MACELLAZIONE
RITUALE E STATUS GIURIDICO
DELL’ANIMALE NON UMANO
Università di Sassari
Sommario: 1. Premessa.
– 2. Due modelli di relazione fra
uomo e altri animali. – 3. Macellazione rituale e
relative prescrizioni religiose. – 4. La macellazione: il quadro
normativo di riferimento per l’Italia. – 5. Macellazione rituale e
valori giuridici di riferimento. – 6. Verso il superamento del
dilemma animale oggetto – animale soggetto: una prospettiva romanistica.
Una
specifica problematica emersa negli ultimi decenni, nell’ambito della
più generale questione animale, è quella relativa al contrasto, a
livello nazionale e sovranazionale, tra le disposizioni che disciplinano le
forme rituali di macellazione proprie delle religioni ebraica e musulmana[1]
e le disposizioni che tutelano l’animale non umano dai maltrattamenti[2].
Come è noto, mentre nel nostro ordinamento e in altri ordinamenti dei
paesi membri della Unione Europea è stabilito che la macellazione debba
essere effettuata con il previo stordimento della vittima, a cui deve seguire,
grazie all’uso di strumenti determinati, la morte rapida, nelle religioni
ebraica e musulmana l’animale può essere ucciso solo quando
è ancora vigile, attraverso lo sgozzamento e quindi il dissanguamento[3].
La
macellazione per dissanguamento, forse anch’essa sorta in origine con
l’intento di individuare, rispetto alle conoscenze scientifiche del
tempo, modalità di abbattimento meno dolorose possibili[4],
appare oggi particolarmente cruenta e dunque ammessa, nei paesi membri della
Unione Europea, in nome della tutela della libertà di religione, come
eccezione alla disciplina generale, la quale è costruita attorno
all’uso di cautele e di tecniche funzionali, per quanto possibile, alla
necessità, sempre più avvertita nel comune sentire sociale, di
evitare dolore per l’animale non umano.
La possibilità di sottoporre l’animale non umano alla
macellazione rituale è oggetto di regolamentazione differente nei paesi
della Unione Europea, in modo che risulta auspicabile un intervento del
legislatore che consenta la progressiva uniformazione della disciplina.
Nella legislazione dei paesi della Unione Europea emerge la
tendenza ad ammettere la macellazione rituale, ma con alcuni limiti volti in
particolare a garantire la coesistenza tra la disposizione propria delle
religioni ebraica e musulmana che prevede che l’animale debba essere
vigile al momento del taglio sacrificale e la disposizione comune a diversi
ordinamenti statuali che stabilisce l’obbligo dello stordimento
dell’animale. Così, ad esempio, nel caso della Finlandia e della
Danimarca, la macellazione rituale è ammessa con l’obbligo
però di stordire l’animale subito dopo avergli inferto il taglio
della gola. In altri paesi europei la macellazione rituale è bandita. In
Svezia, ove vige l’obbligo di sottoporre l’animale allo
stordimento, la macellazione rituale non è ammessa sin dal 1937. Al di
fuori della Unione Europea, in Svizzera, le ragioni della protezione degli
animali non umani, ancora nel
Si deve poi ricordare che anche fra i musulmani e gli ebrei è
sempre più avvertita la esigenza di trovare forme di macellazione che
evitino, il più possibile, sofferenze all’animale. Si può
citare anzitutto il caso della Malesia, ove, pur essendo tale religione
praticata a larga maggioranza, è stato introdotto l’obbligo dello
stordimento[6].
Alla stessa Lega Musulmana Mondiale si deve uno studio intrapreso, sin dal
Il
contrasto tra le norme che permettono la macellazione rituale e le norme che
tutelano l’animale non umano dai maltrattamenti costituisce quindi una
problematica di grande rilevanza giuridica, destinata ad assumere un peso
ancora maggiore in connessione con le ondate migratorie e la integrazione di
cittadini di religione islamica nei paesi europei. Si tratta di un contrasto,
non insanabile, ma comunque grave, tra disposizioni che sono volte a
disciplinare fatti persino opposti ma interdipendenti. Le disposizioni in tema
di macellazione sono finalizzate a regolare, sia pure all’interno
dell’ambito più vasto di quelle volte ad assicurare il rispetto
della libertà di religione, un evento specifico qual è la morte
dell’animale non umano. Le disposizioni in tema di maltrattamento
animale, invece, all’interno dell’ambito più vasto di quelle
norme volte ad assicurare il benessere animale, sono dirette a tutelare la vita
dell’animale non umano.
Il
problema fondamentale che l’ammissione della macellazione rituale ebraica
e islamica comporta, all’interno dell’ordinamento italiano e degli
altri ordinamenti dei paesi europei, è dunque quello di garantire, da un
lato, l’esercizio della libertà di religione e, dall’altro,
di individuare, al contempo, i limiti in cui tale libertà possa esplicarsi
di fronte ad altri valori anch’essi essenziali. Di fronte alla uccisione
di animali che spesso ha provocato lo sdegno in una opinione pubblica che non
riesce a comprendere il significato anche religioso di tali pratiche, occorre
tentare, per quanto possibile, di impostare la questione correttamente sul
piano giuridico per offrire una sintesi tra il valore della libertà di
religione e il valore della vita animale.
A ben
vedere, dietro il contrasto tra le disposizioni in tema di macellazione rituale
e le disposizioni in tema di maltrattamento degli animali non umani si cela una
divergenza molto più difficile da ricomporre tra due diversi modi di
pensare l’animale non umano e i rapporti tra uomo e altri animali. Una
divergenza che è possibile sintetizzare nei termini di una
contrapposizione tra la concezione dell’animale vivo e la concezione
dell’animale morto. Vale a dire: tra un modo di pensare l’animale
non umano come essere affine all’uomo, meritevole di una tutela anche
giuridica volta a proteggerne la condizione di essere vivente, e un modo di
pensare l’animale non umano come essere distante dall’uomo,
più vicino alle cose inerti, la cui uccisione appare perciò
ammissibile[9].
Tali modi sono oggetto di una prima riflessione scientifica nella filosofia
greca con influenze significative, come si vedrà, anche sulla analisi
della condizione animale nella scienza giuridica[10].
Nella
filosofia greca è anzitutto presente un modello di relazioni fra uomo e
animali non umani, fondato sulla reciproca affinità, in nome della quale
si riconosce una partecipazione di tutti gli esseri animati al diritto. Tale
modello è particolarmente evidente in Pitagora, il quale rifiuta la
uccisione di un altro animale da parte dell’uomo e afferma la
necessità di difendere la vita nelle sue diverse manifestazioni[11].
Il filosofo, dalla idea generica del semplice rispetto per gli altri esseri
animati, già formulata in passato[12],
giunge alla idea specifica di una vera e propria comunanza di diritto tra
uomini e animali: la credenza nella trasmigrazione e la condanna dei
maltrattamenti inferti agli animali non umani[13],
il divieto di sacrifici animali a scopo religioso[14]
e la proibizione della alimentazione carnea[15]
sono modalità di distinzione dell’uomo giusto dalla progenie
impura di coloro che, cacciatori e pescatori, non esitano a uccidere gli altri
esseri animati[16],
e sono elementi sui quali fondare la costruzione di rapporti di amicizia anche
tra l’uomo e gli altri animali[17]:
Giamblico, Vita di Pitagora,
24,107-108: 107 Ora, queste prescrizioni concernenti l’alimentazione
erano comuni a tutti; in particolare, poi, a coloro che fra i filosofi erano
più inclini alla speculazione e che in questa si erano spinti più
avanti vietava in modo assoluto i cibi superflui e ingiustificati: raccomandava
di non cibarsi mai delle carni di un essere vivente, di non bere assolutamente
vino, di non sacrificare agli dei animali, di non fare loro in alcun modo del
male, rispettando con la massima attenzione le norme della giustizia anche nei
loro confronti. 108 Quanto a lui, visse proprio in questo modo, evitando di
cibarsi degli animali e venerando gli altari sui quali non si facevano
sacrifici cruenti, adoperandosi affinché anche gli altri non
sopprimessero gli esseri viventi di natura simile alla nostra e d’altra
parte ammansendo e ammaestrando le bestie selvatiche con le parole e gli atti,
lungi dal maltrattarle infliggendo loro dei castighi. Nell’ambito poi dei
politici, prescriveva ai “legislatori” di astenersi dalla carne
degli animali. Dal momento che era loro intenzione praticare la perfetta
giustizia, era ben necessario che non recassero oltraggio agli esseri viventi
con noi imparentati. Perché come avrebbero potuto persuadere gli altri a
essere giusti, quando proprio loro erano preda dello spirito di prevaricazione?
Un vincolo di parentela unisce gli esseri viventi e gli animali, per il fatto
di avere in comune con noi la vita e di essere costituiti dei medesimi
elementi, inoltre per la mescolanza da questi risultante, sono congiunti a noi
da un legame di fratellanza[18].
Accanto
al modello pitagorico è però presente nella filosofia greca, in
particolare con Aristotele, un modello teso alla rottura del rapporto
simpatetico tra uomo e altri esseri animati e alla legittimazione di ogni
pratica letale finalizzata allo studio dell’animale non umano[19].
Il filosofo sostiene con fermezza la supremazia dell’uomo sugli altri
animali[20].
Di conseguenza egli rifiuta la tesi secondo cui anche gli animali non umani
posseggano una qualche forma di intelligenza[21].
La stazione eretta e le mani, pur essendo caratteristiche proprie anche di
altri animali, sono però presenti nella loro espressione più alta
nel genere umano [22].
Significativa, sempre in una ottica antropocentrica, è la polemica
condotta da Aristotele contro Anassagora: quest’ultimo aveva affermato
che era stato il possesso degli arti superiori ad avere reso l’uomo il
più intelligente fra gli animali; lo Stagirita sostiene, al contrario,
che l’uomo è dotato delle mani proprio perché è il
più intelligente fra tutti gli esseri animati[23].
La esaltazione di alcune caratteristiche in chiave antropocentrica è
dunque la base per negare la partecipazione degli animali non umani al diritto.
Aristotele considera l’uomo animale politico come del resto le api, le
formiche e le gru[24].
Tuttavia egli nega l’ammissibilità di rapporti giuridici tra uomo
e animale non umano:
Aristotele, Etica Nicomachea, 8,11, 1161b1-3: Non
v’è amicizia né legame di giustizia verso le cose prive di
anima. E neppure vi sono verso un cavallo o un bue, né verso uno schiavo
in quanto schiavo: non vi è, infatti, nulla in comune[25].
Le riflessioni ora richiamate di Pitagora e di Aristotele si
inseriscono nella scia di quelle discussioni che in merito alla questione della
partecipazione degli animali non umani al diritto dividevano i filosofi greci [26].
I due filosofi contribuiscono in modo specifico alla questione con una
impostazione imperniata sul valore della vita animale. Anche in Aristotele, in
verità, come già in Pitagora, è presente un interesse per
la condizione dell’animale in vita, come mostra l’influenza che
sullo Stagirita hanno quei pratici, macellai e cacciatori anzitutto, ai quali
si deve la elaborazione di una prima conoscenza empirica ancora in larga parte
fondata sulla osservazione dell’animale nel suo ambiente naturale[27].
L’impiego di tale conoscenza non è però funzionale in
Aristotele al rispetto della vita ma alla sua distruzione. Aristotele si pone
lungo la scia tracciata dai pratici, ma si sforza di eliminare dalle conoscenze
da essi ottenute ogni residuo di un rapporto simpatetico ancora possibile tra
uomo e animale, come ad esempio nel caso della relazione tra cacciatore e
preda. Lo Stagirita impiega le conoscenze empiriche desunte dai pratici per
costruire le fondamenta di un sapere scientifico fondato sulla vivisezione e
sulla uccisione dell’animale[28].
