L’eredità
perduta del diritto romano. Introduzione al tema[*]
Professore
Emerito
Università
di Torino
L’argomento
di cui mi occupo è un argomento nuovo o almeno è considerato
sotto una prospettiva nuova. Giustiniano si è mostrato convinto di aver
concentrato nelle tre opere, di cui consta la compilazione, tutto ciò
che meritava di essere salvato del diritto romano dall’età di
Romolo al suo tempo. In particolare il Digesto venne da lui considerato quale proprium et sacratissimum templum
consacrato alla iustitia per il suo
tempo e ogni evo futuro. L’asserzione di Giustiniano appare contraddetta
dalle sue stesse Novellae constitutiones
emanate successivamente ed impingenti sia sul piano normativo che su quello
concettuale e dottrinale. Giustiniano si vantava peraltro, nel contempo, di
aver apportato, nel campo giuridico, una radicale permutatio: una trasformazione prima mai vista e neppure pensata.
Questa permutatio non è stata
finora adeguatamente apprezzata; ancora oggi, in specie per quanto attiene ai
problemi generali, non si ricerca se, con essa, Giustiniano avesse eliminato
anche elementi di grande spessore e utilità del diritto antecedente, in
quanto contrastanti con la sua concezione assoluta del potere, trasferito, per disegno
divino, dal popolo all’imperatore.
Lo
studioso che sostiene una soluzione o adotta una prospettiva nuova si colloca
per forza di cose in posizione isolata e minoritaria. Egli tuttavia, pur con la
consapevolezza di possibili errori, non può non nutrire fiducia nelle
proprie controllate intuizioni e nei risultati della propria autonoma ricerca.
Senza posizioni inizialmente isolate e minoritarie si ripeterebbero sempre le
stesse cose e non potrebbe aversi, quindi, lo sviluppo scientifico.
La
prospettiva da me assunta dell’eredità perduta del diritto romano,
oltre a rappresentare, nel panorama degli studi giuridici, una novità,
coinvolge una materia assai vasta, che non è possibile comprimere nello
spazio di un’unica lezione. La mia esposizione odierna è limitata
alla ‘introduzione’, anche se sono così costretto a
sacrificare, in corrispondenza, il quadro sostanziale, augurandomi ovviamente,
a Dio piacendo, di poter colmare la lacuna in futuri scritti o lezioni.
L’argomento
affrontato richiede un chiarimento in relazione alla questione, al presente
vivamente dibattuta, dei fondamenti del diritto europeo. Da vario tempo si
assiste a una sorta di gara, tra i cultori di diversi settori della scienza
giuridica, nell’individuare i predetti fondamenti. A questa gara
partecipano a buon diritto i romanisti. Com’è noto,
nell’ordinamento italiano vigente degli studi universitari, la materia
«Fondamenti del diritto europeo» è inserita nel settore
scientifico-disciplinare «Ius/18 Diritto romano e diritti
dell’antichità». Indipendentemente da questo, è certo
che il diritto romano (esattamente, come si dirà, il diritto
giustinianeo, quale venne assunto nella scuola di Bologna) ha influito, in modo
decisivo, sulla successiva evoluzione del diritto in Occidente. Con tutto ciò,
non si può dire che esista chiarezza in ordine ai fondamenti del diritto
europeo. Secondo una semplificazione, avente autorevoli sostenitori, ma, a mio
avviso, inaccettabile, essi si risolverebbero nella vicenda storica
antecedente. In coerenza ogni ricerca storico-giuridica attinente alla nostra
tradizione avrebbe ad oggetto gli indicati fondamenti. A mio avviso, come, nel
campo edilizio, le stesse fondamenta possono sostenere costruzioni diverse,
così, in quello giuridico, sugli stessi fondamenti possono innestarsi
norme e soluzioni disparate. Non ho difficoltà ad esplicitare che, a mio
parere, la nozione di fondamento non trova corrispondenza in quelle,
amplissime, di norma e di soluzione giuridica, ma piuttosto in quella,
più ristretta, di idea guida o linea portante: penso cioè che
possano indicarsi come fondamenti, in campo giuridico, le idee guida o linee
portanti di un dato sistema o di un dato settore di esso. Ad esempio, il
principio democratico basato sulla sovranità popolare può avere
– e ha avuto storicamente – una pluralità di esplicazioni in
merito alla produzione del diritto. il limite è la congruenza con tale
principio. Inoltre l’impiego dell’espressione ‘fondamenti del
diritto romano’ non appare sempre esente da ambiguità, oltre che
in relazione al passato, tra il riferimento al presente e al futuro: agli
elementi e criteri che stanno a base della situazione attuale ed a quelli da
utilizzare per la prospettata unificazione del diritto europeo. Il che trova
profili di spiegazione, se non di giustificazione, nel fatto che il tema in
oggetto ha attratto l’attenzione degli studiosi ed è stato
configurato come materia autonoma di insegnamento in connessione col processo
di formazione dell’Unione europea, tendente, almeno nelle declamazioni,
all’indicata unificazione sul piano giuridico.
La
visuale dell’eredità perduta del diritto romano implica la presa
di coscienza e la considerazione della vicenda storica di cui fu oggetto il
medesimo diritto. In particolare essa conduce a discernere, in tale vicenda, la
fase alla quale risalgono gli elementi che hanno maggiormente influenzato la
successiva tradizione occidentale (e che è rappresentata, come si
vedrà, dal diritto della compilazione giustinianea) e la fase in cui si
erano formati gli elementi poi accantonati – e decisamente banditi da
Giustiniano – e, quindi, non più recuperati dalla scienza
giuridica (e che è rappresentata, come si dirà, dal diritto
dell’età repubblicana, cogli sviluppi, o le involuzioni – a
seconda dei punti di vista –, che seguirono nel principato).
La
ragione del recupero dell’eredità perduta del diritto romano
è duplice: da un lato, nella sfera per ora da me considerata delle
concezioni generali del diritto, le dottrine dominanti sono tuttora inficiate
da condizionamenti ideologici derivati da Giustiniano; dall’altro lato
gli elementi perduti (la loro ispirazione), che mi propongo di recuperare,
erano invece aderenti alla realtà e alle esigenze umane (al loro
equilibrato bilanciamento). Credo che il diritto e la scienza giuridica debbano
essere liberati dai condizionamenti ideologici che si sono via via accumulati
nella storia. Il diritto è così com’è, non come si
vorrebbe che fosse; gli strumenti ideologici portano a stravolgere la
realtà, facendo apparire come esistenti elementi che non esistono e come
non esistenti elementi che viceversa esistono.
