ds_gen N. 6 – 2007 – Contributi

 

onidaMACELLAZIONE RITUALE E STATUS GIURIDICO DELL’ANIMALE NON UMANO

 

Pietro Paolo Onida

Università di Sassari

 

Sommario: 1. Premessa. – 2. Due modelli di relazione fra uomo e altri animali. – 3. Macellazione rituale e relative prescrizioni religiose. – 4. La macellazione: il quadro normativo di riferimento per l’Italia. – 5. Macellazione rituale e valori giuridici di riferimento. – 6. Verso il superamento del dilemma animale oggetto – animale soggetto: una prospettiva romanistica.

 

 

1. – Premessa

 

Una specifica problematica emersa negli ultimi decenni, nell’ambito della più generale questione animale, è quella relativa al contrasto, a livello nazionale e sovranazionale, tra le disposizioni che disciplinano le forme rituali di macellazione proprie delle religioni ebraica e musulmana[1] e le disposizioni che tutelano l’animale non umano dai maltrattamenti[2]. Come è noto, mentre nel nostro ordinamento e in altri ordinamenti dei paesi membri della Unione Europea è stabilito che la macellazione debba essere effettuata con il previo stordimento della vittima, a cui deve seguire, grazie all’uso di strumenti determinati, la morte rapida, nelle religioni ebraica e musulmana l’animale può essere ucciso solo quando è ancora vigile, attraverso lo sgozzamento e quindi il dissanguamento[3].

La macellazione per dissanguamento, forse anch’essa sorta in origine con l’intento di individuare, rispetto alle conoscenze scientifiche del tempo, modalità di abbattimento meno dolorose possibili[4], appare oggi particolarmente cruenta e dunque ammessa, nei paesi membri della Unione Europea, in nome della tutela della libertà di religione, come eccezione alla disciplina generale, la quale è costruita attorno all’uso di cautele e di tecniche funzionali, per quanto possibile, alla necessità, sempre più avvertita nel comune sentire sociale, di evitare dolore per l’animale non umano.

La possibilità di sottoporre l’animale non umano alla macellazione rituale è oggetto di regolamentazione differente nei paesi della Unione Europea, in modo che risulta auspicabile un intervento del legislatore che consenta la progressiva uniformazione della disciplina.

Nella legislazione dei paesi della Unione Europea emerge la tendenza ad ammettere la macellazione rituale, ma con alcuni limiti volti in particolare a garantire la coesistenza tra la disposizione propria delle religioni ebraica e musulmana che prevede che l’animale debba essere vigile al momento del taglio sacrificale e la disposizione comune a diversi ordinamenti statuali che stabilisce l’obbligo dello stordimento dell’animale. Così, ad esempio, nel caso della Finlandia e della Danimarca, la macellazione rituale è ammessa con l’obbligo però di stordire l’animale subito dopo avergli inferto il taglio della gola. In altri paesi europei la macellazione rituale è bandita. In Svezia, ove vige l’obbligo di sottoporre l’animale allo stordimento, la macellazione rituale non è ammessa sin dal 1937. Al di fuori della Unione Europea, in Svizzera, le ragioni della protezione degli animali non umani, ancora nel 2002, a seguito di una consultazione dei Cantoni, sono state ritenute prevalenti sulle ragioni sottese alla tutela della libertà di religione[5].

Si deve poi ricordare che anche fra i musulmani e gli ebrei è sempre più avvertita la esigenza di trovare forme di macellazione che evitino, il più possibile, sofferenze all’animale. Si può citare anzitutto il caso della Malesia, ove, pur essendo tale religione praticata a larga maggioranza, è stato introdotto l’obbligo dello stordimento[6]. Alla stessa Lega Musulmana Mondiale si deve uno studio intrapreso, sin dal 1985, in collaborazione con la Organizzazione Mondiale della Sanità, i cui risultati hanno condotto ad ammettere che lo stordimento elettrico della vittima possa precedere la macellazione rituale e sia addirittura conforme alla raccomandazione del Profeta di non infliggere sofferenza agli animali[7]. Oppure ancora si pensi alle aperture di esponenti autorevoli del mondo musulmano ed ebraico propensi a un ripensamento della questione relativa allo stordimento dell’animale sottoposto alla macellazione, in modo da permettere la celebrazione di un rito più rispettoso possibile anche del valore della vita animale[8].

Il contrasto tra le norme che permettono la macellazione rituale e le norme che tutelano l’animale non umano dai maltrattamenti costituisce quindi una problematica di grande rilevanza giuridica, destinata ad assumere un peso ancora maggiore in connessione con le ondate migratorie e la integrazione di cittadini di religione islamica nei paesi europei. Si tratta di un contrasto, non insanabile, ma comunque grave, tra disposizioni che sono volte a disciplinare fatti persino opposti ma interdipendenti. Le disposizioni in tema di macellazione sono finalizzate a regolare, sia pure all’interno dell’ambito più vasto di quelle volte ad assicurare il rispetto della libertà di religione, un evento specifico qual è la morte dell’animale non umano. Le disposizioni in tema di maltrattamento animale, invece, all’interno dell’ambito più vasto di quelle norme volte ad assicurare il benessere animale, sono dirette a tutelare la vita dell’animale non umano.

Il problema fondamentale che l’ammissione della macellazione rituale ebraica e islamica comporta, all’interno dell’ordinamento italiano e degli altri ordinamenti dei paesi europei, è dunque quello di garantire, da un lato, l’esercizio della libertà di religione e, dall’altro, di individuare, al contempo, i limiti in cui tale libertà possa esplicarsi di fronte ad altri valori anch’essi essenziali. Di fronte alla uccisione di animali che spesso ha provocato lo sdegno in una opinione pubblica che non riesce a comprendere il significato anche religioso di tali pratiche, occorre tentare, per quanto possibile, di impostare la questione correttamente sul piano giuridico per offrire una sintesi tra il valore della libertà di religione e il valore della vita animale.

 

 

2. – Due modelli di relazione fra uomo e altri animali

 

A ben vedere, dietro il contrasto tra le disposizioni in tema di macellazione rituale e le disposizioni in tema di maltrattamento degli animali non umani si cela una divergenza molto più difficile da ricomporre tra due diversi modi di pensare l’animale non umano e i rapporti tra uomo e altri animali. Una divergenza che è possibile sintetizzare nei termini di una contrapposizione tra la concezione dell’animale vivo e la concezione dell’animale morto. Vale a dire: tra un modo di pensare l’animale non umano come essere affine all’uomo, meritevole di una tutela anche giuridica volta a proteggerne la condizione di essere vivente, e un modo di pensare l’animale non umano come essere distante dall’uomo, più vicino alle cose inerti, la cui uccisione appare perciò ammissibile[9]. Tali modi sono oggetto di una prima riflessione scientifica nella filosofia greca con influenze significative, come si vedrà, anche sulla analisi della condizione animale nella scienza giuridica[10].

Nella filosofia greca è anzitutto presente un modello di relazioni fra uomo e animali non umani, fondato sulla reciproca affinità, in nome della quale si riconosce una partecipazione di tutti gli esseri animati al diritto. Tale modello è particolarmente evidente in Pitagora, il quale rifiuta la uccisione di un altro animale da parte dell’uomo e afferma la necessità di difendere la vita nelle sue diverse manifestazioni[11]. Il filosofo, dalla idea generica del semplice rispetto per gli altri esseri animati, già formulata in passato[12], giunge alla idea specifica di una vera e propria comunanza di diritto tra uomini e animali: la credenza nella trasmigrazione e la condanna dei maltrattamenti inferti agli animali non umani[13], il divieto di sacrifici animali a scopo religioso[14] e la proibizione della alimentazione carnea[15] sono modalità di distinzione dell’uomo giusto dalla progenie impura di coloro che, cacciatori e pescatori, non esitano a uccidere gli altri esseri animati[16], e sono elementi sui quali fondare la costruzione di rapporti di amicizia anche tra l’uomo e gli altri animali[17]:

 

Giamblico, Vita di Pitagora, 24,107-108: 107 Ora, queste prescrizioni concernenti l’alimentazione erano comuni a tutti; in particolare, poi, a coloro che fra i filosofi erano più inclini alla speculazione e che in questa si erano spinti più avanti vietava in modo assoluto i cibi superflui e ingiustificati: raccomandava di non cibarsi mai delle carni di un essere vivente, di non bere assolutamente vino, di non sacrificare agli dei animali, di non fare loro in alcun modo del male, rispettando con la massima attenzione le norme della giustizia anche nei loro confronti. 108 Quanto a lui, visse proprio in questo modo, evitando di cibarsi degli animali e venerando gli altari sui quali non si facevano sacrifici cruenti, adoperandosi affinché anche gli altri non sopprimessero gli esseri viventi di natura simile alla nostra e d’altra parte ammansendo e ammaestrando le bestie selvatiche con le parole e gli atti, lungi dal maltrattarle infliggendo loro dei castighi. Nell’ambito poi dei politici, prescriveva ai “legislatori” di astenersi dalla carne degli animali. Dal momento che era loro intenzione praticare la perfetta giustizia, era ben necessario che non recassero oltraggio agli esseri viventi con noi imparentati. Perché come avrebbero potuto persuadere gli altri a essere giusti, quando proprio loro erano preda dello spirito di prevaricazione? Un vincolo di parentela unisce gli esseri viventi e gli animali, per il fatto di avere in comune con noi la vita e di essere costituiti dei medesimi elementi, inoltre per la mescolanza da questi risultante, sono congiunti a noi da un legame di fratellanza[18].

 

Accanto al modello pitagorico è però presente nella filosofia greca, in particolare con Aristotele, un modello teso alla rottura del rapporto simpatetico tra uomo e altri esseri animati e alla legittimazione di ogni pratica letale finalizzata allo studio dell’animale non umano[19]. Il filosofo sostiene con fermezza la supremazia dell’uomo sugli altri animali[20]. Di conseguenza egli rifiuta la tesi secondo cui anche gli animali non umani posseggano una qualche forma di intelligenza[21]. La stazione eretta e le mani, pur essendo caratteristiche proprie anche di altri animali, sono però presenti nella loro espressione più alta nel genere umano [22]. Significativa, sempre in una ottica antropocentrica, è la polemica condotta da Aristotele contro Anassagora: quest’ultimo aveva affermato che era stato il possesso degli arti superiori ad avere reso l’uomo il più intelligente fra gli animali; lo Stagirita sostiene, al contrario, che l’uomo è dotato delle mani proprio perché è il più intelligente fra tutti gli esseri animati[23]. La esaltazione di alcune caratteristiche in chiave antropocentrica è dunque la base per negare la partecipazione degli animali non umani al diritto. Aristotele considera l’uomo animale politico come del resto le api, le formiche e le gru[24]. Tuttavia egli nega l’ammissibilità di rapporti giuridici tra uomo e animale non umano:

 

Aristotele, Etica Nicomachea, 8,11, 1161b1-3: Non v’è amicizia né legame di giustizia verso le cose prive di anima. E neppure vi sono verso un cavallo o un bue, né verso uno schiavo in quanto schiavo: non vi è, infatti, nulla in comune[25].

 

Le riflessioni ora richiamate di Pitagora e di Aristotele si inseriscono nella scia di quelle discussioni che in merito alla questione della partecipazione degli animali non umani al diritto dividevano i filosofi greci [26]. I due filosofi contribuiscono in modo specifico alla questione con una impostazione imperniata sul valore della vita animale. Anche in Aristotele, in verità, come già in Pitagora, è presente un interesse per la condizione dell’animale in vita, come mostra l’influenza che sullo Stagirita hanno quei pratici, macellai e cacciatori anzitutto, ai quali si deve la elaborazione di una prima conoscenza empirica ancora in larga parte fondata sulla osservazione dell’animale nel suo ambiente naturale[27]. L’impiego di tale conoscenza non è però funzionale in Aristotele al rispetto della vita ma alla sua distruzione. Aristotele si pone lungo la scia tracciata dai pratici, ma si sforza di eliminare dalle conoscenze da essi ottenute ogni residuo di un rapporto simpatetico ancora possibile tra uomo e animale, come ad esempio nel caso della relazione tra cacciatore e preda. Lo Stagirita impiega le conoscenze empiriche desunte dai pratici per costruire le fondamenta di un sapere scientifico fondato sulla vivisezione e sulla uccisione dell’animale[28].

Nella giurisprudenza romana, con riflessi ancora oggi essenziali per lo studio della condizione giuridica dell’animale non umano, sono presenti entrambi i modelli: quello pitagorico-simpatetico, dell’animale vivo, e quello aristotelico-oggettivistico, dell’animale morto. Tra i due modelli, però, si direbbe che sul piano sistematico quello pitagorico assuma una influenza più rilevante per la scienza giuridica: pensiamo, naturalmente, alla riflessione del giurista Ulpiano, che Giustiniano pone in apertura dei suoi Digesta, sulla esistenza di un diritto, il ius naturale, comune a uomini e ad altri animali. Una riflessione su una nozione, quella del diritto naturale, che è ancora oggi essenziale per la scienza giuridica[29].