Nella
giurisprudenza romana, con riflessi ancora oggi essenziali per lo studio della
condizione giuridica dell’animale non umano, sono presenti entrambi i
modelli: quello pitagorico-simpatetico, dell’animale vivo, e quello
aristotelico-oggettivistico, dell’animale morto. Tra i due modelli,
però, si direbbe che sul piano sistematico quello pitagorico assuma una influenza
più rilevante per la scienza giuridica: pensiamo, naturalmente, alla
riflessione del giurista Ulpiano, che Giustiniano pone in apertura dei suoi Digesta, sulla esistenza di un diritto,
il ius naturale, comune a uomini e ad
altri animali. Una riflessione su una nozione, quella del diritto naturale, che
è ancora oggi essenziale per la scienza giuridica[29].
Il
dualismo tra la concezione dell’animale vivo e la concezione
dell’animale morto permane anche nella scienza giuridica contemporanea:
il contrasto tra le disposizioni in tema di macellazione rituale e le
disposizioni in tema di maltrattamento degli animali non umani non è uno
dei tanti contrasti fra norme giuridiche quali quelli che i giuristi sono
abituati da secoli a risolvere attraverso i normali canoni ermeneutici.
È soprattutto il contrasto fra due diversi modi di intendere il valore
della vita animale e, conseguentemente, la condizione filosofico-giuridica
dell’animale non umano e le relazioni di esso con l’uomo.
Considerare
il fondamento del contrasto ora richiamato è indispensabile per una
visione complessiva di esso e aiuta a impostare correttamente sul piano
giuridico la questione sottesa al contrasto.
A tale
fine è opportuno che il giurista allarghi il proprio campo di
osservazione dall’ambito specifico della disciplina relativa alla
macellazione rituale a quello più generale della condizione giuridica
dell’animale non umano. Un allargamento della prospettiva di osservazione
consente di comprendere anzitutto che i valori sottostanti alle disposizioni in
tema di macellazione rituale e alle disposizioni in tema di maltrattamento
degli animali non umani, la libertà di religione e il rispetto
dell’animale non umano in quanto essere vivente, non sono e non devono
essere visti in contrasto fra loro.
Ampliare
l’angolo visuale permette anche di favorire la interpretazione delle
norme in tema di macellazione, sia essa comune, sia essa rituale, in una chiave
non più antropocentrica, come disposizioni volte a tutelare più
che un interesse dell’uomo (come ad esempio sono la sensibilità
dell’‘uomo medio’ di fronte al maltrattamento di un animale o
la salute del consumatore di carne animale) la vita degli altri animali, non
solo in forza dei limiti al compimento di pratiche che possano causare
«sofferenze inutili», ma anche in forza di tutte quelle cautele
più generali che possano servire per assicurare a essi una esistenza il
più possibile rispettosa della condizione di esseri viventi.
Il
compito fondamentale al quale oggi sono chiamati i giuristi nell’affrontare
la questione animale è quello di riconoscere il valore della vita
animale con una impostazione non più antropocentrica ma biocentrica.
Vale a dire con una sensibilità che induca il giurista a esprimere, per
la parte che lo riguarda, la consapevolezza oggi sempre più diffusa che
l’uomo è solo una parte essenziale, ma non l’unica,
dell’ambiente in cui vive. Una sensibilità che spinga il giurista
ad accentuare non più il potere dell’uomo sul resto dell’ambiente,
ivi compresi gli animali non umani, ma semmai la responsabilità che esso
ha nei confronti di esso.
Per
assolvere tale compito è necessario che il giurista superi la tendenza
della dottrina giuridica ad analizzare la condizione animale attraverso la
contrapposizione rigida tra le categorie di soggetto e di oggetto di diritto,
che sono categorie fortemente dominate da una visione antropocentrica delle
relazioni giuridiche. L’utilità di tali categorie è sempre
da verificare soprattutto quando ci si accinga, come nel nostro caso, a una
analisi di problematiche giuridiche che coinvolgono sistemi giuridici
differenti. Tornare ai modelli di relazione fra uomo e animale non umano
può servire per non perdere di vista concretamente, vale a dire al di
là delle astratte qualificazioni dogmatiche, il valore fondamentale
della vita animale.
La tesi
che intendo qui formulare è che il contrasto tra le disposizioni alle
quali si è fatto cenno può essere utilmente analizzato,
attraverso la riconsiderazione dello status
giuridico dell’animale non umano. Riconsiderare tale status alla luce anche
della sistematica della giurisprudenza romana significa, anzitutto, precisare
lo spazio che l’uomo e gli altri esseri animati, nelle loro relazioni,
occupano nell’universo e, dunque, anche interrogarsi sul valore
etico-giuridico della vita, umana e non umana[30].
Significa anche superare una visione antropocentrica delle relazioni tra uomo e
altri animali per offrire una prospettiva di sintesi del valore essenziale
della vita con altri valori giuridici, quali appunto la libertà di
religione, che non sono in astratto in contrasto, ma rischiano, in concreto, di
apparire persino come confliggenti.
Poiché
non posseggo specifiche competenze in materia non intendo qui avventurarmi in
una analisi dettagliata delle prescrizioni religiose ebraiche e musulmane in
tema di condizione animale. Confesso quindi di non potermi pronunciare sul
fondamento delle numerose prescrizioni alimentari proprie delle due religioni.
Forse non è lontano dalla verità chi ritiene che tali
prescrizioni trovino una motivazione entro il quadro di un più generale
sistema alimentare, dovuto, in larga parte, alla influenza delle abitudini alimentari
di un popolo dedito alla pastorizia nomade e, quindi, portato prevalentemente
al consumo alimentare di determinate specie animali ruminanti[31].
Ma mi chiedo se non vi siano meccanismi più complessi legati alla
percezione psicologica, da parte dell’uomo, della natura di determinate
specie animali oggetto delle interdizioni alimentari.
Per
quanto riguarda l’Islam, tra le prescrizioni religiose in tema di animali
sono importanti certamente, per connessione, quelle alimentari, richiamate in
diversi luoghi del Corano, tra i quali ricordo, anzitutto, il versetto ove sono
elencati, in maniera più compiuta, gli obblighi a carico del musulmano:
V,3: Vi
sono dunque proibiti gli animali morti, il sangue, la carne di porco, gli
animali che son stati macellati senza l’invocazione del nome di Dio, e
quelli soffocati o uccisi a bastonate, o scapicollati o ammazzati a cornate e
quelli che in parte divorati dalle fiere, a meno che voi non li abbiate finiti
sgozzandoli, e quelli sacrificati sugli altari idolatrici; e v’è
anche proibito di distribuirvi fra voi a sorte gli oggetti: questo è una
empietà. Guai, oggi, a coloro che hanno apostato dalla vostra Religione:
voi non temeteli, ma temete Me! Oggi v’ho reso perfetta la vostra religione,
e ho compiuto su voi i Miei favori, e M’è piaciuto darvi per
religione l’Islàm. Quanto poi a chi vi è costretto per fame
e senza volontaria inclinazione al peccato, ebbene Dio è misericordioso
e pietoso[32].
Si
tengano poi presenti:
II,168:
O uomini! Mangiate quel che di lecito e buono v’è sulla terra e
non seguite le orme di Satana, ch’è vostro evidente nemico[33].
II,173:
In verità Iddio v’ha proibito gli animali morti e il sangue e la
carne di porco e animali macellati invocando altro nome che quello di Dio. Ma
chi sarà per necessità costretto contro sua voglia e senza
intenzione di trasgredire la legge, non farà peccato, perché Dio
è perdonatore e clemente[34].
VI,145:
Dì: «Io non trovo in quel che m’è stato rivelato
nessuna cosa proibita a un gustante che voglia gustarla, eccetto bestie morte,
sangue versato, o carne di porco (ché questo è sozzura) o
abominio su cui sia stato invocato altro nome che quello di Dio. Quanto
però a chi vi è costretto, senza provarne desiderio e senza
intenzione di peccare, ebbene il tuo Signore è misericordioso e
indulgente»[35].
XVI,115:
Ché Iddio v’ha proibito gli animali morti, e il sangue e la carne
di porco, e animali macellati invocando nome altro da Dio. Quanto a chi
v’è costretto, senza desiderio e senza intenzione di peccare,
ebbene Dio è indulgente clemente[36].
Non
interessa in questa sede mettere in evidenza alcuni tratti distintivi fra le
prescrizioni alimentari musulmane e quelle ebraiche, in particolare con
riferimento alla questione, che parrebbe evocata nel Corano, in tema di
eccessiva minuziosità di queste ultime rispetto alle prime più
tollerabili[37].
Non è neppure possibile analizzare le influenze delle prescrizioni
alimentari diffuse tra i cristiani in Oriente sulla formazione delle
corrispondenti prescrizioni alimentari islamiche. Né ci si può soffermare
sulla influenza delle antiche tassonomie zoologiche, di origine soprattutto
aristotelica, in cui traspare in larga parte l’intento di affermare la
supremazia dell’uomo sul resto degli altri esseri animati, sulla
formazione delle prescrizioni coraniche, in cui, parimenti, l’uomo
è considerato al centro dell’universo[38].
Si tratta, evidentemente, di questioni che ci porterebbero troppo lontano dai
nostri obiettivi, ma che occorre comunque almeno enunciare o ricordare anche
per comprendere il quadro ampio in cui si insinua la problematica del rapporto
tra le disposizioni richiamate in apertura del discorso. E, d’altra
parte, devo anche riconoscere la mia incapacità a trattare
l’argomento della macellazione rituale sul versante della religione
ebraica e musulmana. È auspicabile che in futuro giuristi e studiosi
delle due religioni affrontino sempre più la problematica di cui si
è parlato in una chiave multidisciplinare.
Nel
tralasciare quindi la analisi dettagliata delle diverse prescrizioni
alimentari, dobbiamo soffermarci sulla questione fondamentale, sotto il profilo
giuridico, della macellazione rituale.
La prima
prescrizione fondamentale concerne il divieto di cibarsi di animali uccisi
senza il rispetto delle regole rituali relative allo sgozzamento. È
fatto divieto nel Corano, V,3, di alimentarsi di animali soffocati, uccisi a
bastonate, morti accidentalmente, ammazzati a cornate o divorati da altri
animali, salvo il caso che non siano stati finiti per sgozzamento[39].
Alcune
specie animali, inoltre, sono ritenute per se stesse impure e tali sono
considerate, oltre alle carogne, le vittime sacrificali e gli animali macellati
senza il rispetto delle regole relative allo sgozzamento e al dissanguamento.
Siffatte prescrizioni, pure così fortemente influenzate, spesso trovano
un fondamento differente nelle scuole giuridiche musulmane[40].
In generale, però, si ritiene che alla base della macellazione rituale
vi sia l’idea che la vita debba essere rispettata e non possa quindi
essere violata se non in forza del compimento di un rituale. Sono quindi
riconducibili a tale idea quelle prescrizioni giuridico-religiose che
stabiliscono il divieto di infliggere all’animale non umano mutilazioni o
violenze gratuite. Ma in particolare si spiega in tal modo il divieto di
alimentarsi del sangue di un animale, la cui vita non può essere
sottratta dall’uomo fino al punto di appropriarsi del suo elemento
simbolico. Il divieto si richiama a una tradizione diffusa nella cultura
preislamica, in particolare legata alla cultura dei beduini, la cui
sopravvivenza nel deserto poteva trovare nello sgozzamento dell’animale,
per berne il prezioso elemento, una ultima opportunità[41].