La
dimostrazione di tutto ciò potrà essere data solo con la compiuta
trattazione del tema, la quale, come ho detto, non può essere svolta in
questa lezione introduttiva. Rimedio, in qualche modo, anticipando almeno un
argomento.
Nelle
comuni rappresentazioni e definizioni del diritto appare tralasciato un dato
elementare, ma al tempo stesso fondamentale, della realtà. Leggete i
manuali, sia di diritto romano che di diritto civile, leggete le trattazioni
circa la nozione di diritto (adduco, quale esempio, la diffusa voce Diritto, scritta con la consueta
competente lucidità da Giovanni Pugliese per l’Enciclopedia delle scienze sociali) e
ditemi se trovate, in esse, adeguatamente rappresentato il dato che il diritto
ha natura artificiale: che è in tutto e per tutto un prodotto umano.
Come ho detto, il dato risulta in generale trascurato.
Ci si
può chiedere quali siano le conseguenze di questa deficienza. Il fatto
che il diritto è un elemento artificiale è gravido di
conseguenze. Come per costruire una nave (qui a Taranto navi e barche sono di
casa) occorrono determinate tecniche e criteri, che si tramandano e
perfezionano nelle successive generazioni (se pure non sono mancati e non
mancano temporanei regressi), così per produrre (e applicare) il diritto
occorrono un’apposita tecnica ed appositi criteri. Insomma, se il diritto
è, come è, un prodotto umano, bisogna preoccuparsi, come avevano
già percepito i giuristi romani, di elaborare la tecnica e acquisire i
criteri per produrlo nel modo migliore possibile. Ed è grave, a mio
avviso, che tutto ciò venga trascurato dalla scienza giuridica.
Ho
appreso con piacere che nella Facoltà giuridica di Benevento viene
insegnata la materia Interpretazione del
diritto. Già negli anni 90 del secolo corso avevo lamentato, in uno
scritto pubblicato sulla rivista Panorami,
che nelle Facoltà giuridiche italiane non si studia o si insegna come si
fanno le leggi (il modo principale, nel nostro e in altri Paesi europei, di
produzione del diritto), osservando che non possiamo aspettarci che tale studio
venga impartito in altre Facoltà, ad esempio di chimica e di medicina. E
avevo pure osservato che, per lo più, nelle Facoltà giuridiche,
non si insegna neppure come si fa l’interpretazione: si insegnano i
contenuti delle norme e delle sentenze, destinati in molti casi a cambiare
rapidamente, e non si insegna all’aspirante operatore del diritto e
futuro giurista l’unica cosa che conta e gli servirà veramente
nella vita, vale a dire a cavarsela da solo di fronte a un problema giuridico
impostandolo e risolvendolo correttamente.
La
fondatezza dei rilievi richiamati risulta anche dal libro di Natalino Irti, Nichilismo giuridico, sul quale ho
espresso il mio radicale dissenso in uno scritto apparso da poco nella Rivista di diritto civile. Lo studioso
ha creduto di scoprire che il diritto è fatto dall’uomo e sentite
come egli si esprime in due distinti passi in argomento.
«L’età
moderna ha esteso al diritto la parola più audace e crudele:
‘produrre’. Le norme giuridiche, al pari di qualsiasi bene di
mercato, sono ‘prodotte’: vengono dal nulla e possono essere
ricacciate nel nulla».
«La
‘tecnica’ del diritto si è fatta propriamente tecnica. Non
serve più a conoscere la verità, o a dedurre norme da un ordine
sopra – o extra – storico (divino o naturale che sia), ma a
garantire la razionalità della produzione. Questa parola –
terribile per l’immagine del distruggere e costruire, del trarre dal
nulla e ricacciare nel nulla – ha preso possesso del diritto. Le norme
sono ‘prodotte’: al apri di ogni merce, offerte ai consumatori,
usate, logorate, sostituite».
Da
quando esiste il diritto è sempre stato prodotto dall’uomo (non
è mai esistito, nella realtà terrena, diritto prodotto altrimenti)
e il dato era già pienamente percepito e valutato nella scienza
giuridica romana. L’artificialità del diritto si trova espressa
nella definizione celsina di esso come ars
boni et aequi. Di per sé la produzione del diritto non è
terribile, né audace o crudele; è un dato della realtà,
come lo sono la costruzione di un aereo e quella di un edificio. Come il
linguaggio si è rivelato uno strumento valido per le relazioni umane e
creazioni artistiche, così il diritto è apparso uno strumento
finora insostituibile per assicurare la pacifica convivenza nelle aggregazioni
umane. Il linguaggio e il diritto sono oggettivamente prodotti utili. La
malvagità risiede – può risiedere – nell’animo
e negli intenti umani: nel loro uso distorto da parte dell’uomo, il che
può verificarsi per ogni elemento da lui prodotto. Così è
malvagia l’emanazione di norme per lo sterminio di un popolo, la
costruzione di un aereo per lo sganciamento di bombe atomiche su popolazioni
inermi e l’apprestamento di un locale sotterraneo per rinchiudervi
persone sequestrate.
L’accantonamento
del dato in esame, che Natalino Irti ha ritenuto di scoprire, ha dato luogo,
nella scienza giuridica, a una lunga catena di travisamenti. Addirittura nella
scuola storica è stato sostenuto che il diritto si autoproduce e, per la
consuetudine, l’idea della formazione spontanea (suggerita dal raffronto
con la produzione legislativa) continua tuttora ad essere sostenuta. Mi
sovviene per un raffronto - ovviamente da farsi con le opportune cautele -
l’episodio biblico del vitello d’oro. Ne riferisco i tratti
salienti, per quanto notissimi.
«Il
popolo, vedendo che Mosè tardava a scendere dalla montagna» [dal
monte Sinai], «si affollò intorno ad Aronne e gli disse:
‘Facci un Dio che cammini alla nostra testa, perché a quel
Mosé, l’uomo che ci ha fatti uscire dal paese d’Egitto, non
sappiamo che cosa sia accaduto’. Aronne rispose loro: ‘Togliete i
pendenti d’oro che hanno agli orecchi le vostre mogli e le vostre figlie
e portateli a me’. Tutto il popolo tolse i pendenti che ciascuno aveva
agli orecchi e li portò ad Aronne. Egli li ricevette dalle loro mani e
li fece fondere in una forma e ne ottenne un vitello fuso. Allora dissero:
‘Ecco il tuo Dio, o Israele, colui che ti ha fatto uscire dal paese
d’Egitto’. Ciò vedendo, Aronne costruì un altare
davanti al vitello e proclamò: ‘Domani sarà festa in onore
del Signore’. Il giorno dopo si alzarono presto, offrirono olocausti e
presentarono sacrifici di comunione. Il popolo sedette per mangiare e bere, poi
si alzò per darsi al divertimento».
