ds_gen N. 6 – 2007 – Contributi

 

foto-NonneAutodestinazione e separazione patrimoniale negli enti non profit dopo la riforma del diritto societario*

 

Luigi Nonne

Università di Sassari

 

Sommario: 1. Limiti formali all’estensione dei patrimonî destinati della società per azioni per gli enti non profit ed esigenze di un loro superamento. – 2. La natura giuridica del patrimonio autodestinato tra fondazione dipendente e rapporto fiduciario. – 3. – Le tecniche di estensione: l’applicabilità in via analogica degli artt. 32 e 2447 bis e ss., c.c. alle persone giuridiche del libro I del Codice civile; la correlazione sistematica tra i due modelli di patrimonio separato. Critica. – 4. Un possibile fondamento normativo della separazione: l’art. 2645 ter c.c. – 5. La disciplina dei beni autodestinati. I rapporti tra scopo e patrimonio generali e speciali. – 6 (segue). Regole di gestione e responsabilità. – 7. Autodestinazione ed esercizio dell’impresa strumentale allo scopo principale dell’ente. – 8. I patrimoni dedicati a scopi non lucrativi nella s.p.a.: un competitore degli enti non profit? – 9. Conclusione e linee guida per una riforma.

 

 

1. – Limiti formali all’estensione dei patrimonî destinati della società per azioni per gli enti non profit ed esigenze di un loro superamento

 

La riforma del diritto societario italiano, introducendo i patrimonî destinati ad uno specifico affare per la società per azioni (artt. 2447 bis e ss., c.c.), ha compiutamente definito l’opzione tra alterità soggettiva e separazione patrimoniale[1] come forme di limitazione della responsabilità nell’esercizio dell’impresa. In questo caso è un atto di autonomia, legalmente tipizzato nei suoi requisiti, che fonda l’effetto separativo, con ciò rispettandosi la coerenza dell’istituto con l’art. 2740, comma 2°, c.c., che riserva alla legge la creazione di limitazioni di responsabilità. Inoltre, la correlazione tra separazione e destinazione, al di là dei profili di autotutela nell’attività di impresa, è strumentale alla migliore realizzazione dell’affare programmato, consentendo una gestione del medesimo più razionale, anche sotto il profilo dei costi di amministrazione[2].

Una simile forma giuridica non è invece disponibile per gli enti del libro primo del codice civile, i quali peraltro ben potrebbero avvalersene, sotto il profilo degli interessi realizzabili, per il miglior perseguimento dei proprî scopi. Osta difatti ad un’estensione dell’ambito di applicazione degli artt. 2447 bis e ss., c.c., il dettato del citato art. 2740, comma 2°, c.c., tassativo nel riferimento alla fonte legale delle limitazioni, il quale impedisce che i patrimonî destinati ad uno specifico affare possano essere realizzati al di fuori del tipo “società per azioni”, elemento essenziale della fattispecie separativa[3].

Anche nel campo delle persone giuridiche non profit si riscontrano, peraltro, fenomeni di separazione patrimoniale, qual è tipicamente quello definito dall’art. 32 c.c., dedicato ai beni lasciati o donati alle persone giuridiche per uno scopo diverso da quello istituzionale perseguito dalle medesime[4].

Difatti, la possibilità che, in caso di trasformazione o scioglimento dell’ente cui siano stati attribuiti questi beni, essi vengano devoluti ad altre persone giuridiche aventi fini analoghi, dimostra che ci si trova nel caso di specie dinanzi ad un patrimonio separato che non segue le vicende liquidative (in caso di estinzione) o il nuovo assetto (in caso di trasformazione) della persona giuridica, ma viene preservato in modo da realizzare lo scopo (di natura non lucrativa), originariamente affidatogli, tramite un nuovo strumento di azione[5].

Le differenze senz’altro ravvisabili tra i due istituti, sulle quali mi soffermerò a breve, non debbono, a mio parere, essere ritenute preclusive della possibilità di indagare se vi siano elementi normativi e sistematici che consentano, nel rispetto del principio di tipicità dei patrimonî destinati, di costruire un meccanismo normativo tramite il quale gli enti non profit perseguano scopi particolari proprî per mezzo della separazione patrimoniale, meccanismo analogo, almeno in punto di effetti, a quello previsto dagli artt. 2447 bis e ss. c.c., ma da rendersi coerente con le peculiarità dell’art. 32 c.c.

Oltre al problema evidenziato, il presente lavoro affronterà le implicazioni ad esso connesse, che ne completano l’impatto sistematico, e precisamente: la natura giuridica dei patrimonî speciali che sorgono a seguito dell’atto di autodestinazione, atteso che per i beni con destinazione particolare delle persone giuridiche si è parlato di fondazione fiduciaria, quindi di un soggetto di diritto non personificato; inoltre, la disciplina applicabile al nuovo istituto; ancora, la ammissibilità della destinazione di un patrimonio, da parte di una persona giuridica non profit, all’esercizio di un’impresa strumentale allo scopo principale dell’ente; infine, la possibilità che la s.p.a. destini, con efficacia separativa, parte del proprio patrimonio ad attività non lucrative.

 

2. – La natura giuridica del patrimonio autodestinato tra fondazione dipendente e rapporto fiduciario

 

Nell’affrontare la natura giuridica del patrimonio destinato negli enti non profit, conviene muovere dalla constatazione che l’autoseparazione di una parte del proprio patrimonio ad opera della fondazione è stata in passato evocata[6] per replicare all’obiezione rivolta alla Zweckvermögenstheorie[7] circa «la contradiction irrèductible qui nâit de l’erection en subjet actif de la fondation de ce qui n’est autre que son objet»[8]. Poiché la dottrina, al di là della fondata obiezione, ha comunque fatto riferimento alla fondazione dipendente, genus al quale appartiene anche la fondazione fiduciaria[9], per individuare la natura del fenomeno di cui all’art. 32 c.c.[10], viene da chiedersi se questa categoria concettuale sia idonea a rappresentare correttamente anche la fattispecie in esame. Gli studiosi della unselbständige Stiftung nel diritto tedesco hanno a questo proposito evidenziato che, dei tre significati che il termine Stiftung possiede, ossia, per sineddoche, il negozio di fondazione (“Stiftungsrechtsgeschäft”), lo scopo che questa si prefigge, giuridicamente riconosciuto (“rechtlich anerkannten Zweck”), e il patrimonio destinato allo scopo (“Stiftungsvermögen”), quali elementi costitutivi della fondazione dotata di capacità giuridica, il primo e il terzo sono proprî anche della fondazione dipendente[11]. Peraltro, deve notarsi che anche nella fondazione dipendente sussiste una valutazione dello scopo da parte dell’ordinamento giuridico: per i beni con destinazione particolare, poiché il perseguimento della medesima richiede una modifica dell’atto costitutivo dell’ente titolare, da approvarsi dall’autorità governativa, il fine speciale viene comunque sottoposto al placet di quest’ultima[12]. Allora, se tutti i requisiti prima esposti possono dirsi sostanzialmente comuni alla fondazione dipendente e alla fondazione autonoma, va chiarito quale sia la differenza tra i due istituti. Che il problema sia rilevante lo si ricava dall’ampia casistica che, a differenza di quanto riscontrabile nel sistema italiano[13], è fiorita sull’istituto nell’ordinamento germanico[14]. Peraltro, sia nel diritto italiano che nel diritto tedesco, nonostante quest’ultimo abbia recentemente riformato la disciplina delle fondazioni private (Gesetz zur Modernisierung des Stiftungsrecht, del 15.07.2002, ma il discorso può estendersi anche alle legislazioni dei Länder), il problema della fondazione dipendente non è stato affrontato in via generale[15], per cui l’integrazione della disciplina della fondazione dipendente, costituita da scarne disposizioni di diritto delle obbligazioni e successorio[16], è legata all’applicazione analogica dei paragrafi 80-88 del BGB relativi alla fondazione riconosciuta di diritto privato[17]. In Italia invece, premessa l’impossibilità di far assurgere la fondazione dipendente, o fiduciaria, o non riconosciuta, a principio generale[18], si è invitato il legislatore, in caso di eventuale riforma del diritto delle fondazioni, ad astenersi dall’affrontare il problema[19]. 

Di diverso avviso è stato il legislatore francese, il quale, con l’art. 6 della legge 90-559 del 4 luglio 1990[20], ha previsto in via generale la fondazione fiduciaria, modificando l’art. 20 della legge n. 87-571 del 23 luglio 1987, sul presupposto che l’imposizione del vincolo di destinazione ad un gruppo di beni attribuiti ad una fondazione già riconosciuta di utilità pubblica fosse accompagnata dalla previsione nello statuto di quest’ultima della possibilità di essere titolare di patrimoni separati[21].

Taluna dottrina ha peraltro sottolineato la distinzione tra fiducia e fondazione dipendente, quest’ultima definita come «attribution d’un bien à une personne morale déjà existante et dont le revenus doivent être employès par cette personn à un but spécifié par le donateur», nel fatto che l’ente titolare diventa proprietario in via definitiva del patrimonio lasciato o donato per uno scopo particolare, e rimette al beneficiario esclusivamente le rendite dei beni che gli sono stati trasmessi[22].

Ciò significa che, in realtà, si è voluto attribuire il nomen iuris di fondazione a ciò che fondazione non è, e che piuttosto consiste, dal punto di vista del patrimonio, nel termine di riferimento oggettivo di un rapporto di natura fiduciaria[23], il quale in più punti si discosta, a cagione delle peculiarità di questo rapporto, dalla disciplina prevista per le fondazioni, a cui è legato, a ben vedere, esclusivamente dal rilievo reale della destinazione dei beni.

Questa conclusione può replicarsi anche per il nostro ordinamento: la negazione di un’autonomia soggettiva della fondazione dipendente può in sintesi ricavarsi i) dalla titolarità dei beni in via definitiva in capo ad una persona giuridica; ii) dalla responsabilità sussidiaria di quest’ultima, la quale risponde di un’obbligazione propria; iii) dal trattamento normativo riservato ai beni con destinazione particolare in caso di estinzione o trasformazione della persona giuridica, ossia l’attribuzione ad altro ente riconosciuto avente fini analoghi, ciò che conferma come il patrimonio sia mero centro di imputazione oggettiva del rapporto[24].

L’autodestinazione, invece, a differenza di quanto avviene con la fattispecie di cui all’art. 32 c.c., non si presta ad essere inquadrata negli schemi della fiducia, poiché è assente il trasferimento dei beni, che della fondazione fiduciaria costituisce requisito essenziale[25]. Inoltre, anche la ricostruzione in termini di rapporto, essendovi un unico soggetto, risulterebbe erronea[26].

Il sintagma “fondazione dipendente” altro non è allora che una mera espressione riassuntiva di una speciale disciplina che un soggetto collettivo imprime ai proprî diritti su taluni beni destinati ad un fine particolare[27]. La distinzione con la fondazione autonoma, di conseguenza, è esclusivamente legata non al concetto o alla struttura della fattispecie, bensì, in un’ottica di diritto positivo, al contenuto della disciplina applicabile.

Giunti a tale conclusione[28], si tratta per l’appunto di individuare le regole coerenti al caso dell’autodestinazione per gli enti non profit. L’alternativa da cui prendere le mosse si pone, ritengo, tra l’applicazione analogica, sic et simpliciter, a) dell’art. 32 c.c. e delle disposizioni connesse[29] in relazione alla fondazione dipendente[30], ovvero b) della disciplina dei patrimoni destinati ad uno specifico affare (artt. 2447 bis e ss. c.c.); oppure, come soluzione eclettica, c) l’integrazione di tali norme.

 

3. – Le tecniche di estensione: l’applicabilità in via analogica degli artt. 32 e 2447 bis e ss., c.c. alle persone giuridiche del libro I del Codice civile; la correlazione sistematica tra i due modelli di patrimonio separato. Critica

 

Le prime due proposte si presentano alquanto problematiche sotto varî profili. Utilizzando come paradigma di riferimento dell’autodestinazione a scopi non lucrativi la disciplina dei beni con destinazione particolare, si è detto che tale fattispecie è assai diversa, per presupposti e struttura, dai patrimonî dedicati nella s.p.a.: anzitutto, mentre in questi ultimi il titolare del patrimonio separato è artefice della relativa vicenda, che piega alle proprie esigenze, nell’ipotesi dell’art. 32 c.c. l’ente destinatario dell’attribuzione è uno strumento nelle mani del disponente, e persegue uno scopo di quest’ultimo; inoltre, la disciplina degli artt. 2447 bis e ss., c.c., è volta a contemperare essenzialmente gli interessi della s.p.a. e dei creditori[31], mentre nella ricostruzione della fattispecie dei beni con destinazione particolare deve tenersi conto degli interessi (i) dell’ente, che non può subire pregiudizio dall’adempimento dello scopo speciale, (ii) del disponente, il quale ha prescelto la persona giuridica come il soggetto più idoneo a soddisfarli, (iii) dei creditori della persona giuridica stessa, il cui titolo sia connesso all’attività istituzionale del debitore o derivi invece dal fine particolare, (iv) dei beneficiarî i cui diritti siano identificati in base al suddetto fine[32]; infine, la separazione patrimoniale biunivoca è un effetto naturale nella società per azioni (art. 2447 quinquies, 3° comma, primo periodo, c.c.), mentre la fattispecie dell’art. 32 c.c. implica una forma di responsabilità sussidiaria[33], poiché la persona giuridica risponde con il proprio patrimonio qualora i beni con destinazione particolare fossero insufficienti ad adempiere alle obbligazioni contratte per l’attuazione dello scopo speciale. Le differenze evidenziate impediscono allora, in virtù del citato art. 2740, comma 2°, c.c., di far derivare l’effetto separativo nell’autodestinazione dalla norma di cui all’art. 32 c.c. (per evidenti ragioni strutturali), ovvero dalla disciplina dei patrimonî dedicati nella s.p.a. (a causa dello scopo non lucrativo che si vorrebbe perseguire con la suddetta autodestinazione, incompatibile con l’”affare” cui presiedono gli artt. 2447 bis e ss., c.c.).

Se una soluzione fondata sull’applicazione analogica, in via alternativa, delle norme richiamate non appare persuasiva per questi motivi, non convince neanche ai nostri fini un approccio che valorizzi l’integrazione delle medesime, da essa ricavando fonte e regole di un ipotetico patrimonio destinato a scopi non lucrativi dall’ente titolare.

Più precisamente, ritrarre, per identità teleologica, la fonte dell’effetto separativo dalla norma sui beni con destinazione particolare, e ricavare le regole relative alla gestione e responsabilità nell’attuazione dello scopo in base ad un principio di compatibilità della disciplina dei patrimonî dedicati con la natura non profit del titolare, sarebbe il frutto di un’operazione “creatrice” non coerente con il carattere tassativo e speciale delle norme citate. Queste, difatti, si pongono come puntuali strumenti di realizzazione dell’effetto separativo, con ambito di applicazione circoscritto ai dati ricavabili dal diritto positivo.

Anche con riferimento a questa prospettiva possono pertanto obbiettarsi le ragioni che hanno portato ad escludere le precedenti: in tutti i casi si tratta di operazioni di ortopedia giuridica che, seppure suggestive, non possono valere a dare fondamento separativo alla destinazione.

Per ovviare a queste difficoltà non potrebbe, a mio avviso, accogliersi la tesi che svaluta la portata del principio di tipicità dei patrimonî separati, affermando che considerare la relativa disposizione, per la quantità di eccezioni che sono positivamente espresse al suddetto principio, come fonte di un principio di ordine pubblico appare “persino un poco ridicolo”[34]. Se così fosse, nulla osterebbe all’applicazione in via analogica degli artt. 2447 bis e ss. c.c. (o dell’art. 32 c.c., a seconda della disciplina che si presceglie come modello), il che risolverebbe la questione in esame anche in assenza di un coordinamento sistematico con altre disposizioni.

A questa opinione è stato però persuasivamente replicato che le eccezioni con le quali essa giustifica la abrogazione tacita dell’art. 2740, comma 2°, c.c., sono pur sempre di carattere legislativo[35], il che conferma l’attuale presenza di significato della disposizione e, conseguentemente, l’impossibilità di applicare analogicamente, in quanto eccezionali, le norme che prevedono patrimonî separati.