Il dualismo tra la concezione dell’animale vivo e la concezione dell’animale morto permane anche nella scienza giuridica contemporanea: il contrasto tra le disposizioni in tema di macellazione rituale e le disposizioni in tema di maltrattamento degli animali non umani non è uno dei tanti contrasti fra norme giuridiche quali quelli che i giuristi sono abituati da secoli a risolvere attraverso i normali canoni ermeneutici. È soprattutto il contrasto fra due diversi modi di intendere il valore della vita animale e, conseguentemente, la condizione filosofico-giuridica dell’animale non umano e le relazioni di esso con l’uomo.

Considerare il fondamento del contrasto ora richiamato è indispensabile per una visione complessiva di esso e aiuta a impostare correttamente sul piano giuridico la questione sottesa al contrasto.

A tale fine è opportuno che il giurista allarghi il proprio campo di osservazione dall’ambito specifico della disciplina relativa alla macellazione rituale a quello più generale della condizione giuridica dell’animale non umano. Un allargamento della prospettiva di osservazione consente di comprendere anzitutto che i valori sottostanti alle disposizioni in tema di macellazione rituale e alle disposizioni in tema di maltrattamento degli animali non umani, la libertà di religione e il rispetto dell’animale non umano in quanto essere vivente, non sono e non devono essere visti in contrasto fra loro.

Ampliare l’angolo visuale permette anche di favorire la interpretazione delle norme in tema di macellazione, sia essa comune, sia essa rituale, in una chiave non più antropocentrica, come disposizioni volte a tutelare più che un interesse dell’uomo (come ad esempio sono la sensibilità dell’‘uomo medio’ di fronte al maltrattamento di un animale o la salute del consumatore di carne animale) la vita degli altri animali, non solo in forza dei limiti al compimento di pratiche che possano causare «sofferenze inutili», ma anche in forza di tutte quelle cautele più generali che possano servire per assicurare a essi una esistenza il più possibile rispettosa della condizione di esseri viventi.

Il compito fondamentale al quale oggi sono chiamati i giuristi nell’affrontare la questione animale è quello di riconoscere il valore della vita animale con una impostazione non più antropocentrica ma biocentrica. Vale a dire con una sensibilità che induca il giurista a esprimere, per la parte che lo riguarda, la consapevolezza oggi sempre più diffusa che l’uomo è solo una parte essenziale, ma non l’unica, dell’ambiente in cui vive. Una sensibilità che spinga il giurista ad accentuare non più il potere dell’uomo sul resto dell’ambiente, ivi compresi gli animali non umani, ma semmai la responsabilità che esso ha nei confronti di esso.

Per assolvere tale compito è necessario che il giurista superi la tendenza della dottrina giuridica ad analizzare la condizione animale attraverso la contrapposizione rigida tra le categorie di soggetto e di oggetto di diritto, che sono categorie fortemente dominate da una visione antropocentrica delle relazioni giuridiche. L’utilità di tali categorie è sempre da verificare soprattutto quando ci si accinga, come nel nostro caso, a una analisi di problematiche giuridiche che coinvolgono sistemi giuridici differenti. Tornare ai modelli di relazione fra uomo e animale non umano può servire per non perdere di vista concretamente, vale a dire al di là delle astratte qualificazioni dogmatiche, il valore fondamentale della vita animale.

La tesi che intendo qui formulare è che il contrasto tra le disposizioni alle quali si è fatto cenno può essere utilmente analizzato, attraverso la riconsiderazione dello status giuridico dell’animale non umano. Riconsiderare tale status alla luce anche della sistematica della giurisprudenza romana significa, anzitutto, precisare lo spazio che l’uomo e gli altri esseri animati, nelle loro relazioni, occupano nell’universo e, dunque, anche interrogarsi sul valore etico-giuridico della vita, umana e non umana[30]. Significa anche superare una visione antropocentrica delle relazioni tra uomo e altri animali per offrire una prospettiva di sintesi del valore essenziale della vita con altri valori giuridici, quali appunto la libertà di religione, che non sono in astratto in contrasto, ma rischiano, in concreto, di apparire persino come confliggenti.

 

 

3. – Macellazione rituale e relative prescrizioni religiose

 

Poiché non posseggo specifiche competenze in materia non intendo qui avventurarmi in una analisi dettagliata delle prescrizioni religiose ebraiche e musulmane in tema di condizione animale. Confesso quindi di non potermi pronunciare sul fondamento delle numerose prescrizioni alimentari proprie delle due religioni. Forse non è lontano dalla verità chi ritiene che tali prescrizioni trovino una motivazione entro il quadro di un più generale sistema alimentare, dovuto, in larga parte, alla influenza delle abitudini alimentari di un popolo dedito alla pastorizia nomade e, quindi, portato prevalentemente al consumo alimentare di determinate specie animali ruminanti[31]. Ma mi chiedo se non vi siano meccanismi più complessi legati alla percezione psicologica, da parte dell’uomo, della natura di determinate specie animali oggetto delle interdizioni alimentari.

Per quanto riguarda l’Islam, tra le prescrizioni religiose in tema di animali sono importanti certamente, per connessione, quelle alimentari, richiamate in diversi luoghi del Corano, tra i quali ricordo, anzitutto, il versetto ove sono elencati, in maniera più compiuta, gli obblighi a carico del musulmano:

 

V,3: Vi sono dunque proibiti gli animali morti, il sangue, la carne di porco, gli animali che son stati macellati senza l’invocazione del nome di Dio, e quelli soffocati o uccisi a bastonate, o scapicollati o ammazzati a cornate e quelli che in parte divorati dalle fiere, a meno che voi non li abbiate finiti sgozzandoli, e quelli sacrificati sugli altari idolatrici; e v’è anche proibito di distribuirvi fra voi a sorte gli oggetti: questo è una empietà. Guai, oggi, a coloro che hanno apostato dalla vostra Religione: voi non temeteli, ma temete Me! Oggi v’ho reso perfetta la vostra religione, e ho compiuto su voi i Miei favori, e M’è piaciuto darvi per religione l’Islàm. Quanto poi a chi vi è costretto per fame e senza volontaria inclinazione al peccato, ebbene Dio è misericordioso e pietoso[32].

 

Si tengano poi presenti:

 

II,168: O uomini! Mangiate quel che di lecito e buono v’è sulla terra e non seguite le orme di Satana, ch’è vostro evidente nemico[33].

 

II,173: In verità Iddio v’ha proibito gli animali morti e il sangue e la carne di porco e animali macellati invocando altro nome che quello di Dio. Ma chi sarà per necessità costretto contro sua voglia e senza intenzione di trasgredire la legge, non farà peccato, perché Dio è perdonatore e clemente[34].

 

VI,145: Dì: «Io non trovo in quel che m’è stato rivelato nessuna cosa proibita a un gustante che voglia gustarla, eccetto bestie morte, sangue versato, o carne di porco (ché questo è sozzura) o abominio su cui sia stato invocato altro nome che quello di Dio. Quanto però a chi vi è costretto, senza provarne desiderio e senza intenzione di peccare, ebbene il tuo Signore è misericordioso e indulgente»[35].

 

XVI,115: Ché Iddio v’ha proibito gli animali morti, e il sangue e la carne di porco, e animali macellati invocando nome altro da Dio. Quanto a chi v’è costretto, senza desiderio e senza intenzione di peccare, ebbene Dio è indulgente clemente[36].

 

 

Non interessa in questa sede mettere in evidenza alcuni tratti distintivi fra le prescrizioni alimentari musulmane e quelle ebraiche, in particolare con riferimento alla questione, che parrebbe evocata nel Corano, in tema di eccessiva minuziosità di queste ultime rispetto alle prime più tollerabili[37]. Non è neppure possibile analizzare le influenze delle prescrizioni alimentari diffuse tra i cristiani in Oriente sulla formazione delle corrispondenti prescrizioni alimentari islamiche. Né ci si può soffermare sulla influenza delle antiche tassonomie zoologiche, di origine soprattutto aristotelica, in cui traspare in larga parte l’intento di affermare la supremazia dell’uomo sul resto degli altri esseri animati, sulla formazione delle prescrizioni coraniche, in cui, parimenti, l’uomo è considerato al centro dell’universo[38]. Si tratta, evidentemente, di questioni che ci porterebbero troppo lontano dai nostri obiettivi, ma che occorre comunque almeno enunciare o ricordare anche per comprendere il quadro ampio in cui si insinua la problematica del rapporto tra le disposizioni richiamate in apertura del discorso. E, d’altra parte, devo anche riconoscere la mia incapacità a trattare l’argomento della macellazione rituale sul versante della religione ebraica e musulmana. È auspicabile che in futuro giuristi e studiosi delle due religioni affrontino sempre più la problematica di cui si è parlato in una chiave multidisciplinare.

Nel tralasciare quindi la analisi dettagliata delle diverse prescrizioni alimentari, dobbiamo soffermarci sulla questione fondamentale, sotto il profilo giuridico, della macellazione rituale.

La prima prescrizione fondamentale concerne il divieto di cibarsi di animali uccisi senza il rispetto delle regole rituali relative allo sgozzamento. È fatto divieto nel Corano, V,3, di alimentarsi di animali soffocati, uccisi a bastonate, morti accidentalmente, ammazzati a cornate o divorati da altri animali, salvo il caso che non siano stati finiti per sgozzamento[39].

Alcune specie animali, inoltre, sono ritenute per se stesse impure e tali sono considerate, oltre alle carogne, le vittime sacrificali e gli animali macellati senza il rispetto delle regole relative allo sgozzamento e al dissanguamento. Siffatte prescrizioni, pure così fortemente influenzate, spesso trovano un fondamento differente nelle scuole giuridiche musulmane[40]. In generale, però, si ritiene che alla base della macellazione rituale vi sia l’idea che la vita debba essere rispettata e non possa quindi essere violata se non in forza del compimento di un rituale. Sono quindi riconducibili a tale idea quelle prescrizioni giuridico-religiose che stabiliscono il divieto di infliggere all’animale non umano mutilazioni o violenze gratuite. Ma in particolare si spiega in tal modo il divieto di alimentarsi del sangue di un animale, la cui vita non può essere sottratta dall’uomo fino al punto di appropriarsi del suo elemento simbolico. Il divieto si richiama a una tradizione diffusa nella cultura preislamica, in particolare legata alla cultura dei beduini, la cui sopravvivenza nel deserto poteva trovare nello sgozzamento dell’animale, per berne il prezioso elemento, una ultima opportunità[41].

Divieti analoghi sono poi oggetto di prescrizioni minuziose anche nella religione ebraica, in cui sono altrettanto numerose e puntuali le regole relative alla qualità del cibo kashèr[42]:

 

Deut., 12,15-16: 15 Ma, ogni volta che ne sentirai desiderio, potrai uccidere animali e mangiarne la carne in tutte le tue città, secondo la benedizione che il Signore ti avrà elargito; chi sarà immondo e chi sarà mondo ne potranno mangiare, come si fa della carne di gazzella e di cervo; 16 ma non ne mangerete il sangue; lo spargerai per terra come acqua[43].

 

Deut., 12,23-27: 23 tuttavia astieniti dal mangiare il sangue, perché il sangue è la vita; tu non devi mangiare la vita insieme con la carne. 24 Non lo mangerai, lo spargerai per terra come acqua. 25 Non lo mangerai perché sia felice tu e i tuoi figli dopo di te: facendo ciò che è retto agli occhi del Signore. 26 Ma quanto alle cose che avrai consacrato o promesso in voto, le prenderai e andrai al luogo che il Signore avrà scelto e offrirai i tuoi olocausti, 27 la carne e il sangue, sull`altare del Signore tuo Dio; il sangue delle altre tue vittime dovrà essere sparso sull’altare del Signore tuo Dio e tu ne mangerai la carne[44].

 

 

4. – La macellazione: il quadro normativo di riferimento per l’Italia

 

Nel regio decreto 21 luglio 1927, n. 1586, si stabiliva, all’art. 9, l’obbligo di «adottare procedimenti atti a produrre la morte nel modo più rapido possibile», con l’impiego di apparecchi esplodenti a proiettile captivo o la recisione del midollo allungato, la quale doveva essere eseguita da personale qualificato, o con l’uso di altri mezzi riconosciuti idonei dall’autorità prefettizia, una volta sentito il parere del Consiglio provinciale di sanità[45].

Nel regio decreto 20 dicembre 1928, n. 3298, in tema di “Approvazione del regolamento per la vigilanza sanitaria delle carni”[46], si introduceva una prima disciplina delle macellazioni rituali, le quali dovevano essere compiute con la piena osservanza dei relativi precetti religiosi. Si prevedeva che l’abbattimento dell’animale dovesse avvenire attraverso «procedimenti atti a produrre la morte nel modo più rapido possibile», mediante l’impiego di «apparecchi esplodenti a proiettile captivo», attraverso la «enervazione», consistente nella «recisione del midollo allungato», oppure ancora attraverso altri sistemi ritenuti idonei dall’autorità prefettizia, con il parere del Consiglio provinciale di sanità. Solo dopo essere stato abbattuto, da parte di personale addestrato, l’animale doveva essere sottoposto anche alla jugulazione, consistente nella «recisione dei grossi vasi sanguigni del collo», al fine di provocarne il dissanguamento nel più breve tempo possibile[47]. Si stabiliva che la macellazione dovesse avvenire solo nei «pubblici macelli» presenti nei comuni e che, solo in casi eccezionali, per uso privato o industriale, potesse avvenire al di fuori di tali strutture, purché con l’autorizzazione della autorità comunale e dietro approvazione prefettizia[48].