Gli
israeliti sapevano perfettamente che il vitello d’oro era stato fatto
costruire da Aronne con la fusione dei pendenti muliebri da essi conferitigli.
E sapevano pure che era stato Mosé a farli uscire dal paese
d’Egitto, come da essi stessi premesso nella richiesta ad Aronne. Eppure
non esitarono ad elevare il vitello in tal modo fuso a loro Dio, declamando che
era stato lui a farli uscire dall’Egitto già prima di essere stato
costruito.
Il
diritto è uno strumento apprestato dall’uomo, che peraltro,
rimovendo questo dato, tende, in base ad accreditata teoria, a farne il proprio
padrone, ritenendosi assoggettato a qualsiasi norma da esso posta, anche se
prescrivente crimini, purché risulti emanata nella forma prescritta. In
questa raffigurazione la divinità o il padrone, verso cui si dichiara
l’indiscriminata soggezione, diventa quest’ultima.
Cari
giovani che i ascoltate, permettetemi che vi dica, con tutta l’energia di
cui sono capace, di rifiutare le lusinghe delle teorie che, in qualsiasi modo,
pervengono a giustificare la prescrizione e il compimento di crimini. Per
quanto autorevolmente sostenute e, in apparenza, logiche, si tratta di teorie che contrastano, in linea
generale, con le esigenze umane e, specificamente, con i fini del diritto.
Alla
luce dei rilievi fatti si deve dire che la supposta scoperta dell’Irti
circa la produzione del diritto da parte dell’uomo non appare
ingiustificata nel panorama circoscritto delle dottrine tuttora dominanti nella
nostra attuale scienza giuridica, caratterizzate (a mio avviso, inficiate) dal
distacco dalla realtà. Tuttavia, se la scienza romanistica,
anziché attribuire al diritto romano l’attuale concezione corrente
del diritto, avesse posto adeguatamente in luce quella trasfusa da Celso figlio
nella definizione dello stesso come ars
boni et aequi, verosimilmente lo studioso avrebbe evitato i travisamenti in
cui è incorso.
Tale
definizione, a lungo accantonata o considerata con sufficienza – sotto
sotto talora schernita –, è, a mio avviso l’elemento da cui
occorre iniziare il recupero dell’eredità perduta del diritto
romano. In essa la sussunzione del diritto nel genere ars ne evidenzia l’artificialità, la sua produzione da
parte dell’uomo, mentre la differenza specifica, individuata nel bonum et aequum, delinea nel contempo
gli indispensabili connotati che lo caratterizzano (in assenza dei quali esso
non si riteneva sussistere) e i supremi criteri per la sua produzione,
interpretazione e applicazione. La concisione tacitiana e la stessa
manchevolezza (in punto della prescrittività) della definizione non
devono trarre in inganno: essa è uno scrigno prezioso, che non ha finora
perso valore.
La
ricerca dell’eredità perduta del diritto romano è per me
rivolta alla revisione funditus della
scienza giuridica attuale, a cercare – per quanto sommessamente, non
posso fare a meno di dirlo – di promuoverne la rifondazione, eliminandone
il difetto principale, costituito dal disancoramento dai dati reali,
particolarmente palese nell’impostazione dei problemi generali, quali la
concezione del diritto, la sua produzione, interpretazione e applicazione, i
distinti compiti del legislatore, del giudice, del giurista, l’idea di
giustizia. Nell’ottica adottata da Ulpiano, nei confronti degli astratti
postulati della filosofia stoica, si deve dire che, negli ambiti considerati,
l’attuale scienza giuridica non è vera (aderente ai dati della realtà) ma simulata (finta, in quanto non rispondente alla realtà di
cui sono elementi le esigenze umane).
Adduco,
come esempio, la persistente configurazione del diritto naturale nella nostra
tradizione, secondo – in via di somma approssimazione – due linee
principali: la riconduzione di tale diritto a Dio, o alla natura, e,
rispettivamente, alla ragione umana.
A
sostegno della prima posizione è stato autorevolmente rilevato (Tommaso
d’Aquino) che il diritto è scritto nelle cose: all’uomo
basta leggerlo. L’asserzione è però priva di riscontro
nella realtà. Così non si scorge, nell’acqua che sgorga dal
suolo o scorre su di esso, l’indicazione se sia pubblica o privata. Una
stessa acqua, in base alle mutate esigenze e vedute, è stata considerata
ora privata e ora pubblica. Tanto meno si trova indicato in qualche luogo se si
debba ammettere o non ammettere l’usucapione e quale sia, nel primo caso,
la durata del possesso per il suo compimento (uno, due, cinque, dieci o ancora
più anni). Filosofi e teologi possono elaborare, riguardo al diritto,
tutte le possibili teorizzazioni, ma non possono cambiare il dato di fatto che
il diritto è un prodotto umano.
La
seconda posizione è frutto di equivoco e lo alimenta. Non è
dubbio che il c.d. diritto naturale è riconducibile alla ragione umana.
Non sono però accettabili le illazioni che ne vengono tratte. In primo
luogo il dato non caratterizza il diritto naturale rispetto ad altre parti o
configurazioni del diritto. Anch’esso, infatti, come queste ultime,
è prodotto dall’uomo con la peculiare facoltà, nella quale
si ravvisa la ragione. In secondo luogo non appare idoneo a caratterizzarlo nei
confronti di tutti gli altri prodotti umani, dal momento che pure questi
vengono posti in essere con l’uso di tale facoltà. In terzo luogo
non consente neanche di sceverare la produzione di diritto buono da quella di
diritto cattivo (sia pure il più malvagio) e dalla stessa commissione di
crimini. Anche per questi ultimi, infatti, l’uomo usa, seppure – si
ritiene - in modo distorto l’indicata facoltà: si pensi alla
progettazione ed esecuzione di un ‘omicidio perfetto’.