 

4. – Un possibile fondamento normativo della separazione: l’art. 2645 ter c.c.

 

Qualora si volesse ricercare la fonte della separazione nell’autodestinazione di parte del proprio patrimonio a specifici scopi di carattere non lucrativo, dovrebbe allora individuarsi un’apposita previsione di legge che conferisca questo effetto all’atto di autonomia della persona giuridica.

Questa disposizione a mio parere si rinviene nell’art. 2645 ter c.c., di recente approvazione[36], il quale consente di trascrivere gli atti di destinazione diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela ai sensi dell’art. 1322, comma 2°, c.c., a favore di persone con disabilità, pubbliche amministrazioni e altri enti o persone fisiche.

Difatti l’art. 2645 ter c.c. individua talune categorie di soggetti (con particolare riferimento alle categorie “nominate”: persone affette da disabilità e pubbliche amministrazioni) come destinatarî degli effetti positivi dell’atto. Lo scopo per il quale la trascrizione, e la conseguente opponibilità dell’effetto separativo[37], viene consentita dalla norma, è pertanto tipicamente volto a determinare una ricaduta positiva dei beneficî dell’atto sulla collettività[38], sovrapponendosi, seppur parzialmente, alle finalità perseguite dalle persone giuridiche del libro primo del codice civile[39].

La persona giuridica potrebbe perciò destinare parte del proprio patrimonio ad uno scopo anche diverso da quello istituzionale dell’ente, ma comunque di pubblica utilità[40], con regole di gestione poste dall’autonomia privata e funzionali al perseguimento di quel fine.

Si pone allora il problema di individuare le disposizioni applicabili nelle ipotesi non previste dall’atto di destinazione: ciò significa identificare un paradigma normativo cui attingere, e stabilire i parametri in base ai quali selezionare la regola più conferente al caso concreto.

Posto che il limite all’applicazione analogica delle norme sui patrimonî dedicati e dell’art. 32 c.c. attiene esclusivamente alla produzione dell’effetto separativo, tale limite non sussiste per quanto concerne le prescrizioni relative all’amministrazione dei beni e ai relativi vincoli di disponibilità. Ne consegue che i modelli cui fare riferimento per una compiuta disciplina della nuova fattispecie sono appunto gli artt. 2447 bis e ss., c.c., e la norma sui beni con destinazione particolare.

Peraltro non è semplice operare una distinzione tra quanto è coerente all’ipotesi in esame e le regole ad essa non applicabili[41]. In particolare, risulta dubbia la possibilità di trasporre la norma sui limiti quantitativi alla consistenza dei patrimonî dedicati (art. 2447 bis, comma 2°, c.c.); la previsione circa la biunivocità della separazione e quella attinente alla inopponibilità della medesima ai creditori c.d. involontari (art. 2447 quinquies, 3° comma, c.c.); quella che conferisce ai creditori anteriori alla costituzione del patrimonio separato il potere di proporre opposizione (art. 2447 quater, 2° comma, c.c.). Si tratta in sintesi di verificare se le disposizioni elencate siano espressione di regole transtipiche[42], che contribuiscono a definire lo “statuto” della separazione patrimoniale, ovvero restino confinate nell’ambito loro proprio[43].

 

5. – La disciplina dei beni autodestinati. I rapporti tra scopo e patrimonio generali e speciali

 

Il primo compito che a mio avviso si pone all’interprete è la definizione dei rapporti tra scopo generale e scopo speciale: difatti, posto che l’autodestinazione consiste nella distrazione di parte del patrimonio dell’ente per un fine diverso da quello istituzionale, è necessario modificare l’atto costitutivo e sottoporre la variazione patrimoniale e organizzativa, ai sensi dell’art. 2 del d.P.R. n. 361 del 10 febbraio 2000 sulla riforma del procedimento per l’attribuzione della personalità giuridica[44], all’approvazione dell’autorità governativa. Questa verificherà se sussista ancora l’adeguatezza del patrimonio dell’ente rispetto al fine statutario richiesta dall’art. 1, 3° comma, del d.P.R. citato, negando allora il proprio consenso là dove detto fine sia compromesso dal perseguimento dello scopo speciale (anche in relazione al fatto che è improbabile nel caso di specie un’imputazione al patrimonio separato dei relativi costi di gestione[45]).

Nel caso di una positiva valutazione della modifica, la relativa operatività esige due adempimenti: la registrazione contabile del patrimonio separato[46], al fine di rendere costantemente edotti i terzi (essenzialmente, creditori generali e speciali dell’ente titolare) della relativa consistenza[47]; la trascrizione del vincolo di destinazione sui beni immobili e mobili registrati eventualmente devoluti allo scopo speciale, ai sensi dell’art. 2645 ter c.c., anch’essa effettuata a fini pubblicitari, ma con valenza dichiarativa.

Il primo profilo non trova compiuta rispondenza nell’art. 4, comma 1°, del d.P.R. 361/2000 citato, il quale, in ordine al fondo dell’ente non profit, impone la identificazione, che attiene peraltro al mero valore complessivo, del patrimonio generale della persona giuridica a seguito della menzione nell’atto costitutivo iscritto nel registro delle persone giuridiche tenuto presso le prefetture[48]. Dovrebbe perciò estendersi la relativa pubblicità-notizia anche al valore del patrimonio autodestinato dall’ente ad un fine particolare, con il deposito della delibera di modificazione dell’atto costitutivo in cui si indica, oltre a quali e quanti beni ne fanno parte, anche la traduzione in termini monetarî dell’oggetto della separazione.

Quanto invece alla trascrizione della destinazione, e alla conseguente opponibilità del vincolo, va anzitutto chiarito che l’effetto separativo si verifica in relazione ai soli beni immobili e mobili registrati, espressamente menzionati dall’art. 2645 ter c.c., mentre è da escludere che si produca in capo a beni mobili[49].

La questione che però preme risolvere è relativa all’identificazione del momento in cui sorge l’effetto separativo: a mio avviso, la semplice trascrizione ai sensi dall’art. 2645 ter c.c. non è sufficiente, poiché elementi congiuntamente necessarî per la separazione sono, anzitutto, l’iscrizione della delibera modificativa dello statuto nel registro delle persone giuridiche, ai sensi dell’art. 4, comma 2°, del d.P.R. 361/2000, e, successivamente, la suddetta trascrizione.

Non può invece ipotizzarsi il riferimento, come causa preclusiva di questo effetto, ad eventuali opposizioni dei creditorî, previste per i patrimonî dedicati della s.p.a. dall’art. 2447 quater, 2° comma, c.c., in pendenza delle quali l’effetto reale sarebbe sospensivamente condizionato[50]. A seguito dell’approvazione governativa, difatti, qualunque ostacolo preventivo all’efficacia della separazione deve considerarsi rimosso, residuando allora per i creditorî l’azione revocatoria dell’atto di autodestinazione, come ordinario rimedio di tutela della garanzia patrimoniale generica, che mi pare peraltro maggiormente coerente, in assenza di disposizioni specifiche nell’art. 2645 ter c.c., con la regola generale che governa gli atti di autonomia privata.

La necessità di dar conto delle variazioni qualitative e quantitative del patrimonio speciale, in connessione con l’oggetto del vincolo di destinazione, conduce poi a valutare l’ammissibilità, concettuale e operativa, dei collegamenti c.d. intergestori tra il patrimonio destinato alla garanzia generica e quello riservato all’aggressione dei creditori il cui titolo trovi causa nella destinazione[51]. Difatti l’inserimento di nuovi beni o la sottrazione di quelli preesistenti allo scopo sono qualificabili come “acquisti” del patrimonio dall’ente o dell’ente dal patrimonio[52].

È indubbio che debba essere tempestivamente pubblicizzata qualunque variazione nella composizione del patrimonio separato che comporti modifiche all’oggetto del vincolo, con la cancellazione di questo dai pubblici registri per i beni che vengono ritrasferiti nel fondo dell’ente. Ma si pone il problema di tutelare i creditori, il cui titolo sia connesso allo scopo speciale, che hanno confidato su tali beni, considerando che la distrazione dei medesimi potrebbe essere connessa a politiche di riequilibrio patrimoniale dell’esposizione debitoria dell’ente in vista dell’attuazione dello scopo principale[53]. Ora, la responsabilità sussidiaria della persona giuridica[54] pone a mio avviso al riparo da preordinati impoverimenti del patrimonio separato, a danno delle relative classi creditorie; queste peraltro, mentre possono soddisfarsi sui beni in discorso in via esclusiva, in seguito al ritrasferimento nel fondo dell’ente, dovranno subire il concorso dei creditori generali di quest’ultimo.

Il procedimento inverso, che consiste, una volta deliberata la creazione di un patrimonio destinato ad uno scopo speciale, nell’arricchimento successivo della dotazione iniziale con ulteriori cespiti, diminuisce invece la garanzia generica per i creditori generali dell’ente; essi conservano comunque la facoltà di agire per la revocatoria dell’atto di destinazione[55].

Molti e complessi problemi sorgono invece qualora si intenda por fine alla destinazione patrimoniale e far confluire l’intero residuo nel fondo della persona giuridica, ovvero quando si verifichi una causa di estinzione del vincolo[56]. Quest’ultima ipotesi è stata oggetto di studio in relazione ai patrimonî dedicati della s.p.a., con riferimento alla pubblicità dell’estinzione per il raggiungimento dello scopo ovvero per l’impossibilità di conseguirlo[57]. Ai nostri fini possono replicarsi le considerazioni svolte sull’art. 2447 novies c.c., in cui si indicano, tra le questioni non risolte dalla norma,l’eventuale pubblicità del verificarsi di una causa di scioglimento del vincolo e la sussistenza dell’obbligo in capo agli amministratori dell’ente di accertare le cause di estinzione e di astenersi dal compiere operazioni non meramente conservative del patrimonio destinato[58]; mentre va chiarito se possa analogicamente desumersi dalla disposizione citata il dovere da parte degli amministratori di depositare un rendiconto finale.

Per quanto concerne il primo interrogativo avrei serî dubbi ad ammettere che l’ente titolare possa far cessare la destinazione in assenza di cause esterne di estinzione del vincolo. E ciò per quanto esposto in questa sede in ordine alla ratio da assegnarsi all’art. 2645 ter c.c., di alternativa alla costituzione di una fondazione per il perseguimento di scopi di pubblica utilità[59]. L’unica ragione che legittimi detta cessazione, può rinvenirsi in un eventuale conflitto sopravvenuto tra scopo generale e scopo speciale; in ogni caso sarebbe necessaria per l’estinzione un’ulteriore modifica dell’atto costitutivo, essendo insufficiente a questo scopo cancellare la trascrizione del vincolo sui beni del patrimonio[60].

La pubblicità della causa di cessazione del vincolo di destinazione avrebbe come effetto la confluenza dei beni ad esso sottoposti nel fondo dell’ente, quindi l’espansione della garanzia generica per i debiti della persona giuridica.

Va peraltro identificata la forma che deve assumere l’accertamento dell’estinzione, quale sia l’organo deputato a pronunciarlo, se detta pronuncia possa essere oggetto di contestazione da parte dei destinatarî degli effetti dello scopo. A questo proposito, non mi pare possa dubitarsi che l’accertamento debba essere effettuato dagli amministratori dell’ente, tramite delibera del relativo organo; allo stesso modo, ritengo sia dato ai beneficiari dell’attività speciale di agire in giudizio al fine di ottenere l’adempimento dell’obbligazione, sorta da promessa unilaterale (nella forma della promessa al pubblico[61]), in cui consiste la suddetta attività, che si assume estinta per impossibilità sopravvenuta o conseguimento dello scopo.

Quanto ora precisato chiarisce che in capo agli amministratori sussiste un vero e proprio obbligo di accertare e rendere note le cause di estinzione del vincolo, atteso che da queste condotte conseguono riflessi sui rapporti tra patrimonio generale e speciale, in specie la confluenza del secondo nel primo, i quali incidono sui diritti dei creditori di entrambe le masse. Diritti, questi, che, in relazione ai creditori speciali, debbono essere salvaguardati non coinvolgendo il patrimonio separato in operazioni che non siano strettamente funzionali all’attuazione dello scopo statutario dell’ente.

Resta da valutare l’applicabilità in via analogica della norma sui patrimonî dedicati che sancisce l’obbligo di depositare un rendiconto in capo agli amministratori a seguito della cessazione del vincolo (art. 2447 novies c.c.). L’identità di funzione ascrivibile al rendiconto nelle due ipotesi, soprattutto in termini di accertamento della coerenza della gestione con lo scopo cui si è finalizzato il patrimonio, consiglia di ritenere sussistente l’obbligo suddetto, a garanzia della trasparenza di un’attività rivolta a terzi soggetti[62].

Nei rapporti tra patrimonio generale e speciale, non è chiara la sorte di quest’ultimo in caso di estinzione o trasformazione dell’ente[63]. La devoluzione dei beni con destinazione particolare è assegnata dall’art. 32 c.c. all’autorità governativa, che provvede ad attribuirli ad altre persone giuridiche aventi fini analoghi; l’art.. 31 c.c., in assenza di disposizioni statutarie o dell’atto costitutivo, indica la medesima soluzione. La differenza tra le due ipotesi sta nella sopravvivenza dell’onere sancita dall’art. 32 c.c., da cui la realità del vincolo, che si trasferisce difatti al nuovo titolare; questi è obbligato a perseguire lo scopo che il disponente aveva programmato quando ha lasciato o donato i beni all’ente originario. Da qui l’interrogativo: l’autodestinazione sopravvive o meno all’estinzione della persona giuridica, vincolando il nuovo titolare, o questi può, divenuto proprietario del relativo patrimonio, farne un uso conforme al proprio fine istituzionale? Per la seconda ipotesi milita la generalità dell’art. 31 c.c., al quale il successivo art. 32, e la connessa previsione di sopravvivenza dell’onere, debbono considerarsi eccezione, quindi non suscettibili di estensione a differenti fattispecie.

La disposizione generale va però resa coerente con la nuova disciplina del patrimonio separato: l’art. 2645 ter c.c. prevede difatti una durata del vincolo pari alla vita del beneficiario o, se questi è persona giuridica, non superiore a novanta anni; ciò significa che, indipendentemente dalle vicende del disponente, il vincolo si perpetua entro i limiti anzidetti. Se allora il rimedio di cui all’art. 32 c.c. è eccezionale e non riferibile ad ipotesi diverse dal rapporto fiduciario che disciplina, altrettanto non può sostenersi per l’atto di autodestinazione, legittimato dall’art. 2645 ter c.c. Il vincolo di destinazione sopravvivrà allora sui beni devoluti[64], secondo il criterio analogico indicato nell’art. 31 c.c., ad altra persona giuridica per la durata della vita del beneficiario o per novant’anni, se questo sia un ente personificato[65].

 

6 – (segue). Regole di gestione e responsabilità

 

La gestione del patrimonio speciale si differenzia, nei criteri di condotta, dal modello della “fondazione fiduciaria” di cui all’art. 32 c.c., basato essenzialmente sulla disciplina del mandato[66]. Nel caso dell’autodestinazione l’ente, nel perseguimento dello scopo speciale, deve attenersi, in via generale, alle seguenti direttive: a) la derogabilità del modello gestorio sotteso allo scopo statutario, in base alla natura del fine particolare (se, pertanto, il fondo dell’ente è oggetto di amministrazione statica, può impostarsi in senso dinamico il perseguimento dello scopo speciale, qualora tale tipologia di condotta ne consenta una migliore realizzazione[67]); b) la compatibilità dell’atto di gestione del patrimonio speciale con lo scopo generale dell’ente (il che significa l’adozione di un criterio prudenziale nell’intraprendere operazioni rischiose, in quanto, se queste si rivelassero in perdita, dei debiti non soddisfabili con il patrimonio separato risponderebbe il fondo della persona giuridica); la necessaria menzione della finalità per cui l’atto viene compiuto, al fine di rendere edotti i terzi dell’imputabilità del medesimo al patrimonio separato (così per i patrimonî dedicati della s.p.a. l’art. 2447 quinquies, 3° comma, il quale, in caso di inosservanza, prevede l’imputazione del debito al patrimonio generale dell’ente).