La disciplina successiva traeva impulso dalla emanazione della direttiva del Consiglio delle Comunità europee 74/577/CEE[49], del 18 novembre 1974, in tema di «stordimento degli animali prima della macellazione», con la quale, fra l’altro, si considerava, sin dalle premesse, la necessità di compiere, a livello sovranazionale, attività di prevenzione contro «ogni trattamento crudele degli animali» e di adottare quelle azioni indispensabili a evitare il più possibile all’animale sottoposto alla macellazione ogni sofferenza. La direttiva, in tale ottica, introduceva l’obbligo di stordimento dell’animale sottoposto a macellazione, mediante l’uso di strumenti meccanici o mediante l’impiego di elettricità o di anestesia con gas[50]. L’introduzione di tali regole, però, non pregiudicava, secondo gli obiettivi della direttiva, le disposizioni degli Stati membri in materia di macellazione rituale[51]. Una disciplina questa alla quale l’Italia si adeguò con molto ritardo, anche a seguito di una pronuncia della Corte di giustizia delle Comunità europee[52], con la legge del 2 agosto 1978, n. 439[53], sulle “Norme di attuazione della direttiva n. 74/577/CEE, relativa allo stordimento degli animali prima della macellazione”, in cui si ribadiva a livello nazionale la necessità di evitare a essi «ogni sofferenza inutile»[54]. Quanto alla macellazione rituale, si deve osservare che essa era permessa nel caso in cui fosse stata autorizzata con decreto del Ministro della Sanità di concerto con il Ministro dell’Interno[55].

La questione della macellazione rituale diviene oggetto un paio di anni più tardi di un decreto ministeriale, dell’11 giugno 1980, emanato dal Ministro della Sanità di concerto con il Ministro dell’Interno, in materia di “Autorizzazione alla macellazione degli animali secondo i riti religiosi ebraico e islamico”. Nel decreto si dava atto, nelle premesse, della richiesta al Ministero dell’Interno, da parte delle comunità ebraica e musulmana, della autorizzazione a procedere alla macellazione secondo i rispettivi riti. La macellazione deve avvenire, secondo quanto stabilito all’art. 2, attraverso l’intervento di «personale qualificato» che impieghi un «coltello affilatissimo» con cui recidere l’esofago, la trachea e i vasi sanguigni del collo. Anche in questo caso, però, il legislatore impone l’obbligo di adottare quelle misure necessarie a evitare il più possibile ogni forma di sofferenza per l’animale[56], anche, ma non solo, quando la macellazione è destinata alla esportazione[57].

Si deve ricordare, inoltre, la Convenzione europea sulla “protezione degli animali da macello”, del 10 maggio 1979, ratificata dall’Italia con la legge 14 ottobre 1985, n. 623, la quale, nelle premesse, pur apparendo motivata dalla esigenza puramente materiale di garantire la qualità delle carni macellate, sembra anche ispirata all’intento di alleviare le sofferenze degli animali destinati al macello. La Convenzione, dopo aver stabilito, all’art. 12, l’obbligo di provvedere alla immobilizzazione e allo stordimento dell’animale, stabilisce, all’art. 13, specificamente per la macellazione rituale, l’obbligo di provvedere alla immobilizzazione dei bovini in modo da evitare per essi «ogni dolore, sofferenza ed eccitazione, come anche ogni ferita o contusione». È fatto divieto per la macellazione ordinaria di utilizzare per gli animali mezzi di contenzione che possano provocare sofferenze evitabili, di legarli per le zampe posteriori e di appenderli prima che essi siano stati storditi, mentre, nel caso di macellazione rituale, tali misure sono vietate prima che sia avvenuto il dissanguamento completo della vittima[58]. Anche quando si provveda a una macellazione rituale, a un abbattimento per ragioni di «estrema urgenza» o per ragioni di carattere sanitario, oppure ancora alla uccisione istantanea di pollame e di conigli, la Convenzione prevede che si debbano però risparmiare “sofferenze o dolori evitabili”[59]. La macellazione rituale potrà però essere compiuta soltanto da parte di persone la cui abilitazione sia stata riconosciuta dalle autorità religiose del rito di appartenza, salvo il caso in cui non sia lo stesso Stato membro a rilasciare le autorizzazioni necessarie[60].

La direttiva del Consiglio delle Comunità europee 93/119/CE del 22 dicembre 1993[61], che ha abrogato la direttiva 74/577/CEE, e il d.lgs. del 1° settembre 1998, n. 333[62] di attuazione della direttiva, con cui l’Italia si è adeguata alla direttiva del 1993, si pongono lungo la linea di una tutela sempre maggiore degli animali destinati, fra l’altro, alla macellazione[63]. Il decreto, che ha abrogato la legge 2 agosto 1978, n. 439, non si applica a qualsiasi soppressione di animali, essendo esclusi, fra gli altri, quelli uccisi durante manifestazioni “culturali” o “sportive” e la selvaggina[64]. Degno della massima attenzione è che il decreto fa salve le disposizioni relative al maltrattamento di animali, individuando così un argine invalicabile anche per la macellazione rituale, la quale può essere compiuta dall’autorità religiosa sotto la responsabilità, però, del veterinario competente secondo il decreto[65]. La macellazione rituale è quindi possibile presso stabilimenti il cui titolare abbia dato alla autorità sanitaria comunicazione di essere in possesso dei requisiti previsti per legge[66]. Per tali macelli, ove si pratica l’abbattimento a scopo rituale, come anche per quelli ove si pratica la macellazione ordinaria, si stabilisce che essi debbano essere strutturati in modo da permettere di evitare il più possibile la sofferenza e lo stress dell’animale[67]. In caso di macellazione rituale così circoscritta, è escluso l’obbligo di stordimento, che è invece stabilito normalmente, per il caso di bovini, suini, ovini e caprini, anche per la macellazione privata per consumo familiare[68]. Tale disposizione, a differenza di quanto anche di recente affermato[69], permette di affrontare la questione dei sacrifici rituali legati alla pratica della festività islamica dell’Aïd el Kebir, in occasione della quale i musulmani ricordano il sacrificio di Abramo con la uccisione di un agnello. Come è noto, tale festa è stata oggetto di critiche anche molto aspre per il suo carattere cruento. Tuttavia, anche durante tale festività si deve naturalmente riconoscere che non ogni uccisione sia uccisione rituale e che pure una uccisione qualificabile come rituale, in quanto compiuta in osservanza delle prescrizioni religiose e giuridiche relative alla macellazione, debba essere ugualmente rispettosa delle norme in tema di maltrattamento di animali.

La legge 21 dicembre 1999, n. 526, “Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee - legge comunitaria 1999”[70], all’art. 20, ha abrogato, fra l’altro, quella parte dell’articolo 1 del decreto del 1998, in cui si escludeva l’applicazione di esso per il caso di animali abbattuti in occasione di manifestazioni culturali o sportive[71]. La legge ha inoltre stabilito, sempre all’art. 20, che la competenza del personale incaricato di provvedere allo stordimento dell’animale sottoposto a macellazione debba essere attestata dalla azienda sanitaria locale, la quale dovrà anche organizzare appositi corsi di formazione.

 

 

5. – Macellazione rituale e valori giuridici di riferimento

 

L’analisi sintetica che si è condotta nelle pagine precedenti sulla disciplina della macellazione rituale, alla luce delle prescrizioni religiose e giuridiche, ha mostrato che tale pratica costituisce, per le sue origini, una espressione significativa di una cultura in cui vi è ancora posto per il rispetto della vita animale. Le tecniche di macellazione ebraica e islamica, alla luce delle norme dell’ordinamento italiano e comunitario, non integrano di per sé forme di maltrattamento.

In relazione ai limiti previsti per la macellazione rituale, in dottrina si è correttamente osservato che le ragioni che hanno condotto gli ordinamenti moderni a prevedere l’obbligo di stordimento dell’animale, prima dell’abbattimento, sono differenti dalle ragioni che hanno condotto quegli stessi ordinamenti a stabilire limiti alla libertà religiosa[72]. Non può però essere accolta la tesi, fondata sulla osservazione ora riferita, secondo cui fra i valori connessi alle prescrizioni religiose in tema di macellazione rituale e i valori connessi alla tutela degli animali esisterebbe «un criterio di bilanciamento favorevole alle esigenze religiose ebraiche e islamiche, criterio effettivamente seguito dalla disciplina normativa in materia»[73]. Un tale orientamento dottrinale da un lato individua una graduazione inutile e quindi una contrapposizione ingiustificata tra valori ugualmente essenziali e non confliggenti, quali appunto il valore della vita animale e la libertà di religione, dall’altro introduce una sorta di presunzione di legittimità per le macellazioni rituali. Da un lato si deve riconoscere, come correttamente questa stessa dottrina ammette, che il valore della protezione degli animali è anche alla base delle prescrizioni religiose in tema di macellazione. Dall’altro occorre sempre valutare se la uccisione di un animale, anche se compiuta all’interno di un rito, non integri, sia alla luce delle prescrizioni religiose ebraiche e musulmane, sia alla luce delle disposizioni dell’ordinamento italiano e dell’Unione Europea, forme di maltrattamento.

Sempre in connessione alla questione dei limiti stabiliti per la macellazione rituale, si è anche discusso se tale pratica possa oppure no essere qualificata come religiosa in senso proprio, in quanto non rientrante a rigore fra gli atti di culto. In caso positivo, la macellazione rituale sarebbe assoggettata al solo limite del buon costume stabilito nella Costituzione. In caso negativo, la macellazione rituale sarebbe disciplinata dalla legge ordinaria «secondo criteri di convenienza ed opportunità politica»[74]. La questione ora accennata può essere superata attraverso una prospettiva elastica con la quale considerare la libertà di religione in senso ampio, fino a comprendere anche gli atti non di culto in senso proprio[75]. Anche per tale questione, si deve però rifiutare la tentazione di contrapporre il valore della libertà di religione al valore della tutela dell’animale non umano. Si tratta di valori diversi che però possono trovare una sintesi feconda.

Se si volesse trarre dall’esame del quadro normativo ora tracciato, in tema di macellazione, qualche osservazione di sintesi si potrebbe rilevare, in accordo a un orientamento più generale, una attenzione per la tutela del valore della vita animale. Una prima attestazione, nel nostro ordinamento, della tendenza a tutelare l’animale in quanto essere vivente risale già al regio decreto 20 dicembre 1928, n. 3298, il cui art. 9 stabiliva, come si è già ricordato, che la macellazione dovesse realizzarsi con «procedimenti atti a produrre la morte nel modo più rapido possibile», svelando una attenzione particolare per l’animale. Un passo decisivo, nella prospettiva della tutela della vita animale, si è avuto poi con la legge del 2 agosto 1978, n. 439[76], con la quale, all’art. 1, si è stabilito l’obbligo di stordimento degli animali prima della macellazione, con l’intento esplicito di evitare per essi «ogni sofferenza inutile»[77]. La stessa Convenzione europea sulla “protezione degli animali da macello”, del 10 maggio 1979, all’art. 13, si propone l’intento di alleviare le sofferenze degli animali destinati al macello[78]. Il d.lgs. del 1º settembre 1998, n. 333, di attuazione della direttiva del Consiglio delle Comunità europee 93/119/CE del 22 dicembre 1993, agli artt. 3 e 4, individua quale obbligo fondamentale per gli operatori chiamati a sovraintendere alle operazioni di macellazione quello di «risparmiare agli animali eccitazioni, dolori e sofferenze evitabili».

Per lungo tempo si è sostenuto che la disciplina normativa della macellazione fosse finalizzata a proteggere valori esterni alla vita animale, quali in particolare la tutela dei consumatori o la tutela della produzione industriale[79]. Tuttavia, oggi, non è più possibile ridurre la intepretazione di tali disposizioni in una ottica puramente materialistica di tutela della salute dei consumatori. Non solo perché, come si è visto, è innegabile la attenzione del legislatore per la vita animale, ma anche perché il giurista è chiamato a una interpretazione che tenga conto dei valori espressi da quella società in cui la norma stessa dovrà trovare applicazione. Valori che oggi appaiono fortemente modificati rispetto a quelli ritenuti essenziali fino a qualche decennio fa.

Non vi sono ovviamente solo luci nella più recente normativa in tema di macellazione e la dottrina più sensibile ne ha posto correttamente in evidenza i limiti, soprattutto osservando che attraverso deroghe alla disciplina ordinaria l’obiettivo fondamentale della tutela degli animali non umani è ben lungi dall’essere raggiunto[80]. Tuttavia, il riferimento al valore della vita, che è indubbiamente un valore costituzionalmente protetto, deve indurre la dottrina a un ripensamento del rapporto tra i valori sottesi alla libertà di religione e i valori sottesi alla tutela dell’animale non umano[81].