Emerge
l’impiego improprio dell’aggettivo ‘naturale’, indice
di una distorsione sostanziale, L’uomo ha creato il linguaggio, ma non
può disattenderne le regole e convenzioni. Non si indica con lo stesso
segno un dato e il suo contrario; non si indica un elemento col segno
apprestato per esprimere il suo contrario: ad esempio, ciò che è
buono col segno ‘cattivo’. Nel nostro caso, il segno
‘naturale’, evocante ciò che è prodotto dalla natura,
viene impiegato per indicare un elemento artificiale, in tutto e per tutto
opera dell’uomo. Non disconosco l’alta ispirazione della posizione
giusnaturalistica considerata, ma non posso, come ho detto, non ritenerla
frutto e fonte di confusione.
Da
tempo ho rilevato una corrispondenza
tra il bonum et aequum nella
definizione celsina del ius e la
ragionevolezza ed uguaglianza nella nostra carta costituzionale, alla quale
limito il raffronto, che peraltro potrebbe essere esteso a carte costituzionali
di altri Paesi e ad atti internazionali sui diritti dell’uomo. Aequum ed eguaglianza indicano
l’eguaglianza nel campo giuridico. Bonum
esprime, nella visuale del risultato, la soluzione buona (ottimale: quella
migliore possibile), che si consegue con l’uso della ragione; da parte
sua la ragionevolezza evidenzia, nella prospettiva della valutazione umana, la
conformità alla ragione della soluzione adottata: ovviamente sempre con
la tensione alla migliore possibile. Accanto ai fondamentali aspetti di
convergenza rilevati, si colgono tuttavia, tra le due impostazioni, differenze
che meritano di essere poste in luce.
Celso,
definendo il diritto come ars boni et
aequi (l’arte del buono e dell’equo: di ciò che è
buono ed equo, si intende nella sfera giuridica), individuò
parallelamente, nel bonum et aequum,
sia gli indispensabili connotati del diritto (in assenza dei quali esso non
esiste), sia i supremi criteri ai quali esso è (deve essere) improntato.
Viceversa gli autori della nostra carta costituzionale esplicitarono soltanto
l’eguaglianza (art. 3), nella quale, inoltre, non pervennero a percepire
il supremo criterio ispiratore del diritto, limitandosi a collocarlo tra i
«principi fondamentali» della costituzione e, quindi,
dell’ordinamento. Alla prima deficienza ha ovviato la Corte
costituzionale, enucleando dal principio di eguaglianza quello di ragionevolezza.
Al superamento della seconda deve provvedere, in primis, la dottrina, così come ho mostrato nello scritto
pubblicato negli Studi in onore di Pietro
Rescigno. Effettivamente, come il bonum
et aequum, la ragionevolezze a l’uguaglianza non attengono alla
disciplina di determinate materie (proprietà, impresa, imposizione
fiscale, pubblica istruzione, ecc.), bensì costituiscono i supremi
criteri che debbono guidare nella posizione e applicazione di ogni singola
norma, come reggere l’ordinamento nel suo insieme.
‘Bonum et aequum’ rispondono ad
un’ottica più concreta che non ‘ragionevolezza e
uguaglianza’. La lingua latina disponeva di più segni di quella
italiana per esprimere diversi aspetti dell’uguaglianza. Come esempi di
tali aspetti possono addursi l’eguaglianza , di carattere matematico, tra
le quote ereditarie di due figli succeduti al padre morto intestato, e quella,
a base valutativa, tra i beni, che vengono in concreto suddivisi tra essi:
rispettivamente una casa in campagna e un alloggio in città, un prato e
una vigna, un anello e due orecchini, ecc. A prescindere dalla serie aequabilis, aequabilitas, aequabiliter,
si possono richiamare le catene ‘aequalis,
aequalitas, aequaliter’ ed ‘aequus,
aequitas, aeque’. L’aggettivo ‘aequalis’ e gli altri termini della prima catena erano idonei
ad esprimere l’eguaglianza fisica o matematica, aequus e gli altri segni della seconda si attagliavano, viceversa,
ad altri aspetti dell’uguaglianza, fra i quali quello
dell’uguaglianza proporzionale, peculiare al fenomeno giuridico.
Nella
lingua italiana la catena ‘uguale, uguaglianza, ugualmente’,
solitamente usata nel linguaggio comune, come in quello giuridico, non offre,
per forza di cose, una consimile duttilità.
La
ragionevolezza indica la rispondenza alla ragione, sottintendendone l’uso
per fini buoni. L’uomo usa però la facoltà, in cui si
identifica la ragione, anche per fini cattivi, come, secondo l’esempio
fatto, nell’ideazione di un delitto perfetto. La prospettiva del bonum (del buono, di ciò che
è buono), adottata da Celso escludeva, o per lo meno, allontanava, la
possibilità del riferimento alla ragione anche per fini cattivi, o
addirittura malvagi.
Come ho
detto, il mio disegno di promuovere una revisione (ho parlato sopra di
rifondazione) della scienza giuridica è limitato, in questa fase, ai
problemi generali del diritto. Rilevo tuttavia che essa, anche così
circoscritta, influenza le soluzioni concrete. Esemplifico a proposito del
problema delle lacune dell’ordinamento (se esse esistano e, in caso positivo,
se e come possano essere colmate), adducendo, in argomento, la decisione emessa
nel dicembre scorso dal tribunale di Roma nel procedimento cautelare N.R.G.
78596/2006, relativo al caso Welby, che aveva suscitato allora tanta attenzione
e scalpore nell’opinione pubblica. L’argomentata decisione del
giudice romano meriterebbe un esame dettagliato. Mi limito tuttavia a riferirne
due brani particolarmente significanti in ordine al problema indicato, il
secondo dei quali conclude (tralasciando la questione spese) la parte motiva.
–
«Può … affermarsi che il divieto di accanimento terapeutico
è un principio solidamente basato sui principi costituzionali di tutela
della dignità della persona, previsto nel codice deontologico medico,
dal Comitato Nazionale per
–
«In altri termini, in assenza della previsione normativa degli elementi
concreti, di natura fattuale e scientifica, di una delimitazione giuridica di
ciò che va considerato ‘accanimento terapeutico’, va esclusa
la sussistenza di una forma di tutela tipica dell’azione da far valere
nel giudizio di merito e, di conseguenza, ciò comporta la
inammissibilità dell’azione cautelare, attesa la sua finalità
strumentale e anticipatoria degli effetti del futuro giudizio di merito. Solo
la determinazione politica e legislativa, facendosi carico di interpretare la
accresciuta sensibilità sociale e culturale verso le problematiche
relative alla cura dei malati terminali, di dare risposte alla solitudine e
alla disperazione dei malati di fronte alle richieste disattese, ai disagi
degli operatori sanitari ed alle istanze di fare chiarezza nel definire
concetti e comportamenti, può colmare il vuoto di disciplina, anche
sulla base di solidi e condivisi presupposti scientifici che consentono di
prevenire abusi e discriminazioni…».