Divieti
analoghi sono poi oggetto di prescrizioni minuziose anche nella religione
ebraica, in cui sono altrettanto numerose e puntuali le regole relative alla
qualità del cibo kashèr[42]:
Deut., 12,15-16: 15 Ma,
ogni volta che ne sentirai desiderio, potrai uccidere animali e mangiarne la
carne in tutte le tue città, secondo la benedizione che il Signore ti
avrà elargito; chi sarà immondo e chi sarà mondo ne
potranno mangiare, come si fa della carne di gazzella e di cervo; 16 ma non ne mangerete il sangue; lo spargerai per terra come
acqua[43].
Deut., 12,23-27: 23 tuttavia astieniti dal
mangiare il sangue, perché il sangue è la vita; tu non devi
mangiare la vita insieme con la carne. 24 Non lo mangerai, lo spargerai per terra come
acqua. 25 Non lo mangerai perché sia felice tu e
i tuoi figli dopo di te: facendo ciò che è retto agli occhi del
Signore. 26 Ma quanto alle cose che avrai consacrato o
promesso in voto, le prenderai e andrai al luogo che il Signore avrà
scelto e offrirai i tuoi olocausti, 27 la carne e il
sangue, sull`altare del Signore tuo Dio; il sangue delle altre tue vittime
dovrà essere sparso sull’altare del Signore tuo Dio e tu ne
mangerai la carne[44].
Nel
regio decreto 21 luglio 1927, n. 1586, si stabiliva, all’art. 9,
l’obbligo di «adottare procedimenti atti a produrre la morte nel
modo più rapido possibile», con l’impiego di apparecchi
esplodenti a proiettile captivo o la recisione del midollo allungato, la quale
doveva essere eseguita da personale qualificato, o con l’uso di altri
mezzi riconosciuti idonei dall’autorità prefettizia, una volta
sentito il parere del Consiglio provinciale di sanità[45].
Nel
regio decreto 20 dicembre 1928, n.
La
disciplina successiva traeva impulso dalla emanazione della direttiva del
Consiglio delle Comunità europee 74/577/CEE[49],
del 18 novembre
La
questione della macellazione rituale diviene oggetto un paio di anni più
tardi di un decreto ministeriale, dell’11 giugno 1980, emanato dal Ministro della Sanità di
concerto con il Ministro dell’Interno, in materia di “Autorizzazione alla macellazione degli
animali secondo i riti religiosi ebraico e islamico”. Nel decreto si dava
atto, nelle premesse, della richiesta al Ministero dell’Interno, da parte
delle comunità ebraica e musulmana, della autorizzazione a procedere
alla macellazione secondo i rispettivi riti. La macellazione deve avvenire,
secondo quanto stabilito all’art. 2, attraverso l’intervento di
«personale qualificato» che impieghi un «coltello affilatissimo»
con cui recidere l’esofago, la trachea e i vasi sanguigni del collo.
Anche in questo caso, però, il legislatore impone l’obbligo di
adottare quelle misure necessarie a evitare il più possibile ogni forma
di sofferenza per l’animale[56],
anche, ma non solo, quando la macellazione è destinata alla esportazione[57].
Si deve
ricordare, inoltre, la Convenzione europea sulla “protezione degli
animali da macello”, del 10 maggio 1979, ratificata dall’Italia con
la legge 14 ottobre 1985, n. 623, la quale, nelle premesse, pur apparendo
motivata dalla esigenza puramente materiale di garantire la qualità
delle carni macellate, sembra anche ispirata all’intento di alleviare le
sofferenze degli animali destinati al macello. La Convenzione, dopo aver stabilito,
all’art. 12, l’obbligo di provvedere alla immobilizzazione e allo
stordimento dell’animale, stabilisce, all’art. 13, specificamente
per la macellazione rituale, l’obbligo di provvedere alla
immobilizzazione dei bovini in modo da evitare per essi «ogni dolore, sofferenza
ed eccitazione, come anche ogni ferita o contusione». È fatto
divieto per la macellazione ordinaria di utilizzare per gli animali mezzi di
contenzione che possano provocare sofferenze evitabili, di legarli per le zampe
posteriori e di appenderli prima che essi siano stati storditi, mentre, nel
caso di macellazione rituale, tali misure sono vietate prima che sia avvenuto
il dissanguamento completo della vittima[58].
Anche quando si provveda a una macellazione rituale, a un abbattimento per
ragioni di «estrema urgenza» o per ragioni di carattere sanitario,
oppure ancora alla uccisione istantanea di pollame e di conigli, la Convenzione
prevede che si debbano però risparmiare “sofferenze o dolori
evitabili”[59].
La macellazione rituale potrà però essere compiuta soltanto da
parte di persone la cui abilitazione sia stata riconosciuta dalle
autorità religiose del rito di appartenza, salvo il caso in cui non sia
lo stesso Stato membro a rilasciare le autorizzazioni necessarie[60].
La
direttiva del Consiglio delle Comunità europee 93/119/CE del 22 dicembre
1993[61],
che ha abrogato la direttiva 74/577/CEE, e il d.lgs. del 1° settembre 1998,
n. 333[62]
di attuazione della direttiva, con cui l’Italia si è adeguata alla
direttiva del 1993, si pongono lungo la linea di una tutela sempre maggiore
degli animali destinati, fra l’altro, alla macellazione[63].
Il decreto, che ha abrogato la legge 2
agosto 1978, n. 439, non si applica a qualsiasi soppressione di animali, essendo
esclusi, fra gli altri, quelli uccisi durante manifestazioni
“culturali” o “sportive” e la selvaggina[64].
Degno della massima attenzione è che il decreto fa salve le disposizioni
relative al maltrattamento di animali, individuando così un argine
invalicabile anche per la macellazione rituale, la quale può essere compiuta
dall’autorità religiosa sotto la responsabilità,
però, del veterinario competente secondo il decreto[65].
La macellazione rituale è quindi possibile presso stabilimenti il cui
titolare abbia dato alla autorità sanitaria comunicazione di essere in
possesso dei requisiti previsti per legge[66].
Per tali macelli, ove si pratica l’abbattimento a scopo rituale, come
anche per quelli ove si pratica la macellazione ordinaria, si stabilisce che
essi debbano essere strutturati in modo da permettere di evitare il più possibile
la sofferenza e lo stress dell’animale[67].
In caso di macellazione rituale così circoscritta, è escluso
l’obbligo di stordimento, che è invece stabilito normalmente, per
il caso di bovini, suini, ovini e caprini, anche
per la macellazione privata per consumo familiare[68].
Tale disposizione, a differenza di quanto anche di recente affermato[69],
permette di affrontare la questione dei sacrifici rituali legati alla pratica
della festività islamica dell’Aïd
el Kebir, in occasione della quale i musulmani ricordano il sacrificio di
Abramo con la uccisione di un agnello. Come è noto, tale festa è
stata oggetto di critiche anche molto aspre per il suo carattere cruento.
Tuttavia, anche durante tale festività si deve naturalmente riconoscere
che non ogni uccisione sia uccisione rituale e che pure una uccisione
qualificabile come rituale, in quanto compiuta in osservanza delle prescrizioni
religiose e giuridiche relative alla macellazione, debba essere ugualmente
rispettosa delle norme in tema di maltrattamento di animali.
La legge
21 dicembre 1999, n. 526, “Disposizioni per l’adempimento di
obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle
Comunità europee - legge comunitaria
L’analisi
sintetica che si è condotta nelle pagine precedenti sulla disciplina
della macellazione rituale, alla luce delle prescrizioni religiose e
giuridiche, ha mostrato che tale pratica costituisce, per le sue origini, una
espressione significativa di una cultura in cui vi è ancora posto per il
rispetto della vita animale. Le tecniche di macellazione ebraica e islamica,
alla luce delle norme dell’ordinamento italiano e comunitario, non
integrano di per sé forme di maltrattamento.
In
relazione ai limiti previsti per la macellazione rituale, in dottrina si
è correttamente osservato che le ragioni che hanno condotto gli
ordinamenti moderni a prevedere l’obbligo di stordimento
dell’animale, prima dell’abbattimento, sono differenti dalle
ragioni che hanno condotto quegli stessi ordinamenti a stabilire limiti alla
libertà religiosa[72].
Non può però essere accolta la tesi, fondata sulla osservazione
ora riferita, secondo cui fra i valori connessi alle prescrizioni religiose in
tema di macellazione rituale e i valori connessi alla tutela degli animali
esisterebbe «un criterio di bilanciamento favorevole alle esigenze
religiose ebraiche e islamiche, criterio effettivamente seguito dalla
disciplina normativa in materia»[73].
Un tale orientamento dottrinale da un lato individua una graduazione inutile e
quindi una contrapposizione ingiustificata tra valori ugualmente essenziali e
non confliggenti, quali appunto il valore della vita animale e la
libertà di religione, dall’altro introduce una sorta di
presunzione di legittimità per le macellazioni rituali. Da un lato si
deve riconoscere, come correttamente questa stessa dottrina ammette, che il
valore della protezione degli animali è anche alla base delle
prescrizioni religiose in tema di macellazione. Dall’altro occorre sempre
valutare se la uccisione di un animale, anche se compiuta all’interno di
un rito, non integri, sia alla luce delle prescrizioni religiose ebraiche e
musulmane, sia alla luce delle disposizioni dell’ordinamento italiano e
dell’Unione Europea, forme di maltrattamento.
Sempre
in connessione alla questione dei limiti stabiliti per la macellazione rituale,
si è anche discusso se tale pratica possa oppure no essere qualificata
come religiosa in senso proprio, in quanto non rientrante a rigore fra gli atti
di culto. In caso positivo, la macellazione rituale sarebbe assoggettata al
solo limite del buon costume stabilito nella Costituzione. In caso negativo, la
macellazione rituale sarebbe disciplinata dalla legge ordinaria «secondo
criteri di convenienza ed opportunità politica»[74].
La questione ora accennata può essere superata attraverso una
prospettiva elastica con la quale considerare la libertà di religione in
senso ampio, fino a comprendere anche gli atti non di culto in senso proprio[75].
Anche per tale questione, si deve però rifiutare la tentazione di
contrapporre il valore della libertà di religione al valore della tutela
dell’animale non umano. Si tratta di valori diversi che però
possono trovare una sintesi feconda.
Se si
volesse trarre dall’esame del quadro normativo ora tracciato, in tema di
macellazione, qualche osservazione di sintesi si potrebbe rilevare, in accordo
a un orientamento più generale, una attenzione per la tutela del valore
della vita animale. Una prima attestazione, nel nostro ordinamento, della
tendenza a tutelare l’animale in quanto essere vivente risale già
al regio decreto 20 dicembre 1928, n. 3298, il cui art. 9 stabiliva, come si è
già ricordato, che la macellazione dovesse realizzarsi con
«procedimenti atti a produrre la morte nel modo più rapido
possibile», svelando una attenzione particolare per l’animale. Un
passo decisivo, nella prospettiva della tutela della vita animale, si è
avuto poi con la legge del 2 agosto 1978, n. 439[76],
con la quale, all’art. 1, si è stabilito l’obbligo di stordimento degli animali prima della macellazione,
con l’intento esplicito di evitare per essi «ogni sofferenza
inutile»[77].
La stessa Convenzione europea sulla “protezione degli animali da
macello”, del 10 maggio 1979, all’art. 13, si propone
l’intento di alleviare le sofferenze degli animali destinati al macello[78].