Le regole così individuate debbono ritenersi costitutive della separazione, nel senso che, in caso di loro in osservanza, deve presumersi che questa non abbia natura reale, bensì meramente gestionale. Ne consegue la confluenza dello scopo speciale in quello generale, e la responsabilità per i relativi debiti in via immediata[68] con tutti i beni della persona giuridica.

In generale, la responsabilità con i beni autodestinati è riservata alle obbligazioni contratte per il perseguimento dello scopo: i relativi creditori, pertanto, aggrediranno in via esclusiva il patrimonio speciale, mentre questo sarà al riparo dalle ragioni dei creditori generali dell’ente[69]. Questi ultimi, si è detto, vedranno concorrere sul fondo della persona giuridica anche i creditori speciali, se insoddisfatti all’esito dell’escussione dei beni separati[70].

Questo assetto lineare deve confrontarsi con una particolare tipologia di crediti, precisamente quelli relativi alle obbligazioni risarcitorie da illecito extracontrattuale. Per i patrimoni dedicati della s.p.a. è espressamente previsto che la separazione patrimoniale non esima la società dalla responsabilità illimitata per le obbligazioni derivanti da fatto illecito (art. 2447 quinquies, 3° comma, secondo periodo, c.c.). La separazione dei patrimoni dedicati non è cioè opponibile ai creditori involontari, intendendosi con questa espressione, com’è noto, coloro che non hanno potuto scegliere il proprio debitore in quanto il relativo diritto non è connesso ad un precedente rapporto tra le parti.[71]

Ci si può chiedere se le esternalità di una condotta illecita debbano infrangere i confini della separazione anche là dove quest’ultima sia finalizzata ad uno scopo di pubblica utilità: in altre parole, la responsabilità da illecito extracontrattuale deve parimenti sanzionare l’intero “valore” dell’ente, a prescindere dalle relative articolazioni patrimoniali, anche quando non sia connessa al rischio di impresa, ma derivi da un’attività non profit?

Il problema non è di poco momento, atteso che l’applicazione della regola in esame inciderebbe sulla realizzazione dello scopo speciale, chiamando a rispondere di debiti ad esso non riconducibili i beni del patrimonio separato[72] e privando in tal modo i destinatarî dell’attività programmata dei relativi risultati.

Ricostruendo la ratio dell’art. 2447 quinquies, 3° comma, secondo periodo, c.c. come disincentivo al frazionamento “anomalo” del rischio di impresa e alla conseguente traslazione del medesimo sui c.d. creditori involontari[73], manca a mio avviso il fondamento di un’applicazione analogica della norma all’autodestinazione negli enti non profit, strumentale ad uno scopo non lucrativo[74].

Ne consegue che, come la responsabilità sussidiaria per le obbligazioni che residuano all’esito dell’escussione del patrimonio speciale è applicazione di un principio generale dello “statuto” del patrimonio separato[75], così l’opponibilità della separazione anche in caso di diritti risarcitorî di natura extracontrattuale consegue al suddetto “statuto”: le eccezioni che si rinvengono a proposito dei patrimonî dedicati della s.p.a. sono espressione di altrettante regole non transtipiche, le quali si giustificano in virtù della peculiarità del fenomeno che disciplinano.

 

7. – Autodestinazione ed esercizio dell’impresa strumentale allo scopo principale dell’ente

 

Se, come si è cercato di dimostrare, all’ente non profit è consentita l’autodestinazione a scopi coerenti con la propria vocazione statutaria, differente è la conclusione in ordine alla possibilità che la persona giuridica possa esercitare attività di impresa strumentale al fine istituzionale tramite un patrimonio separato[76].

Difatti, per ripercorrere taluni punti fermi qui raggiunti:

a)          per gli enti del libro I del codice civile non è stato predisposto uno strumento che consentisse di evitare la costituzione di una società a responsabilità limitata unipersonale come tecnica di specializzazione della garanzia patrimoniale[77], essendo riservato l’istituto dei patrimonî dedicati alla sola s.p.a.;

b)          contro l’estensione analogica  all’ipotesi in esame milita il consueto argomento della tipicità dei patrimonî separati di cui all’art. 2740, 2° comma, c.c.;

c)          la fonte della separazione non può rinvenirsi nel recente art. 2645 ter c.c., il quale, ad onta dell’enfasi con cui se ne è sottolineata la vocazione generalista, è piuttosto un competitore del negozio di fondazione, in quanto lo scopo di pubblica utilità, tradizionalmente perseguito con lo strumento della fondazione, verrebbe realizzato dal disponente conservando la proprietà dei beni e sottraendosi alle formalità richieste dalla legge per il riconoscimento della persona giuridica.

Questa conclusione non esime peraltro dall’interrogarsi se l’eventuale introduzione di un istituto analogo a quello disciplinato negli artt. 2447 bis e ss., c.c. a vantaggio degli enti non profit sia auspicabile, e quali ricadute positive essa concretamente assicuri. 

Esaminando un possibile modello di riferimento, può valutarsi l’impatto sistematico  della disciplina sui beni con destinazione particolare di cui all’art. 32 c.c., qualora una massa patrimoniale da organizzarsi per l’esercizio dell’impresa sia trasferita per donazione o lascito testamentario ad un ente riconosciuto.

La limitazione di responsabilità che consegue in questa ipotesi alla realità del vincolo è solo parziale, poiché l’ente, in caso di insufficienza della garanzia speciale, dovrà adempiere alle obbligazioni relative all’attività di impresa con il proprio fondo, andando in tal caso soggetto a fallimento, se insolvente[78]. Il presupposto della responsabilità sussidiaria, valevole nel caso di specie, conduce a questa conclusione. Da essa può trarsi un’ulteriore caratteristica del fenomeno, ossia l’ascrizione del medesimo alla categoria dell’affirmative asset partitioning, consistente nella «assegnazione ai creditori dell’impresa di una pretesa sui beni in relazione alle operazioni dell’impresa, la quale gode di preferenza nei confronti delle pretese dei creditori personali dei proprietari dell’attività di impresa»; non vi sarebbe, invece, un defensive asset partitioning, inteso come «forma di preferenza rispetto ai creditori dell’impresa stessa su una serie di beni personali» del proprietario dell’impresa, in quanto creditori dell’ente e creditori dell’impresa connessa al patrimonio separato concorrerebbero in posizione di parità sul patrimonio generale[79].

A ben vedere, allora, la situazione descritta non delinea una forma di esercizio dell’attività di impresa con limitazione della responsabilità, pur sussistendo la separazione patrimoniale, ma esclusivamente un’articolazione della garanzia, per cui la persona giuridica per certe obbligazioni risponde in primis con taluni beni, liquidati i quali se ne può aggredire il restante patrimonio[80].

Sulla base di questi rilievi disciplinari, può comprendersi l’utilità di una regolamentazione compiuta dell’attività di impresa esercitata da un ente non profit in regime, derivante dall’autonomia privata, di separazione patrimoniale, attualmente da escludere in via generale. Una semplice trasposizione in questo settore dei patrimonî dedicati nella s.p.a. incontra però due rilievi che le si oppongono.

Quanto al primo, pare incoerente con la fattispecie dei beni con destinazione particolare prevedere nella nostra ipotesi la responsabilità limitata al solo patrimonio separato per le obbligazioni connesse all’attività di impresa, in quanto la persona giuridica godrebbe, se autodestinasse a questo scopo una parte dei proprî beni, di un regime più favorevole di quanto previsto in caso di attribuzione ad opera di un terzo, che volesse dotare l’ente dei mezzi per conseguire i fini statutarî. Va allora ricercata una identità di regolamentazione nei due casi, a prescindere da quale forma di responsabilità si prescelga.

La seconda osservazione, di carattere più generale, muove dalla ratio della disciplina consegnata agli artt. 2447 bis e ss., per cui la medesima consisterebbe nell’economia di mezzi realizzata con l’evitare di costituire società controllate per lo svolgimento di attività di impresa[81].

Ora, è evidente che l’autodestinazione a scopo di impresa negli enti non profit si discosta, in punto di giustificazione sistematica, da quanto rilevato in tema di patrimonî dedicati della s.p.a., poiché non sussiste l’esigenza di frazionare il rischio di impresa, bensì di contenere il medesimo nei limiti del patrimonio a ciò destinato, quindi, e la constatazione appare ovvia, di realizzare l’assetto di interessi formalizzato piuttosto nella stessa società di capitali, che nei patrimonî dedicati.

Da ciò dovrebbe conseguire una diversa regolamentazione della fattispecie, che tenga conto degli interessi: i) dell’ente, ad esercitare l’impresa in regime di responsabilità limitata, ii) dei beneficiarî, a non veder distratto il fondo dell’ente dallo scopo statutario, iii) dei creditori, a conservare la garanzia generica per i debiti della persona giuridica.

In prima approssimazione, nel proporre taluni tratti di un possibile modello, ritengo si debba adottare la regola della separazione biunivoca: essa, oltre a rappresentare un vantaggio per l’ente, incontra il favore dei relativi creditori, che eviteranno di concorrere sull’intero fondo con i creditori speciali[82], e dei beneficiari dello scopo non profit, i quali, anche in caso di dissesto dell’impresa, potranno far conto sulle capacità dell’ente di operare con il patrimonio residuo[83].

Questa regola va peraltro coordinata con una limitazione quantitativa cogente dei beni destinati, che dovrebbe essere determinata, al di là di soglie precostituite, tenendo conto sia dell’entità del fondo dell’ente, sia della necessità di predisporre una dotazione  idonea all’esercizio di attività economiche e sufficiente all’adempimento delle relative obbligazioni. Con questa precisazione, e visto il rapporto di strumentalità dell’impresa rispetto al fine statutario, è da escludere qualunque diritto di opposizione preventiva da parte dei creditori della persona giuridica, in quanto pare difficilmente configurabile la sottrazione fraudolenta a loro danno di beni da destinare ad un’attività ausiliaria[84]. Allo stesso modo, l’autodestinazione dovrebbe sorgere esclusivamente tramite delibera del relativo organo di amministrazione (in ciò replicandosi quanto previsto dall’art. 2447 ter, 2° comma, c.c.)[85], da iscriversi nel registro delle imprese[86].

La strumentalità dell’impresa allo scopo generale va infine resa coerente con l’ipotesi di estinzione della persona giuridica: il relativo procedimento dovrà allora comprendere la liquidazione dei beni aziendali, all’esito della quale l’eventuale residuo sarà devoluto ai sensi dell’art. 31 c.c., in conformità delle disposizioni dello statuto o dell’atto costitutivo oppure, in assenza di queste, dall’autorità governativa ad altri enti che perseguono fini analoghi. Non è difatti sostenibile la permanenza di un vincolo di destinazione, che nel caso di specie è sorto come modalità di perseguimento del fine principale dell’ente: il patrimonio speciale residuo seguirà allora la medesima sorte del patrimonio generale[87].

 

8. – I patrimoni dedicati a scopi non lucrativi nella s.p.a.: un competitore degli enti non profit?

 

Un problema per certi versi speculare rispetto a quanto osservato nel paragrafo precedente concerne l’esercizio di attività non profit da parte di società di capitali, sul quale intendo soffermarmi, peraltro in via sommaria e parziale, allo scopo di delineare l’impatto che la riforma del diritto societario ha prodotto anche in questo settore.

Anzitutto una precisazione: qui si vuole far riferimento all’attività non lucrativa condotta da imprese societarie che perseguono fini di lucro, per le quali la suddetta attività è allora esclusivamente accessoria rispetto a questi fini. Non si vuole, in altre parole, coinvolgere nell’analisi le “società” senza scopo di lucro[88], mentre sarà oggetto di considerazione, per i profili che qui interessano, il fenomeno dell’impresa sociale[89].

L’interrogativo che qui intendo affrontare attiene, più precisamente, alla configurabilità del non profit in regime di separazione patrimoniale, posto in essere, per motivazioni di carattere fiscale, o filantropico, o anche meramente promozionale dell’attività statutaria[90], da società lucrative[91].

Non dubiterei della possibilità di utilizzare a questo scopo l’art. 2645 ter c.c., e pertanto di individuare parte dei beni immobili e mobili registrati che costituiscono il patrimonio della società per destinarli a finalità ideali. Mi sembra però necessario puntualizzare taluni aspetti problematici: anzitutto, va chiarito se debba applicarsi in questa ipotesi la regola che consente ai creditori della s.p.a. di opporsi alla costituzione del patrimonio separato, atteso che appare incongruo prevedere questo potere nel caso di destinazione ad uno specifico affare e precluderlo invece quando la diminuzione della garanzia generica conseguente alla separazione sia connessa con uno scopo non lucrativo. In entrambi i casi si pone a mio avviso l’esigenza di tutelare i creditori e, diversamente da quanto osservato in precedenza per il ricorso all’art. 2645 ter c.c. ad opera di enti non profit, nel caso di specie l’opposizione dei creditori è una regola che trova giustificazione nell’ambito del tipo “società per azioni” e dovrebbe pertanto applicarsi a tutte le ipotesi di separazione patrimoniale che vedono la s.p.a. protagonista.

Altro problema da affrontare è relativo alla necessità di rendere coerente l’oggetto sociale con il nuovo scopo, per cui pare necessario, per aversi l’efficacia separativa dell’atto di destinazione, che si proceda alla modifica dello statuto in tal senso, cui seguirà la delibera del consiglio di amministrazione che procede ad individuare i beni e lo scopo cui debbono essere finalizzati e la trascrizione della medesima[92]. Può discutersi se l’iscrizione nel registro delle imprese costituisca o meno in questa ipotesi un coelemento necessario della fattispecie separativa, atteso che essa è dovuta unicamente in base al disposto dell’art. 2436 c.c. che impone l’iscrizione delle modificazioni dello statuto e risulta funzionale all’opponibilità non della separazione, cui presiede la trascrizione, ma esclusivamente dell’ampliamento dell’oggetto sociale. La problematicità del quesito, che attiene all’esatta individuazione del momento in cui si perfezionerebbe l’effetto separativo, si stempera a mio avviso in base al rilievo, eminentemente pratico, che gli adempimenti connessi a trascrizione e iscrizione verranno curati pressoché simultaneamente dal notaio rogante.

In base alla logica che vede la destinazione in oggetto connessa ad una modifica statutaria, deve riconoscersi poi il diritto di recesso, ai sensi dell’art. 2437, comma 1, l. a), c.c., se la relativa delibera implica un cambiamento significativo dell’attività della società. Si può comunque ipotizzare che, nella prevalenza dei casi, la separazione a scopi ideali sia accessoria al fine lucrativo, nel senso di potenziare l’incremento dei profitti tramite la promozione dell’immagine sociale. L’eventuale incidenza negativa della separazione sulla compagine sociale sembra allora in via generale da escludersi.

Un’ipotesi concreta di separazione a scopi non lucrativi è stata prospettata, nel settore dell’impresa sociale, riguardo alla creazione di un patrimonio a ciò destinato nella forma dei patrimonî dedicati della s.p.a.[93]. La riflessione in esame prende spunto dal divieto che l’art. 4, 3° comma, del D. Lgs. 24 marzo 2006 n. 155 (Disciplina dell’impresa sociale) pone, per le imprese private con finalità lucrative, di detenere il controllo di un’impresa sociale: si sostiene difatti che, con il ricorso agli artt. 2447 bis ss., c.c., queste imprese potrebbero superare tale divieto e ottenere in tal modo il controllo in  questione. Ciò che consente la costituzione del patrimonio dedicato è l’ampiezza del concetto di “affare”[94] di cui all’articolo 2447 ter, lettera a) c.c., tale da ricomprendere qualsivoglia attività di impresa, anche se connotata dalla non lucratività e, conseguentemente, dal divieto di distribuzione degli utili conseguiti. In particolare, non potrebbe sostenersi che in relazione all’esercizio di un’impresa sociale, poiché gli utili dell’impresa sono destinati a scopi ideali, il termine “affare” sia incongruo; difatti ciò che conta per la qualificazione in questi termini è l’attitudine dell’attività alla produzione di utili, non la destinazione dei medesimi[95]. Neanche potrebbe dirsi che, essendo i patrimonî dedicati un’alternativa alla costituzione di una nuova società, l’oggetto dell’affare deve necessariamente essere lucrativo. Infatti, l’art. 1 del D. Lgs. 155/2006 prevede espressamente che l’impresa sociale possa essere esercitata da «tutte le organizzazioni private, ivi compresi gli enti di cui al libro V del codice civile, che esercitano in via stabile e principale un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o servizi di utilità sociale, diretta a realizzare finalità di interesse generale», con ciò sottolineandosi ulteriormente la neutralità dello strumento societario rispetto allo scopo per suo tramite perseguito. Atteso allora che non sussistono ostacoli interpretativi all’applicazione, anche all’impresa sociale “societaria”, della disciplina sui patrimonî dedicati, deve peraltro verificarsi se in tal modo non si realizzi una frode alla legge nel rapporto tra la norma di cui all’art. 4, 3° comma, del D. Lgs. 155/2006 e lo strumento separativo che realizzi un risultato (il controllo di un’impresa sociale da parte di un’organizzazione lucrativa) analogo a quello vietato. Mi pare, difatti, che non vi sia spazio per l’istituto in esame se si intende correttamente la ratio del divieto in questione, che è quella di sottrarre l’impresa sociale a possibili impieghi suscettibili di snaturarne l’essenza non lucrativa, in dipendenza da un soggetto che persegue istituzionalmente la redistribuzione degli utili.