Anche
in relazione ai brani riferiti la mia critica è ridotta
all’essenziale.
Il
giudice romano ha ragione nel ritenere illusorio e contraddire il convincimento
del legislatore italiano del 1942, secondo cui il ricorso all’analogia e
ai principi generali dell’ordinamento giuridico dello stato consentirebbe
in ogni caso la colmatura delle lacune, che si presentano (ma, in
realtà, sarebbero solo apparenti) nella previsione normativa. Il futuro
caso nuovo, proprio perché tale, è, per definizione, ignoto:
nessuno può sapere, prima che esso si presenti, come sarà
configurato e se, quindi, rientrerà o non rientrerà
nell’ambito previsionale delle norme e principi stabiliti nel sistema.
Nella nostra tradizione il rilievo di immancabili vuoti previsionali nel senso
detto, in ogni sistema giuridico, risale per lo meno a Catone. Occorre peraltro
precisare che, nella visione romana richiamata, i vuoti si rinvenivano nelle
norme poste (noi diremmo nella legge), non nel diritto.
Il
torto, se così si può dire, attribuibile al giudice, è
stato di adagiarsi nell’alveo del comune sentire, non tenendo conto del
mutamento recato nel nostro sistema giuridico dall’emanazione della carta
costituzionale: precisamente nella recezione in essa – non importa se,
come ho rilevato, senza la consapevolezza dei suoi autori – dei supremi
principi della ragionevolezza e uguaglianza. Eppure si è trattato di un
mutamento, in potenza, epocale, destinato ad incidere, con l’apporto
della scienza giuridica, sull’intero sistema, capovolgendo, in apicibus, lo stesso rapporto tra
legge e diritto. A proposito dei principi generali del diritto il legislatore del
1942 era ancorato alla visione giustinianea, secondo la quale esso è
subordinato alla legge: in questa visione si è insegnato che il diritto
dipende in toto dallo stato, che
è opera esclusiva del legislatore, il quale lo pone (lo fa e lo disfa a
proprio piacimento) mediante la legge. La posteriore introduzione nel sistema
dei supremi principi indicati ha comportato il ritorno (del quale occorre
finalmente mettere a frutto le implicazioni) alla prospettiva della definizione
celsina del diritto come ars boni et
aequi. Come ho già mostrato, in questa prospettiva il diritto
sovrasta la legge, la quale deve rispettarne la sostanza, commisurata al bonum et aequum, a cui possono
ricondursi la ragionevolezza ed uguaglianza.
La
manchevolezza rilevata sta alla base della incoerenza, che la decisione
presenta. La motivazione è costituita da un’argomentazione volta a
dimostrare, in ordine al caso da decidere, l’esistenza, nel nostro
sistema, di un vuoto normativo non colmabile da parte del giudice, ma solo ad
opera del legislatore. Essa giustifica solo in apparenza (da un punto di vista
estrinseco formale) l’«inammissibilità del ricorso»,
dichiarata, quindi, nella parte dispositiva. La portata pratica del dispositivo
non cambia a seconda della motivazione. Nel caso il giudice, basandosi sul
vuoto normativo, ha respinto il ricorso, così come avrebbe fatto se lo
avesse giudicato in contrasto con una norma in vigore. E la stessa astensione
del giudice dal decidere si tradurrebbe, in realtà, in una decisione,
equipollente, per chi promuove la controversia (come in generale per le parti),
al rigetto della sua domanda.
La
motivazione del giudice romano sembra preludere (e si presente in ogni modo
congrua) alla promozione di un’apposita procedura intesa a colmare il
vuoto normativo, così come risultava previsto nel sistema giustinianeo
della compilazione, a proposito dei casi nuovi o dubbi, e come lo è
stato nell’esperienza francese, in forza dell’istituto del référé
législatif, ed in altre esperienze giuridiche, grazie ad istituti
consimili.
La
verità è che, nei sistemi in cui non è prevista
l’iniziativa del giudice per assicurare la colmatura dei vuoti normativi,
egli deve pronunciarsi su tutti i casi, per i quali ha competenza, a lui
sottoposti. Il che appare necessario per evitare la patente ingiustizia insita
nell’indiscriminato costante rigetto della domanda proposta, in cui si
concreta, in difetto della prevista colmatura, la constatazione del vuoto
normativo. Com’è noto, l’art. 4 del
titolo preliminare del codice civile francese prescrive che «le juge qui refusera de juger, sous
prétexte du silence, de l’obscurité ou de
l’insuffisance de la loi, pourra être poursuivi comme coupable de
déni de justice». Se pure la formulazione
dell’articolo è da riconnettere storicamente all’abrogazione
del référé
législatif, esso è espressione di un principio generale,
operante nei sistemi giuridici, nei quali non compete al giudice
l’attivazione per la colmatura dei vuoti e la correzione delle storture
legislative. D’altronde, come ho già rilevato, anche
l’astensione dal decidere costituisce, in realtà, una decisione. E
si tratterebbe, obiettivamente, della soluzione peggiore, a causa della
necessaria uniformità di trattamento di tutti i casi, congiunta
all’assenza di valutazione. Chiaramente l’apertura
all’ingiustizia non appare limitata al déni de justice contemplato nella norma francese citata.
Gli
elementi fondanti della definizione celsina sopra richiamata del diritto
mostrano che le difficoltà incontrate, sia sul piano teorico che su quello
pratico, dal giudice romano non hanno base nella realtà, ma
nell’ideologia, che non ne tiene conto.
Il
versamento del diritto nell’ars riflette
il dato di fatto che il diritto, in quanto elemento artificiale, è opera
dell’uomo, che lo produce, lo elabora, interpreta ed applica. La connessa
precisazione che il diritto è l’ars boni et aequi esplicita gli imprescindibili requisiti della
disciplina della convivenza umana, esprime la differenza specifica dell’ars iuris nei confronti delle altre artes ed enuncia i supremi criteri che
guidano le attività in cui si esplica il fenomeno giuridico. Tali
attività sono molteplici e svariate (ne sono esempi significativi i
differenti compiti del legislatore, del giudice e della dottrina), ma hanno tutte,
in comune, l’ispirazione e tensione al bonum et aequum nei profili indicati.