Il d.lgs. del 1º settembre 1998, n. 333, di attuazione della direttiva del
Consiglio delle Comunità europee 93/119/CE del 22 dicembre 1993, agli
artt. 3 e 4, individua quale obbligo fondamentale per gli operatori chiamati a
sovraintendere alle operazioni di macellazione quello di «risparmiare
agli animali eccitazioni, dolori e sofferenze evitabili».
Per
lungo tempo si è sostenuto che la disciplina normativa della
macellazione fosse finalizzata a proteggere valori esterni alla vita animale,
quali in particolare la tutela dei consumatori o la tutela della produzione
industriale[79].
Tuttavia, oggi, non è più
possibile ridurre la intepretazione di tali disposizioni in una ottica
puramente materialistica di tutela della salute dei consumatori. Non solo
perché, come si è visto, è innegabile la attenzione del
legislatore per la vita animale, ma anche perché il giurista è
chiamato a una interpretazione che tenga conto dei valori espressi da quella
società in cui la norma stessa dovrà trovare applicazione. Valori
che oggi appaiono fortemente modificati rispetto a quelli ritenuti essenziali
fino a qualche decennio fa.
Non vi
sono ovviamente solo luci nella più recente normativa in tema di macellazione
e la dottrina più sensibile ne ha posto correttamente in evidenza i
limiti, soprattutto osservando che attraverso deroghe alla disciplina ordinaria
l’obiettivo fondamentale della tutela degli animali non umani è
ben lungi dall’essere raggiunto[80].
Tuttavia, il riferimento al valore della vita, che è indubbiamente un
valore costituzionalmente protetto, deve indurre la dottrina a un ripensamento
del rapporto tra i valori sottesi alla libertà di religione e i valori
sottesi alla tutela dell’animale non umano[81].
Anche la
disciplina in tema di macellazione, quando ci liberi dal pregiudizio
antropocentrico che induce a individuare il fondamento esclusivo di essa nella
tutela del consumatore o al più in una blanda protezione degli animali[82],
può essere ricondotta a una tendenza più ampia, propria della
più recente legislazione relativa agli esseri non umani, volta a
considerare questi ultimi come centro della tutela in quanto esseri viventi.
Così, per citare solo l’esempio più eclatante, in dottrina,
il superamento della prospettiva antropocentrica ha condotto a una diversa
interpretazione della disposizione penale, contenuta nell’art. 727 del
codice Rocco del 1930[83],
in tema di maltrattamenti degli animali non umani. Si sosteneva in passato che
obiettivo di tale disposizione fosse quello non di tutelare l’animale non
umano come essere senziente ma pur sempre l’uomo. Più
precisamente, si diceva che il fondamento di tale disposizione stava
nell’intento del legislatore di evitare il sentimento di orrore che
l’uomo avverte di fronte a ogni incrudelimento nei confronti di altri
esseri animati[84].
Fino a che si è giunti a una
sentenza della Corte di Cassazione (Sez. III Penale, 14 marzo 1990, est.
Postiglione) la quale ha proposto all’attenzione anche dei non giuristi
una interpretazione più consona a quello che ormai appariva il comune
sentire di una tutela degli animali non umani in quanto tali. Si è
così parlato di una tutela che, come si legge nella massima, si
riferisce agli «animali in quanto autonomi esseri viventi, dotati di
sensibilità psico-fisica e capaci di reagire agli stimoli del
dolore»[85].
Tale
orientamento non è rimasto isolato ma è alla base di una tendenza
più generale della legislazione, a sua volta frutto del tentativo della
scienza giuridica di riformulare i presupposti dogmatici della legislazione
animale, con l’obiettivo del superamento dell’antropocentrismo
caratteristico delle soluzioni normative del passato. In questo senso si
può ora ricordare anche la legge n. 281 del 14 agosto 1991, “in
materia di animali di affezione e prevenzione del randagismo”, che,
ponendosi come obiettivo centrale quello di «favorire la corretta
convivenza tra uomo e animale e di tutelare la salute pubblica e
l’ambiente», ha introdotto il principio del rispetto della vita
animale sia attraverso il divieto di controllare la diffusione canina e felina
con la uccisione e di sottoporre gli animali ricoverati nei canili a
vivisezione[86],
sia attraverso il divieto di uccidere l’animale salvo il caso in cui esso
non sia gravemente ammalato o pericoloso[87].
Oppure ancora si pensi alla legge n. 189, del luglio del
Nel parere approvato nella Seduta Plenaria, del 19 settembre 2003,
dal Comitato Nazionale per
Nel documento del Comitato si può dunque intravedere una
linea di sintesi fra i due valori della libertà di religione e della
vita animale. Da un lato, il valore della libertà di religione che
è considerato come «dimensione fondamentale» della vita
umana, dall’altro, il valore della vita animale che si esprime,
anzitutto, nella necessità di «ridurre o annullare la sofferenza
degli animali» in caso di macellazione anche rituale. Il Comitato,
quindi, auspica la realizzazione di studi scientifici volti a garantire una
composizione tra i valori in gioco, soprattutto tentando di individuare forme
di stordimento dell’animale non umano o di alterazione dello stato di
vigilanza ritenute compatibili con le prescrizioni religiose.
È interessante che il Comitato faccia discendere dalla
responsabilità dell’uomo nei confronti degli altri esseri viventi
l’obbligo del primo di prendersi cura
dei secondi. Il concetto di cura
è un concetto giuridico fondamentale, che nella valutazione del
Comitato, in quanto fondato non sulla nozione di interesse o di
reciprocità, ma sul bisogno, sulla compassione, sulla dedizione,
costituisce occasione per elaborare un «paradigma bioetico di relazioni
col mondo non umano», non improntato a una visione meramente
filantropica, ma a una visione attenta dei rapporti dell’uomo con il
resto degli esseri viventi. Ed è importante che il Comitato riconosca
che la circostanza che un certo fatto sia astrattamente riconducibile alla
libertà di religione non significa allo stesso tempo che esso sia
automaticamente lecito sul piano giuridico o approvabile sul piano morale. Ai
limiti ordinari alla libertà di religione si deve aggiungere qui
l’attenzione particolare per gli animali non umani «in quanto
destinatari passivi di obblighi giuridici e morali da parte degli
uomini». La tutela costituzionale riconosciuta quindi alla libertà
di religione non può prevalere quando non siano attuate tutte quelle
misure che, compatibili con prescrizioni religiose volte a garantire una tutela
per l’animale non umano, consentano di evitare il più possibile la
sofferenza animale.
Credo che sia indispensabile partire da qui: dalla esigenza di una
sintesi tra il valore della libertà di religione e il valore altrettanto
importante della vita animale. Per tentare una sintesi di tali valori bisogna
naturalmente favorire i presupposti perché le ragioni della confliggenza
tra le disposizioni che esprimono concretamente tali valori possano cessare.
Occorre quindi evitare che le prescrizioni religiose in tema di macellazione
rituale possano essere invocate pretestuosamente per giustificare comportamenti
di per sé illeciti, in particolare, riconducibili a forme di
maltrattamento degli animali non umani. E si deve fare ciò sotto il duplice
profilo delle norme nazionali e sovranazionali e delle stesse disposizioni
religiose in tema di macellazione rituale. In questo senso è anche
importante individuare forme di macellazione, compatibili con le prescrizioni
rituali, con le quali sia possibile garantire all’animale una condizione
tale da escludere il più possibile la sofferenza.
L’uomo ha oggi il dovere di prendersi cura degli altri esseri
viventi in una ottica che non è più quella di un dominatore ma di
un servo. L’importanza dell’uomo non risiede oggi nella supposta
superiorità sul resto del creato, ma nel riconoscimento anzitutto di una
sua responsabilità nei riguardi di esso.
Per superare il pregiudizio antropocentrico l’analisi della
condizione dell’animale non umano, sul piano dogmatico, non può
essere svolta esclusivamente attraverso l’impiego delle categorie di
soggetto e di oggetto di diritto[91].
Esse sono categorie speculari che appaiono non particolarmente appropriate
soprattutto quando ci si proponga l’obiettivo di analizzare la condizione
giuridica dell’animale non umano. Entrambe le categorie, in modo
particolare quando applicate all’analisi delle relazioni fra uomo e altri
esseri animati, risentono di una visione antropocentrica, la quale riduce
tendenzialmente la questione animale al problema della estensione della
soggettività giuridica al di là della cerchia umana. La
qualificazione dell’animale non umano come soggetto di diritto potrebbe
anche rivestire una qualche funzione, soprattutto in una chiave che si potrebbe
definire pedagogica, nel senso che essa potrebbe servire per richiamare
l’attenzione della società sul problema della tutela degli altri
esseri animati, ma occorrerebbe essere meno ottimisti, rispetto a quanto
avviene di solito in dottrina, sul fatto che da essa possano derivare conseguenze
significative sul piano della reale tutela giuridica[92].
Nell’analisi di
aspetti giuridici legati alla questione animale è opportuno, quando non
necessario, superare la dicotomia soggetto-oggetto di diritto per tentare di
inquadrare in maniera elastica, ma concreta, la condizione giuridica degli
altri esseri animati e le relazioni che essi hanno con l’uomo. Il rifiuto
di categorie dogmatiche rigide favorisce un ripensamento generale della
qualità di tali relazioni, con l’obiettivo essenziale della tutela
reale degli animali non umani. Sul piano dogmatico il compito al quale
è chiamato oggi il giurista non è quindi quello di scegliere se
l’animale sia o non sia soggetto di diritto, ma quello di riconoscere per
esso uno statuto corrispondente alla sua natura di essere vivo e come tale
meritevole di tutela.
Una via per superare
l’uso delle categorie di soggetto e di oggetto di diritto può
derivare dalla giurisprudenza romana, nella quale, in luogo della
contrapposizione rigida tra soggetto e oggetto di diritto, è presente la
distinzione, più elastica e aderente alla realtà concreta, fra personae
e res[93]. Si può rilevare
che nella impostazione della giurisprudenza romana la distinzione fra personae
e res si caratterizza, anzitutto, per l’inquadramento di enti che
al contempo rientrano nell’ambito dell’una e dell’altra
partizione. Emblematica in questo senso è la condizione, in Roma antica,
del servus, allo stesso tempo qualificato fra le personae e fra
le res[94]. La distinzione antica,
quindi, a differenza della contrapposizione moderna, caratterizzata dalla
incomunicabilità fra il mondo dei soggetti e degli oggetti, nel senso
almeno che l’una condizione preclude contestualmente l’altra,
è una distinzione fra partizioni per così dire aperte[95].
Nel fare riferimento alla
elasticità della distinzione romana fra personae e res
bisogna resistere, ovviamente, alla tentazione di rimpiazzare una
qualificazione dogmatica con un’altra. Bisogna evitare, soprattutto, di
sostituire il termine soggetto di diritto con il termine persona e il
termine res con cosa, o peggio, con oggetto di diritto[96].
Non vi è dubbio che una qualche connessione, sul piano storico, vi sia,
non tanto tra le distinzioni, troppo dissimili nel loro fondamento, quanto fra
le partizioni di esse, in particolare fra la coppia persona-soggetto di
diritto e la coppia res-cosa[97]. Tuttavia, negli ultimi
anni, nella dottrina romanistica più sensibile all’uso appropriato
di tali categorie si è posta in rilievo la necessità di fare
“pulizia concettuale” con riferimento alla distinzione moderna fra
soggetto e oggetto di diritto[98].