Anche la disciplina in tema di macellazione, quando ci liberi dal pregiudizio antropocentrico che induce a individuare il fondamento esclusivo di essa nella tutela del consumatore o al più in una blanda protezione degli animali[82], può essere ricondotta a una tendenza più ampia, propria della più recente legislazione relativa agli esseri non umani, volta a considerare questi ultimi come centro della tutela in quanto esseri viventi. Così, per citare solo l’esempio più eclatante, in dottrina, il superamento della prospettiva antropocentrica ha condotto a una diversa interpretazione della disposizione penale, contenuta nell’art. 727 del codice Rocco del 1930[83], in tema di maltrattamenti degli animali non umani. Si sosteneva in passato che obiettivo di tale disposizione fosse quello non di tutelare l’animale non umano come essere senziente ma pur sempre l’uomo. Più precisamente, si diceva che il fondamento di tale disposizione stava nell’intento del legislatore di evitare il sentimento di orrore che l’uomo avverte di fronte a ogni incrudelimento nei confronti di altri esseri animati[84]. Fino a che si è giunti a una sentenza della Corte di Cassazione (Sez. III Penale, 14 marzo 1990, est. Postiglione) la quale ha proposto all’attenzione anche dei non giuristi una interpretazione più consona a quello che ormai appariva il comune sentire di una tutela degli animali non umani in quanto tali. Si è così parlato di una tutela che, come si legge nella massima, si riferisce agli «animali in quanto autonomi esseri viventi, dotati di sensibilità psico-fisica e capaci di reagire agli stimoli del dolore»[85].

Tale orientamento non è rimasto isolato ma è alla base di una tendenza più generale della legislazione, a sua volta frutto del tentativo della scienza giuridica di riformulare i presupposti dogmatici della legislazione animale, con l’obiettivo del superamento dell’antropocentrismo caratteristico delle soluzioni normative del passato. In questo senso si può ora ricordare anche la legge n. 281 del 14 agosto 1991, “in materia di animali di affezione e prevenzione del randagismo”, che, ponendosi come obiettivo centrale quello di «favorire la corretta convivenza tra uomo e animale e di tutelare la salute pubblica e l’ambiente», ha introdotto il principio del rispetto della vita animale sia attraverso il divieto di controllare la diffusione canina e felina con la uccisione e di sottoporre gli animali ricoverati nei canili a vivisezione[86], sia attraverso il divieto di uccidere l’animale salvo il caso in cui esso non sia gravemente ammalato o pericoloso[87]. Oppure ancora si pensi alla legge n. 189, del luglio del 2004, in materia di “Disposizioni concernenti il divieto di maltrattamento degli animali, nonché di impiego degli stessi in combattimenti clandestini o competizioni non autorizzate”, con la quale nel codice penale si è introdotta una nuova tipologia di «Delitti contro il sentimento per gli animali»[88], in modo che i reati contro gli animali non sono più considerati contro la proprietà o contro la polizia dei costumi, ma in funzione della tutela dell’essere vivente sul quale si è attuata la condotta criminosa. O ancora si consideri il decreto legislativo n. 116 del 1992 (con cui si è recepita la direttiva CEE n. 609 del 1986 sulla protezione degli animali da laboratorio), che, abrogando pressoché completamente la legge n. 924 del 1931, ha posto al centro la questione del benessere degli animali da sottoporre all’esperimento[89].

 

 

6. – Verso il superamento del dilemma animale oggetto – animale soggetto: una prospettiva romanistica

 

Nel parere approvato nella Seduta Plenaria, del 19 settembre 2003, dal Comitato Nazionale per la Bioetica, si legge nella Presentazione, a firma dell’allora Presidente, Francesco D’Agostino, che «la classica (e infausta) dicotomia persone/cose non può continuare ad essere utilizzata, quando prendiamo in considerazione il rilievo giuridico che dobbiamo riconoscere agli animali; ecco perché la bioetica – il cui sguardo abbraccia in linea di principio tutto il vivente – ha il dovere di lottare contro quello che è stato efficacemente chiamato il pregiudizio antropocentrico: un pregiudizio stigmatizzabile eticamente, non nei limiti in cui riconosca l’indubbia excellence humaine, ma nei limiti in cui per sostenere questa excellence ritenga (ingiustificatamente) di dover negare al mondo animale il rispetto morale che gli è oggettivamente dovuto»[90]. La necessità del superamento dell’antropocentrismo è quindi condivisa dal Comitato anche in presenza di un primato dell’uomo sul resto degli esseri viventi, primato che deve essere inteso nel segno di una responsabilità del primo nei confronti dei secondi, anziché nei termini di un potere. Con la conseguenza che, proprio in tema di macellazione rituale, tale vincolo non può «giustificare pratiche crudeli, violente, nei confronti degli animali».

Nel documento del Comitato si può dunque intravedere una linea di sintesi fra i due valori della libertà di religione e della vita animale. Da un lato, il valore della libertà di religione che è considerato come «dimensione fondamentale» della vita umana, dall’altro, il valore della vita animale che si esprime, anzitutto, nella necessità di «ridurre o annullare la sofferenza degli animali» in caso di macellazione anche rituale. Il Comitato, quindi, auspica la realizzazione di studi scientifici volti a garantire una composizione tra i valori in gioco, soprattutto tentando di individuare forme di stordimento dell’animale non umano o di alterazione dello stato di vigilanza ritenute compatibili con le prescrizioni religiose.

È interessante che il Comitato faccia discendere dalla responsabilità dell’uomo nei confronti degli altri esseri viventi l’obbligo del primo di prendersi cura dei secondi. Il concetto di cura è un concetto giuridico fondamentale, che nella valutazione del Comitato, in quanto fondato non sulla nozione di interesse o di reciprocità, ma sul bisogno, sulla compassione, sulla dedizione, costituisce occasione per elaborare un «paradigma bioetico di relazioni col mondo non umano», non improntato a una visione meramente filantropica, ma a una visione attenta dei rapporti dell’uomo con il resto degli esseri viventi. Ed è importante che il Comitato riconosca che la circostanza che un certo fatto sia astrattamente riconducibile alla libertà di religione non significa allo stesso tempo che esso sia automaticamente lecito sul piano giuridico o approvabile sul piano morale. Ai limiti ordinari alla libertà di religione si deve aggiungere qui l’attenzione particolare per gli animali non umani «in quanto destinatari passivi di obblighi giuridici e morali da parte degli uomini». La tutela costituzionale riconosciuta quindi alla libertà di religione non può prevalere quando non siano attuate tutte quelle misure che, compatibili con prescrizioni religiose volte a garantire una tutela per l’animale non umano, consentano di evitare il più possibile la sofferenza animale.

Credo che sia indispensabile partire da qui: dalla esigenza di una sintesi tra il valore della libertà di religione e il valore altrettanto importante della vita animale. Per tentare una sintesi di tali valori bisogna naturalmente favorire i presupposti perché le ragioni della confliggenza tra le disposizioni che esprimono concretamente tali valori possano cessare. Occorre quindi evitare che le prescrizioni religiose in tema di macellazione rituale possano essere invocate pretestuosamente per giustificare comportamenti di per sé illeciti, in particolare, riconducibili a forme di maltrattamento degli animali non umani. E si deve fare ciò sotto il duplice profilo delle norme nazionali e sovranazionali e delle stesse disposizioni religiose in tema di macellazione rituale. In questo senso è anche importante individuare forme di macellazione, compatibili con le prescrizioni rituali, con le quali sia possibile garantire all’animale una condizione tale da escludere il più possibile la sofferenza.

L’uomo ha oggi il dovere di prendersi cura degli altri esseri viventi in una ottica che non è più quella di un dominatore ma di un servo. L’importanza dell’uomo non risiede oggi nella supposta superiorità sul resto del creato, ma nel riconoscimento anzitutto di una sua responsabilità nei riguardi di esso.

Per superare il pregiudizio antropocentrico l’analisi della condizione dell’animale non umano, sul piano dogmatico, non può essere svolta esclusivamente attraverso l’impiego delle categorie di soggetto e di oggetto di diritto[91]. Esse sono categorie speculari che appaiono non particolarmente appropriate soprattutto quando ci si proponga l’obiettivo di analizzare la condizione giuridica dell’animale non umano. Entrambe le categorie, in modo particolare quando applicate all’analisi delle relazioni fra uomo e altri esseri animati, risentono di una visione antropocentrica, la quale riduce tendenzialmente la questione animale al problema della estensione della soggettività giuridica al di là della cerchia umana. La qualificazione dell’animale non umano come soggetto di diritto potrebbe anche rivestire una qualche funzione, soprattutto in una chiave che si potrebbe definire pedagogica, nel senso che essa potrebbe servire per richiamare l’attenzione della società sul problema della tutela degli altri esseri animati, ma occorrerebbe essere meno ottimisti, rispetto a quanto avviene di solito in dottrina, sul fatto che da essa possano derivare conseguenze significative sul piano della reale tutela giuridica[92].

Nell’analisi di aspetti giuridici legati alla questione animale è opportuno, quando non necessario, superare la dicotomia soggetto-oggetto di diritto per tentare di inquadrare in maniera elastica, ma concreta, la condizione giuridica degli altri esseri animati e le relazioni che essi hanno con l’uomo. Il rifiuto di categorie dogmatiche rigide favorisce un ripensamento generale della qualità di tali relazioni, con l’obiettivo essenziale della tutela reale degli animali non umani. Sul piano dogmatico il compito al quale è chiamato oggi il giurista non è quindi quello di scegliere se l’animale sia o non sia soggetto di diritto, ma quello di riconoscere per esso uno statuto corrispondente alla sua natura di essere vivo e come tale meritevole di tutela.

Una via per superare l’uso delle categorie di soggetto e di oggetto di diritto può derivare dalla giurisprudenza romana, nella quale, in luogo della contrapposizione rigida tra soggetto e oggetto di diritto, è presente la distinzione, più elastica e aderente alla realtà concreta, fra personae e res[93]. Si può rilevare che nella impostazione della giurisprudenza romana la distinzione fra personae e res si caratterizza, anzitutto, per l’inquadramento di enti che al contempo rientrano nell’ambito dell’una e dell’altra partizione. Emblematica in questo senso è la condizione, in Roma antica, del servus, allo stesso tempo qualificato fra le personae e fra le res[94]. La distinzione antica, quindi, a differenza della contrapposizione moderna, caratterizzata dalla incomunicabilità fra il mondo dei soggetti e degli oggetti, nel senso almeno che l’una condizione preclude contestualmente l’altra, è una distinzione fra partizioni per così dire aperte[95].

Nel fare riferimento alla elasticità della distinzione romana fra personae e res bisogna resistere, ovviamente, alla tentazione di rimpiazzare una qualificazione dogmatica con un’altra. Bisogna evitare, soprattutto, di sostituire il termine soggetto di diritto con il termine persona e il termine res con cosa, o peggio, con oggetto di diritto[96]. Non vi è dubbio che una qualche connessione, sul piano storico, vi sia, non tanto tra le distinzioni, troppo dissimili nel loro fondamento, quanto fra le partizioni di esse, in particolare fra la coppia persona-soggetto di diritto e la coppia res-cosa[97]. Tuttavia, negli ultimi anni, nella dottrina romanistica più sensibile all’uso appropriato di tali categorie si è posta in rilievo la necessità di fare “pulizia concettuale” con riferimento alla distinzione moderna fra soggetto e oggetto di diritto[98].

Come con riferimento al termine persona, che nel linguaggio giuridico romano indica concretamente l’uomo[99], bisogna evitare di intravedere un antecedente della nozione di soggetto di diritto, così, con riferimento alla classificazione dell’animale non umano come res, si deve evitare una assimilazione alla classificazione moderna dell’animale come cosa/oggetto. A tacere d’altro la classificazione dell’essere non umano come res sottintende sempre una attenzione particolare da parte della giurisprudenza romana per la natura animale, e dunque per l’animale vivo.

La elasticità della distinzione fra personae e res consente alla giurisprudenza romana di attribuire rilevanza giuridica anche al comportamento dell’animale non umano[100], in particolare facendo riferimento alla natura di esso, cioè alle qualità essenziali che l’essere animato (umano e non) possiede in quanto dotato di vita propria. Un esempio significativo al riguardo è la subordinazione della concessione dell’actio de pauperie, dell’azione prevista per il danneggiamento inferto da un quadrupede, alla valutazione che il comportamento di esso sia o no contra naturam, espressione questa che, comunque la si voglia intendere, richiama la necessità di una considerazione delle caratteristiche essenziali dell’animale[101]. Ma in generale si potrebbe osservare che anche le classificazioni zoologiche, a rilevanza giuridica, sono elaborate, secondo una impostazione più vicina al modello pitagorico, in modo da far emergere le qualità naturali dell’animale non umano come essere vivo[102]. Si può quindi affermare che fulcro essenziale della disciplina giuridica relativa agli esseri non umani, nella giurisprudenza romana, è la considerazione del valore della vita animale.