Anche sotto questo aspetto, allora, trova conferma il riconoscimento da parte del legislatore della capacità degli enti lucrativi di gestire secondo criterî di efficienza scopi ideali, con il conseguente incremento degli incentivi (di carattere fiscale[96] o derivanti dall’opponibilità del vincolo di destinazione) volti ad ulteriormente favorire il perseguimento delle suddette finalità[97].

 

9. – Conclusione e linee guida per una riforma

 

Nel proporre una riflessione finale, ritengo opportuno formulare una constatazione e due conclusioni.

La constatazione, che potrebbe apparire a prima vista singolare rispetto ai risultati cui si è cercato di pervenire, concerne l’assenza nel settore non profit di uno strumento paragonabile ai patrimonî dedicati della s.p.a. che, per compiutezza di disciplina e per nettezza di scelte di fondo nel contemperamento degli interessi dei soggetti coinvolti, possa costituire un’efficace alternativa alla personificazione.

Mi pare che i motivi di insoddisfazione attengano non tanto alla possibilità di attivare la separazione e la conseguente responsabilità limitata, che potrebbero attualmente desumersi dal sistema, quanto alla ricostruzione dei profili operativi che fondano l’effettiva capacità dell’autodestinazione a scopi ideali di imporsi nella prassi e di confrontarsi con le molteplici difficoltà che questa presenta.

Le conclusioni, che si giustificano in base a tali premesse, muovono l’una dal dato normativo esistente, l’altra dall’opportunità di regolare ex novo determinati aspetti del problema in esame.

La prima  sorge dalla considerazione dei recenti tentativi di rivisitare il concetto di Rechtssubjekt tramite l’elemento destinatorio[98], il che, lungi dal riproporre note teorie in tema di soggettività[99], è finalizzato alla costruzione di una personalità della fondazione tramite l’emancipazione dello scopo dalla volontà del fondatore[100]. Percorrere questa via significa fondare l’applicazione delle norme sulla fondazione riconosciuta al patrimonio autodestinato in via diretta e non analogica, completando in tal modo la regolamentazione del medesimo sotto il profilo amministrativo e gestionale (si pensi alle disposizioni in tema di controlli, coordinamento e trasformazione delle fondazioni di cui agli artt. 25, 26 e 28 c.c.). Quanto segnalato in precedenza, circa il differente contenuto disciplinare che distinguerebbe la fondazione personificata da quella dipendente, va perciò corretto in base a ciò, che le regole sono le medesime per le due figure, salva la non applicabilità delle norme che presuppongono una struttura organizzativa autonoma[101].

La seconda conclusione, attesi i limiti segnalati alle possibilità ricostruttive dell’interprete, si inserisce necessariamente in una prospettiva de iure condendo di disciplina dell’autodestinazione nel settore non profit: tra le materie oggetto di un possibile intervento del legislatore, segnalo, anzitutto, la previsione della separazione patrimoniale perfetta, così da eliminare l’asimmetria con la regola dei patrimonî dedicati della s.p.a.; inoltre, la correlazione della responsabilità limitata alla nomina di amministratori con requisiti di competenza specifica ed indipendenza rispetto all’organo gestorio dell’ente titolare; infine, la predisposizione di strumenti ad efficacia preventiva di tutela dei creditori contrari alla costituzione del patrimonio separato. Il paradigma fornito dagli artt. 2447 bis e ss. sarà allora in grado di contribuire efficacemente alla costruzione, in via sistematica, di una figura unitaria di patrimonio separato delle persone giuridiche che prescinda dalle caratteristiche dello scopo perseguito.

 

 



 

* In A. Zoppini-M. Maltoni (a cura di), La nuova disciplina delle associazioni e delle fondazioni. Riforma del diritto societario ed enti non profit, Padova, 2007, 231 ss.

 

[1] Con ciò completando un processo il cui primo momento può individuarsi senz’altro nel recepimento della XII Direttiva di armonizzazione del diritto delle società (89/667 CEE) sulla s.r.l. unipersonale, e che ha come ulteriore punto di approdo la previsione relativa alla s.p.a. ab origine unipersonale di cui all’art. 2362 c.c. riformato; l’alternativa cui si fa riferimento nel testo è delineata da C. Ibba, La s.r.l. unipersonale tra alterità soggettiva e separazione patrimoniale, in Riv. dir. civ., 1997, II, 541 ss. Cfr. inoltre P. Spada, Persona giuridica e articolazioni del patrimonio: spunti legislativi recenti per un antico dibattito, in Riv. dir. civ., 2002, I, 837 ss. spec. 842 ss., ove si prende atto della equivalenza funzionale tra personalità giuridica e articolazione del patrimonio in compendi separati, specificando che, nella prospettiva della responsabilità patrimoniale, il ricorso al linguaggio della persona giuridica, in assenza di difformi indicazioni di diritto positivo, presenta una valenza precettiva che si radica nella autonomia compiuta, mentre al linguaggio “sommesso” della articolazione patrimoniale corrisponde, in via residuale, l’autonomia incompiuta.

 

[2] Così A. Zoppini, Autonomia e separazione, nella prospettiva dei patrimoni separati della società per azioni, in Riv. dir. civ., 2002, I, 545 ss., 548.

 

[3] Tuttavia, l’applicazione analogica della norme dettate per la s.p.a. al fine di colmare le lacune normative riscontrabili nella disciplina della s.r.l. non è da escludere in via generale, sempre che si tratti di norme che rinvengano la propria giustificazione in elementi estranei al modello sotteso alla disciplina complessiva della s.r.l. (come non hanno mancato di sottolineare i primi commentatori della riforma; cfr. per tutti G. Zanarone, Introduzione alla nuova società a responsabilità limitata, in Riv. soc., 2003, 58 ss., spec. 81 ss., il quale peraltro, a pg. 100, mette in guardia, circa il ricorso all’analogia, dal possibile effetto di «riprodurre proprio quell’incertezza che si voleva evitare e di far rientrare dalla finestra proprio quella imitazione della s.p.a. che i lavori preparatori della legge delega imputano a difetto dell’abrogato regime della s.r.l.»). Nel caso dei patrimonî destinati ad uno specifico affare la preclusione all’estensione, mi sembra, deriva non da un problema di connotatività tipologica delle relative disposizioni, quanto dal numerus clausus delle ipotesi di separazione patrimoniale. A conferma di ciò, basti citare l’opinione in cui si nega che l’esclusività di una data disciplina rispetto al tipo sia costitutiva del regolamento del medesimo; così G. De Nova, Il tipo contrattuale, cit., 50 ss., spec. 54.

 

[4] Sottolinea il parallelismo tra l’art. 32 c.c. e i patrimonî dedicati della s.p.a. A. Zoppini, Autonomia e separazione, nella prospettiva dei patrimoni separati della società per azioni, cit., 560.

 

[5] Ho cercato di dare dimostrazione di questo assunto in L. Nonne, Note in tema di patrimoni destinati ad uno scopo non lucrativo, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2003, 1299 ss. (spec. 1311, testo e nota 42, e bibliografia ivi citata).

 

[6] Da G. Bonelli, Di una nuova teorica della personalità giuridica, in Rivista italiana per le scienze giuridiche, 1890, vol. IX, fasc. III, 330, affermando che «Obbietto del rapporto è sempre un elemento patrimoniale, elemento che può trovarsi o al di fuori del patrimonio del disponente, e in tal caso la distinzione tra subbietto e obbietto è netta e patente, o nel patrimonio medesimo, ed allora il rapporto ha significato di separazione patrimoniale nulla meno e nulla più: il patrimonio separa da se stesso una sua parte; subjetto: il patrimonio; obietto: una sua parte» (corsivi nel testo). La posizione del Bonelli, che nasce dalla critica a G. Giorgi, La dottrina delle persone giuridiche o corpi morali, Firenze, 1889, 27 s. («l’uomo essendo il solo essere capace di doveri è perciò il solo soggetto possibile di diritti», corsivi nel testo), è indicativa del dibattito che all’epoca anche in Italia opponeva sostenitori e detrattori della teoria del patrimonio senza subbietto, e vedi infra nota successiva.

 

[7] Il cui principale fautore è, come noto, A. Brinz, Lehrbuch des Pandektenrechts, I2, Erlangen, 1873, 201 ss. e III2, parte II, Erlangen, 1888, 453 ss. In Francia la teoria in esame è stata presentata in forma attenuata nella thèse di H. Gazin, Essai critique sur la notion de patrimoine dans la doctrine classique, Dijon, 1910, spec. 371 ss., che organizza la nozione di patrimonio intorno ai concetti di scopo e di persona, per cui è possibile che un soggetto possa avere più patrimonî che si differenzino in base alla varietà di destinazione, ma perché ciò avvenga è necessario, anzitutto, che vi sia uno scopo nuovo tale da aggregare intorno a sé i valori positivi o negativi che concorrono alla sua realizzazione (op. cit., 371), poi che lo scopo suddetto presenti un carattere positivo, nel senso che non deve essere accessorio ad un altro fine del quale facilita il perseguimento (op. cit., 373). In tal modo, la massa dei beni così caratterizzata fungerà da centro di imputazione dei debiti e assumerà caratteri autonomi. Per una critica di questa proposta cfr. S. Guinchard, L’affectation des biens en droit privé français, Paris, 1976, 335.

 

[8] Così la Dissertation, di taglio comparatistico, di F. Gamboni, La Fondation, Losanna, 1907, 18, con vivace, e condivisibile, critica all’opinione formulata dall’autore italiano.

 

[9] Per delimitare l’ambito di questa indagine va peraltro chiarita la distinzione tra unselbständige Stiftung e Zustiftung, intesa come «Vermögenszuwendung, durch die das Grundstockvermögen der Stiftung erhölt werden soll», ossia come strumento per incrementare il fondo della Hauptstiftung, la quale distinzione si fonda sul fatto che, nella Zustiftung, lo scopo della destinazione deve corrispondere allo scopo della fondazione incorporante in ragione della sua funzione promozionale del medesimo, mentre nella unselbständige Stiftung è senza importanza il fatto che lo scopo sia identico a quello della Hauptstiftung o ne differisca, poiché non è intenzione del fondatore di promuovere quest’ultimo. Una sintesi ragionata in R. Herzog, Die unselbständige Stiftung des bürgerlichen Rechts, Baden-Baden, 2006, 32.

 

[10] Cfr. L. Nonne, Note in tema di patrimoni destinati ad uno scopo non lucrativo, cit., 1299, nota 2.

 

[11] Il punto è evidenziato da H. Hauger, Die unselbständige Stiftung, Heidelberg, 1929, 8 s. R. Herzog, Die unselbständige Stiftung des bürgerlichen Rechts, cit., 24 s., inserisce tra i Begriffsmerkmale der unselbständige Stiftung, oltre all’assenza di una propria capacità giuridica, allo scopo e al patrimonio, anche la Stiftungsorganisation, come necessario legame tra Stiftungszweck e Stiftungsvermögen della fondazione dipendente. In questa prospettiva si v. anche P. Rawert, Der Stiftungsbegriff und seine Merkmale – Stiftungszweck, Stiftungsvermögen, Stiftungsorganisation-, in K. Hopt/D. Reuter (Hrsg.), Stiftungerecht in Europa, Köln, 2001, 109 ss., spec. 128 s., in ordine al problema della sussistenza di elementi corporativi nella fondazione.

 

[12] Che questa valutazione si differenzi dalla staatliche Genehmigung, nel nostro caso senza significato (lo constata H. Hauger, Die unselbständige Stiftung, 69), è fuor di dubbio, ma il requisito formale cede in questa riflessione alla equipollenza sostanziale tra approvazione dello scopo per la fondazione riconosciuta e approvazione della modifica statutaria per la destinazione del patrimonio speciale. Si veda L. Nonne, Note in tema di patrimoni destinati ad uno scopo non lucrativo, cit., 1302. A conferma di ciò si v. H. Kötz, Trust und Treuhand, Göttingen, 1963, 117 ss., il quale, nel trattare della distinzione tra fondazione e charitable trust, astrattamente basata sull’assenza nel secondo caso di una staatliche Genehmigung, evidenzia come anche in Common Law sia presente un controllo relativo alla corrispondenza della destinazione patrimoniale al pubblico interesse, che si attua nella dichiarazione di nullità del trust qualora lo scopo programmato con la destinazione non sia charitable ( 117).

 

[13] La giurisprudenza italiana difatti si è occupata esclusivamente della fondazione non riconosciuta, istituto concettualmente più ampio della fondazione dipendente (ma vedi per un’equiparazione S. Koos, Fiduziarische Person und Widmung. Das stiftungsspezifische Rechtsgeschäft und die Personifikation treuhänderisch geprägter Stiftungen, München, 2004, 55) atteso che comprende anche la fondazione in attesa di riconoscimento, alla quale si è propensi ad attribuire soggettività giuridica: cfr. la sintesi di F. Di Ciommo, Sulle fondazioni non riconosciute, in Foro it., 1999, I, c. 347 ss. (nota a Trib. Napoli, ord., 26 giugno 1998).

 

[14] Ampia rassegna di Fallgruppen, seppur risalente, in P. Bächstädt, Die unselbständige Stiftung des Privatrechts, Göttingen, 1966, 7 ss., che si occupa poi nel dettaglio della Abgrenzung von anderen Stiftungen alle pgg. 149 ss.

 

[15] Per cui «Grundlage des privaten Rechts der unselbständige Stiftung sind daher bis heute die schuld – und erbrechtlichen Bestimmungen des BGB»; così R. Herzog, Die unselbständige Stiftung des bürgerlichen Rechts, cit., 16. La destinazione di un patrimonio per uno scopo speciale è espressamente individuata come fondazione dall’art. 80 del ZGB svizzero, a tenore del quale «Zur Errichtung einer Stiftung bedarf es der Widmung eines Vermögen für einen besonderen Zweck».; cfr. sul significato sistematico della norma il commento di H. Grüninger, Vor Art. 80-89bis, in H. Honsell-N.P. Vogt-T. Geiser (Hrsg.), Basler Kommentar zum Schweizerischen Privatrecht. Zivilgesetzbuch I. Art. 1-456 ZGB, 2. Auflage, Basel-Genf-München, 2002, 507 ss., spec. 525 ss., (con un riferimento, essenzialmente descrittivo, alle unselbständigen Stiftungen a pg. 529). Ciò comunque non depone per un riconoscimento legislativo del concetto: cfr. P. Vez, La fondation: lacunes et droit desirables, Berne, 2004, 13, testo e nota 81, la quale rileva inoltre che solo la legislazione del Liechtenstein menziona espressamente la fondazione dipendente (art. 552, 2° comma, PGR), sottoponendola peraltro non al diritto delle fondazioni, ma alle regole applicabili alle donazioni, successioni e rapporti taciti di fiducia. Vedi inoltre infra nota 19.

 

[16] Sull’insufficienza delle quali si veda P. Bächstädt, Die unselbständige Stiftung des Privatrechts, 115 ss.