Come con riferimento al
termine persona, che nel linguaggio giuridico romano
indica concretamente l’uomo[99],
bisogna evitare di intravedere un antecedente della nozione di soggetto di
diritto, così, con riferimento alla classificazione dell’animale
non umano come res, si deve evitare
una assimilazione alla classificazione moderna dell’animale come
cosa/oggetto. A tacere d’altro la classificazione dell’essere non
umano come res sottintende sempre una
attenzione particolare da parte della giurisprudenza romana per la natura
animale, e dunque per l’animale vivo.
La
elasticità della distinzione fra personae
e res consente alla giurisprudenza
romana di attribuire rilevanza giuridica anche al comportamento
dell’animale non umano[100],
in particolare facendo riferimento alla natura di esso, cioè alle
qualità essenziali che l’essere animato (umano e non) possiede in
quanto dotato di vita propria. Un esempio significativo al riguardo è la
subordinazione della concessione dell’actio
de pauperie, dell’azione prevista per il danneggiamento inferto da un
quadrupede, alla valutazione che il comportamento di esso sia o no contra naturam, espressione questa che,
comunque la si voglia intendere, richiama la necessità di una
considerazione delle caratteristiche essenziali dell’animale[101].
Ma in generale si potrebbe osservare che anche le classificazioni zoologiche, a
rilevanza giuridica, sono elaborate, secondo una impostazione più vicina
al modello pitagorico, in modo da far emergere le qualità naturali
dell’animale non umano come essere vivo[102].
Si può quindi affermare che fulcro essenziale della disciplina giuridica
relativa agli esseri non umani, nella giurisprudenza romana, è la
considerazione del valore della vita animale.
D’altro
canto, si deve anche evitare di qualificare l’animale non umano come
soggetto di diritto sulla base della enunciazione del diritto naturale,
formulata dal giurista Ulpiano, nel III secolo d.C. e che i compilatori
giustinianei pongono in apertura del Digesto. In tale enunciazione il diritto
naturale è definito come diritto che la natura insegna a tutti gli
animali e sono presentate situazioni giuridiche, quali la educazione dei figli
o la congiunzione tra maschio e femmina, comuni a tutti gli esseri animati[103].
Si tratta quindi di una concezione che presenta più elementi in comune
che di distacco con la concezione dell’animale come soggetto di diritto,
soprattutto per quanto riguarda la idea di una generale e simpatetica condizione
giuridica fra tutti gli esseri animati[104]:
D. 1,1,1,3-4 (Ulp. 1 inst.):
3 Ius naturale est, quod natura omnia animalia docuit: nam ius istud non humani
generis proprium, sed omnium animalium, quae in terra, quae in mari nascuntur,
avium quoque commune est. hinc descendit maris atque feminae coniunctio, quam
nos matrimonium appellamus, hinc liberorum procreatio, hinc educatio: videmus
etenim cetera quoque animalia, feras etiam istius iuris peritia censeri. 4 Ius
gentium est, quo gentes humanae utuntur. quod a naturali recedere facile
intellegere licet, quia illud omnibus animalibus, hoc solis hominibus inter se
commune sit[105].
Inst., 1,2 pr.: Ius naturale est, quod natura omnia animalia docuit.
nam ius istud non humani generis proprium est sed omnium animalium, quae in
caelo, quae in terra, quae in mari nascuntur. hinc descendit maris atque
feminae coniugatio, quam nos matrimonium appellamus, hinc liberorum procreatio
et educatio: videmus etenim cetera quoque animalia istius iuris peritia censeri[106].
La idea
del diritto naturale è assolutamente fondamentale nella scienza
giuridica ancora ai nostri giorni. L’enunciazione ulpianea non è
quindi importante sul piano giuridico in quanto enunciazione vagamente
‘animalistica’, ma in quanto costituisce una chiave di lettura
utile, per certi aspetti necessaria, alla comprensione delle relazioni
giuridiche tra uomo e uomo, uomo e altri esseri animati, uomo e ambiente. Si
può quindi osservare che la giurisprudenza romana perviene da un tema
specifico, sia pure essenziale, qual è la condizione giuridica
dell’animale non umano, a una concezione generale del diritto[107].
Nonostante
ciò, per lungo tempo la dottrina romanistica, legata ai condizionamenti
ideologici connessi alla contrapposizione soggetto-oggetto di diritto, non ha
preso sul serio la enunciazione ulpianea, o riconoscendo in essa il frutto di
una interpolazione successiva, o, operazione ancora più deleteria della
prima, disconoscendone il valore giuridico per relegarla al campo della
etologia o della sociologia, e quindi del non giuridico. In realtà la
enunciazione ulpianea non è isolata nella cultura giuridica antica, ma
si richiama a una intensa e feconda polemica che aveva diviso i filosofi greci
proprio sulla questione della partecipazione degli animali al diritto.
Questione che evidentemente si trasmette alla scienza giuridica e più in
generale alla società romana.
A parte
la enunciazione ulpianea, esistono altre attestazioni concrete della diffusione,
nell’ambito della società romana, della idea della partecipazione
degli animali non umani al diritto. Tra queste pensiamo in particolare al passo
del De re publica di Cicerone,
in cui sono ricordate le dottrine di Pitagora e di Empedocle sulla esistenza di
una unica condizione giuridica fra tutti gli esseri animati[108],
o pensiamo ancora al passo del De clementia di Seneca, in cui si parla di un diritto
comune a tutti gli esseri animati[109].
L’affermazione
della esistenza di un’unica condizione giuridica fra tutti gli esseri
animati o di un diritto a essi comune è poi la base per affermare la
necessità che l’uomo difenda la vita degli altri esseri viventi.
Il tema della tutela degli animali non umani da parte dell’uomo è
presente, con particolare forza, in Lucrezio e in Virgilio. Pensiamo
soprattutto a quando il primo descrive il compito dell’uomo nel prendersi
cura degli animali tutti affidati alla sua tutela[110],
oppure a quando il secondo riconosce la dignità di tutti gli esseri
viventi e si sofferma sull’impegno dell’uomo di prendersi cura degli altri animali[111].
La
stessa enunciazione ulpianea, soprattutto quando la si consideri entro un
quadro più ampio in cui si tenga conto dei numerosi riferimenti, nella
filosofia greca e nella letteratura latina, alla partecipazione degli animali
al diritto, appare così oggi particolarmente importante proprio per quel
richiamare istituti propri della “società” degli uomini e
degli animali che invitano tutti a riconsiderare che del cosmo l’uomo è
parte assieme agli altri esseri animati[112].
Tale
partecipazione, a ben guardare, è presente, con risvolti particolarmente
significativi per il tema della macellazione rituale, nel sacrificio, che nel
sistema giuridico-religioso romano è essenziale per la conservazione
della pax deorum[113].
Si comprende così sia la previsione nelle leges regiae, in caso di
omicidio involontario, della possibilità di sostituire una vittima umana
con un altro animale, in cui è evidente la idea di una comune natura
animale[114],
sia il riconoscimento nell’animale non umano di una volontà, dalla
quale manifestazione dipende la possibilità di compiere il sacrificio
stesso[115].
Ma si direbbe anche, in maniera speculare, che la stessa condanna del
sacrificio di animali[116],
la cui prima espressione è attribuita per
Nella Dichiarazione universale
dei diritti dell’animale, presentata
a Bruxelles il 26 gennaio 1978 e proclamata a Parigi, presso
l’UNESCO, il 15 ottobre 1978, all’art. 1, si legge che «Tutti
gli animali nascono uguali davanti alla vita e hanno gli stessi diritti
all’esistenza». Si tratta di una visione delle relazioni fra gli
esseri animati non più
antropocentrica ma biocentrica e rispettosa dell’equilibrio fra le
diverse forme di vita. Tale visione ha oggi trovato un espresso riconoscimento
normativo nel Trattato che istituisce la Unione Europea, in cui,
all’art. III-121, si stabilisce che «Nella formulazione e
nell’attuazione delle politiche dell’Unione nei settori
dell’agricoltura, della pesca, dei trasporti, del mercato interno, della
ricerca e dello sviluppo tecnologico e dello spazio, l’Unione e gli Stati
membri tengono pienamente conto delle esigenze in materia di benessere degli
animali in quanto esseri senzienti, rispettando nel contempo le disposizioni
legislative o amministrative e le consuetudini degli Stati membri per quanto
riguarda, in particolare, i riti religiosi, le tradizioni culturali e i
patrimoni regionali».
È questa una visione che
abbiamo visto non essere nuova, ma oggi quanto mai attuale, in cui l’uomo
è parte assieme agli altri animali dell’universo, in una relazione
simpatetica che consente di superare il pregiudizio antropocentrico, ancora
espresso nell’uso di categorie dogmatiche inadatte a esprimere il valore
unitario della vita animale. Il futuro che passa attraverso la continua ricerca
da parte dell’uomo della propria identità nel confronto con gli
altri esseri animati e il passato che si consolida nella religione e nelle
tradizioni non possono valere per legittimare pratiche oltraggiose del valore
giuridico, fondamentale nella coscienza giuridica occidentale, della vita, ma
impongono un presente che sia anche la sintesi di valori diversi in cui parte
essenziale è il rispetto degli animali, di tutti gli animali.
[1] Un
elenco delle fonti in materia di macellazione si trova in: A. Roccella, “Macellazione e
alimentazione”, in Aa.Vv., Musulmani in Italia. La condizione giuridica
delle comunità islamiche (a cura di S. Ferrari), Bologna 2000, 204 ss.; V. Perrone-G. Felicetti, “Aspetti legislativi della
macellazione e loro evoluzione”, in Aa.Vv.,
La macellazione. L’uccisione degli animali a scopo alimentare (a cura di G. Giovagnoli), Torino 2003, 21 ss.; F. Rescigno, I diritti degli animali. Da res a soggetti,
Torino 2005, 220 nt. 134.
[2] Si
vedano: G. Vignoli, “La
protezione giuridica degli animali di interesse zootecnico”, in Rivista di diritto agrario, 1 (1986),
746; V. Pocar, Gli animali
non umani. Per una sociologia
dei diritti, nuova edizione riveduta e aggiornata, Roma-Bari 2005, 83
ss.
[4] Nel
Parere formulato dal Comitato Nazionale
per
[5] Per la
disciplina prevista in tema di macellazione rituale, nell’ambito degli
ordinamenti degli Stati europei, si veda l’Allegato 3 al Parere del Comitato Nazionale per la Bioetica sopra
citato.
[6] Si veda General
guidelines on the slaughtering of animals and the preparation and andling of
halal food, a cura del Department of Islamic Development, Prime
Minister’s Department, Malaysia, may 2001, riportate anche
nell’Allegato 10 del Parere sopra citato del Comitato Nazionale per la
Bioetica.
[7] Si veda,
per questa informazione, il contributo dell’ambasciatore Mario Scialoja,
Responsabile della Lega Musulmana Mondiale in Italia, riportato nel Parere del Comitato Nazionale per
[8] Si
vedano i contributi di R. Di Segni e di G. Felicetti-A. Sansolini, riportati
nel Parere del Comitato Nazionale per
la Bioetica, 83 ss.
[11] Cfr. M.V. Bacigalupo, Il problema degli animali nel pensiero antico, Torino 1965, 12; M.
Vegetti, Il coltello e lo stilo cit., 20 ss.; G.
Camassa, “Frammenti del
bestiario pitagorico nella riflessione di Porfirio”, in Aa.Vv., Filosofi e animali nel mondo antico (a cura di S. Castignone-G. Lanata), Pisa 1994, 17
ss.