D’altro canto, si deve anche evitare di qualificare l’animale non umano come soggetto di diritto sulla base della enunciazione del diritto naturale, formulata dal giurista Ulpiano, nel III secolo d.C. e che i compilatori giustinianei pongono in apertura del Digesto. In tale enunciazione il diritto naturale è definito come diritto che la natura insegna a tutti gli animali e sono presentate situazioni giuridiche, quali la educazione dei figli o la congiunzione tra maschio e femmina, comuni a tutti gli esseri animati[103]. Si tratta quindi di una concezione che presenta più elementi in comune che di distacco con la concezione dell’animale come soggetto di diritto, soprattutto per quanto riguarda la idea di una generale e simpatetica condizione giuridica fra tutti gli esseri animati[104]:

 

D. 1,1,1,3-4 (Ulp. 1 inst.): 3 Ius naturale est, quod natura omnia animalia docuit: nam ius istud non humani generis proprium, sed omnium animalium, quae in terra, quae in mari nascuntur, avium quoque commune est. hinc descendit maris atque feminae coniunctio, quam nos matrimonium appellamus, hinc liberorum procreatio, hinc educatio: videmus etenim cetera quoque animalia, feras etiam istius iuris peritia censeri. 4 Ius gentium est, quo gentes humanae utuntur. quod a naturali recedere facile intellegere licet, quia illud omnibus animalibus, hoc solis hominibus inter se commune sit[105].

 

Inst., 1,2 pr.: Ius naturale est, quod natura omnia animalia docuit. nam ius istud non humani generis proprium est sed omnium animalium, quae in caelo, quae in terra, quae in mari nascuntur. hinc descendit maris atque feminae coniugatio, quam nos matrimonium appellamus, hinc liberorum procreatio et educatio: videmus etenim cetera quoque animalia istius iuris peritia censeri[106].

 

La idea del diritto naturale è assolutamente fondamentale nella scienza giuridica ancora ai nostri giorni. L’enunciazione ulpianea non è quindi importante sul piano giuridico in quanto enunciazione vagamente ‘animalistica’, ma in quanto costituisce una chiave di lettura utile, per certi aspetti necessaria, alla comprensione delle relazioni giuridiche tra uomo e uomo, uomo e altri esseri animati, uomo e ambiente. Si può quindi osservare che la giurisprudenza romana perviene da un tema specifico, sia pure essenziale, qual è la condizione giuridica dell’animale non umano, a una concezione generale del diritto[107].

Nonostante ciò, per lungo tempo la dottrina romanistica, legata ai condizionamenti ideologici connessi alla contrapposizione soggetto-oggetto di diritto, non ha preso sul serio la enunciazione ulpianea, o riconoscendo in essa il frutto di una interpolazione successiva, o, operazione ancora più deleteria della prima, disconoscendone il valore giuridico per relegarla al campo della etologia o della sociologia, e quindi del non giuridico. In realtà la enunciazione ulpianea non è isolata nella cultura giuridica antica, ma si richiama a una intensa e feconda polemica che aveva diviso i filosofi greci proprio sulla questione della partecipazione degli animali al diritto. Questione che evidentemente si trasmette alla scienza giuridica e più in generale alla società romana.

A parte la enunciazione ulpianea, esistono altre attestazioni concrete della diffusione, nell’ambito della società romana, della idea della partecipazione degli animali non umani al diritto. Tra queste pensiamo in particolare al passo del De re publica di Cicerone, in cui sono ricordate le dottrine di Pitagora e di Empedocle sulla esistenza di una unica condizione giuridica fra tutti gli esseri animati[108], o pensiamo ancora al passo del De clementia di Seneca, in cui si parla di un diritto comune a tutti gli esseri animati[109].

L’affermazione della esistenza di un’unica condizione giuridica fra tutti gli esseri animati o di un diritto a essi comune è poi la base per affermare la necessità che l’uomo difenda la vita degli altri esseri viventi. Il tema della tutela degli animali non umani da parte dell’uomo è presente, con particolare forza, in Lucrezio e in Virgilio. Pensiamo soprattutto a quando il primo descrive il compito dell’uomo nel prendersi cura degli animali tutti affidati alla sua tutela[110], oppure a quando il secondo riconosce la dignità di tutti gli esseri viventi e si sofferma sull’impegno dell’uomo di prendersi cura degli altri animali[111].

La stessa enunciazione ulpianea, soprattutto quando la si consideri entro un quadro più ampio in cui si tenga conto dei numerosi riferimenti, nella filosofia greca e nella letteratura latina, alla partecipazione degli animali al diritto, appare così oggi particolarmente importante proprio per quel richiamare istituti propri della “società” degli uomini e degli animali che invitano tutti a riconsiderare che del cosmo l’uomo è parte assieme agli altri esseri animati[112].

Tale partecipazione, a ben guardare, è presente, con risvolti particolarmente significativi per il tema della macellazione rituale, nel sacrificio, che nel sistema giuridico-religioso romano è essenziale per la conservazione della pax deorum[113]. Si comprende così sia la previsione nelle leges regiae, in caso di omicidio involontario, della possibilità di sostituire una vittima umana con un altro animale, in cui è evidente la idea di una comune natura animale[114], sia il riconoscimento nell’animale non umano di una volontà, dalla quale manifestazione dipende la possibilità di compiere il sacrificio stesso[115]. Ma si direbbe anche, in maniera speculare, che la stessa condanna del sacrificio di animali[116], la cui prima espressione è attribuita per la Grecia all’orfismo[117] ed è ripresa da Pitagora[118], Eraclito[119], Empedocle[120], Porfirio[121] e Plutarco[122], e poi a Roma da autori quali Varrone[123], Seneca[124] e Arnobio[125], per giungere fino alle costituzioni dell’Imperatore Costantino[126] con le quali egli introduce limiti alle pratiche sacrificali connesse alla divinazione[127], può essere ricondotta a una visione generale del diritto in cui vi è ancora spazio per una considerazione delle relazioni tra uomini e altri esseri viventi.

Nella Dichiarazione universale dei diritti dell’animale, presentata a Bruxelles il 26 gennaio 1978 e proclamata a Parigi, presso l’UNESCO, il 15 ottobre 1978, all’art. 1, si legge che «Tutti gli animali nascono uguali davanti alla vita e hanno gli stessi diritti all’esistenza». Si tratta di una visione delle relazioni fra gli esseri animati non più antropocentrica ma biocentrica e rispettosa dell’equilibrio fra le diverse forme di vita. Tale visione ha oggi trovato un espresso riconoscimento normativo nel Trattato che istituisce la Unione Europea, in cui, all’art. III-121, si stabilisce che «Nella formulazione e nell’attuazione delle politiche dell’Unione nei settori dell’agricoltura, della pesca, dei trasporti, del mercato interno, della ricerca e dello sviluppo tecnologico e dello spazio, l’Unione e gli Stati membri tengono pienamente conto delle esigenze in materia di benessere degli animali in quanto esseri senzienti, rispettando nel contempo le disposizioni legislative o amministrative e le consuetudini degli Stati membri per quanto riguarda, in particolare, i riti religiosi, le tradizioni culturali e i patrimoni regionali».

È questa una visione che abbiamo visto non essere nuova, ma oggi quanto mai attuale, in cui l’uomo è parte assieme agli altri animali dell’universo, in una relazione simpatetica che consente di superare il pregiudizio antropocentrico, ancora espresso nell’uso di categorie dogmatiche inadatte a esprimere il valore unitario della vita animale. Il futuro che passa attraverso la continua ricerca da parte dell’uomo della propria identità nel confronto con gli altri esseri animati e il passato che si consolida nella religione e nelle tradizioni non possono valere per legittimare pratiche oltraggiose del valore giuridico, fondamentale nella coscienza giuridica occidentale, della vita, ma impongono un presente che sia anche la sintesi di valori diversi in cui parte essenziale è il rispetto degli animali, di tutti gli animali.

 

 



 

[1] Un elenco delle fonti in materia di macellazione si trova in: A. Roccella, “Macellazione e alimentazione”, in Aa.Vv., Musulmani in Italia. La condizione giuridica delle comunità islamiche (a cura di S. Ferrari), Bologna 2000, 204 ss.; V. Perrone-G. Felicetti, “Aspetti legislativi della macellazione e loro evoluzione”, in Aa.Vv., La macellazione. L’uccisione degli animali a scopo alimentare (a cura di G. Giovagnoli), Torino 2003, 21 ss.; F. Rescigno, I diritti degli animali. Da res a soggetti, Torino 2005, 220 nt. 134.

 

[2] Si vedano: G. Vignoli, “La protezione giuridica degli animali di interesse zootecnico”, in Rivista di diritto agrario, 1 (1986), 746; V. Pocar, Gli animali non umani. Per una sociologia dei diritti, nuova edizione riveduta e aggiornata, Roma-Bari 2005, 83 ss.

 

[3] Si veda, sul punto, A. Roccella, “Macellazione e alimentazione” cit., 204 ss.

 

[4] Nel Parere formulato dal Comitato Nazionale per la Bioetica, su “Macellazioni rituali e sofferenza animale”, approvato in seduta plenaria il 19 settembre 2003, 9, (consultabile on line all’indirizzo: http://www.governo.it/bioetica/testi/macellazione190903.pdf) si afferma: «Le macellazioni rituali, sacralizzando la procedura di uccisione dell’animale, ne sottolineano la gravità e la solennità: non è un atto ordinario, banale, che può essere compiuto senza riflettere sul fatto che esso significa dare la morte ad un essere vivente. L’inserimento della macellazione in un contesto religioso ha lo scopo di ricordare all’essere umano che egli non dispone arbitrariamente degli altri esseri viventi: se ne può servire ma soltanto all’interno di un orizzonte di senso che, per queste due religioni, è definito dal riferimento a Dio … La cura posta nel definire (talvolta fin nei più piccoli dettagli) gli aspetti delle macellazioni rituali ha anche un altro significato: quello di ridurre la sofferenza dell’animale. L’insistenza sull’affilatezza della lama con cui vengono recisi i vasi sanguigni, sulle modalità con cui la recisione deve essere eseguita e sulla preparazione tecnica del sacrificatore sono tutti elementi che sottolineano l’attenzione posta nel rendere più rapida ed indolore possibile la morte dell’animale. Naturalmente queste regole vanno considerate alla luce delle conoscenze e delle tecniche disponibili nel periodo in cui esse si sono formate: di conseguenza è possibile chiedersi se il progresso di tali conoscenze e tecniche consenta di riconsiderare alcune di quelle regole senza intaccare in alcun modo il significato profondo ed essenziale delle macellazioni rituali. In ogni caso è opportuno sottolineare subito che nelle macellazioni rituali è assente ogni intento di crudeltà nei confronti degli animali: al contrario, esse hanno avuto di mira fin dalla loro origine l’eliminazione di ogni inutile sofferenza».

 

[5] Per la disciplina prevista in tema di macellazione rituale, nell’ambito degli ordinamenti degli Stati europei, si veda l’Allegato 3 al Parere del Comitato Nazionale per la Bioetica sopra citato.

 

[6] Si veda General guidelines on the slaughtering of animals and the prepa­ration and andling of halal food, a cura del Department of Islamic Development, Prime Minister’s Department, Malaysia, may 2001, riportate anche nell’Allegato 10 del Parere sopra citato del Comitato Nazionale per la Bioetica.

 

[7] Si veda, per questa informazione, il contributo dell’ambasciatore Mario Scialoja, Responsabile della Lega Musulmana Mondiale in Italia, riportato nel Parere del Comitato Nazionale per la Bioetica, 86 ss.

 

[8] Si vedano i contributi di R. Di Segni e di G. Felicetti-A. Sansolini, riportati nel Parere del Comitato Nazionale per la Bioetica, 83 ss.

 

[9] Si veda per tutti M. Vegetti, Il coltello e lo stilo, 3ª ed. agg., Milano 1996, 21 ss.

 

[10] Sulla rilevanza giuridica di questi due modelli si veda infra in questo paragrafo.

 

[11] Cfr. M.V. Bacigalupo, Il problema degli animali nel pensiero antico, Torino 1965, 12; M. Vegetti, Il coltello e lo stilo cit., 20 ss.; G. Camassa, “Frammenti del bestiario pitagorico nella riflessione di Porfirio”, in Aa.Vv., Filosofi e animali nel mondo antico (a cura di S. Castignone-G. Lanata), Pisa 1994, 17 ss.

 

[12] Si può pensare in tal senso anzitutto all’Orfismo. Il racconto orfico della morte di Dioniso, ucciso dai Titani che ne dividono il corpo e ne arrostiscono le carni per mangiarle, provocando così l’ira di Zeus, è assieme attestazione del rifiuto del sacrificio cruento e del rispetto della vita animale. Al sacrificio cruento, Orfeo, capace di domare ogni specie animale grazie alla musica, preferisce la purezza del miele e dei cereali, i soli cibi graditi agli dei. Per le fonti vedi O. Kern, Orphicorum Fragmenta, Berlin 1922, 60-235; con riferimento alla antropogonia vedi Olimpiodoro, in Phd., 2,21 (ed. W. Norvin=Orphicorum Fragmenta, 220); v. anche Hymn. Apoll., 336; Platone, Leg., 701 c. Sul racconto orfico della morte di Dioniso si veda M. Detienne, “Pratiche culinarie e spirito di sacrificio”, in Aa.Vv., La cucina del sacrificio in terra greca (a cura di M. Detienne-J.P. Vernant), tr. it. di C. Casagrande-G. Sissa, Torino 1982, 7 ss.; R. Girard, La violenza e il sacro, tr. it. di O. Fatica-E. Czerkl, 3ª ed., Milano 1992, 170 ss.; W. Burkert, I Greci. Preistoria. Epoca minoico-micenea. Secoli bui (sino al sec. IX), t. 1, tr. it. di P. Pavanini, Milano 1984, 429 nt. 15.