 

[17] In tal senso R. Herzog, op. cit., loc. ult. cit.; N. L. Beckmann, Die unselbständige, nichtrechtsfähige Stiftung, in R. Graf Strachwitz - F. Mercker (Hrsg.), Stiftungen in Teorie, Recht und Praxis, Berlin, 2005, 220 ss., 222. Pone il problema in un’ottica dubitativa H. Hauger, Die unselbständige Stiftung, cit., 67 ss. Per una indicazione dello stato di dottrina e giurisprudenza contraria all’applicazione analogica delle disposizioni suddette (ad oggi, pare, superata) si veda H. Kronke, Stiftungtypus und Unternehmensträgerstiftung, Tübingen, 1988, 97.

Sull’equiparazione tra fondazione riconosciuta e dipendente si basa il modello di K. Schmidt, Ersatzformen der Stiftung - Unselbständige Stiftung, Treuhand und Stiftungskörperschaft, in K. Hopt/D. Reuter (Hrsg.), Stiftungerecht in Europa, cit., 175 ss., il quale descrive la unselbständige Stiftung come una «virtuelle juristiche Person» (178), il cui titolare è concepito come «Als-ob-Organ» di una «Als-ob-Stiftung» ( 194). Tale modello non è peraltro esente da critiche, per una sintesi delle quali cfr. N. L. Beckmann, Die unselbständige, nichtrechtsfähige Stiftung, cit., 223.

Opera una connessione tra Stiftung ohne Rechtspersönlichkeit e BGB-Stiftung basata sul comune elemento destinatorio (Widmung) S. Koos, op. cit., 356.

 

[18] Ciò a causa dei limiti posti dall’ordinamento alla sostituzione negli atti di ultima volontà e nelle donazioni, con le norme in tema di sostituzione fedecommissaria (art. 692 c.c.) e di usufrutto successivo (art. 698 c.c.), che contrasterebbero con la supposta vocazione perpetua (o tendenzialmente tale) dell’attività dell’ente fondazionale, insuscettibile di essere sottoposta a restrizioni temporali. È il noto insegnamento di P. Rescigno, del quale si veda sul punto Fondazione e impresa, in Riv. soc., 1967, 819 s., testo e nota 7, e la voce Fondazione (dir. civ.), in Enc. dir., XVII, Milano, 1968, 804 ss.

 

[19] P. Rescigno, Le fondazioni. Prospettive di riforma, in Id. (a cura di), Le fondazioni in Italia e all’estero, Padova, 1989, 467 ss., 475. Anche in sede di progetti di riforma dello ZGB la Commissione di esperti ha espressamente rifiutato di formulare una definizione legislativa di fondazione dipendente; cfr. P. Vez, La fondation: lacunes et droit desirables, 13, testo e nota 83, mentre il Progetto di riforma può consultarsi alle 335 ss.

 

[20] Il testo della legge è pubblicato in Recueil Dalloz Sirey - Legislation, 1990, 293 ss. Per un primo commento si veda C. Debbasch, Le nouveau statut des fondations: Fondations d’entreprise et fondations classiques, in Recueil Dalloz Sirey, Chron. Leg. XLVII, 1990, 269 ss.

 

[21] Che il legislatore francese abbia utilizzato la denominazione “fondation” presumibilmente allo scopo di rendere applicabile al nuovo istituto le norme generali sulla fondazione è conclusione affatto plausibile, tenendo conto del fatto che la dottrina aveva ben presente il concetto di “fondazione” realizzata tramite l’attribuzione ad un ente preesistente, e sul punto vedi S. Guinchard, L’affectation des biens en droit privé français, cit., 121 s., il quale sottolinea la distinzione tra beni attribuiti ad una persona giuridica per uno scopo rientrante nel fine statutario, e patrimonio trasferito per un fine diverso, specie in ordine alla determinazione dei beneficiari (122) (distinzione che non è invece prospettabile in relazione all’art. 32 c.c. italiano).

Una riflessione sistematica sull’argomento in A. Zoppini, Considerazioni sulla fondazione d’impresa e sulla fondazione fiduciaria regolate da una recente legge francese, in Riv. dir. civ., 1991, I, 573 ss., alle 580 ss., in ordine allo stretto raccordo tra fondazione e fiducia in taluni ordinamenti (spec. 581, testo e nota 29). Difatti la comparazione offre a questo proposito taluni significativi esempi, come il Code Civil du Quebec del 1994, il quale, agli artt. 1256-1370, dedica una minuziosa regolamentazione a certaines patrimoines d’affectation; in particolare la fondazione dipendente è menzionata nell’art. 1257, comma 1°, in cui si precisa che «Les biens de la fondation constituent soit un patrimoine autonome et distinct de celui du disposant et de toute autre persone, soit le patrimoine d’une personne morale», sottoponendo espressamente la prima tipologia di fondazioni alle disposizioni relative alla fiducie d’utilité sociale. All’art. 1268 è invece disciplinata la fiducie d’utilité privée, nella cui nozione rientra anche «l’utilisation d’un bien affecté à un usage determiné». Cfr. sul punto M. Cantin Cumyn, La fiducie en droit québécois, dans une perspective nordamericane, in J. Herbots-D. Philippe, Le trust et la fiducie. Implications pratiques, Bruxelles, 1997, 71 ss., spec. 75 s., in cui l’autore precisa peraltro come si sia rifiutata una concezione della fiducie come personne morale, ciò che avrebbe comportato una indebita assimilazione dell’istituto alla corporation o alla compagnie (societé par actions) rischiando di compromettere gli obbiettivi della riforma, per perseguire invece una soluzione originale e strutturare la fiducie come patrimoine d’affectation.

 

[22] Così C. Reymond, Essai sur la nature et les limites de l’acte fiduciarie, Montreux, 1948, 92, nell’ampia dissertazione comparatistica che dedica alle institutions voisine de la fiducie. La non necessaria correlazione tra fiducie e attribuzione di beni per uno scopo ad una persona giuridica esistente, oltre al fatto che il termine fondation, con cui talvolta si designa la suddetta attribuzione, è utilizzato in senso ampio, in quanto «ce service nouveau ainsi créé n’a aucune existence juridique autonome», è evidenziata da C. Witz, La fiducie en droit privé français, Paris, 1981, 80 ss., spec. 81, testo e nota 1.

 

[23] Di questo avviso A. Zoppini, op. ult. cit., 581, a conferma dell’opinione di Y. Streiff, La loi du 4 juillet 1990 créant les fondations d’entreprise et modifiant les dispositions sur le Mécénat, in Bulletin Joly, 1990, 835 ss., alle pgg. 836 s.

 

[24] Conclude per la qualificazione della unselbständige Stiftung come Rechtsverhältnis R. Herzog, Die unselbständige Stiftung des bürgerlichen Rechts, cit., 137. Alla medesima conclusione giunge, nell’ambito di una comparazione strutturale tra fondazione dipendente e trust S. Koos, op. cit., 29, ponendo in evidenza come, a differenza del trust che sorge da un negozio giuridico del solo settlor, la unselbständige Stiftung sia riconducibile ad un rapporto contrattuale tra fondatore (Stifter) e titolare del patrimonio (com’è, tipicamente, lo Stiftungsträger).

Sotto il profilo dei rapporti con il trust conserva sicuro valore lo studio di H. Kötz, Trust und Treuhand, cit., 114 ss., in cui si precisa che «bei den unselbständigen Stiftungen ist Rechtsträger des Zweckvermögens nicht eine eigens für diesen Zweck geschaffene juristische Person, sondern derjenige, dem das Zweckvermögen zu treuen Händen zugewandt worden ist» (116).

 

[25] E vedi per un positivo riconoscimento di questa struttura l’art. 1260 del Code Civil du Quebec; cfr. inoltre C. Witz, La fiducie en droit privé français, cit., 238 ss., spec. 241, sulla sostanziale omogeneità dello sviluppo del trasferimento fiduciario in Francia e Germania, al di là della differenza di efficacia del consenso nell’ordinamento francese, immediatamente traslativo della proprietà, e nell’ordinamento tedesco, in cui deve necessariamente accompagnarsi alla consegna (Übergabe) per i beni mobili o all’iscrizione nei libri fondiarî (Auflassung) richiesta dal § 873 del BGB.

 

[26] Pur se da taluno si è ritenuto concettualmente ammissibile il c.d. rapporto unisoggettivo, si pone comunque il problema di identificare se ad esso siano applicabili istituti e norme che presuppongono la plurisoggettività; per questa impostazione cfr. S. Pugliatti, Il rapporto giuridico unisoggettivo, in Diritto civile. Metodo-Teoria-Pratica, Milano, 1951, 394 ss. Può essere interessante notare come la tesi di Pugliatti abbia costituito un proficuo termine di confronto, in quanto analoga vicenda concettuale, per la teoria dei diritti senza soggetto nella riflessione di R. Orestano, Diritti soggettivi e diritti senza soggetto, in Jus, 1960, 149 ss., spec. 195 s.

 

[27] Replicando a questo proposito l’impostazione di F. D’Alessandro, Persone giuridiche e analisi del linguaggio, in Studi in memoria di Tullio Ascarelli, vol. I, Milano, 1969, 243 ss., spec. 282 ss., per i nomi di persone giuridiche come “simboli incompleti”. Tale riflessione è stata poi sviluppata da F. Galgano, Struttura logica e contenuto normativo del concetto di persona giuridica, in Riv. dir. civ., 1965, I, 553 ss., spec. 567, ove si sottolinea il collegamento tra il concetto di persona giuridica e la disciplina di rapporti intercorrenti tra persone fisiche. Questo modo di prospettare l’ente personificato induce a qualificare allora l’atto di autodestinazione come una disciplina speciale dei rapporti tra persone fisiche relativa ad una certa porzione del patrimonio della persona giuridica titolare.

 

[28] Nelle riflessioni finali si vedrà come tale risultato preliminare subisce modifiche nel portato applicativo; cfr. infra par. 9.

 

[29] Tipicamente quelle relative alla donazione modale, e si veda sulla Schenkung unter Auflage come momento genetico della fondazione dipendente le riflessioni di R. Herzog, Die unselbständige Stiftung des bürgerlichen Rechts, cit., 46.

 

[30] Più complesso mi pare invece riproporre in questa sede quanto è stato teorizzato per l’associazione non riconosciuta, ossia l’applicazione, diretta o analogica, delle norme sulla associazione riconosciuta (e vedi per la ricostruzione del dibattuto sul punto A. Fusaro, L’associazione non riconosciuta. Modelli normativi ed esperienze atipiche, Padova, 1991, 100 ss.; cfr. inoltre 259 ss., spec. 262 ss., per un’impostazione metodologica favorevole all’argomentazione per principî generali al fine del reperimento delle regole applicabili); difatti nel caso che ci occupa, a rendere problematica l’applicazione della disciplina della fondazione con personalità giuridica conduce la considerazione che sull’aspetto del centro di imputazione di effetti giuridici dovrebbe prevalere, nella ricostruzione della fattispecie in esame, quello relativo all’attuazione dello scopo (ossia sul profilo soggettivo prevarrebbe quello teleologico), quindi la regola va selezionata in base alla coerenza con quest’ultimo. Le regole relative all’attuazione dello scopo che risultano più coerenti con l’autodestinazione sono, per l’appunto, contenute nelle norme sui patrimoni destinati di cui agli artt. 2447 bis e ss. e l’art. 32 c.c. (ma vedi infra par. 9 per una ricostruzione unitaria della disciplina della fondazione).

La soluzione relativa alla applicazione c.d. tipologica, che propone un costante confronto, nella ricerca della normativa applicabile, tra il tipo modellato dal legislatore e la fenomenologia che il medesimo assume nella prassi, al fine di selezionare gli interessi che questa esprime, è sostenuta da A. Zoppini, La disciplina delle associazioni e delle fondazioni dopo la riforma del diritto societario, in A. Zoppini-M. Maltoni (a cura di), La nuova disciplina delle associazioni e delle fondazioni. Riforma del diritto societario ed enti non profit, Padova, 2007, 3 . Utili, anche in relazione a questo problema, le indicazioni sulla misura di alterabilità del tipo e sul metodo tipologico di G. De Nova, Il tipo contrattuale, cit., 121 ss., spec. 149 s., in cui si evidenzia la sostituibilità del tipo al concetto come medio logico tra il caso concreto e la normativa che lo disciplina.

 

[31] Oltre a tali interessi debbono considerarsi quelli che si incentrano sui finanziatori, i quali sono anch’essi creditori, sia nei patrimonî dedicati del primo tipo,stante la previsione dell’art. 2447 ter, comma 1°, lett. d) ed e), c.c., sia nei patrimoni dedicati del secondo tipo, di cui all’art. 2447 bis, 1° comma, lett. b) c.c. Cfr. sul punto F. Gennari, I patrimonî destinati ad uno specifico affare, Padova, 2005, 80, il quale evidenzia come proprio l’apporto dei finanziatori possa dare impulso ai patrimonî dedicati del primo tipo, che soffrono del limite del 10% del patrimonio netto della società come valore massimo destinabile al perseguimento dell’affare.

 

[32] Difatti il problema principale, comune a tutte le ipotesi di amministrazione del patrimonio separato ad opera del titolare, consiste proprio nel contemperamento tra l’interesse del proprietario a disporre e gestire i proprî beni e l’interesse dei beneficiarî della specifica destinazione impressa sui medesimi. Cfr. per questa osservazione M. Bianca, Vincoli di destinazione e patrimoni separati, Padova, 1996, 203 ss., a pg. 206.

 

[33] Vedi infra par. 6.

 

[34] Si veda sul tema A. Gambaro, voce Trust, in Dig. disc. priv., sez. civ., vol. XIX, Torino, 1999, 449 ss., spec. 466 ss. (467 per l’espressione citata nel testo) e, con maggiore articolazione delle ipotesi legislative di proliferazione dei patrimonî separati, Id., Segregazione e unità del patrimonio, in Trusts, 2000, I, 158.

Il dibattito sul punto, sostanzialmente volto a riconoscere la possibilità in via generale in capo ai privati di creare vincoli di destinazione con efficacia reale, sembra aver trovato un approdo normativo nell’art. 2645 ter c.c. Per una diversa conclusione in questo lavoro cfr. infra, par. 4.

 

[35] L. Salamone, Gestione e separazione patrimoniale, Padova, 2001, 395, nota 81, sottolinea che in ciascuna delle eccezioni al principio di universalità della garanzia patrimoniale ‹‹una norma di legge è intervenuta per superare lo sbarramento dell’art. 2740, comma II, c.c.››.

 

[36] Avvenuta ad opera dell’art. 39 novies della legge n. 51 del 23 febbraio 2006, di conversione del D. L. 30 dicembre 2005, n. 273.                           

 

[37] La necessaria correlazione tra adempimento pubblicitario e opponibilità del vincolo, dopo essere stata enunciata a livello concettuale (cfr. A. Zoppini, Autonomia e separazione, nella prospettiva dei patrimoni separati della società per azioni, cit., 563 e, con specifico riferimento ai patrimonî destinati della s.p.a., C. Ibba, Il “sistema” della pubblicità di impresa, oggi, in Riv. dir. civ., 2005, I, 587 ss., spec. 604 ss.) trova in questa norma un ulteriore riconoscimento legislativo.