[12] Si
può pensare in tal senso anzitutto all’Orfismo. Il racconto orfico
della morte di Dioniso, ucciso dai Titani che ne dividono il corpo e ne
arrostiscono le carni per mangiarle, provocando così l’ira di
Zeus, è assieme attestazione del rifiuto del sacrificio cruento e del
rispetto della vita animale. Al sacrificio cruento, Orfeo, capace di domare
ogni specie animale grazie alla musica, preferisce la purezza del miele e dei
cereali, i soli cibi graditi agli dei. Per le fonti vedi O. Kern, Orphicorum Fragmenta, Berlin
1922, 60-235; con riferimento alla antropogonia vedi Olimpiodoro, in Phd., 2,21 (ed. W. Norvin=Orphicorum Fragmenta, 220); v. anche Hymn. Apoll., 336;
Platone, Leg., 701 c. Sul racconto orfico della morte di Dioniso si veda
M. Detienne, “Pratiche
culinarie e spirito di sacrificio”, in Aa.Vv.,
La cucina del sacrificio in terra greca (a cura di M.
Detienne-J.P. Vernant), tr. it. di C. Casagrande-G. Sissa, Torino 1982,
7 ss.; R. Girard, La violenza
e il
sacro, tr. it. di O. Fatica-E.
Czerkl, 3ª ed., Milano 1992, 170 ss.; W.
Burkert, I Greci. Preistoria. Epoca minoico-micenea. Secoli bui (sino al sec. IX), t. 1, tr. it. di P. Pavanini,
Milano 1984, 429 nt. 15.
[13] Sulla
idea della trasmigrazione in Pitagora si veda anzitutto Senofane, 21 B 7 DK=
fr. 7 West= Gentili-Prato (Diogene Laerzio, VIII,36). Si deve, inoltre,
considerare Aristotele, De an., 407b
20 = 58 B 39 DK ed Erodoto, II,123 =
[14] Eudosso,
fr. 36 Gisinger = 325 Lasserre (14 B 9 DK) (Porfirio, Vita Pyth., 7) e
Onesicrito, FGrHist
[15] Sulla
astensione dall’alimentazione carnea si veda Giamblico, Vita Pyth.,
24,107-108, riportato nel testo. Cfr. G.
Santese, “Introduzione”, in Plutarco, Il cibarsi di carne
(a cura di L. Inglese-G. Santese),
Napoli 1999, 62 ss.
[17] Giamblico,
Vita Pyth., 33,229. Si veda al riguardo M.V. Bacigalupo, Il
problema degli animali nel pensiero
antico cit., 12 (ivi altri riferimenti alle fonti). In generale, sulla idea di
amicizia in Pitagora, si veda L.
Pizzolato, L’idea di amicizia
nel mondo antico classico e cristiano, Torino 1993,
18 ss.; 53, il quale rileva che per Pitagora il rapporto di amicizia comporta
la uguaglianza fra i contraenti, secondo il detto assonomico a lui attribuito
amicizia-uguaglianza (philótēs-isótēs).
[18] Traduzione
di M. Giangiulio, in Pitagora. Le opere
e le
testimonianze (a cura di M. Giangiulio), II, Milano 2000, 397
ss.
[20] Sulla
prospettiva antropocentrica connessa a tale tradizione, con particolare
riferimento alla filosofia aristotelica, si veda per tutti M. Vegetti, Il coltello e lo
stilo cit., 127 ss.; P. Fedeli, La natura violata. Ecologia e mondo romano, Palermo 1990, 107 ss.; M.
Vegetti, “Figure dell’animale in Aristotele”, in Aa.Vv., Filosofi e animali nel mondo antico (a cura di S. Castignone-G. Lanata), Pisa 1994,
125 ss.; G. Lanata, “Antropocentrismo e cosmocentrismo nel
pensiero antico”, ibidem, 17 ss.; S. Rocca, Uomini e animali
in Cicerone, Genova 1998, 45 ss.; L.
Repici, Uomini capovolti. Le piante nel pensiero
dei Greci, Roma-Bari 2000, 13 ss.; O.
Longo, “La mano e il cervello. Da Anassagora a
Leroi-Gourhan”, in Ethos e cultura.
Studi in onore di Ezio
Riondato, II, Padova 1991, 957 ss. (=Id., L’universo dei greci. Attualità e distanze, Venezia 2000, 112 ss.); Id., Scienza mito natura. La nascita della biologia in Grecia, Milano 2006, 85 ss.
[22] Si veda,
per tutti, A. Carbone,
“Commento”, in Aristotele, Le
parti degli animali (a cura di A. Carbone), Milano 2002, 748 ss.
[23]
Aristotele, De part. an., 4,10,686a
26-30; 4,10,687a 5-22. Cfr. M. Vegetti,
Il coltello e lo stilo
cit., 110 ss.; G. Lanata, “Antropocentrismo e cosmocentrismo nel
pensiero antico” cit., 23.
[26] Cfr., in
senso analogo, G. Lanata, “Antropocentrismo e cosmocentrismo nel
pensiero antico” cit., 35.
[27] Per la
influenza delle cosiddette “fonti tecniche” sulla Historia si veda M. Vegetti, Il coltello e lo stilo cit., 32 ss., con rinvii alla letteratura.
[28]
Aristotele, nella polemica contro i medici di tradizione ippocratica circa la
origine delle vene (Hist. Anim., 3,2-3,511b 13 ss.; 513 12 ss.),
sostiene la necessità di uccidere l’animale con strangolamento,
dopo averlo fatto dimagrire, allo scopo di trarre da esso le opportune
valutazioni, cosa che non è possibile fare sulla base della osservazione
di un animale vivo, poiché le vene sono all’interno, né su
un animale ucciso per scopi diversi da quelli scientifici, poiché le
vene cedono subito non appena il sangue fuoriesce. Si veda M. Vegetti, Il coltello e lo
stilo cit., 40 ss.
[30] Si veda
a questo proposito M. Vegetti, Il coltello
e lo
stilo cit., 127 ss., il quale rileva
che per i filosofi greci rispondere alla domanda: «che cos’è
un uomo?» comporta «tracciare una doppia linea di demarcazione,
verso gli dèi, in alto, e in basso verso le bestie. Significa aprire uno
spazio in cui l’uomo sia inscrivibile per quello che esso è
specificamente, lasciando da parte le sue ambigue frequentazioni sui bordi di
entrambi gli eccessi; bordi agevolmente valicabili, almeno al principio, per
genealogia ed eroismo da un lato, per ferinità o specularità
dall’altro».
[31] Cfr., in
tal senso, M. Douglas, Purezza e pericolo: un’analisi dei
concetti di contaminazione e tabu, tr. it. di A. Vatta, Bologna 1975, 82.
[37] Sulla questione
si veda E. Francesca, Introduzione alle regole alimentari
islamiche, Roma 1995, 6 ss.
[39] Per la
religione ebraica si vedano le corrispondenti prescrizioni in materia: Lev.,
17,15; 22,8; Deut., 14,21; Ezech., 4,14.
[42] Si
vedano oltre ai brani del Deuteronomio riportati nel testo: Gen., 9,4; Lev.,
3,17; 17,10-14. Sulle prescrizioni ebraiche in materia alimentare si vedano per
tutti: R. Di Segni, Guida alle
regole alimentari ebraiche (a
cura dell’Assemblea dei Rabbini d’Italia), 3ª ed. riv. e
aggiornata, Roma 1996; P. Lerner - A.
Mordechai Rabello, “The
Prohibition of Ritual Slaughtering (Kosher Shechita and Halal) and Freedom of
Religion of Minorities”, in The Journal of Law and Religion, 22 (2006-2007), 1 ss.
[58] Art.
[63]
All’art. 1 si stabilisce che il decreto si applica non solo alla
macellazione, ma anche all’abbattimento di animali da pelliccia o a scopi
sanitari.
[72] Si
può ricordare a questo proposito che il limite per la libertà di
religione, previsto nella nostra Costituzione all’art. 19, è
quello del buon costume a cui devono essere aggiunti altri limiti, in un ambito
sovranazionale, individuabili nella Convenzione Europea per la salvaguardia dei
diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, del 1950, e nel
Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici del 1966, ratificato dall’Italia
nel 1978. Nella Convenzione, all’art. 9, e nel Patto, all’art. 18,
terzo comma, limiti alla libertà di religione possono essere individuati
solo per legge e in funzione della necessità di tutelare la sicurezza
pubblica, l’ordine pubblico, la salute, la morale pubblica o i diritti e
le libertà altrui. Sul punto si veda A.
Roccella, “Macellazione e alimentazione” cit., 205.
[74] Lo stato
della questione è riassunto in F.
Rescigno, I diritti degli animali. Da res a soggetti cit., 226 ss.
[75] Cfr., in
questo senso, F. Castro,
“L’Islam in Italia: profili giuridici”, in Quaderni di diritto e politica ecclesiastica,
1 (1996), 278.
[79] Si veda,
come esempio di questa impostazione, G.
Giordano, “Carni”, in Enciclopedia
del diritto, VI, Milano 1960, 304 ss., su cui hanno richiamato
l’attenzione: T. Ercoli,
“La macellazione”, in Aa.Vv.,
Per un codice degli animali. Commenti sulla normativa vigente (a cura
di A. Mannucci - M. Tallacchini),
Milano 2001, 199 ss.; F. Rescigno,
I diritti
degli animali. Da res a soggetti
cit., 220 ss. nt. 135.
[80] Il
decreto, secondo quanto previsto al comma 2 dell’art. 1, non si applica,
fra l’altro, agli abbattimenti eseguiti in occasione di
“manifestazioni culturali o sportive” o alla selvaggina. Sono poi,
all’art. 9, previste altre deroghe, per la macellazione eseguita presso i
privati destinata al consumo familiare, ma il legislatore ha qui fortemente
ridotto il senso stesso di queste deroghe stabilendo che anche in tal caso si
debba applicare la disposizione fondamentale prevista all’art.
[83]
Sull’art. 727 c.p., per un quadro di insieme, si vedano: D. Pástina,
“Animali”, in Enciclopedia
del diritto, II, Milano 1958, 433 ss.; A.
Cosseddu, “Maltrattamento di animali”, in Digesto delle Discipline Penalistiche,
4ª ed., VII, Torino 1993, 3 ss.; Ead.,
“Maltrattamento di animali”, in Digesto
delle Discipline Penalistiche, 4ª ed., Aggiornamento, Torino 2000, 441 ss.; A. Galione-S. Maccioni, “L’abbandono ed il
maltrattamento degli animali”, in Aa.Vv.,
Il diritto delle relazioni affettive. Nuove responsabilità e nuovi
danni (a cura di P. Cendon), III, Padova 2005, 2029 ss.
[84] Cfr. E. Balocchi, “Animali (protezione
degli)”, in Enciclopedia giuridica
Treccani, II, Roma 1988, 2 ss.
[85] Cito da M. Santoloci, “L’art. 727
del codice penale nell’attuale posizionamento giuridico e sociale”,
in Aa.Vv., Per un codice degli animali. Commenti sulla normativa vigente cit., 53.
[87] Art. 2
comma 6. Per un quadro generale dei problemi etici e giuridici legati alla
eutanasia degli animali non umani, si veda Aa.Vv.,
L’uccisione degli animali. Eutanasia. Strumenti per l’analisi morale (a cura di P. Sartori-L. Canavacci), Torino 2001.
[89] Si
consideri, in questo senso, anche la legge n. 413 del 1993, che prevede la
“obiezione di coscienza alla sperimentazione animale”.
[90] Si noti
che, come si legge sempre nella Premessa, il Comitato Nazionale per
[91]
Sull’uso delle categorie in questione si vedano: R. Orestano, Il problema delle fondazioni in diritto
romano, Parte Prima, Torino 1959, 3 ss.; Id., Il “problema delle persone giuridiche” in
diritto romano, I, Torino 1968, 7 ss.; P.