Il
giudice romano, ritenendo di individuare un vuoto normativo colmabile solo dal
legislatore, ha argomentato nella linea della visione giustinianea, ponente la legge
(e il legislatore) al di sopra del diritto. Viceversa, la definizione celsina,
che risolve il diritto nell’attività umana indirizzata al bonum et aequum e da essi guidata,
colloca, come ho già detto, il diritto al di sopra della legge. Sia il
legislatore che il giudice sono persone umane (una singola persone o una
pluralità di persone: collegio o assemblea); l’uno e l’altro
assolvono compiti peculiari, non scambiabili o confondibili (il primo provvede
alla emanazione di norme generali ed astratte e il secondo alla decisione di
casi concreti), ma entrambi devono conformare la propria attività al bonum et aequum. Uno stesso soggetto
può trovarsi, in contingenze diverse della vita, nell’esercizio
della funzione di legislatore e di quella di giudice.
Non
è vero, contrariamente a quanto supposto nella decisione in oggetto, che
solo il legislatore disponga degli elementi necessari per intervenie in
presenza di lacune normative. Intanto, nella prospettiva della divisione dei
poteri, al legislatore è preclusa, anche in tale evenienza, la decisione
di casi concreti. D’altra parte anche il giudice ha a disposizione ed
è tenuto ad usare, nella propria attività, i supremi criteri del bonum et aequum, così come
può procurarsi i necessari elementi conoscitivi.
Come ogni
altra, pure le questioni poste dai vuoti normativi vanno risolte alla stregua
del bonum et aequum, in aderenza alle
oggettive esigenze umane, non in base a precostituite presupposizioni
ideologiche.
Si
profilano, in proposito, due ordini di constatazioni.
E’
assodato che nessun legislatore è stato ed è in grado di
prevedere tutti i casi che potranno presentarsi in futuro, evitando così
il profilarsi di lacune normative. Del pari nessun legislatore è stato
ed è in grado di provvedere in anticipo, o comunque in modo tempestivo,
all’adeguamento delle norme esistenti (si pensi alle decine di migliaia
di quelle in vigore in Italia) ai mutamenti che intervengono nelle sottostanti
situazioni ed esigenze sociali. Si danno quindi, in ogni sistema (se pure non
vengono evidenziati per ragioni ideologiche), sia casi non rientranti nella
previsione delle norme in vigore, sia casi, in ordine ai quali,
l’applicazione delle norme, di cui entrano nella formale previsione,
dà luogo a soluzioni contrastanti col bonum et aequum (secondo la rappresentazione romana, ad iniquitates).
Nei
casi riferiti la via di non decidere, teorizzata dal giudice romano,ma da lui
stesso non seguita in fatto, è la soluzione peggiore possibile. Come si
è mostrato, il giudice, decidendo di non poter decidere, in
realtà decide e decide male.
La
conclusione si impone da sola. E’ ancora da richiamare, per completezza,
in argomento, la funzione della iurisdictio
(distinta dalla iudicatio), che ebbe
tanto rilievo per lo sviluppo del diritto nell’esperienza romana e
costituisce uno degli elementi più significativi
dell’eredità perduta del diritto romano, di cui perseguo il
recupero. La sua rimozione, consolidata nella compilazione giustinianea, non ne
ha eliminata l’esigenza, com’è mostrato dal persistere,
nell’esperienza storica, dei due ordini di casi richiamati, nei quali si
presenta necessaria l’individuazione, in sede giudiziaria, del diritto da
applicare nel caso concreto.
Osservo,
infine, che l’auspicata rifondazione della scienza giuridica dovrà
avere come corollario quella del corso degli studi nel campo giuridico (in
contrasto, nelle Facoltà giuridiche italiane, di cui ho discreta
conoscenza, con l’indirizzo prevalso negli ultimi decenni). Senza entrare
nell’argomento, richiedente un’apposita trattazione, formulo il
rilievo, di carattere preliminare e insieme generale, che gran parte del tempo
al presente dedicato allo studio dei contenuti delle norme poste e delle
sentenze pronunciate, dovrà essere destinato all’apprendimento, al
livello teorico e nell’applicazione pratica, dell’ars iuris, sia in relazione alla
produzione del diritto, sia, soprattutto, alla sua elaborazione,
interpretazione e applicazione.
Passo
ora a richiamare, per indicem e senza
pretesa di completezza, la concatenazione di avvenimenti e ragioni, che hanno
determinato e consolidato la perdita e, quindi, precluso – finora –
il recupero degli elementi in considerazione del diritto romano.
La loro
perdita si è avuta entro la vicenda storica del diritto romano.
Dapprima
tali elementi sono stati via via rimossi dal sistema nel corso del mutamento
istituzionale costituito dalla transizione dalla forma repubblicana, a base
democratica, a quella del dominato, a carattere assoluto, attraverso la fase
intermedia del principato. I termini essenziali del mutamento, esplicatosi in primis sul piano giuridico, sono noti
anche a non romanisti. Meritano in particolare di essere ricordate la
sottrazione al popolo della sovranità, a cui è inerente il potere
di creare diritto, e la burocratizzazione sia della giurisprudenza che della
funzione giudiziaria, con la conseguente esclusione di entrambe dal circuito
della produzione del diritto, ora concentrata, grazie all’eliminazione
anche nel concorso in essa del senato, nel potere imperiale a carattere assoluto.
Successivamente
Giustiniano si propose, per quanto possibile, la definitiva cancellazione degli
elementi in oggetto nei testi legislativi e scolastici apprestati con la
compilazione. Possono in specie addursi, al riguardo, la consapevolezza,
espressa nella costituzione disponente il riordino degli studi giuridici, di
aver operato una trasformazione senza pari nel campo giuridico (detta, in
aderenza alle nuove vedute, legum
permutatio), la prescrizione, impartita ai commissari incaricati della
compilazione, di apportare ai testi utilizzati tutti i tagli, aggiunte e
modifiche occorrenti per il loro adeguamento alle nuove vedute ed esigenze, e
il divieto, sanzionato penalmente, sia di confrontare la nuova scrittura dei
testi con quella originaria, sia di consultare e utilizzare qualsivoglia testo,
antico o nuovo, diverso da quelli della compilazione.
Il
disegno giustinianeo di utilizzare i testi antichi per rappresentare il diritto
nuovo si presentava obiettivamente irrealizzabile. In esso
l’ambiguità e la contraddizione tra la reverentia all’antiquitas
e l’innovazione sono in re ipsa.