 

[38] F. Gazzoni, Osservazioni sull’art. 2645 ter c.c., in http://www.judicium.it/news_file/news_glo.html, propone come referente normativo della pubblica utilità l’art. 699 c.c., anche a giustificazione della possibilità che più persone si succedano nel godimento degli effetti positivi dell’atto. Di diverso avviso G. Petrelli, La trascrizione degli atti di destinazione, in Riv. dir. civ., II, 2006, 161 ss., spec. 178 ss., in cui si ritiene sufficiente l’individuazione di un interesse, di natura patrimoniale o morale, anche appartenente ad un terzo, ma del quale non si richiede «la verifica da parte dell’interprete di una sua “graduazione” pozione rispetto all’interesse dei creditori o alla libera circolazione dei beni»; in altre parole, qualunque interesse diverso dalla mera salvaguardia del patrimonio del costituente da azioni esecutive dei proprî creditori, ovvero dalla mera esigenza di rendere inalienabile e indisponibile il bene vincolato. Questa opinione si espone peraltro a due obiezioni: anzitutto, dal punto di vista formale, non si valorizza il dato letterale, che, seppure non conclusivo, costituisce comunque un indice sufficientemente significativo delle intenzioni che hanno mosso il legislatore storico nella redazione della norma; inoltre, dal lato sostanziale, una simile interpretazione della meritevolezza, che in poco si distinguerebbe dalla mera liceità proposta in riferimento all’art. 1322 c.c. da autorevole dottrina (cfr. per tutti G. B. Ferri, Causa e tipo nella teoria del negozio giuridico, Milano, 1966, 406, il quale indica come criterî dei quali l’ordinamento si avvale per la valutazione della meritevolezza i parametri enunciati dall’art. 1343 c.c. per l’illiceità della causa; opinione ribadita in Meritevolezza dell’interesse e utilità sociale, in Riv. dir. comm., 1971, II, 81 ss., spec. 87 ss.; un articolato dissenso è proposto da F. Gazzoni, Atipicità del contratto, giuridicità del vincolo e funzionalizzazione degli interessi, in Riv. dir. civ., 1978, I, 52 ss., spec. 57 ss.), avrebbe un impatto negativo sugli interessi dei creditori, consentendo una proliferazione dei limiti all’escussione del patrimonio assai problematica sotto il profilo economico. È allora da escludersi un significato del concetto causale come semplice conformità dell’atto all’ordinamento giuridico, con il che nella disposizione in esame il riferimento all’art. 1322, 2° c.c. risulterebbe pleonastico; a mio avviso, esso va pertanto inteso come semplice indicazione del topos normativo dell’espressione, senza alcuna valenza sistematica.

Cfr. inoltre P. Manes, La norma sulla trascrizione degli atti di destinazione è, dunque, norma sugli effetti, in Contratto e impresa, 2006, 626 ss., la quale sottolinea il valore significativo che la disposizione assume nella creazione (“a volte surrettizia”) di forme alternative di garanzia, nella specie di cause di prelazione funzionalmente legate a speciali categorie di creditori ( 633). Ciò dovrebbe motivare una più ampia riflessione sulla giustificazione causale degli effetti così rappresentati, atteso che l’attuale tendenza espansiva dei limiti all’autonomia privata nel settore delle garanzie è correlata alla dimensione d’impresa, che non è però connaturale all’istituto previsto all’art. 2645 ter c.c. (per il concetto di “autonomia d’impresa” si veda in termini generali G. Portale, Tra responsabilità della banca e “ricommercializzazione” del diritto commerciale, in Jus, 1981, 141 ss, spec. 148).

 

[39] Si vedano i risultati cui perviene nella prospettiva della fondazione la monografia di A. Zoppini, Le fondazioni. Dalla tipicità alle tipologie, Napoli, 1995, 141 ss., spec. 143, per quanto concerne il problema, e i conseguenti riflessi disciplinari, dell’autonomia riconosciuta al fondatore nella determinazione dello scopo in rapporto al processo di particolarizzazione che le finalità prescelte possono subire (di cui esemplarmente si ha contezza nella fondazione di famiglia prevista all’art. 28, comma 3°, c.c.).

 

[40] Ciò che ne impedisce l’applicazione ad ambiti non coerenti con questa caratteristica, in quanto è riscontrabile un’asimmetria tra particolarizzazione dei fini dell’ente personificato, in connessione con la neutralità della relativa forma giuridica rispetto agli interessi in astratto perseguibili, e generalità della proiezione degli effetti conseguenti all’attività finalizzata allo scopo speciale, positivamente richiesta dall’art. 2645 ter c.c. In questo caso può ben sostenersi che, all’evoluzione delle tipologie fondazionali, cui corrisponde l’inidoneità dell’archetipo normativo disegnato dal legislatore del ’42 a comprenderne la varietà, si opponga la struttura della norma citata, che di quell’archetipo conserva il dato qualificante, ossia la pubblica utilità (un’analisi puntuale dei presupposti qui considerati in A. Zoppini, Le fondazioni. Dalla tipicità alle tipologie, cit., 145 s.).

 

[41] D. Messinetti, Il patrimonio separato e la c.d. “cartolarizzazione” dei crediti, in Riv. dir. civ., 2002, II, 101 ss., spec. 103, indica come metodo di ricostruzione della disciplina mancante, che ritengo di accogliere in questa riflessione, l’utilizzo graduale di criterî sistematici contigui che sono dati dalla somiglianza tra i tipi di problemi suscitati.

 

[42] Sull’applicazione agli enti non profit di norme di diritto societario qualificabili come transtipiche, nel senso di «regole che sono coerenti con un determinato modello di conflitto di interessi e che possono trovare applicazione ove quello stesso conflitto di interessi si ravvisi, a prescindere dal tipo normativo ove quella disciplina ha originariamente trovato accoglienza» (corsivo dell’Autore), si veda A. Zoppini, La disciplina delle associazioni e delle fondazioni dopo la riforma del diritto societario, cit., 20.

 

[43] Lo “statuto” del patrimonio separato esisterebbe cioè non in ordine alla fonte della separazione, che rimane tipica, bensì in relazione alle regole di gestione del patrimonio in vista dello scopo. L’operazione di raccordo sistematico finalizzata alla definizione delle regole in discorso non è certo agevole, in quanto «non esiste una figura prevalente o assorbente di patrimonio separato, nel senso che la figura generale sia capace di funzionare a priori e in assoluto, come un principio produttivo di norme particolari implicite, a meno che non sia consentita, secondo le normative di settore, l’utilizzazione del metodo analogico»; la constatazione è di D. Messinetti, Il patrimonio separato e la c.d. “cartolarizzazione” dei crediti, cit., 102, cui adde A. Zoppini, Autonomia e separazione, nella prospettiva dei patrimoni separati della società per azioni, cit., 559 s., testo e note 60-61, ove i necessarî riferimenti. Imputa l’incertezza della dottrina sulla portata della nozione di patrimonio separato al fatto che, pur riscontrabile su un piano economico e sociale, la separazione non sia rilevante per il diritto A. Pino, Il patrimonio separato, Milano, 1950, 16. La ricostruzione concettuale deve, peraltro, operarsi riguardando la disciplina positiva del patrimonio separato come fondamento della ipotesi formulata piuttosto che come banco di prova della medesima.

 

[44] Per una prima esegesi della norma cfr. G. Iorio, Le modificazioni dell’atto costitutivo e dello statuto, in M. V. De giorgi, G. Ponzanelli, A. Zoppini, (a cura di), Il riconoscimento delle persone giuridiche, Milano, 2001, 73 ss., spec. 79.

 

[45] Tali costi graverebbero allora sul fondo dell’ente titolare e andrebbero perciò valutati come costi aggiuntivi non strumentali al fine statutario. Sul punto, seppure con riguardo ad amministrazioni solo contabilmente separate, si veda G. Oppo, Sull’autonomia delle sezioni di credito speciale, in (Banca, borsa e tit. cred., I, 1979, 1 ss., poi ripubblicato in Studi in onore di Andrea Arena, Palermo, 1981, 1599 ss., e ora in ) Banca e titoli di credito. Scritti giuridici, vol. IV, Padova, 1992, 26 ss., spec. 57 s., in cui si ipotizza una ripartizione dei costi correlata al volume di affari di ciascun patrimonio (58).

 

[46] Avente valore di mera pubblicità-notizia, come anche le iscrizioni nel registro delle persone giuridiche previste all’art. 4, 2° comma, del d.P.R. 361/2000. Per questa conclusione vedi M. Mistretta, Iscrizioni nel registro, in M. V. De giorgi, G. Ponzanelli, A. Zoppini, (a cura di), Il riconoscimento delle persone giuridiche, cit., 94 ss., 100.

 

[47] Essenzialmente, ad un primo inventario seguirà la documentazione dei flussi di reddito e delle variazioni dello stato patrimoniale.

 

[48] La valutazione di adeguatezza del patrimonio allo scopo, necessaria ai fini del riconoscimento, si basa difatti su un criterio quantitativo, attinente al valore monetario espresso dalla totalità dei cespiti, piuttosto che qualitativo, in base alla natura dei medesimi. Sul punto cfr. A. Fusaro-G. Viotti, Procedimento per l’acquisto della personalità giuridica, in M. V. De giorgi, G. Ponzanelli, A. Zoppini, (a cura di), Il riconoscimento delle persone giuridiche, cit., 49 ss., spec. 50.

 

[49] Di contrario avviso G. Petrelli, La trascrizione degli atti di destinazione, cit., 171 ss., spec. 172 s., il quale, citando tra le disposizioni in cui il nostro ordinamento ha previsto ipotesi di separazione patrimoniale su beni mobili, accompagnate da idonei meccanismi di pubblicità anche l’art. 2447 quinquies, 1° comma, c.c., sostiene che «la disciplina sostanziale del vincolo di destinazione contenuta nell’art. 2645 ter c.c. …. deve ritenersi applicabile, in via estensiva o analogica, anche ai beni mobili non registrati, a condizione che del vincolo medesimo sia possibile effettuare idonea pubblicità, in conformità alla legge di circolazione del singolo bene mobile che ne forma oggetto». Ora, questa opinione si risolve in realtà nell’ampliamento dell’effetto separativo al di là della previsione di legge, operazione che, compiuta in relazione al fondo patrimoniale, la cui disciplina (alla quale fa riferimento il Petrelli), individua tra i beni vincolabili anche i titoli di credito nominativi (art. 167 c.c.), può riguardarsi come interpretazione estensiva di quest’ultima categoria (atteso che i beni mobili non registrati dei quali preme affermare la separabilità sono essenzialmente strumenti finanziarî), seppur opinabile comunque ancorata ad un preciso dato normativo, mentre nel caso dell’art. 2645 ter c.c., non essendo contemplato questo riferimento, si dovrebbe necessariamente ricorrere all’analogia. Ma il procedimento analogico, in relazione alla produzione dell’effetto separativo, è da escludersi in virtù dell’art. 2740, comma 2°, c.c. (mentre può senz’altro ammettersi, si è detto, in relazione alle regole di gestione e responsabilità, come cercherò di dimostrare a breve). Da ciò consegue l’inopponibilità del vincolo separativo sui beni mobili, a differenza di quanto avviene in relazione ai beni con destinazione particolare, in cui peraltro, essendo la separazione di natura legale, si attua per questi non una forma di pubblicità dichiarativa, bensì di pubblicità notizia (per questa conclusione sia consentito rinviare a L. Nonne, Note in tema di patrimoni destinati ad uno scopo non lucrativo, cit., 1323).

 

[50] Da ultimo vedi C. Ibba, Il “sistema” della pubblicità di impresa, oggi, cit., 605, che nega a tal proposito l’immediato prodursi dell’effetto separativo a seguito della mera iscrizione della delibera costitutiva del patrimonio destinato.

 

[51] È il senso dello studio di G. Oppo, Sull’autonomia delle sezioni di credito speciale, cit.; cfr. inoltre A. Zoppini, Autonomia e separazione, nella prospettiva dei patrimoni separati della società per azioni, cit., 564 s.

 

[52] Così, avvertendo dell’improprietà dell’espressione utilizzata, peraltro decisamente icastica, C. Ibba, Il “sistema” della pubblicità di impresa, oggi, cit., 607, alla nota 100, il quale precisa come debba più correttamente parlarsi di assoggettamento al vincolo di destinazione o di liberazione dal medesimo.

 

[53] Da ultimo si veda, in relazione ai problemi derivanti da atti dispositivi del patrimonio separato, R. Quadri, La circolazione dei beni del “patrimonio separato”, in Nuova giur. civ. comm., II, 2006, 7 ss., che pone in dubbio la limitazione del potere di disposizione dei beni destinati come connotato del “patrimonio separato”., restando consegnata l’inefficacia di atti che violino il vincolo di destinazione alle sole ipotesi di malafede del terzo contraente (11).

 

[54] Si pronuncia in questo senso, per quanto concerne l’applicazione dell’art. 2645 ter c.c., G. Petrelli, La trascrizione degli atti di destinazione, cit., 200. A questo proposito, accogliendo l’impostazione di F. Galgano (il cui pensiero sul tema, formulato in Sull'ammissibilità di una fondazione non riconosciuta, in Riv. dir. civ., 1963, I, 172 ss, spec. 187 ss., è stato poi sviluppato con varî contributi, quali: Delle persone giuridiche2, in Comm. c.c., a cura di Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1976, 74 ss; Delle associazioni non riconosciute e dei comitati, ivi, 290 ss; Delle associazioni e delle fondazioni, ivi, 370 s.), il quale propone come paradigma della fondazione non riconosciuta i comitati di cui agli artt 40-42 c.c., la responsabilità sussidiaria della persona giuridica titolare deriverebbe dall’art. 41 c.c. Mi sono espresso, invece, per la sussidiarietà come principio generale comune alle ipotesi di separazione patrimoniale, in assenza di norme che prevedano espressamente la biunivocità, in L. Nonne, Note in tema di patrimoni destinati ad uno scopo non lucrativo, cit., 1319 ss.

 

[55] In questo caso l’atto verrebbe vulnerato secondo le regole previste dall’art. 2901, 1° comma, n. 1) c.c.; che poi una simile tutela sia coerente con il miglior perseguimento dello scopo statutario per la persona giuridica è discutibile, ma a seguito dell’approvazione da parte dell’Autorità governativa del patrimonio destinato, per i creditori generali dell’ente residua quest’unico rimedio. Discorso differente per i c.d. creditori involontari, su cui vedi infra par. 6.

 

[56] Sull’estinzione della fondazione dipendente cfr. R. Herzog, Die unselbständige Stiftung des bürgerlichen Rechts, cit., 124 ss., il quale concentra l’attenzione sulla fondazione fiduciaria (si veda in particolare la 125, per quanto concerne l’attivazione del Rückforderungsrecht in capo al fondatore a seguito dell’inadempimento, o inesatto adempimento, da parte del titolare, degli obblighi inerenti all’onere cui è sottoposta la Schenkung). Ciò è sintomatico della costruzione dei rimedi in tema di estinzione della unselbständige Stiftung nell’ottica della eterodestinazione (in tal caso sarebbe senz’altro più proficuo il confronto con la fattispecie dell’art. 32 c.c.).

 

[57] C. Ibba, Il “sistema” della pubblicità di impresa, oggi, cit., 607 s.

 

[58] Le quali, se venissero compiute, sarebbero certamente imputabili al patrimonio destinato; per questa conclusione C. Ibba, Il “sistema” della pubblicità di impresa, oggi, cit., 608.

 

[59] In analogia con quanto previsto dall’art. 15 c.c., che ammette la revoca dell’atto di fondazione nel solo caso in cui non sia intervenuto il riconoscimento (qui sostituito dall’approvazione della modifica statutaria da parte dell’autorità governativa) ovvero il fondatore non abbia fatto iniziare l’attività dell’opera da lui disposta (inizio che nell’ipotesi in discussione è scontato). In questo mi pare sussista una perfetta corrispondenza con l’art. 32 c.c., i cui rapporti con l’art. 2645 ter debbono essere ricostruiti a tal proposito nel seguente modo: i beni con destinazione particolare fungono da alternativa all’erezione di un ente personificato, consentendo al disponente di destinare un patrimonio ad uno scopo che verrà poi assolto dalla persona giuridica titolare, in quanto la proiezione cronologica del fine programmato va oltre la vita dello stesso disponente. L’art. 2645 ter c.c. persegue gli stessi fini, ma, se utilizzato da persona fisica, ritengo sia strumentale ad effetti più circoscritti nel tempo, mentre, come ho cercato di dimostrare in questa sede, costituisce l’unico strumento a disposizione della persona giuridica per una separazione patrimoniale autonoma (è invece eteronoma, per ovvie ragioni, quella che si realizza in base all’art. 32 c.c.). Viene così a delinearsi una situazione che trova corrispondenza nella unselbständige Stiftung di diritto tedesco, in cui il titolare può essere indifferentemente una juristiche o natürliche Person; cfr. N. L. Beckmann, Die unselbständige, nichtrechtsfähige Stiftung, cit., 221.

 

[60] Conseguentemente: a) i creditori del patrimonio separato il cui titolo sia sorto anteriormente alla cancellazione della trascrizione, possono comunque, in assenza della modifica prospettata nel testo, aggredire i beni in discorso, poiché essi continuano a far parte del suddetto patrimonio; b) i creditori del patrimonio separato subirebbero però il concorso dei creditori dell’ente il cui titolo sia sorto successivamente alla suddetta cancellazione, poiché a questi non è opponibile nessun vincolo, non essendovi trascrizione, né potrebbe inferirsi detta opponibilità dalla modifica dello statuto, iscritta nel registro delle persone giuridiche, con cui è sorto il patrimonio separato, poiché, anche a prescindere dal fatto che l’iscrizione realizza una forma di pubblicità-notizia, in essa non vengono indicati i beni che ne fanno parte, ma esclusivamente il valore complessivo.