Catalano, Diritto e persone.
Studi su origine e attualità
del sistema romano, Torino
1990, 169 ss.; Id., “Diritto,
soggetti, oggetti: un contributo alla pulizia concettuale sulla base di D.
1,1,12”, in Iuris vincula. Studi in
onore di Mario Talamanca, II, Napoli 2001, 97 ss.; G. Melillo, Personae e status in Roma antica, Napoli 2006, 1 ss.
[92] Si veda
per questa impostazione F. Rescigno,
I diritti
degli animali. Da res a soggetti
cit., 1 ss.
[93] Sulla
elasticità della distinzione gaiana fra personae e res si veda G. Grosso, Problemi sistematici nel diritto romano. Cose - contratti (a cura di L. Lantella), Torino 1974, 7 ss., il
quale osserva che nei termini persona
e res vi è un riferimento
soggettivo e oggettivo.
[94] Gai. 1,48: Sequitur de iure personarum alia divisio. Nam quaedam
personae sui iuris sunt, quaedam alieno iuri subiectae sunt; 1,51: Ac
prius dispiciamus de iis qui in aliena potestate sunt. 1,52: In
potestate itaque sunt servi dominorum. Quae quidem potestas iuris gentium est;
nam apud omnes peraeque gentes animadvertere possumus dominis in servos vitae
necisque potestatem esse; et quodcumque per servum adquiritur, id domino
adquiritur; 2,13: Corporales hae <sunt> quae tangi possunt, velut
fundus homo vestis aurum argentum et denique aliae res innumerabiles. Sulla
condizione del servo, sotto il profilo della sua classificazione, si vedano per
tutti: F. Goria, “Schiavi,
sistematica delle persone e condizioni economico-sociali nel Principato”, in Aa.Vv.,
Prospettive sistematiche nel diritto romano, Torino 1976, 363 ss.; O. Robleda,
Il diritto degli schiavi nell’antica Roma,
Roma 1976, 68 ss.; M. Morabito,
“Ricerche sulla schiavitù attraverso il discorso dei giuristi nel
Digesto”, in Index, 8
(1978-1979), 280 ss.; M.I. Finley,
Schiavitù antica e ideologie moderne, tr. it. di E. Lo Cascio, Roma-Bari 1981; M. Morabito, Les réalités
de l’esclavage d’après
le Digeste, Paris 1981; R.
Quadrato, “La persona in Gaio. Il problema dello schiavo”,
in Iura, 37 (1986), 1 ss.; A. Watson, “Slavery and the
development of Roman private law”, in Bullettino
dell’Istituto di Diritto
Romano, 90 (1987), 105 ss.; A. Carandini, Schiavi in Italia. Gli strumenti pensanti dei Romani fra tarda
Repubblica e medio Impero, Roma 1988; R. Quadrato, “‘Hominis appellatio’ e gerarchia dei sessi D. 50,16,152 (Gai. 10 ad l.
Iul. et Pap.)”, in Bullettino dell’Istituto di Diritto Romano, 91 (1988), 309 ss.; Aa.Vv.,
La schiavitù nel mondo antico (a cura di M.I. Finley),
tr. it. di C. Fallace, Roma-Bari 1990; B. Huwiler,
“Homo et res: Skizzen zur
hellenistischen Theorie der Sklaverei und deren Einfluss auf das römische
Recht”, in Mélanges Felix Wubbe, Fribourg 1993, 207 ss.; M.
Melluso, La schiavitù
nell’età giustinianea, Paris 2000, 135 ss.; E. Stolfi, Studi sui “libri ad edictum” di Pomponio, II, Contesti e pensiero, Milano 2001,
387 ss.
[95] La
qualificazione giuridica del servo attraverso l’impiego delle categorie moderne
di oggetto e di soggetto di diritto non consente di cogliere la
elasticità della distinzione, propria della giurisprudenza romana, fra personae e res. Nella sistematica romana, il medesimo ente –
l’uomo – è considerato allo stesso tempo persona e res. Si direbbe che personae
e res non servono per indicare
entità diverse ma modi differenti di manifestarsi delle stesse
entità. La qualificazione del servus
come oggetto in base al fatto che
esso figura nelle fonti giuridiche romane fra le res, non permette di comprendere sul piano dogmatico il ruolo che
esso ricopre anche come parte di negozi giuridici o come destinatario di una
tutela giuridico-religiosa. Una critica alla tendenza della dottrina a negare
la soggettività giuridica del servus
si trova in P. Catalano, Diritto e persone. Studi su origine e attualità
del sistema romano cit., 163
ss., il quale mette in rilievo che l’affermazione secondo cui il servus non è un soggetto di
diritto è errata sia perché trascura di considerare la partecipazione
di esso al ius, sia perché si
basa su un presupposto metodologico errato in quanto impiega una nozione
“estranea alle fonti” e “inadatta” a cogliere il
“dato storico”; Id.,
“Diritto, soggetti, oggetti: un contributo alla pulizia concettuale sulla
base di D. 1,1,12” cit., 97 ss., il quale osserva: «Le questioni
circa la ‘soggettività’ del servo e del nascituro, se
riferite allo ius Romanum, sono
scientificamente mal poste». Con riferimento alla sistematica è
importante ricordare l’osservazione di F.
Goria, “Schiavi, sistematica delle persone e condizioni
economico-sociali nel Principato” cit., 333, secondo cui: «Non
esistendo la mediazione formale della capacità giuridica che occultasse,
riportandole in un mondo di concetti astratti, le reali differenze sociali tra
gli uomini, si comprende come le classificazioni giuridiche traducessero
immediatamente e direttamente certi tipi di rapporti sociali». Con
riferimento alla categoria della personalità giuridica S. Tafaro, La pubertà a Roma.
Profili giuridici,
Bari 1993, 11, ritiene che la concezione moderna a essa sottostante ha finito
col coartare la esperienza antica entro uno schema che non corrisponde alla
complessità del passato e ha determinato una
“omogeneizzazione” della realtà giuridica romana e una
“sottovalutazione” dell’articolazione del sistema giuridico
romano imperniato attorno alla considerazione dell’essere umano.
[96] Una
recente messa a punto, con riguardo alla nozione di res e di oggetto di diritto, in termini dogmatici è quella
di A. Trisciuoglio, “Il
corpo umano vivente dopo la nascita: osservazioni
storico-comparatistiche”, in Aa.Vv.,
Modelli teorici e metodologici nella
storia del diritto privato, 2, Napoli 2006, 389 ss.
[97] Per la
relazione tra le nozioni di persona e
di soggetto di diritto si veda per
tutti R. Orestano, Il “problema delle persone giuridiche” in diritto
romano cit., 7 ss. Per la relazione
tra le nozioni di res e di cosa si
vedano: G. Astuti, “Cosa
(Diritto romano e intermedio)”, in Enciclopedia del diritto, XI, Milano
1962, 1 ss.; S. Pugliatti,
“Cosa (Teoria generale), ibidem, 19 ss.
[98] Si veda P. Catalano, “Diritto, soggetti,
oggetti: un contributo alla pulizia concettuale sulla base di D. 1,1,12”
cit., 97 ss., il quale ritiene a ragione che «la pulizia concettuale vada
condotta fino alla radice, eliminando gli stessi termini ‘oggetto’
e ‘soggetto’».
[99]
Sull’uso concreto delle nozioni di persona
e di homo si veda P. Catalano, Diritto e persone. Studi su origine e attualità del sistema
romano cit., 167 ss.
[100] Sulla
rilevanza giuridica del comportamento animale si rinvia a P.P. Onida, Studi sulla condizione degli animali non umani
nel sistema giuridico romano, Torino 2002, 399 ss.
[101] Nel caso
di un danneggiamento inferto da un quadrupede a seguito di un atto contra naturam il proprietario era posto
nell’alternativa di compiere la noxae
deditio dell’animale, la
consegna di esso alla vittima, o di pagare una somma di denaro a titolo di
risarcimento. Per le fonti si vedano anzitutto: D. 9,1,1 pr. (Ulp. 18 ad ed.):
Si quadrupes pauperiem fecisse dicetur,
actio ex lege duodecim tabularum descendit: quae lex voluit aut dari id quod
nocuit, id est id animal quod noxiam commisit, aut aestimationem noxiae offerre.
D. 9,1,1,3 (Ulp. 18 ad ed.): Ait praetor ‘pauperiem fecisse’. pauperies est damnum sine
iniuria facientis datum: nec enim potest animal iniuria fecisse, quod sensu
caret. D. 9,1,1,13 (Ulp. 18 ad ed.): Plane si ante litem
contestatam decesserit animal, extincta erit actio. D. 9,1,1,14
(Ulp. 18 ad ed.): Noxae autem dedere est animal tradere vivum. demum
si commune plurium sit animal, adversus singulos erit in solidum noxalis actio,
sicuti in homine. Fragm. Augustodun., 4,83: Et non solum si totum corpus
det liberatur, sed etiam si partem aliquam corporis. Denique tractatur de
capillis et unguibus an partes corporis sint. Quidam
enim dicunt <ea additamenta corporis esse; sunt enim> foris posita. Animal mortuum vero dedi
non potest. Per la dottrina sull’actio de pauperie si vedano da
ultimo, con ampi riferimenti alla letteratura meno recente: M.V. Giangrieco Pessi, Ricerche sull’actio de pauperie. Dalle XII Tavole ad Ulpiano, Napoli 1995; M.
Polojac, “Actio de pauperie
- domestic and wild animals?”, in Règle
et pratique du droit dans les réalités juridiques de
l’antiquité. Atti
della 51ª Sessione della SIHDA Crotone-Messina 16-20 settembre 1997 (a cura
di I. Piro), Soveria Mannelli
1999, 463 ss.; Ead.,
“L’actio de pauperie ed
altri mezzi processuali nel caso di danneggiamento provocato dall’animale
nel diritto romano”, in Ius
Antiquum, 8 (2001), 81 ss.; P.P.
Onida, Studi sulla condizione degli animali non umani nel sistema
giuridico romano cit., 449 ss.
[102] Sulla
rilevanza giuridica delle classificazioni animali si veda P.P. Onida, Studi sulla condizione degli animali non umani
nel sistema giuridico romano cit., 161 ss.
[103] Per i
riferimenti alla bibliografia, vastissima, sul ius naturale, si vedano: C.A. Maschi, La concezione naturalistica del diritto e degli
istituti giuridici romani, Milano
1937, 284 ss.; B. Biondi, Il Diritto
romano cristiano, II. La giustizia-Le persone, Milano 1952,
4 ss.; A. Burdese, “Il
concetto di ius naturale nel pensiero della giurisprudenza classica”, in Rivista italiana per le scienze
giuridiche, 90 (1954), 407 ss.; G. Nocera, Ius naturale nell’esperienza giuridica romana, Milano 1962; M.
Bretone, Storia del diritto
romano, Roma-Bari 1992, 323 ss.; M. Kaser, Ius gentium,
Köln-Weimar-Wien 1993, 54 ss.; 98 ss.; M.P.
Baccari, Concetti ulpianei per il “diritto di famiglia”,
Torino 2000, 16 ss.; W. Waldstein,
Saggi sul diritto non scritto
(a cura di U. Vincenti),
Padova 2002, 207 ss.; Aa.Vv., Testi e problemi del giusnaturalismo
romano (a cura di D. Mantovani-A. Schiavone), Pavia 2007.
