testo.

 

[14] R. Bonini, Comportamenti illegali del creditore e perdita dell’azione o del diritto (nelle Novelle Giustinianee), in «Studia et Documenta» XL, 1974, 120-29 esamina il caso e la legge insieme a tutti i precedenti.

 

[15] Bonini, op. cit., 123 nt. 33, osserva come sia impossibile sapere quale tipo di provvedimento giudiziario avesse concluso la vicenda.

 

[16] Riprendo la trad. di Lanata, op. cit., 105.

 

[17] C. Haec quae necessario pr.-3.

 

[18] Ciò non risulta dai casi pratici analizzati a Genova, che riguardano quasi sempre personaggi di rango, i quali erano ovviamente ben provvisti di avvocati. Però voglio citare almeno un esempio diverso. La Nov. 23, del 3 gen. 536, corregge la vecchia regola che prevedeva un termine di due giorni per l’appello in causa propria e di tre giorni per il procuratore, portando a dieci giorni il termine per tutti gli appelli; nel proemio la novità è presentata come un beneficio offerto ai «molti uomini ignoranti della sottigliezza delle leggi» che lasciavano passare i due giorni e perdevano così la causa. Però sappiamo che la distinzione tra biduum e triduum nei termini per gli appelli era stata fissata nell’età dei Severi e ribadita da Diocleziano in un editto conservato nel Codex: se aveva funzionato per oltre tre secoli doveva essere ben nota a tutti i pratici del diritto. Le critiche alla subtilitas legum provenivano dunque da cittadini incolti, caduti per caso in una trappola legale.

 

[19] R. Bonini, Ricerche di diritto giustinianeo, Milano 1968, 267.

 

[20] Cfr. F.C. von  Savigny, Geschichte des römischen Rechts im Mittelalter, IV (1826), tr. it. Torino 1857, II, 391-412.

 

[21] C. Rittershutii (Rittershausen), Expositio methodica Novellarum imp. Iustiniani, 1609. La frase citata, o altre simili, sono utilizzate per spiegare tutte le leggi studiate qui: cfr. ed. Florentiae 1840, cc. 593, 553, 457.

 

[22] J.Ė.M. Portalis, Présentation au corps légilatif. Exposé des motifs: traduco la citazione che ho trovato in Carbone, «Materiali cit.», 159.

 

[23] J.-J. Rousseau, Du contrat social, ou principes du droit politique (1762), II, 6. Sull’opera ho riletto G. Tarello, Storia della cultura giuridica moderna. I. Assolutismo e codificazione del diritto, 320-30; per i precedenti anche linguistici nel razionalismo francese, 100-1, 171-74.