 

[13] Sulla idea della trasmigrazione in Pitagora si veda anzitutto Senofane, 21 B 7 DK= fr. 7 West= Gentili-Prato (Diogene Laerzio, VIII,36). Si deve, inoltre, considerare Aristotele, De an., 407b 20 = 58 B 39 DK ed Erodoto, II,123 = 14 A 1 DK. Sulla trasmigrazione, nella filosofia pitagorica, si vedano: A. Rostagni, Il verbo di Pitagora, Torino 1924 (rist. Forlì 2005 [da cui si cita]), 73 ss.; A. Maddalena, I Pitagorici, Bari 1954, 336; M.V. Bacigalupo, Il problema degli animali nel pensiero antico cit., 11 ss.; E. Zeller-R. Mondolfo, La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico (a cura di M. Isnardi Parente), I, tr. it. di E. Pocar, Firenze 1974, 125 ss.; W. Burkert, I Greci. Età arcaica. Età classica (sec. IX-IV), t. 2, tr. it. di P. Pavanini, Milano 1984, 430 ss.; G. Sole, Il tabù delle fave. Pitagora e la ricerca del limite, Soveria Mannelli 2004, 13 ss.

 

[14] Eudosso, fr. 36 Gisinger = 325 Lasserre (14 B 9 DK) (Porfirio, Vita Pyth., 7) e Onesicrito, FGrHist 134 F 17 (Strabone, 15,1,63-65). Sul sacrificio religioso nella filosofia pitagorica si vedano: M. Detienne,La cuisine de Pythagore”, in Archives de sociologie des religions, 29 (1970), 141 ss. (=Id., Les Jardins d’Adonis, Paris 1972, 76 ss.); Id., “Pratiche culinarie e spirito di sacrificio” cit., 11 ss.

 

[15] Sulla astensione dall’alimentazione carnea si veda Giamblico, Vita Pyth., 24,107-108, riportato nel testo. Cfr. G. Santese, “Introduzione”, in Plutarco, Il cibarsi di carne (a cura di L. Inglese-G. Santese), Napoli 1999, 62 ss.

 

[16] Cfr. M. Vegetti, Il coltello e lo stilo cit., 27 ss.

 

[17] Giamblico, Vita Pyth., 33,229. Si veda al riguardo M.V. Bacigalupo, Il problema degli animali nel pensiero antico cit., 12 (ivi altri riferimenti alle fonti). In generale, sulla idea di amicizia in Pitagora, si veda L. Pizzolato, L’idea di amicizia nel mondo antico classico e cristiano, Torino 1993, 18 ss.; 53, il quale rileva che per Pitagora il rapporto di amicizia comporta la uguaglianza fra i contraenti, secondo il detto assonomico a lui attribuito amicizia-uguaglianza (philótēs-isótēs).

 

[18] Traduzione di M. Giangiulio, in Pitagora. Le opere e le testimonianze (a cura di M. Giangiulio), II, Milano 2000, 397 ss.

 

[19] Si veda M. Vegetti, Il coltello e lo stilo cit., 42 ss.

 

[20] Sulla prospettiva antropocentrica connessa a tale tradizione, con particolare riferimento alla filosofia aristotelica, si veda per tutti M. Vegetti, Il coltello e lo stilo cit., 127 ss.; P. Fedeli, La natura violata. Ecologia e mondo romano, Palermo 1990, 107 ss.; M. Vegetti, “Figure dell’animale in Aristotele”, in Aa.Vv., Filosofi e animali nel mondo antico (a cura di S. Castignone-G. Lanata), Pisa 1994, 125 ss.; G. Lanata, “Antropocentrismo e cosmocentrismo nel pensiero antico”, ibidem, 17 ss.; S. Rocca, Uomini e animali in Cicerone, Genova 1998, 45 ss.; L. Repici, Uomini capovolti. Le piante nel pensiero dei Greci, Roma-Bari 2000, 13 ss.; O. Longo, “La mano e il cervello. Da Anassagora a Leroi-Gourhan”, in Ethos e cultura. Studi in onore di Ezio Riondato, II, Padova 1991, 957 ss. (=Id., L’universo dei greci. Attualità e distanze, Venezia 2000, 112 ss.); Id., Scienza mito natura. La nascita della biologia in Grecia, Milano 2006, 85 ss.

 

[21] Aristotele, Hist. Anim., 8,1,588a 16 ss.; Pol., 1253a9-18.

 

[22] Si veda, per tutti, A. Carbone, “Commento”, in Aristotele, Le parti degli animali (a cura di A. Carbone), Milano 2002, 748 ss.

 

[23] Aristotele, De part. an., 4,10,686a 26-30; 4,10,687a 5-22. Cfr. M. Vegetti, Il coltello e lo stilo cit., 110 ss.; G. Lanata, “Antropocentrismo e cosmocentrismo nel pensiero antico” cit., 23.

 

[24] Aristotele, Hist. Anim., 1,1,488a1 ss.

 

[25] La traduzione è di M. Vegetti, Il coltello e lo stilo cit., 42.

 

[26] Cfr., in senso analogo, G. Lanata, “Antropocentrismo e cosmocentrismo nel pensiero antico” cit., 35.

 

[27] Per la influenza delle cosiddette “fonti tecniche” sulla Historia si veda M. Vegetti, Il coltello e lo stilo cit., 32 ss., con rinvii alla letteratura.

 

[28] Aristotele, nella polemica contro i medici di tradizione ippocratica circa la origine delle vene (Hist. Anim., 3,2-3,511b 13 ss.; 513 12 ss.), sostiene la necessità di uccidere l’animale con strangolamento, dopo averlo fatto dimagrire, allo scopo di trarre da esso le opportune valutazioni, cosa che non è possibile fare sulla base della osservazione di un animale vivo, poiché le vene sono all’interno, né su un animale ucciso per scopi diversi da quelli scientifici, poiché le vene cedono subito non appena il sangue fuoriesce. Si veda M. Vegetti, Il coltello e lo stilo cit., 40 ss.

 

[29] Sulla nozione di ius naturale si veda infra il par. 5.

 

[30] Si veda a questo proposito M. Vegetti, Il coltello e lo stilo cit., 127 ss., il quale rileva che per i filosofi greci rispondere alla domanda: «che cos’è un uomo?» comporta «tracciare una doppia linea di demarcazione, verso gli dèi, in alto, e in basso verso le bestie. Significa aprire uno spazio in cui l’uomo sia inscrivibile per quello che esso è specificamente, lasciando da parte le sue ambigue frequentazioni sui bordi di entrambi gli eccessi; bordi agevolmente valicabili, almeno al principio, per genealogia ed eroismo da un lato, per ferinità o specularità dall’altro».

 

[31] Cfr., in tal senso, M. Douglas, Purezza e pericolo: un’analisi dei concetti di contaminazione e tabu, tr. it. di A. Vatta, Bologna 1975, 82.

 

[32] Traduzione di A. Bausani, in Il Corano (a cura di A. Bausani), Milano 2006, 74 ss.

 

[33] Traduzione di A. Bausani, in Il Corano cit., 19.

 

[34] Traduzione di A. Bausani, in Il Corano cit., 19.

 

[35] Traduzione di A. Bausani, in Il Corano cit., 103.

 

[36] Traduzione di A. Bausani, in Il Corano cit., 199.

 

[37] Sulla questione si veda E. Francesca, Introduzione alle regole alimentari islamiche, Roma 1995, 6 ss.

 

[38] Corano, 36,71-73; 16,5 e 14.

 

[39] Per la religione ebraica si vedano le corrispondenti prescrizioni in materia: Lev., 17,15; 22,8; Deut., 14,21; Ezech., 4,14.

 

[40] E. Francesca, Introduzione alle regole alimentari islamiche cit., 6 ss.

 

[41] E. Francesca, Introduzione alle regole alimentari islamiche cit., 33 ss.

 

[42] Si vedano oltre ai brani del Deuteronomio riportati nel testo: Gen., 9,4; Lev., 3,17; 17,10-14. Sulle prescrizioni ebraiche in materia alimentare si vedano per tutti: R. Di Segni, Guida alle regole alimentari ebraiche (a cura dell’Assemblea dei Rabbini d’Italia), 3ª ed. riv. e aggiornata, Roma 1996; P. Lerner - A. Mordechai Rabello, “The Prohibition of Ritual Slaughtering (Kosher Shechita and Halal) and Freedom of Religion of Minorities”, in The Journal of Law and Religion, 22 (2006-2007), 1 ss.

 

[43] La Sacra Bibbia, Edizione ufficiale della C.E.I., 19ª ed., Roma 2007, 162.

 

[44] La Sacra Bibbia cit., 162.

 

[45] Cfr., da ultimo, F. Rescigno, I diritti degli animali. Da res a soggetti cit., 220 nt. 134.

 

[46] GU n. 036 del 12/02/1929.

 

[47] Art. 9.

 

[48] Art. 1.

 

[49] GU n. C 76 del 03/0 7/1974.

 

[50] Art. 1 comma 2.

 

[51] Art. 4.

 

[52] Si veda, sulla questione, A. Roccella, “Macellazione e alimentazione” cit., 208 ss.

 

[53] GU n. 227 del 16/08/1978.

 

[54] Art. 1.

 

[55] Art. 4.

 

[56] Art. 3.

 

[57] Art. 4.

 

[58] Art. 14, in cui si prevede però che, in caso di macellazione di pollame e conigli, il divieto di appendere gli animali non si applica purché subito dopo la sospensione avvenga lo stordimento.

 

[59] Art. 17.

 

[60] Art. 19.

 

[61] GU n. L 340 del 31/12/1993.

 

[62] GU n. 226 del 28/09/1998.

 

[63] All’art. 1 si stabilisce che il decreto si applica non solo alla macellazione, ma anche all’abbattimento di animali da pelliccia o a scopi sanitari.

 

[64] Art. 1 comma 2.

 

[65] Art. 2 comma 1 sub h.

 

[66] Art. 2 comma 2.

 

[67] Art. 4.

 

[68] Art. 9 comma 2.

 

[69] Si veda A. Roccella, “Macellazione e alimentazione” cit., 216 nt. 40 e 219 nt. 49.

 

[70] GU n. 13 del 18/01/2000.

 

[71] Si veda art. 1 comma 2 sub b.

 

[72] Si può ricordare a questo proposito che il limite per la libertà di religione, previsto nella nostra Costituzione all’art. 19, è quello del buon costume a cui devono essere aggiunti altri limiti, in un ambito sovranazionale, individuabili nella Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, del 1950, e nel Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici del 1966, ratificato dall’Italia nel 1978. Nella Convenzione, all’art. 9, e nel Patto, all’art. 18, terzo comma, limiti alla libertà di religione possono essere individuati solo per legge e in funzione della necessità di tutelare la sicurezza pubblica, l’ordine pubblico, la salute, la morale pubblica o i diritti e le libertà altrui. Sul punto si veda A. Roccella, “Macellazione e alimentazione” cit., 205.

 

[73] A. Roccella, “Macellazione e alimentazione” cit., 206.

 

[74] Lo stato della questione è riassunto in F. Rescigno, I diritti degli animali. Da res a soggetti cit., 226 ss.

 

[75] Cfr., in questo senso, F. Castro, “L’Islam in Italia: profili giuridici”, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica, 1 (1996), 278.

 

[76] GU n. 227 del 16/08/1978.

 

[77] Art. 1.

 

[78] Si veda in tal senso F. Rescigno, I diritti degli animali. Da res a soggetti cit., 222.

 

[79] Si veda, come esempio di questa impostazione, G. Giordano, “Carni”, in Enciclopedia del diritto, VI, Milano 1960, 304 ss., su cui hanno richiamato l’attenzione: T. Ercoli, “La macellazione”, in Aa.Vv., Per un codice degli animali. Commenti sulla normativa vigente (a cura di A. Mannucci - M. Tallacchini), Milano 2001, 199 ss.; F. Rescigno, I diritti degli animali. Da res a soggetti cit., 220 ss. nt. 135.

 

[80] Il decreto, secondo quanto previsto al comma 2 dell’art. 1, non si applica, fra l’altro, agli abbattimenti eseguiti in occasione di “manifestazioni culturali o sportive” o alla selvaggina. Sono poi, all’art. 9, previste altre deroghe, per la macellazione eseguita presso i privati destinata al consumo familiare, ma il legislatore ha qui fortemente ridotto il senso stesso di queste deroghe stabilendo che anche in tal caso si debba applicare la disposizione fondamentale prevista all’art. 3, in cui si stabilisce che all’animale, anche se macellato ‘privatamente’, debbano essere risparmiate tutte le forme di eccitazione e di sofferenza evitabili. Per un quadro generale dei limiti della più recente legislazione in tema di macellazione si veda F. Rescigno, I diritti degli animali. Da res a soggetti cit., 223 ss.

 

[81] Cfr. F. Rescigno, I diritti degli animali. Da res a soggetti cit., 262 ss.