[104] Per una prima
analisi della letteratura sulla “questione animale”, con
riferimenti alla soggettività animale, si vedano: Aa.Vv., I diritti degli animali. Prospettive bioetiche e giuridiche (a cura di S. Castignone-G. Lanata), Bologna
1985; Aa.Vv., I diritti
degli animali (a cura di S.
Castignone-G. Lanata), Centro di Bioetica-Genova, Atti del Convegno nazionale, Genova 23-24 maggio 1986, Genova 1987;
P. Singer, In difesa degli animali,
tr. it. di S. Nesi Sirgiovanni, Roma 1987;
Id., Liberazione animale:
il libro che ha ispirato il movimento
mondiale per la liberazione degli animali
(a cura di P. Cavalieri),
tr. it. di E. Ferreri, Roma 1987; T.
Regan-P. Singer, Diritti
animali, obblighi umani, tr. it. di P. Garavelli,
Torino 1987; P. Singer, Il movimento di liberazione
animale (a cura di P.
Cavalieri-A. Pillon), Torino 1989; T.
Regan, I diritti animali,
tr. it. di R. Rini, Milano 1990; P.
Cavalieri-P. Singer, Il Progetto
Grande Scimmia: eguaglianza oltre i confini
della specie umana, Roma 1994; L. Battaglia, Etica e diritti degli animali,
Roma-Bari 1997; P. Cavalieri, La questione animale. Per
una teoria allargata dei diritti umani,
Torino 1999; V. Pocar, Gli animali
non umani. Per una sociologia
dei diritti, nuova edizione riveduta e aggiornata, Roma-Bari 2005; F. Rescigno, I diritti degli animali. Da res a soggetti
cit., 9 ss.; B. De Mori, Che cos’è
la bioetica animale, Roma
2007.
[105] D.
1,1,1,3-4 (Ulp. 1 inst.): 3 Il
diritto naturale è quello che la natura ha insegnato a tutti gli esseri
animati: infatti, questo diritto non è proprio del genere umano, ma
è comune a tutti gli esseri animati che nascono in terra, in mare, ed
è comune anche agli uccelli. Da qui deriva l’unione del maschio e
della femmina, la quale unione noi chiamiamo matrimonio; da qui deriva la procreazione
dei figli; da qui l’educazione. Vediamo, infatti, che anche tutti gli
altri esseri animati, comprese le fiere, sono valutati in base alla esperienza
<che abbiano> di questo diritto. 4 Il diritto delle genti è quello
di cui le genti umane fanno uso. Si può capire facilmente che esso si
discosta dal diritto naturale, poiché il diritto naturale è
comune a tutti gli esseri animati, mentre il diritto delle genti è
comune ai soli uomini tra loro. Traduzione a cura di S. Schipani, con la
collaborazione di L. Lantella, in Iustiniani Augusti Digesta seu Pandectae. Digesti o Pandette dell’Imperatore
Giustiniano, testo e traduzione,
I, Milano 2005, 77-78.
[106] Inst., 1,2 pr.: Il diritto naturale è quello che la
natura ha insegnato a tutti gli animali. Invero questo diritto non è
caratteristico del genere umano, bensì di tutti gli animali che nascono
in cielo, in terra, in mare. Ne discende l’unione del maschio e della
femmina, che noi chiamiamo matrimonio, e la procreazione e l’allevamento
dei figli: vediamo infatti che pure gli altri animali sono valutati in rapporto
alla loro perizia in questo diritto. Traduzione di E. Nardi, in E. Nardi, Istituzioni di diritto romano, B, Testi, 2, ristampa emendata, Milano 1986, 10.
[107] Sulla concezione
naturalistica del diritto romano si vedano soprattutto: C.A. Maschi, La concezione naturalistica del diritto e degli istituti giuridici romani cit.,
158 ss.; A. Burdese, “Ius
naturale”, in Novissimo Digesto Italiano, IX, Torino 1963, 383 ss.; G. Grosso, Problemi
generali del diritto attraverso il diritto romano, 2ª ed., Torino 1967, 99 ss.
[108]
Cicerone, rep., 3,11,18-19: 18 esse enim hoc boni viri et iusti, tribuere
id cuique quod sit quoque dignum. 19
ecquid ergo primum mutis tribuemus beluis? non enim mediocres viri sed maxumi
et docti, Pythagoras et Empedocles, unam omnium animantium condicionem iuris
esse denuntiant, clamantque inexpiabilis poenas impendere iis a quibus violatum
sit animal. scelus est igitur nocere bestiae, quod scelus qui velit.
[109] Seneca, clem., 1,18,2: Servis ad
statuam licet confugere! Cum in
servum omnia liceant, est aliquid, quod in hominem licere commune ius
animantium vetet. Cfr. A. Mantello,
“Il sogno, la parola, il
diritto. Appunti sulle concezioni giuridiche di Paolo”, in Bullettino dell’Istituto di Diritto Romano, 33 (1991), 401; G. Giliberti, Cosmopolis. Politica e diritto nella tradizione
cinico-stoica, Pesaro 2002, 87 ss.
[110]
Lucrezio, 5,866, su cui si veda G.
Lanata, “Antropocentrismo
e cosmocentrismo nel pensiero antico” cit., 35.
[111]
L’uso del termine cura in
Virgilio è attestato in più luoghi: si veda, ad esempio, Georg., 1,3; 3,124; 3,138; 3,157; 3,305;
3,319; 3,404, su cui ha richiamato l’attenzione S. Rocca, “Animali”,
in Enciclopedia Virgiliana, I, Roma
1984, 173 ss.
[113] Sulla
centralità del sacrificio a Roma si veda per tutti G. Dumézil, La religione romana arcaica, tr. it. di F. Jesi, Milano 1977, 476 ss. Per una analisi
giuridica del sacrificio è ora fondamentale F. Sini, Sua cuique civitati religio. Religione e diritto pubblico in Roma antica,
Torino 2001, 177 ss. Per la opinione di chi scrive si veda P.P. Onida, “Il divieto dei
sacrifici di animali nella legislazione di Costantino. Una interpretazione
sistematica”, in Aa.Vv., Poteri religiosi e istituzioni: il culto di San Costantino Imperatore tra Oriente e Occidente
(a cura di F. Sini-P.P. Onida), Torino
2003, 73 ss. Sul concetto di pax
deorum, si veda, per tutti, F. Sini, “Diritto e pax deorum in Roma
antica”, in Diritto @ Storia. Rivista internazionale
di Scienze Giuridiche e Tradizione Romana,
5 (2006) = http://www.dirittoestoria.it/5/Memorie/Sini-Diritto-pax-deorum.htm.
[114] Servio, in Verg.
Buc., 4,43: Sane in Numae legibus cautum est, ut, siquis
imprudens occidisset hominem, pro capite
occisi agnatis eius in contione
offerret arietem (=C.G. Bruns,
Fontes Iuris Romani Antiqui, 6ª ed., Friburgi et Lipsiae 1893, 10 fr. 13; S. Riccobono,
Fontes Iuris Romani Antejustiniani, Pars prima, Leges, 2ª ed., Florentiae
1941, 13 fr. 17). Si vedano: M.
Voigt, “Über die leges
regiae, I. Bestand und Inhalt der
leges regiae“, in «Abhandlungen der
philologisch-historischen Classe der Königlich Sächsischen
Gesellschaft der Wissenschaften», 6
(1876), 555 ss.; S. Tondo, Leges
regiae e paricidas, Firenze 1973, 89
ss.; C.A. Melis, “Arietem offerre. Riflessioni attorno all’omicidio involontario in età
arcaica”, in Labeo, 34 (1988),
135 ss.; F. Sini, Sua cuique
civitati religio. Religione e diritto
pubblico in Roma antica cit., 202 ss.
[115] Si veda
Macrobio, sat., 3,5,8: Observatum est a sacrificantibus ut, si
hostia quae ad aras duceretur fuisset vehementius reluctata ostendissetque se
invitam altaribus admoveri, amoveretur quia invito deo offerri eam putabant.
Quae autem stetisset oblata, hanc volenti numini dari aestimabant, su cui
ha richiamato l’attenzione F. Sini,
Sua cuique civitati religio. Religione e
diritto pubblico in Roma antica cit., 200, il quale osserva che
«nella dinamica del sacrificio veniva ad assumere un certo rilievo anche
la volontà dell’animale destinato all’immolazione; al
riguardo, la scienza pontificale considerava requisito necessario per la
validità dell’offerta e dell’azione rituale il fatto che la
vittima manifestasse in qualche modo il proprio consenso. Per questa ragione
l’animale non poteva essere condotto a forza presso l’ara,
poiché ciò avrebbe rappresentato un pessimo auspicio per il buon
esito del sacrificio».
[116] Sul
rifiuto del sacrificio cruento, si vedano: E.
Tagliaferro, “Anaimaktos
thusia-logike thusia. A proposito della critica al sacrificio cruento”, in Sangue e antropologia nella liturgia, Atti della
4ª settimana, Roma 21-26
novembre 1983 (a cura di F.
Vattioni), III, Roma 1983, 1573 ss.; C.
Grottanelli, “Appunti sulla fine dei sacrifici”, in Egitto e Vicino Oriente, 12 (1989), 175 ss.; Id., Il sacrificio, Roma-Bari
1999, 70 ss.
[123] Arnobio
attribuisce a Varrone l’opinione secondo cui gli dei non desiderano,
né tantomeno reclamano sacrifici di animali: Arnobio, nat., 7,1: Quid ergo, dixerit quispiam, sacrificia censetis nulla esse omnino
facienda? Ut vobis non nostra, sed Varronis vestri sententia respondeamus,
nulla. Quid ita? quia, inquit, dii veri neque desiderant ea neque deposcunt, ex
aere autem facti, testa, gypso vel marmore multo minus haec curant: carent enim
sensu; neque ulla contrahitur, si ea non feceris, culpa, neque ulla, si
feceris, gratia.
[124] A Seneca
Lattanzio ascrive il rifiuto del sangue sacrificale: Lattanzio, inst., 6,25,3: Quanto melius et verius Seneca vultisne vos inquit deum cogitare magnum
et placidum et maiestate leni verendum, amicum et semper in proximo, non
immolationibus nec sanguine multo colendum – quae enim ex trucidatione
immerentium voluptas est?
[125] Arnobio,
nat., 7,3-4; 7,27-29. Cfr. O. Gigon, “Arnobio: cristianesimo
e mondo romano”, in Aa.Vv.,
Mondo classico e Cristianesimo, Roma 1982, 94 ss.; F. Mora, Arnobio e i culti
di mistero. Analisi storico-religiosa del V libro dell’Adversus Nationes, Roma 1994, 19 ss.; G.M. Pintus, “Sacrifici animali e
dèi di coccio (Arn., adv. nat. VII)”, in L’Africa romana. Atti dell’XI convegno di studio. Cartagine, 15-18 dicembre 1994 (a cura di M.
Khanoussi-P. Ruggeri-C. Vismara), Ozieri 1996, 1629 ss.
[126] CTh.
9,16,1 (cfr. C. 9,18,3); CTh. 9,16,2; CTh. 16,10,1, su cui P.P. Onida, “Il divieto dei
sacrifici di animali nella legislazione di Costantino. Una interpretazione
sistematica” cit., 104 ss.
[127]
Porfirio, ad Aneb., 29; Giamblico, De myst., 3,13. Cfr. L. De Giovanni, Costantino e il mondo
pagano, 4ª ed., Napoli 1989, 54
ss.; Id., “Mondo tardoantico
e formazione del ‘Diritto romano cristiano’. Riflessioni su CTh.
9,16,1-