Peraltro, la prima, come risulta dal luogo (§10) della costituzione Tanta, dove è enunciata, si
estrinsecò per forza di cose solo negli aspetti esteriori, coprenti le
modificazioni ordinate dall’imperatore e costituenti oggettivamente
falsificazioni, aggravate, a ben vedere, dal divieto del loro accertamento.
Giustiniano perseguì una nuova teorizzazione nel campo giuridico,
rappresentata come legum doctrina, in
consonanza con l’assetto del dominato, nel quale tutto il potere –
che lo stesso Giustiniano disse, a proposito delle esplicazioni giuridiche, di
non voler dividere con chicchessia – era concentrato nella carica
imperiale. Già poco dopo la pubblicazione del primo Codice egli respinse
e derise, nella prospettiva della nuova teorizzazione, i dubbi avanzati da
taluni circa l’esclusiva spettanza all’imperatore, in una con la conditio legum, della loro interpretatio (C. 1,14,12).
Il
metodo usato per la compilazione spiega il fatto che in essa sono rimasti
elementi del diritto antico. Sovente peraltro uno stesso elemento ha assunto,
nel sistema della compilazione (il dato va accertato caso per caso), un
significato diverso da quello che aveva avuto in quello repubblicano e imperiale.
E lo studioso deve tenerne conto nella ricostruzione, secondo un’abusata
semplificazione, sia del diritto classico che di quello giustinianeo.
Adduco,
quale esempio, la definizione celsina del diritto, la quale nella veduta del
giurista classico esprimeva, in consonanza al sistema allora in vigore, la
preminenza del diritto sulla legge, mentre nel sistema giustinianeo appare
conformata all’avvenuto capovolgimento, che ha portato la legge al di
sopra del diritto. La conformazione risulta da una serie di elementi che
richiamo brevemente.
La
definizione celsina del diritto è riferita nel titolo primo, de iustitia et iure, del Digesto, ma
è omessa nel titolo corrispondente delle Institutiones, contenenti, secondo quanto ideato da Giustiniano, i prima legum cunabula (detti anche totius legitimae scientiae prima elementa
e totius eruditionis prima fundamenta
atque elementa).
Nel
sistema della compilazione l’ars
iuris, così rimossa dai fundamenta
della legitima scientia, era affare
esclusivo dell’imperatore (legislatore); in coerenza anche la rispondenza
delle norme poste al bonum et aequum
risultava affidata, per l’avvenuta eliminazione della iurisdictio, al suo esclusivo giudizio
(in definitiva al suo volere), sottratto ad ogni controllo. Non solo non
esistevano più le condizioni per un influente controllo politico-sociale
sull’attività legislativa, il più possibile compresso in
sistemi quale il dominato, ma era venuto meno anche quello tecnico-giuridico
esercitato dal magistrato, che svolgeva l’indicata funzione, su ogni
pretesa fatta valere in giudizio, al fine di assicurare che il ius ad essa applicato fosse consono al bonum et aequum, anche in assenza di una
pertinente previsione normativa o in difformità da quelle esistenti. Ed
era esclusa la stessa critica da parte dei giuristi. Appare chiaro che, nel
sistema della compilazione, la definizione celsina del ius aveva perduto rilievo sia teorico che pratico: non era
più percepito il significato pregnante che essa aveva avuto nella
raffigurazione del giurista classico e non ne emergeva un altro ritenuto
meritevole di attenzione. Il che spiega la sua successiva rimozione dalla
scienza giuridica, benchè sia riferita nel Digesto e lo sia con indubbio
rilievo nell’incipit del titolo
di apertura de iustitia et iure.
In
Occidente, per la consolidazione della perdita degli elementi in oggetto del
diritto romano, è stata determinante la ripresa degli studi giuridici a
Bologna, e poi in Europa, sulla base della compilazione giustinianea. La
vicenda, fino a quasi la metà del 1800, quando era già in corso
la fase della codificazione, è stata tratteggiata con efficacia dal
Savigny nel primo volume del System des
heutigen römischen Recht. Lo studioso pose in luce che il diritto
giustinianeo differiva, da un lato, dall’anteriore diritto romano e,
dall’altro, dal diritto romano attuale (aggettivo con cui si rese in
italiano quello tedesco heutig). Nel
diritto raffigurato come diritto romano attuale non era confluito tutto il
diritto giustinianeo, e aveva avuto ingresso anche diritto di altra
derivazione, inoltre gli stessi elementi che erano derivati dalla compilazione
giustinianea avevano sovente assunto un significato diverso da quello che
avevano avuto in essa.
Parallelamente
lo studioso rilevò che gran parte del diritto in vigore si era formato
sulla base dei testi della compilazione, «nei limiti e nella forma
speciale, che» avevano «ricevuto nella scuola di Bologna»,
aggiungendo che, «quando, quattro secoli dopo, a quelle fonti, ne furono,
a poco a poco, aggiunte delle nuove, l’esclusivo dominio di quelle
precedenti era da sì lungo tempo e così universalmente
riconosciuto, anzi esse erano tanto penetrate nella pratica giuridica, che fu
del tutto impossibile attribuire alle nuove scoperte un uso, che non fosse meramente
teorico», e sottolineando ancora «che è solo per questo
motivo che il diritto antegiustinianeo è stato escluso da qualunque
applicazione e» che questa «esclusione è ammessa da tutti
senza eccezione».
L’espressione
heutiges römisches Recht, usata
dal Savigny ( e prima da G. Hugo), non è forse la più felice. Con
essa, tuttavia, il massimo esponente della scuola storica ha indicato elementi
chiari e aventi base nella realtà, se pure essi sono stati in seguito
trascurati e travisati. La stessa distinzione tra diritto romano e diritto
romano attuale, ribadita con forza dallo Scialoja, è stata ben presto
obliterata dagli studiosi, come mostra ancora il recente saggio di T. Giaro, Diritto romano attuale. Mappe mentali e strumenti concettuali (in P. G.
Monateri, T. Giaro, A. Somma, Le radici comuni del diritto europeo. Un
cambiamento di prospettiva, Roma 2005).
Dopo la
cessazione, anche in Germania, con l’emanazione del BGB, dell’usus modernus pandectarum (secondo la
rappresentazione della scuola storica, dell’heutiges römisches Recht) si è delineata la prospettiva
– inaccettabile in senso rigoroso – dell’attualizzazione del
diritto romano. Solo in apparenza la vicenda ad essa sottesa (venuto meno il
diritto romano attuale, subentra, in suo luogo, l’attualizzazione del
diritto romano) si presenta lineare. In realtà essa riposa su un
equivoco ed è fonte di confusione. Il c.d. diritto romano attuale era
diverso dal diritto romano , il generico riferimento a quest’ultimo non
tiene conto delle differenze, coinvolgenti anche elementi fondamentali, che
esso aveva presentato nelle successive fasi , e, soprattutto, la declamata
attualizzazione del diritto romano è un evento oggettivamente non
realizzabile, anche a prescindere dagli elementi ritenuti estremi, quali la
schiavitù e le discriminazioni nei confronti del sesso femminile.