 

[82] Si veda in tal senso F. Rescigno, I diritti degli animali. Da res a soggetti cit., 226 ss.

 

[83] Sull’art. 727 c.p., per un quadro di insieme, si vedano: D. Pástina, “Animali”, in Enciclopedia del diritto, II, Milano 1958, 433 ss.; A. Cosseddu, “Maltrattamento di animali”, in Digesto delle Discipline Penalistiche, 4ª ed., VII, Torino 1993, 3 ss.; Ead., “Maltrattamento di animali”, in Digesto delle Discipline Penalistiche, 4ª ed., Aggiornamento, Torino 2000, 441 ss.; A. Galione-S. Maccioni, “L’abbandono ed il maltrattamento degli animali”, in Aa.Vv., Il diritto delle relazioni affettive. Nuove responsabilità e nuovi danni (a cura di P. Cendon), III, Padova 2005, 2029 ss.

 

[84] Cfr. E. Balocchi, “Animali (protezione degli)”, in Enciclopedia giuridica Treccani, II, Roma 1988, 2 ss.

 

[85] Cito da M. Santoloci, “L’art. 727 del codice penale nell’attuale posizionamento giuridico e sociale”, in Aa.Vv., Per un codice degli animali. Commenti sulla normativa vigente cit., 53.

 

[86] Art. 2 comma 2 e 3.

 

[87] Art. 2 comma 6. Per un quadro generale dei problemi etici e giuridici legati alla eutanasia degli animali non umani, si veda Aa.Vv., L’uccisione degli animali. Eutanasia. Strumenti per l’analisi morale (a cura di P. Sartori-L. Canavacci), Torino 2001.

 

[88] All’interno del titolo IX-bis nel libro II.

 

[89] Si consideri, in questo senso, anche la legge n. 413 del 1993, che prevede la “obiezione di coscienza alla sperimentazione animale”.

 

[90] Si noti che, come si legge sempre nella Premessa, il Comitato Nazionale per la Bioetica, nel settembre del 2002, decise di costituire, sul tema delle “Macellazioni rituali e sofferenza animale”, un gruppo di lavoro di cui facevano parte i professori Sergio Belardinelli, Silvio Ferrari, Salvatore Amato, Luisella Battaglia, Renata Gaddini, Pasqualino Santori e Tullia Zevi. Nel corso dei lavori, il Comitato si avvalse della collaborazione di altri eminenti esperti del mondo accademico e religioso: il professore dell’Università di Perugia, Maurizio Severini, il Rabbino Capo della Comunità Ebraica di Roma, Riccardo Di Segni, il responsabile della LAV e Membro della Commissione per l’Allevamento e la Macellazione del Ministero della Salute, Gianluca Felicetti, il Responsabile della Lega Musulmana Mondiale in Italia, Ambasciatore Mario Scialoja.

 

[91] Sull’uso delle categorie in questione si vedano: R. Orestano, Il problema delle fondazioni in diritto romano, Parte Prima, Torino 1959, 3 ss.; Id., Ilproblema delle persone giuridiche” in diritto romano, I, Torino 1968, 7 ss.; P. Catalano, Diritto e persone. Studi su origine e attualità del sistema romano, Torino 1990, 169 ss.; Id., “Diritto, soggetti, oggetti: un contributo alla pulizia concettuale sulla base di D. 1,1,12”, in Iuris vincula. Studi in onore di Mario Talamanca, II, Napoli 2001, 97 ss.; G. Melillo, Personae e status in Roma antica, Napoli 2006, 1 ss.

 

[92] Si veda per questa impostazione F. Rescigno, I diritti degli animali. Da res a soggetti cit., 1 ss.

 

[93] Sulla elasticità della distinzione gaiana fra personae e res si veda G. Grosso, Problemi sistematici nel diritto romano. Cose - contratti (a cura di L. Lantella), Torino 1974, 7 ss., il quale osserva che nei termini persona e res vi è un riferimento soggettivo e oggettivo.

 

[94] Gai. 1,48: Sequitur de iure personarum alia divisio. Nam quaedam personae sui iuris sunt, quaedam alieno iuri subiectae sunt; 1,51: Ac prius dispiciamus de iis qui in aliena potestate sunt. 1,52: In potestate itaque sunt servi dominorum. Quae quidem potestas iuris gentium est; nam apud omnes peraeque gentes animadvertere possumus dominis in servos vitae necisque potestatem esse; et quodcumque per servum adquiritur, id domino adquiritur; 2,13: Corporales hae <sunt> quae tangi possunt, velut fundus homo vestis aurum argentum et denique aliae res innumerabiles. Sulla condizione del servo, sotto il profilo della sua classificazione, si vedano per tutti: F. Goria, “Schiavi, sistematica delle persone e condizioni economico-sociali nel Principato”, in Aa.Vv., Prospettive sistematiche nel diritto romano, Torino 1976, 363 ss.; O. Robleda, Il diritto degli schiavi nell’antica Roma, Roma 1976, 68 ss.; M. Morabito, “Ricerche sulla schiavitù attraverso il discorso dei giuristi nel Digesto”, in Index, 8 (1978-1979), 280 ss.; M.I. Finley, Schiavitù antica e ideologie moderne, tr. it. di E. Lo Cascio, Roma-Bari 1981; M. Morabito, Les réalités de l’esclavage d’après le Digeste, Paris 1981; R. Quadrato, “La persona in Gaio. Il problema dello schiavo”, in Iura, 37 (1986), 1 ss.; A. Watson, “Slavery and the development of Roman private law”, in Bullettino dell’Istituto di Diritto Romano, 90 (1987), 105 ss.; A. Carandini, Schiavi in Italia. Gli strumenti pensanti dei Romani fra tarda Repubblica e medio Impero, Roma 1988; R. Quadrato, “‘Hominis appellatio’ e gerarchia dei sessi D. 50,16,152 (Gai. 10 ad l. Iul. et Pap.)”, in Bullettino dell’Istituto di Diritto Romano, 91 (1988), 309 ss.; Aa.Vv., La schiavitù nel mondo antico (a cura di M.I. Finley), tr. it. di C. Fallace, Roma-Bari 1990; B. Huwiler, “Homo et res: Skizzen zur hellenistischen Theorie der Sklaverei und deren Einfluss auf das römische Recht”, in Mélanges Felix Wubbe, Fribourg 1993, 207 ss.; M. Melluso, La schiavitù nell’età giustinianea, Paris 2000, 135 ss.; E. Stolfi, Studi sui libri ad edictum di Pomponio, II, Contesti e pensiero, Milano 2001, 387 ss.

 

[95] La qualificazione giuridica del servo attraverso l’impiego delle categorie moderne di oggetto e di soggetto di diritto non consente di cogliere la elasticità della distinzione, propria della giurisprudenza romana, fra personae e res. Nella sistematica romana, il medesimo ente – l’uomo – è considerato allo stesso tempo persona e res. Si direbbe che personae e res non servono per indicare entità diverse ma modi differenti di manifestarsi delle stesse entità. La qualificazione del servus come oggetto in base al fatto che esso figura nelle fonti giuridiche romane fra le res, non permette di comprendere sul piano dogmatico il ruolo che esso ricopre anche come parte di negozi giuridici o come destinatario di una tutela giuridico-religiosa. Una critica alla tendenza della dottrina a negare la soggettività giuridica del servus si trova in P. Catalano, Diritto e persone. Studi su origine e attualità del sistema romano cit., 163 ss., il quale mette in rilievo che l’affermazione secondo cui il servus non è un soggetto di diritto è errata sia perché trascura di considerare la partecipazione di esso al ius, sia perché si basa su un presupposto metodologico errato in quanto impiega una nozione “estranea alle fonti” e “inadatta” a cogliere il “dato storico”; Id., “Diritto, soggetti, oggetti: un contributo alla pulizia concettuale sulla base di D. 1,1,12” cit., 97 ss., il quale osserva: «Le questioni circa la ‘soggettività’ del servo e del nascituro, se riferite allo ius Romanum, sono scientificamente mal poste». Con riferimento alla sistematica è importante ricordare l’osservazione di F. Goria, “Schiavi, sistematica delle persone e condizioni economico-sociali nel Principato” cit., 333, secondo cui: «Non esistendo la mediazione formale della capacità giuridica che occultasse, riportandole in un mondo di concetti astratti, le reali differenze sociali tra gli uomini, si comprende come le classificazioni giuridiche traducessero immediatamente e direttamente certi tipi di rapporti sociali». Con riferimento alla categoria della personalità giuridica S. Tafaro, La pubertà a Roma. Profili giuridici, Bari 1993, 11, ritiene che la concezione moderna a essa sottostante ha finito col coartare la esperienza antica entro uno schema che non corrisponde alla complessità del passato e ha determinato una “omogeneizzazione” della realtà giuridica romana e una “sottovalutazione” dell’articolazione del sistema giuridico romano imperniato attorno alla considerazione dell’essere umano.

 

[96] Una recente messa a punto, con riguardo alla nozione di res e di oggetto di diritto, in termini dogmatici è quella di A. Trisciuoglio, “Il corpo umano vivente dopo la nascita: osservazioni storico-comparatistiche”, in Aa.Vv., Modelli teorici e metodologici nella storia del diritto privato, 2, Napoli 2006, 389 ss.

 

[97] Per la relazione tra le nozioni di persona e di soggetto di diritto si veda per tutti R. Orestano, Ilproblema delle persone giuridiche” in diritto romano cit., 7 ss. Per la relazione tra le nozioni di res e di cosa si vedano: G. Astuti, “Cosa (Diritto romano e intermedio)”, in Enciclopedia del diritto, XI, Milano 1962, 1 ss.; S. Pugliatti, “Cosa (Teoria generale), ibidem, 19 ss.

 

[98] Si veda P. Catalano, “Diritto, soggetti, oggetti: un contributo alla pulizia concettuale sulla base di D. 1,1,12” cit., 97 ss., il quale ritiene a ragione che «la pulizia concettuale vada condotta fino alla radice, eliminando gli stessi termini ‘oggetto’ e ‘soggetto’».

 

[99] Sull’uso concreto delle nozioni di persona e di homo si veda P. Catalano, Diritto e persone. Studi su origine e attualità del sistema romano cit., 167 ss.

 

[100] Sulla rilevanza giuridica del comportamento animale si rinvia a P.P. Onida, Studi sulla condizione degli animali non umani nel sistema giuridico romano, Torino 2002, 399 ss.

 

 

[101] Nel caso di un danneggiamento inferto da un quadrupede a seguito di un atto contra naturam il proprietario era posto nell’alternativa di compiere la noxae deditio dell’animale, la consegna di esso alla vittima, o di pagare una somma di denaro a titolo di risarcimento. Per le fonti si vedano anzitutto: D. 9,1,1 pr. (Ulp. 18 ad ed.): Si quadrupes pauperiem fecisse dicetur, actio ex lege duodecim tabularum descendit: quae lex voluit aut dari id quod nocuit, id est id animal quod noxiam commisit, aut aestimationem noxiae offerre. D. 9,1,1,3 (Ulp. 18 ad ed.): Ait praetor ‘pauperiem fecisse’. pauperies est damnum sine iniuria facientis datum: nec enim potest animal iniuria fecisse, quod sensu caret. D. 9,1,1,13 (Ulp. 18 ad ed.): Plane si ante litem contestatam decesserit animal, extincta erit actio. D. 9,1,1,14 (Ulp. 18 ad ed.): Noxae autem dedere est animal tradere vivum. demum si commune plurium sit animal, adversus singulos erit in solidum noxalis actio, sicuti in homine. Fragm. Augustodun., 4,83: Et non solum si totum corpus det liberatur, sed etiam si partem aliquam corporis. Denique tractatur de capillis et unguibus an partes corporis sint. Quidam enim dicunt <ea additamenta corporis esse; sunt enim>  foris posita. Animal mortuum vero dedi non potest. Per la dottrina sull’actio de pauperie si vedano da ultimo, con ampi riferimenti alla letteratura meno recente: M.V. Giangrieco Pessi, Ricerche sull’actio de pauperie. Dalle XII Tavole ad Ulpiano, Napoli 1995; M. Polojac, “Actio de pauperie - domestic and wild animals?”, in Règle et pratique du droit dans les réalités juridiques de l’antiquité. Atti della 51ª Sessione della SIHDA Crotone-Messina 16-20 settembre 1997 (a cura di I. Piro), Soveria Mannelli 1999, 463 ss.; Ead., “L’actio de pauperie ed altri mezzi processuali nel caso di danneggiamento provocato dall’animale nel diritto romano”, in Ius Antiquum, 8 (2001), 81 ss.; P.P. Onida, Studi sulla condizione degli animali non umani nel sistema giuridico romano cit., 449 ss.

 

[102] Sulla rilevanza giuridica delle classificazioni animali si veda P.P. Onida, Studi sulla condizione degli animali non umani nel sistema giuridico romano cit., 161 ss.