 

[61] Replicando a questo proposito quanto precisato in tema di fondazione da A. Zoppini, Le fondazioni. Dalla tipicità alle tipologie, cit., 184 ss., spec. 195, in cui si precisa che la destinazione al pubblico, nel caso della fondazione personificata, non coincide necessariamente con il momento dell’iscrizione nel registro delle persone giuridiche, essendo sufficiente l’inizio dell’attività fondazionale. Questa considerazione non appare invece replicabile per l’autodestinazione, atteso che, in assenza dell’ iscrizione della relativa delibera, e della conseguente conoscibilità dello scopo particolare, non vi sarebbe per gli ipotetici destinatarî la possibilità di distinguere tra ciò che è riconducibile allo scopo suddetto e quanto invece attiene al fine istituzionale dell’ente.

 

[62] Più che l’applicazione analogica dell’art. 2447 novies c.c. orienta per la configurabilità di un obbligo di rendiconto il concetto stesso, ed i conseguenti riflessi disciplinari, della attività svolta nell’interesse altrui, cui si accompagna il dovere di tenere la controparte informata di quanto compiuto al fine di metterla in condizione di far valere i proprî diritti; il punto è ben evidenziato da G. Mignone, Dei patrimoni destinati ad uno specifico affare. Commento, in G. Cottino-G. Bonfante-O. Cagnasso-P. Montalenti (a cura di), Il nuovo diritto societario, **, Bologna, 2004, 1661, testo e nota 113.

 

[63] Il problema si pone in particolare in caso di fallimento dell’ente, in relazione al quale è l’origine del patrimonio separato a influenzarne il destino. Sulla distinzione tra Treuhandvertrag e Schenkung unter Auflage, in relazione alle differenti conseguenze sul patrimonio della unselbständige Stiftung a seguito della insolvenza dello Stiftungsträger, cfr. N. L. Beckmann, Die unselbständige, nichtrechtsfähige Stiftung, cit., 225 s.

La soluzione che depone per l’insensibilità dei beni con destinazione particolare alle vicende del titolare, per cui essi non verrebbero a far parte della massa attiva fallimentare, è impostata in chiave comparatistica da P.G. Jaeger, La separazione del patrimonio fiduciario nel fallimento, Milano, 1968, spec. 324 ss. Si precisa peraltro in questo lavoro che sarebbe errato concepire nella fondazione fiduciaria l’oblatore come fiduciante ed attribuirgli l’azione di separazione o di opposizione nei confronti del fallimento, poiché esso si è spogliato di ogni diritto sui beni del fondo; l’azione in oggetto, stante la natura pubblicistica dell’interesse alla cui tutela è preordinata la disciplina della fondazione fiduciaria, dovrebbe essere esercitata da un organo della pubblica amministrazione ( 396 s.).

 

[64] Il vincolo permane, a mio parere, anche qualora l’atto costitutivo o lo statuto dell’ente (o la deliberazione dell’assemblea che ha stabilito lo scioglimento, in caso di associazione) disciplinino la devoluzione dei beni all’esito del procedimento di liquidazione, essendo anche in questa ipotesi replicabili le osservazioni svolte nel testo circa il rapporto tra art. 2645 ter e 31 c.c.

 

[65] Un problema particolare si pone a mio avviso nel caso in cui, a seguito di trasformazione eterogenea ai sensi dell’art. 2500 septies c.c., una società di capitali che abbia costituito un patrimonio destinato ai sensi dell’art. 2645 ter c.c. (per l’ammissibilità di questa costituzione vedi infra par. 8) si trasformi in comunione d’azienda. In tal caso, all’esito della trasformazione, non sussiste più un ente personificato ma una pluralità di soggetti-persone fisiche, il che fa dipendere la sorte del patrimonio destinato dalla funzione dello scopo con esso perseguito. In specie, qualora il fine della destinazione fosse strumentale all’oggetto sociale dell’ente venuto meno, i beni separati dovrebbero ritenersi acquisiti all’azienda su cui è sorta la comunione, mentre nel caso l’attività ideale non fosse teleologicamente riconducibile alla migliore attuazione dello scopo lucrativo opererebbe la regola della devoluzione ad altre persone giuridiche aventi fini analoghi, con sopravvivenza del vincolo.

 

[66] Ciò poiché la fattispecie dell’art. 32 c.c. esige la rispondenza degli atti di gestione all’interesse del disponente, in quanto esterno e ultroneo rispetto all’interesse del gestore (e infatti la recente dottrina tedesca, peraltro ispirandosi al modello della fondazione indipendente, concepisce la unselbständige Stiftung come una combinazione tra il contratto di donazione, di cui ai §§. 516 ss. BGB, per l’elemento destinatorio, e il contratto di mandato, disciplinato ai §§ 662 ss. del BGB, per l’elemento organizzativo; in tal senso K. Schmidt, Ersatzformen der Stiftung - Unselbständige Stiftung, Treuhand und Stiftungskörperschaft, cit., 181; cfr. inoltre S. Koos, op. cit., 68 ss., per la distinzione tra Auftragstiftung e Schenkungstiftung, e 131 ss., per le implicazioni tipologiche di questa ricostruzione, specie in ordine al rapporto con il Zuwendungsgeschäft), mentre nell’autodestinazione vi è un unico centro di interessi, variamente perseguibili dal titolare, il quale deve attenersi unicamente ad un criterio di coerenza dell’atto-strumento con lo scopo generale o speciale.

Il rapporto tra mandato e gestione è diversamente concepito da G. Ferri jr., Patrimonio e gestione. Spunti per una ricostruzione sistematica dei fondi comuni di investimento, in Riv. dir. comm., 1992, I, 25 ss., spec. 51, testo e nota 60, il quale sottolinea che «il concetto stesso di gestione si ricava dalla normativa in tema di mandato», pur se «la qualificazione di un fenomeno in termini di mandato non impone che tutte le norme dettate per tale tipo contrattuale siano applicabili», e da L. Salamone, op. cit., 27, secondo il quale, invece, «non appare corretto alcun approccio che avvicini le gestioni ad una figura contrattuale», in quanto la relativa nozione sarebbe «estranea alla zona concettuale dell’atto giuridico».

 

[67] Si veda sul punto l’analisi di diritto nordamericano di P. Iamiceli, Prime riflessioni sul governo degli enti non profit negli Stati Uniti, in Riv. crit. dir.priv., 1999, 239 ss., la quale, muovendo dalla constatazione che non esiste un modello di governance unitario, dal momento che le relative regole dipendono dalla natura dell’attività svolta, dalle modalità di svolgimento della stessa e dal tipo di risorse (umane e materiali) di cui l’ente si serve nel perseguire i suoi obbiettivi, conclude per la maggiore contiguità della governance degli enti non profit con il paradigma della businnes corporation (anche se, si sottolinea, l’adempimento dei relativi duties of care and loyalty viene valutato meno rigidamente di quanto accadrebbe per i manager della businnes corporation) ( 267 ss., e si veda anche 270, testo e nota 24 per approfondimenti giurisprudenziali su quest’ultimo problema).

Per quanto concerne in particolare il profilo gestorio relativo alla economic activity delle charitable organizations (sulla quale, in relazione al problema qui affrontato, si v. infra par. 7) è sviluppato da P. Verrucoli, Non- profit organizations (A Comparative Approach), Milano, 1985, 87 ss., ove ampio confronto delle forme tipiche degli ordinamenti di Civil Law e Common Law; si osserva in particolare che l’uso atipico delle foundations nel diritto nordamericano comporta, nel caso in cui si adotti la corporate form, una singolare sterilizzazione del potere del board of directors rispetto alle istruzioni del fondatore (88).

 

[68] La precisazione si rende necessaria in quanto i creditori del patrimonio speciale debbono rivalersi su quest’ultimo, prima di aggredire il fondo dell’ente.

 

[69] B. Dauner Lieb, Unternehmen in Sondervermögen: Haftung und Haftungsbeschränkung. Zugleich ein Beitrag zum Unternehmen im Erbgang, Tübingen, 1998, 47, nel trattare della einseitige Haftungssorderung, pone l’accento sulla mancata corrispondenza, al verificarsi della separazione patrimoniale, di una limitazione di responsabilità intesa come esonero del patrimonio generale (Hauptvermögen) dalle obbligazioni riconducibili al patrimonio separato, secondo la ricostruzione di A. von Thur, Der Allgemeiner Teil des Deutschen Bürgerlichen Rechts, Band I, Berlin, 1957 (ristampa della 1° edizione del 1914), 338.

 

[70] Che vi sia separazione patrimoniale e non deroga al principio della par condicio creditorum (art. 2741 c.c.), è ulteriormente dimostrato da queste conclusioni, atteso inoltre che sul patrimonio generale dell’ente non vi è una posposizione dei creditori del patrimonio separato rispetto a quelli della persona giuridica, ma perfetta eguaglianza, salvo le cause legittime di prelazione, nell’accesso alla garanzia generica.

 

[71] Cfr., in una prospettiva comparatistica, E. Courir, Per una limitazione della responsabilità limitata, in Quadrimestre, 1992, 704 ss., spec. 712, 716 ss.; per un’ottica sistematica vedi invece A. Zoppini, Autonomia e separazione, nella prospettiva dei patrimoni separati della società per azioni, cit., 573 ss.

Si veda inoltre C. Amatucci, Fatto illecito della società e responsabilità limitata dei soci, Milano, 2002, 14 ss., il quale ha parlato di “disuguaglianza non dichiarata” per i creditori involontarî, atteso che, pur senza prevedere apposite cause legittime di prelazione a detrimento dei medesimi, la legislazione societaria ha prodotto un’alterazione contrastante con il principio di eguaglianza per effetto della estrema postergazione cui essi vengono di fatto sottoposti (16 s.).

 

[72] In questo la duplicazione soggettiva sembrerebbe essere maggiormente competitiva rispetto alla separazione patrimoniale, in quanto nel primo caso il venir meno dello schermo della personalità giuridica è legato al mancato rispetto delle regole che governano la separazione patrimoniale, mentre nella seconda ipotesi la confusione dei patrimonî si verifica anche in ragione della natura extracontrattuale del credito vantato.

 

[73] A. Zoppini, Autonomia e separazione, nella prospettiva dei patrimoni separati della società per azioni, cit., 575.

 

[74] C. Amatucci, Fatto illecito della società e responsabilità limitata dei soci, cit., 63 ss., chiarisce che il criterio di imputazione della responsabilità da tener presente nella riflessione sull’inopponibilità della separazione patrimoniale ai creditori involontarî si basa sulla capacità dell’imprenditore di far riflettere nel prezzo dei singoli beni o servizi tutti i costi affrontati per produrli, non essendovi perciò alcuna ragione di esonerarlo dalla piena sopportazione delle perdite da lui provocate (68).

E. Courir, Per una limitazione della responsabilità limitata, cit., 717, a proposito della opposta regola della responsabilità limitata, osserva come essa costituisca un forte incentivo a che i rischi connessi ad una determinata attività vengano trasferiti su soggetti diversi da coloro che si appropriano dei vantaggi dell’attività suddetta, i quali non sopportano i costi di questo trasferimento in quanto gratuito. Nel caso in esame, peraltro, essendovi un’eterodestinazione dei risultati connessa alla natura non profit dell’ente, questo rilievo non trova applicazione, se si assume, come presupposto del medesimo, la identità soggettiva tra chi esercita l’attività e il destinatario dei relativi vantaggi.

È qui opportuno sottolineare anche come la responsabilità limitata produca un effetto di contenimento dei costi di assicurazione in relazione all’attività esercitata con il patrimonio separato (la quale coprirà solo gli illeciti riconducibili alla suddetta, non estendendosi a quelli derivanti in via indiretta dall’attività istituzionale dell’ente).

 

[75] Seppure in altro ambito, sembra invece riconnettere la separazione imperfetta alla natura dello scopo perseguito F. Gazzoni, Il cammello, la cruna dell’ago e la trascrizione del trust, in Rass. dir. civ., 2003, 953 ss., 957.

 

[76] Mi pare superfluo dar conto dell’ammissibilità di un’attività imprenditoriale da parte delle persone giuridiche non profit, essendo un dato acquisito con certezza nel nostro sistema; limitando i riferimenti ai due studi che hanno definitivamente chiarito la questione, segnalo ovviamente P. Rescigno, Fondazione e impresa, cit., e R. Costi, Fondazione e impresa, in Riv. dir. civ., 1968, I, 8 ss. Si veda inoltre, per la distinzione tra mero oggetto dell’ente (attività economica) e scopo (non lucrativo) del medesimo, F. Galgano, Delle associazioni non riconosciute e dei comitati, cit., spec. 73 ss.

Ampia sintesi delle principali opinioni in tema di utilità dello scopo nelle fondazioni in A. A. Carrabba, Scopo di lucro e autonomia privata, Napoli, 1994, 305 ss., spec. 314 ss. e 319, il quale, all’esito dell’analisi, constata la necessità di abbandonare la posizione restrittiva del legislatore del ’42 alla luce dei principî costituzionali che impongono all’interprete di «rescindere ogni forzoso collegamento, se irragionevole e non motivato da esigenze relative all’attività esercitata, tra “forma” e finalità perseguibili» (corsivo mio).

Un articolato panorama del problema nell’ordinamento germanico, in cui la fondazione d’impresa è concettualmente originata (il riferimento è ovviamente alla Carl Zeiss Stiftung), viene delineato da R. Goerdeler, Stiftungen in der Bundesrepublik aus heutiger Sicht, in Festschrift für Theodor Hensius zum 65. Geburtstag am 25. September 1991, Berlin-New York, 1991, 169 ss., alle 172 ss., che dà peraltro conto del dibattito sviluppatosi in seno al 44. Juristentag del 1962, in cui venne affacciata l’idea di ripudiare in caso di riforma della relativa disciplina il modello codicistico della Allzweckstiftung, escludendo la possibilità delle fondazioni d’impresa di ottenere il riconoscimento, e riqualificando la fattispecie in base al § 22 del BGB, sulla wirtschaftliche Verein (174).

Sviluppa in una prospettiva comparatistica la ricostruzione del tipo “fondazione” nel prisma della fondazione titolare di impresa, H. Kronke, op. cit., part. 209 ss. (per l’utilizzo come criterio metodologico della distinzione tra rechtlichen Strukturtypus e gesetzlichen Typus, v. 210).

Sotto il profilo della giustificazione economico-sociale dell’attività di impresa svolta dagli enti non profit cfr. H. Hansmann, The Role of Nonprofit Enterprise, in 89 Yale Law Journal 835 (1980), il quale concepisce i medesimi come attori nel processo di soddisfazione dei bisogni sociali a seguito di una particolare forma di fallimento del mercato, denominata “contract failure”, ossia «the inability to police producers by ordinary contractual devices» ( 845). Si veda anche S. Rose Ackerman, An Economic Analysis of Nonprofit Organizations, in K. Hopt/D. Reuter (Hrsg.), Stiftungerecht in Europa, cit., 73 ss., spec. 82 ss., la quale, nell’identificazione delle funzioni ascrivibili alle nonprofit organizations indica, oltre al favore dei donatori verso queste istituzioni, generato dal timore che elargizioni a favore di enti lucrativi siano convertite in profitti per i titolari, anche il ruolo svolto dalle medesime in ordine al problema delle asimmetrie informative dei customers, oltre che nella predisposizione di servizî più varî di quanto sia possibile per il settore pubblico, atteso il vincolo legislativo che ne impaccia l’azione.

 

[77] Sembra più coerente con la nozione di patrimonio separato parlare di specializzazione della garanzia, piuttosto che della responsabilità, non essendovi sempre corrispondenza tra i due concetti; da ultimo, anche per questo profilo, cfr. G. Rojas Elgueta, L’autonomia privata e le limitazioni della responsabilità patrimoniale del debitore, ed. provv., Roma, 2006, 81 ss., spec. 84, in cui, a proposito del binomio universalità-concorsualità da un lato, e delle previsioni di cui agli artt. 2740, 2° comma, c.c. e 2741, 2° comma, c.c., propone un superamento dello schema regola-eccezione, da sostituirsi con «una lettura della realtà effettuale dell’ordinamento che consideri la responsabilità dell’intero patrimonio e la parità fra i creditori come uno dei possibili modelli che l’ordinamento riconosce per realizzare la pretesa di questi ultimi».