Si deve
però aggiungere che anche la critica dell’attualizzazione è
andata oltre il segno, colpendo bersagli inesistenti. Appare sicuro, in specie,
che non rientra nell’attualizzazione l’utilizzazione di elementi
del diritto romano per la valutazione di elementi dell’attuale esperienza
giuridica. Se, infatti, fosse non solo declamata, ma realizzata
l’attualizzazione del diritto romano, non vi sarebbe più spazio
per l’utilizzazione nel senso detto. Si chiudono gli occhi di fronte al
fatto che essa è ammessa senza riserve nello studio del diritto
comparato e si opera una discriminazione, in proposito, nei confronti dello
studio storico (della comparazione diacronica di cui esso sta a base).
Alla
prospettiva dell’attualizzazione è sottesa la ragione di fondo che
ha precluso, anche dopo la cessazione, nei Paesi di civil Law , dell’usus
modernus pandectarum (non ebbe influenza, sul punto, l’eccezione
della Repubblica di San Marino), il recupero degli elementi del diritto romano
della fase repubblicana e imperiale rimossi dalla compilazione giustinianea.
Essa è costituita dall’idea, per lo più latente, ma
largamente radicata, dell’esistenza di forme giuridiche sganciate dalla realtà
sociale e, come tali, applicabili a tutte le fasi del diritto romano, alla
posteriore tradizione romanistica e ancora al presente. Avevo già
osservato, in altri contributi, che tale idea sta alla base
dell’elaborazione, negli ultimi due secoli, sia della dogmatica giuridica
che della dottrina pura del diritto. Aggiungo, in questa lezione, che essa
è pure presupposta dal posteriore indirizzo, che nega l’esistenza
di interpolazioni, almeno sostanziali, nella compilazione giustinianea ed
è sostenuto con particolare vigore da fautori dello storicismo puro. La
negazione di interpolazioni sostanziali presuppone, in effetti, una
corrispondenza sostanziale tra il diritto dell’epoca classica e quello
della compilazione. Sono per contro indiscusse, numerose e, in molti casi,
rilevanti le differenze intercorrenti, sia a livello teorico che normativo, tra
l’uno e l’altro diritto. E non è possibile ritenere, a
proposito del Digesto, che i giuristi classici, anziché riferire il
diritto, anche controverso, del proprio tempo, o del passato, avessero
anticipato le soluzioni e innovazioni scelte e operate da Giustiniano, negli appositi
interventi ufficiali attestati, per guidare l’esecuzione della
compilazione. Si tratta, com’è noto, delle quinquaginta decisiones e delle plurimae
aliae constitutiones ad commodum propositi operis pertinentes: non poche,
tenuto conto della prescrizione generale, già impartita nella
costituzione Deo auctore, di
apportare ai testi utilizzati tutte le modifiche, integrazioni e tagli
occorrenti per adeguarli alle nuove esigenze e vedute. Anche la negazione di
interpolazioni sostanziali, nella compilazione, è frutto di inavvertiti
condizionamenti ideologici.
L’avvenuto
radicamento nella tradizione occidentale di idee guida giustinianee o da esse
derivate emerge, per la fase storica considerata dal Savigny, dalla stessa
critica rivolta da F. Hotman, esponente dell’umanesimo giuridico
francese, all’opera di Triboniano. Si è trattato, all’epoca,
di una critica durissima. Ricordo l’accusa di soppressione ed
eliminazione di tutte le leggi antiche, degli editti del pretore e dei
senatoconsulti, giudicate nel loro insieme «un acte…autant digne du nom de Sacrilège, qu’il en
fut oncques». Eppure, come enunciato nel titolo dato allo scritto in
argomento (Antitribonian ou discours
d’un grand et renommé Jurisconsulte…sur l’étude
des loix…), la sua critica appare svolta all’interno della
prospettiva giustinianea della scientia
legum (non iuris).
Ancora
al presente Aldo Schiavone, propugnatore fra i più tenaci dello
storicismo nello studio del diritto romano, muove la propria critica
all’attualizzazione dello stesso diritto dall’interno di concezioni
elaborate nella nostra tradizione derivata dal diritto giustinianeo. Nella
conclusione del suo ultimo libro (Ius.
L’invenzione del diritto in Occidente, Torino 2005) egli indica il
lascito del diritto romano all’Occidente nel formalismo giuridico, che
– rilevo io – si coniuga con visioni positivistiche nel ritenere
decisivo, per l’esistenza del diritto, l’elemento formale (la sua
posizione nelle forme previste) ed indifferente il contenuto prescritto, anche
se iniquo. Il messaggio dello studioso è stato da me sottoposto ad esame
critico in un saggio pubblicato negli Studi
in onore di L. Labruna, al quale rinvio. Sintetizzando al massimo, si
può dire che, all’insegna dello storicismo puro, è stato,
da un lato, travisato il diritto romano (con l’attribuzione ad esso di un
elemento estraneo, quale risulta il formalismo giuridico) e si è dato,
dall’altro, un implicito avallo (quello di una storia bimillenaria) a
storture tuttora presenti nella nostra scienza giuridica.
Come
conclusione della mia lezione desidero esprimere a voi giovani, che mi
ascoltate, l’augurio che il recupero dell’eredità perduta
del diritto romano possa contribuire a sostituire alla dottrina del formalismo
giuridico e della supremazia della legge sul diritto, quella dell’ars iuris e della soggezione della legge
al diritto (ai supremi criteri che lo informano), non soltanto declamata, ma
assicurata da un efficace controllo nella decisione dei casi, e che voi stessi
possiate concorrere, in un futuro prossimo, al rinnovamento auspicato.
[*] Lezione
tenuta il giorno 3 maggio 2007, su invito del Prof. Sebastiano Tafaro, Preside
della II Facoltà di giurisprudenza dell’Università di Bari con
sede a Taranto, nel Salone degli Stemmi del Palazzo della Provincia di Taranto.
[Il testo scritto, rivisto, è destinato agli Studi in onore di Remo
Martini].