 

[103] Per i riferimenti alla bibliografia, vastissima, sul ius naturale, si vedano: C.A. Maschi, La concezione naturalistica del diritto e degli istituti giuridici romani, Milano 1937, 284 ss.; B. Biondi, Il Diritto romano cristiano, II. La giustizia-Le persone, Milano 1952, 4 ss.; A. Burdese, “Il concetto di ius naturale nel pensiero della giurisprudenza classica”, in Rivista italiana per le scienze giuridiche, 90 (1954), 407 ss.; G. Nocera, Ius naturale nell’esperienza giuridica romana, Milano 1962; M. Bretone, Storia del diritto romano, Roma-Bari 1992, 323 ss.; M. Kaser, Ius gentium, Köln-Weimar-Wien 1993, 54 ss.; 98 ss.; M.P. Baccari, Concetti ulpianei per il “diritto di famiglia”, Torino 2000, 16 ss.; W. Waldstein, Saggi sul diritto non scritto (a cura di U. Vincenti), Padova 2002, 207 ss.; Aa.Vv., Testi e problemi del giusnaturalismo romano (a cura di D. Mantovani-A. Schiavone), Pavia 2007.

 

[104] Per una prima analisi della letteratura sulla “questione animale”, con riferimenti alla soggettività animale, si vedano: Aa.Vv., I diritti degli animali. Prospettive bioetiche e giuridiche (a cura di S. Castignone-G. Lanata), Bologna 1985; Aa.Vv., I diritti degli animali (a cura di S. Castignone-G. Lanata), Centro di Bioetica-Genova, Atti del Convegno nazionale, Genova 23-24 maggio 1986, Genova 1987; P. Singer, In difesa degli animali, tr. it. di S. Nesi Sirgiovanni, Roma 1987; Id., Liberazione animale: il libro che ha ispirato il movimento mondiale per la liberazione degli animali (a cura di P. Cavalieri), tr. it. di E. Ferreri, Roma 1987; T. Regan-P. Singer, Diritti animali, obblighi umani, tr. it. di P. Garavelli, Torino 1987; P. Singer, Il movimento di liberazione animale (a cura di P. Cavalieri-A. Pillon), Torino 1989; T. Regan, I diritti animali, tr. it. di R. Rini, Milano 1990; P. Cavalieri-P. Singer, Il Progetto Grande Scimmia: eguaglianza oltre i confini della specie umana, Roma 1994; L. Battaglia, Etica e diritti degli animali, Roma-Bari 1997; P. Cavalieri, La questione animale. Per una teoria allargata dei diritti umani, Torino 1999; V. Pocar, Gli animali non umani. Per una sociologia dei diritti, nuova edizione riveduta e aggiornata, Roma-Bari 2005; F. Rescigno, I diritti degli animali. Da res a soggetti cit., 9 ss.; B. De Mori, Che cos’è la bioetica animale, Roma 2007.

 

[105] D. 1,1,1,3-4 (Ulp. 1 inst.): 3 Il diritto naturale è quello che la natura ha insegnato a tutti gli esseri animati: infatti, questo diritto non è proprio del genere umano, ma è comune a tutti gli esseri animati che nascono in terra, in mare, ed è comune anche agli uccelli. Da qui deriva l’unione del maschio e della femmina, la quale unione noi chiamiamo matrimonio; da qui deriva la procreazione dei figli; da qui l’educazione. Vediamo, infatti, che anche tutti gli altri esseri animati, comprese le fiere, sono valutati in base alla esperienza <che abbiano> di questo diritto. 4 Il diritto delle genti è quello di cui le genti umane fanno uso. Si può capire facilmente che esso si discosta dal diritto naturale, poiché il diritto naturale è comune a tutti gli esseri animati, mentre il diritto delle genti è comune ai soli uomini tra loro. Traduzione a cura di S. Schipani, con la collaborazione di L. Lantella, in Iustiniani Augusti Digesta seu Pandectae. Digesti o Pandette dell’Imperatore Giustiniano, testo e traduzione, I, Milano 2005, 77-78.

 

[106] Inst., 1,2 pr.: Il diritto naturale è quello che la natura ha insegnato a tutti gli animali. Invero questo diritto non è caratteristico del genere umano, bensì di tutti gli animali che nascono in cielo, in terra, in mare. Ne discende l’unione del maschio e della femmina, che noi chiamiamo matrimonio, e la procreazione e l’allevamento dei figli: vediamo infatti che pure gli altri animali sono valutati in rapporto alla loro perizia in questo diritto. Traduzione di E. Nardi, in E. Nardi, Istituzioni di diritto romano, B, Testi, 2, ristampa emendata, Milano 1986, 10.

 

[107] Sulla concezione naturalistica del diritto romano si vedano soprattutto: C.A. Maschi, La concezione naturalistica del diritto e degli istituti giuridici romani cit., 158 ss.; A. Burdese, “Ius naturale”, in Novissimo Digesto Italiano, IX, Torino 1963, 383 ss.; G. Grosso, Problemi generali del diritto attraverso il diritto romano, 2ª ed., Torino 1967, 99 ss.

 

[108] Cicerone, rep., 3,11,18-19: 18 esse enim hoc boni viri et iusti, tribuere id cuique quod sit quoque dignum. 19 ecquid ergo primum mutis tribuemus beluis? non enim mediocres viri sed maxumi et docti, Pythagoras et Empedocles, unam omnium animantium condicionem iuris esse denuntiant, clamantque inexpiabilis poenas impendere iis a quibus violatum sit animal. scelus est igitur nocere bestiae, quod scelus qui velit.

 

[109] Seneca, clem., 1,18,2: Servis ad statuam licet confugere! Cum in servum omnia liceant, est aliquid, quod in hominem licere commune ius animantium vetet. Cfr. A. Mantello, “Il sogno, la parola, il diritto. Appunti sulle concezioni giuridiche di Paolo”, in Bullettino dell’Istituto di Diritto Romano, 33 (1991), 401; G. Giliberti, Cosmopolis. Politica e diritto nella tradizione cinico-stoica, Pesaro 2002, 87 ss.

 

[110] Lucrezio, 5,866, su cui si veda G. Lanata, “Antropocentrismo e cosmocentrismo nel pensiero antico” cit., 35.

 

[111] L’uso del termine cura in Virgilio è attestato in più luoghi: si veda, ad esempio, Georg., 1,3; 3,124; 3,138; 3,157; 3,305; 3,319; 3,404, su cui ha richiamato l’attenzione S. Rocca, “Animali”, in Enciclopedia Virgiliana, I, Roma 1984, 173 ss.

 

[112] Cfr. in questo senso M. Bretone, Storia del diritto romano cit., 346.

 

[113] Sulla centralità del sacrificio a Roma si veda per tutti G. Dumézil, La religione romana arcaica, tr. it. di F. Jesi, Milano 1977, 476 ss. Per una analisi giuridica del sacrificio è ora fondamentale F. Sini, Sua cuique civitati religio. Religione e diritto pubblico in Roma antica, Torino 2001, 177 ss. Per la opinione di chi scrive si veda P.P. Onida, “Il divieto dei sacrifici di animali nella legislazione di Costantino. Una interpretazione sistematica”, in Aa.Vv., Poteri religiosi e istituzioni: il culto di San Costantino Imperatore tra Oriente e Occidente (a cura di F. Sini-P.P. Onida), Torino 2003, 73 ss. Sul concetto di pax deorum, si veda, per tutti, F. Sini, Diritto e pax deorum in Roma antica”, in Diritto @ Storia. Rivista internazionale di Scienze Giuridiche e Tradizione Romana, 5 (2006) = http://www.dirittoestoria.it/5/Memorie/Sini-Diritto-pax-deorum.htm.

 

[114] Servio, in Verg. Buc., 4,43: Sane in Numae legibus cautum est, ut, siquis imprudens occidisset hominem, pro capite occisi agnatis eius in contione offerret arietem (=C.G. Bruns, Fontes Iuris Romani Antiqui, 6ª ed., Friburgi et Lipsiae 1893, 10 fr. 13; S. Riccobono, Fontes Iuris Romani Antejustiniani, Pars prima, Leges, 2ª ed., Florentiae 1941, 13 fr. 17). Si vedano: M. Voigt, “Über die leges regiae, I. Bestand und Inhalt der leges regiae“, in «Abhandlungen der philologisch-historischen Classe der Königlich Sächsischen Gesellschaft der Wissenschaften», 6 (1876), 555 ss.; S. Tondo, Leges regiae e paricidas, Firenze 1973, 89 ss.; C.A. Melis, “Arietem offerre. Riflessioni attorno all’omicidio involontario in età arcaica”, in Labeo, 34 (1988), 135 ss.; F. Sini, Sua cuique civitati religio. Religione e diritto pubblico in Roma antica cit., 202 ss.

 

[115] Si veda Macrobio, sat., 3,5,8: Observatum est a sacrificantibus ut, si hostia quae ad aras duceretur fuisset vehementius reluctata ostendissetque se invitam altaribus admoveri, amoveretur quia invito deo offerri eam putabant. Quae autem stetisset oblata, hanc volenti numini dari aestimabant, su cui ha richiamato l’attenzione F. Sini, Sua cuique civitati religio. Religione e diritto pubblico in Roma antica cit., 200, il quale osserva che «nella dinamica del sacrificio veniva ad assumere un certo rilievo anche la volontà dell’animale destinato all’immolazione; al riguardo, la scienza pontificale considerava requisito necessario per la validità dell’offerta e dell’azione rituale il fatto che la vittima manifestasse in qualche modo il proprio consenso. Per questa ragione l’animale non poteva essere condotto a forza presso l’ara, poiché ciò avrebbe rappresentato un pessimo auspicio per il buon esito del sacrificio».

 

[116] Sul rifiuto del sacrificio cruento, si vedano: E. Tagliaferro, “Anaimaktos thusia-logike thusia. A proposito della critica al sacrificio cruento”, in Sangue e antropologia nella liturgia, Atti della 4ª settimana, Roma 21-26 novembre 1983 (a cura di F. Vattioni), III, Roma 1983, 1573 ss.; C. Grottanelli, “Appunti sulla fine dei sacrifici”, in Egitto e Vicino Oriente, 12 (1989), 175 ss.; Id., Il sacrificio, Roma-Bari 1999, 70 ss.

 

[117] Per le fonti e la dottrina si veda supra nt. 12.

 

[118] Giamblico, Vita Pyth., 24,107-108.

 

[119] Aristocrito, theos., 68.

 

[120] Porfirio, De abst., 2,21.

 

[121] Porfirio, De abst., 4,22 (Xenocr. 252 I. P. = 98 Heinze).

 

[122] Plutarco, De esu carn., 996 A-B; 997 E; De soll. an., 964,7.

 

[123] Arnobio attribuisce a Varrone l’opinione secondo cui gli dei non desiderano, né tantomeno reclamano sacrifici di animali: Arnobio, nat., 7,1: Quid ergo, dixerit quispiam, sacrificia censetis nulla esse omnino facienda? Ut vobis non nostra, sed Varronis vestri sententia respondeamus, nulla. Quid ita? quia, inquit, dii veri neque desiderant ea neque deposcunt, ex aere autem facti, testa, gypso vel marmore multo minus haec curant: carent enim sensu; neque ulla contrahitur, si ea non feceris, culpa, neque ulla, si feceris, gratia.

 

[124] A Seneca Lattanzio ascrive il rifiuto del sangue sacrificale: Lattanzio, inst., 6,25,3: Quanto melius et verius Seneca vultisne vos inquit deum cogitare magnum et placidum et maiestate leni verendum, amicum et semper in proximo, non immolationibus nec sanguine multo colendum – quae enim ex trucidatione immerentium voluptas est?

 

[125] Arnobio, nat., 7,3-4; 7,27-29. Cfr. O. Gigon, “Arnobio: cristianesimo e mondo romano”, in Aa.Vv., Mondo classico e Cristianesimo, Roma 1982, 94 ss.; F. Mora, Arnobio e i culti di mistero. Analisi storico-religiosa del V libro dell’Adversus Nationes, Roma 1994, 19 ss.; G.M. Pintus, “Sacrifici animali e dèi di coccio (Arn., adv. nat. VII)”, in L’Africa romana. Atti dell’XI convegno di studio. Cartagine, 15-18 dicembre 1994 (a cura di M. Khanoussi-P. Ruggeri-C. Vismara), Ozieri 1996, 1629 ss.

 

[126] CTh. 9,16,1 (cfr. C. 9,18,3); CTh. 9,16,2; CTh. 16,10,1, su cui P.P. Onida, “Il divieto dei sacrifici di animali nella legislazione di Costantino. Una interpretazione sistematica” cit., 104 ss.

 

[127] Porfirio, ad Aneb., 29; Giamblico, De myst., 3,13. Cfr. L. De Giovanni, Costantino e il mondo pagano, 4ª ed., Napoli 1989, 54 ss.; Id., “Mondo tardoantico e formazione del ‘Diritto romano cristiano’. Riflessioni su CTh. 9,16,1-2”, in Aa.Vv., Nozione formazione e interpretazione del diritto. Dall’età romana alle esperienze moderne. Ricerche dedicate al professor Filippo Gallo, I, Napoli 1997, 178 ss.; L. Desanti, Sileat omnibus perpetuo divinandi curiositas. Indovini e sanzioni nel diritto romano, Milano 1990, 195 ss. nt. 52; P.P. Onida, “Il divieto dei sacrifici di animali nella legislazione di Costantino. Una interpretazione sistematica” cit., 73 ss.