 

[78] Il problema è affrontato, nell’ottica dell’esercizio di attività di impresa in regime di separazione patrimoniale a proposito del fenomeno successorio, da B. Dauner Lieb, op. cit., la quale ritiene necessario, per risolvere la questione relativa ad un’attività economica esercitata con rischio limitato, al di fuori delle forme organizzative fornite dal diritto delle società di capitali, ricorrere ad un concetto di patrimonio separato differente da quello comune. Si ha perciò una specializzazione della responsabilità nel caso in cui una determinata massa patrimoniale viene isolata da interventi dell’unico titolare e/o dei suoi creditori privati finalizzati a scopo estranei da quello cui i beni sono destinati (50 s.). A questo proposito la separazione biunivoca e totale della massa patrimoniale è, nel caso di specie, certamente possibile, ma non necessaria (51).

Un’attenta analisi dei profili fallimentari dei patrimonî dedicati della s.p.a., a confronto con la separazione biunivoca sancita dall’art. 2447 quinquies, 3° comma, c.c., è operata da S. Vincre, Patrimonî destinati e fallimento, in Giur. comm., 2005, 126 ss.

 

[79] La descrizione in questi termini dei fenomeni di separazione patrimoniale nel campo dell’attività di impresa è proposta da H. Hansmann, R. Kraakman, Il ruolo essenziale dell’organizational law, in Riv. soc., 2001, I, 21 ss., spec. 26, da cui sono tratte le citazioni nel testo.

 

[80] Ciò comporta, a latere entis, quale risultato sistematico relativo alla responsabilità sussidiaria, un beneficio di preventiva escussione, comparabile con la situazione che viene a radicarsi in capo ai soci della s.n.c. ai sensi dell’art. 2304 c.c. La distinzione tra limitazione di responsabilità e separazione patrimoniale emerge chiaramente in ordine alla discussa fonte convenzionale di tale limitazione, per l’ammissibilità della quale vedi G. Rojas Elgueta, L’autonomia privata e le limitazioni della responsabilità patrimoniale del debitore, cit., 147 ss. (part. 152, in cui si individua recisamente il campo di operatività delle limitazioni convenzionali della responsabilità patrimoniale nel diritto sostanziale e si nega che il relativo accordo tra debitore e creditore incida sull’azione esecutiva, ricadendo pertanto nell’alveo del diritto processuale, indisponibile ai privati).

 

[81] Oltre alla maggiore concretezza di tutela per l’investitore, il quale può indirizzare in modo specifico il proprio investimento verso un’area determinata, correndo solo il rischio ad essa relativo. Si veda amplius G. Mignone, Dei patrimoni destinati ad uno specifico affare. Commento, cit., 1630 ss., spec. 1631, il quale rileva come la giustificazione fondata sul risparmio economico e temporale non convinca pienamente, atteso che vi è stato un deciso snellimento nelle procedure di costituzione delle società di capitali.

 

[82] Sulla tutela dei quali si veda H. Kronke, op. cit., 208.

 

[83] La separazione così intesa dovrebbe costituirsi come regola generale al fine di ricomprendere anche l’ipotesi relativa all’art. 32 c.c.

 

[84] Tenuto conto che essi potranno comunque rivalersi direttamente sui proventi dell’attività d’impresa, i quali, destinati all’attuazione dello scopo principale dell’ente, debbono considerarsi facenti parte del patrimonio generale di quest’ultimo (si confronti, per una soluzione normativa in tema di patrimonî dedicati della s.p.a. che rispecchia quanto qui sostenuto, l’art. 2447 quinquies, 1° comma, c.c., laddove è prevista la possibilità per i creditori sociali di far valere i proprî diritti sui frutti o proventi derivanti dallo specifico affare per la parte spettante alla società).

 

[85] Non sarebbe allora necessaria una modifica statutaria per l’esercizio dell’impresa, né pertanto può ipotizzarsi la connessa approvazione governativa, decisamente incoerente con la logica che domina le dinamiche imprenditoriali.

 

[86] Per i problemi relativi alla legge di circolazione dei beni e alla connessione con la pubblicità nel registro delle imprese dei patrimonî dedicati cfr. C. Ibba, Il “sistema” della pubblicità di impresa, oggi, cit., 606 s., il quale sottolinea come l’obbligo di trascrivere le delibere costitutive dei suddetti patrimonî relative a beni immobili deve coordinarsi con il catalogo degli atti soggetti a trascrizione ai sensi dell’art. 2643 c.c, con il principio della tassatività delle iscrizioni e con la circostanza che, nei casi in questione, non è dato parlare di un effetto traslativo in assenza dell’alterità soggettiva necessaria a concepire un trasferimento di beni dalla società al patrimonio destinato. Per risolvere i suddetti problemi di coordinamento è allora necessaria un’espressa previsione legislativa (come pare sostenere anche C. Ibba).

 

[87] L’art. 2447 novies c.c. non affronta il problema per i patrimonî dedicati, limitandosi a rinviare alla delibera costitutiva la previsione di ipotesi ulteriori di cessazione della destinazione allo specifico affare, salvo il caso di fallimento della società, cui si dichiara espressamente applicabile. Cfr. sul punto G. Mignone, Dei patrimoni destinati ad uno specifico affare. Commento, cit., 1667, specie per quanto concerne l’ipotesi della trasformazione. A questo proposito, la trasformazione non dovrebbe comportare per gli enti non profit la liquidazione del patrimonio autodestinato a scopo di impresa, per la ragione evidente che detto patrimonio sarà sempre strumentale al nuovo scopo; ciò ovviamente in assenza di una diversa previsione della delibera costitutiva o dello statuto.

 

[88] Cfr. sul punto G. Marasà, Le “società” senza scopo di lucro, Milano, 1984, 122 ss., sul cui ragionamento, di particolare interesse nel caso di specie, merita soffermare l’attenzione. Nello studio citato si chiarisce anzitutto che il rispetto della causa lucrativa tipica non è in alcun modo compromesso dalla possibilità di devolvere a favore di terzi una parte degli utili conseguiti, anche qualora questa possibilità sia permessa o imposta dal contratto sociale. Difatti, seppure è vero che quando la destinazione di utili assume carattere sistematico si può parlare di società senza fine di lucro soggettivo (si è cioè in presenza di una società formalmente lucrativa ma in fatto non lucrativa), questa conclusione va precisata chiarendo che essa è valida solo qualora la quota da devolvere a terzi sia tale da mascherare un fine sostanzialmente altruistico.

Difatti, si prosegue, nel campo dei contratti associativi la causa tipica indicata dal legislatore può ritenersi rispettata a condizione che, nella fattispecie concreta, essa costituisca lo scopo principale dei contraenti, anche se accanto a quest’ultimo si inseriscano scopi secondari di diversa natura, ciò che conferma la elasticità della causa del contratto (123).

Qualora invece la destinazione ai terzi non sia prevista nell’atto costitutivo, affinché essa sia ammissibile, è necessario dimostrare che una parziale destinazione ai terzi (quindi, nel caso che ci occupa, anche l’attività ad essa strumentale) è giustificata dall’aspettativa di una maggiore produzione di utili e quindi di un futuro incremento dei proventi dell’attività sociale (124).

Dimostrando allora la premessa che le devoluzioni altruistiche parziali sono ammissibili sia se previste nel contratto sociale sia se non previste, essendo compatibili con la causa tipica del contratto di società anche quando assumono carattere continuativo, l’Autore ne deriva che la relativa tematica esula da quella delle società senza fine di lucro (125).

Una conferma di questa impostazione in M. Stella Richter, Forma e contenuto dell’atto costitutivo della società per azioni, nel Trattato della società per azioni, diretto da G. E. Colombo e G. B. Portale, vol. 1*, Torino, 2004, 167 ss., spec. 242 ss., il quale, stante il presupposto che gli elementi ideali non compongono mai l’oggetto sociale, ma costituiscono una espressa indicazione circa l’interesse della società, ammette (246) che le s.p.a. possano nell’atto costitutivo lasciare spazio ad attività di tipo altruistico, precisando peraltro che l’indicazione statutaria dell’elemento ideale debba interpretarsi, da un lato, nel senso di un espresso apprezzamento da parte dei soci delle attività benefiche della società ai fini del miglioramento dell’immagine della stessa, dall’altro, come precisa indicazione del settore in cui gli amministratori debbono concentrare tali attività pro bono.

 

[89] Recentemente sul tema M. V. De Giorgi, Approvato il decreto attuativo della legge delega sull’impresa sociale, in Studium Iuris, 2006, 755 ss.; per lo specifico problema della rappresentazione in bilancio dei risultati dell’impresa sociale si v. F. Vella, La rendicontazione sociale delle imprese: quale disciplina, in Studi in onore di Vincenzo Buonocore, vol. III, t. 3°, Milano, 2006, 4043 ss.

 

[90] Questa tendenza espansiva del campo di azione degli enti dimensionalmente rilevanti è esemplarmente riassunta nella riflessione di P. Verrucoli, Non- profit organizations (A Comparative Approach), cit., 3 ss., ove si sostiene che «the giant organizations are not, or are not primarily, a mechanism for the immediate and direct satisfaction of the needs of individuals, except perhaps for those of their managers. They are, above all, centers of power, and power, to be defended and expanded, must be multiform and diversified» (6). Si veda inoltre K. A. Kordana, Theoretical Considerations in Charitable Conversions, in K. Hopt/D. Reuter (Hrsg.), Stiftungerecht in Europa, cit., 95 ss., spec. 106, nella particolare prospettiva dell’analisi delle motivazioni che conducono a trasferire beni destinati a scopi ideali sotto il controllo di entità for profit, fenomeno che viene descritto in termini di mera vendita di beni al fine di realizzare un utile che ne rappresenti il giusto valore e che contribuisca agli scopi del settore non profit. Tale procedimento presenta, se riguardato nell’ottica del problema che ci occupa, due vantaggi: da un lato i beni trasferiti assolvono, anche in mano al nuovo titolare, al medesimo scopo cui erano in precedenza destinati (atteso che il fenomeno è frequente in special modo nel settore sanitario, è ipotizzabile ad esempio che una struttura ospedaliera muti proprietario ma prosegua nella propria attività); dall’altro, l’ente trasferente consegue una remunerazione coerente con i valori di mercato che può destinare alle finalità statutarie.

 

[91] La propensione delle società a coniugare la propria azione nel mercato con finalità ideali e la varietà di forme con cui ciò avviene sono note soprattutto allo studioso di diritto nordamericano. Conserva la sua attualità a tal proposito l’ampia ricognizione di H. L. Oleck, Mixtures of Profit and Nonprofit Corporations Purposes and Operations, in 16 N. Ky. L. Rev. 225 (1988), spec. 238, in ordine alla considerazione che riscontra nel diritto tributario lo strumento con cui si determina quali integrazioni tra scopi e operazioni profit e non profit siano valide.

Anche l’interprete italiano registra la prassi, diffusa nelle società di capitali di grandi dimensioni, consistente nel disporre, accanto alla distribuzione di utili, la devoluzione di somme di denaro in attività benefiche. Ne dà conto G. Marasà, Le “società” senza scopo di lucro, cit., 124 s., il quale nota come le suddette erogazioni possano, se contenute in limiti modesti, essere trattate alla stregua di liberalità d’uso proprio per la sussistenza della relativa prassi; da questa qualificazione si ritraggono importanti conseguenze, specie in punto di oneri formali per gli emolumenti, i quali non necessiterebbero, ai sensi dell’art. 770, comma 2°, c.c., di essere attribuiti per atto pubblico.

Nell’ordinamento francese, invece, la realizzazione di uno scopo di interesse generale è consentita, in virtù dell’art. 6 della legge 90-559 del 4 luglio 1990, ad enti lucrativi, pubblici e privati, tramite la costituzione di una fondation d’entreprise, la quale deriva questa denominazione non tanto dal fatto di esercitare attività d’impresa, che può essere meramente eventuale, ma dall’essere uno strumento di azione che società civili e commerciali, enti pubblici economici, cooperative e mutue utilizzano per finalità di non lucrative. C. Debbasch, Le nouveau statut des fondations: Fondations d’entreprise et fondations classiques, cit., 272, precisa a questo proposito che il fondatore, nel caso di specie, «le plus souvent, souhaite se lancer dans des actions de mécénat beaucoup plus pour des raisons diverses tenant à la stratégie de l’entreprise que pour rechercher la survie de ce soutien à tel ou tel projet qui peut d’ailleurs se situer à plus o moins long terme». Si v. inoltre E. Moscati, Fondazioni e gestione di imprese, in Studi in onore di Pietro Rescigno, vol. II, t. 1, Milano, 1998, 605 ss., spec. 616 s., il quale, in relazione alla fondation d’entreprise, sottolinea come, essendo l’attività della medesima strumentale al conseguimento delle finalità imprenditoriali dell’impresa fondatrice, sia «addirittura fisiologico che i programmi della fondazione debbano conformarsi alla strategia globale, anche di mercato, dell’impresa fondatrice, che, tra l’altro, è responsabile dell’attività della fondazione nei confronti dei proprî azionisti».

 

[92] Per questa opinione, in relazione ai patrimonî dedicati nel settore dell’impresa sociale, cfr. G. M. Rivolta, Profili giuridici dell’impresa sociale, in Giur. comm., 2004, 1161 ss., 1175.

 

[93] G. M. Rivolta, Profili giuridici dell’impresa sociale, cit., 1174 s.

 

[94] Da ultimo si veda la sintesi di F. Gennari, I patrimonî destinati ad uno specifico affare, cit., 65 ss.

 

[95] Ne dà conto F. Gennari, I patrimonî destinati ad uno specifico affare, cit., 66.

 

[96] L’impresa sociale non è stata invece agevolata sotto il profilo fiscale, ciò che ha costituito motivo di critica alla relativa disciplina (cfr. sul punto M. V. De Giorgi, Approvato il decreto attuativo della legge delega sull’impresa sociale, cit., 755). Scelta analoga è stata peraltro compiuta anche per la CIC (Community Interest Company) inglese, prevista dal Companies Audit, Investigations and Community Enterprise Act del 2004; trattasi di società costituite secondo il Companies Act del 1989, ma destinate esclusivamente a scopi non lucrativi.

 

[97] A questo proposito, sarebbe opportuno verificare, se non l’estensione analogica, la possibilità, in via di riforma legislativa, di correlare l’attuazione dello scopo non profit all’emissione di strumenti finanziari sul modello dei titoli di solidarietà previsti dall’art. 29 del D. Lgs. 4 dicembre 1997 n. 460. In tal caso la società emittente sarebbe il titolare del patrimonio separato, il cui scopo ideale verrebbe finanziato dai titoli suddetti, la quale godrebbe di una duplice convenienza: la possibilità di dedurre fiscalmente dal reddito d’impresa la differenza tra il tasso effettivamente praticato ed il tasso di riferimento, determinato ai sensi dell’art. 29 cit., e il ricorso al finanziamento esterno per la sopravvivenza del fine non profit.

 

[98] Il riferimento è all’impostazione seguita nel citato lavoro di S. Koos, Fiduziarische Person und Widmung. Das stiftungsspezifische Rechtsgeschäft und die Personifikation treuhänderisch geprägter Stiftungen, spec. 135 ss., 353 ss.

 

[99] Si veda supra nota 7.

 

[100] Nel dettaglio, S. Koos, op. cit., 168, 246 s.

 

[101] Di conseguenza, non sarebbe ad esempio coerente alla fondazione dipendente l’art. 29 c.c. in tema di divieto di nuove operazioni che incombe sugli amministratori dal momento in cui è stato loro comunicato il provvedimento di estinzione della persona giuridica che ha proceduto all’autodestinazione, tenuto conto del fatto che, come sopra precisato (v. par. 6), il vincolo sui beni, ed i connessi doveri degli amministratori di gestire il patrimonio in conformità allo scopo, sopravvivono all’estinzione del titolare.