Autodestinazione e separazione patrimoniale negli
enti non profit dopo la riforma del
diritto societario*
Università di Sassari
Sommario: 1. Limiti formali
all’estensione dei patrimonî destinati della società per
azioni per gli enti non profit ed esigenze di un loro superamento. –
2. La natura giuridica
del patrimonio autodestinato tra fondazione dipendente e rapporto fiduciario.
– 3. – Le
tecniche di estensione: l’applicabilità in via analogica degli
artt. 32 e 2447 bis e ss., c.c. alle persone giuridiche del libro I del Codice
civile; la correlazione sistematica tra i due modelli di patrimonio separato.
Critica. – 4. Un
possibile fondamento normativo della separazione: l’art. 2645 ter c.c.
– 5. La disciplina
dei beni autodestinati. I rapporti tra scopo e patrimonio generali e speciali.
– 6 (segue). Regole
di gestione e responsabilità. – 7. Autodestinazione ed
esercizio dell’impresa strumentale allo scopo principale dell’ente.
– 8. I patrimoni
dedicati a scopi non lucrativi nella s.p.a.: un competitore degli enti non
profit? – 9. Conclusione
e linee guida per una riforma.
La
riforma del diritto societario italiano, introducendo i patrimonî
destinati ad uno specifico affare per la società per azioni (artt. 2447 bis e ss., c.c.), ha compiutamente
definito l’opzione tra alterità soggettiva e separazione
patrimoniale[1]
come forme di limitazione della responsabilità nell’esercizio
dell’impresa. In questo caso è un atto di autonomia, legalmente
tipizzato nei suoi requisiti, che fonda l’effetto separativo, con
ciò rispettandosi la coerenza dell’istituto con l’art. 2740,
comma 2°, c.c., che riserva alla legge la creazione di limitazioni di
responsabilità. Inoltre, la correlazione tra separazione e destinazione,
al di là dei profili di autotutela nell’attività di
impresa, è strumentale alla migliore realizzazione dell’affare
programmato, consentendo una gestione del medesimo più razionale, anche
sotto il profilo dei costi di amministrazione[2].
Una
simile forma giuridica non è invece disponibile per gli enti del libro
primo del codice civile, i quali peraltro ben potrebbero avvalersene, sotto il
profilo degli interessi realizzabili, per il miglior perseguimento dei
proprî scopi. Osta difatti ad un’estensione dell’ambito di
applicazione degli artt. 2447 bis e
ss., c.c., il dettato del citato art. 2740, comma 2°, c.c., tassativo nel
riferimento alla fonte legale delle limitazioni, il quale impedisce che i
patrimonî destinati ad uno specifico affare possano essere realizzati al
di fuori del tipo “società per azioni”, elemento essenziale
della fattispecie separativa[3].
Anche
nel campo delle persone giuridiche non
profit si riscontrano, peraltro, fenomeni di separazione patrimoniale, qual
è tipicamente quello definito dall’art. 32 c.c., dedicato ai beni
lasciati o donati alle persone giuridiche per uno scopo diverso da quello
istituzionale perseguito dalle medesime[4].
Difatti,
la possibilità che, in caso di trasformazione o scioglimento
dell’ente cui siano stati attribuiti questi beni, essi vengano devoluti
ad altre persone giuridiche aventi fini analoghi, dimostra che ci si trova nel
caso di specie dinanzi ad un patrimonio separato che non segue le vicende
liquidative (in caso di estinzione) o il nuovo assetto (in caso di
trasformazione) della persona giuridica, ma viene preservato in modo da
realizzare lo scopo (di natura non lucrativa), originariamente affidatogli,
tramite un nuovo strumento di azione[5].
Le
differenze senz’altro ravvisabili tra i due istituti, sulle quali mi
soffermerò a breve, non debbono, a mio parere, essere ritenute
preclusive della possibilità di indagare se vi siano elementi normativi
e sistematici che consentano, nel rispetto del principio di tipicità dei
patrimonî destinati, di costruire un meccanismo normativo tramite il
quale gli enti non profit perseguano
scopi particolari proprî per mezzo della separazione patrimoniale,
meccanismo analogo, almeno in punto di effetti, a quello previsto dagli artt.
2447 bis e ss. c.c., ma da rendersi
coerente con le peculiarità dell’art. 32 c.c.
Oltre al
problema evidenziato, il presente lavoro affronterà le implicazioni ad
esso connesse, che ne completano l’impatto sistematico, e precisamente:
la natura giuridica dei patrimonî speciali che sorgono a seguito
dell’atto di autodestinazione, atteso che per i beni con destinazione
particolare delle persone giuridiche si è parlato di fondazione
fiduciaria, quindi di un soggetto di diritto non personificato; inoltre, la
disciplina applicabile al nuovo istituto; ancora, la ammissibilità della
destinazione di un patrimonio, da parte di una persona giuridica non profit, all’esercizio di
un’impresa strumentale allo scopo principale dell’ente; infine, la
possibilità che la s.p.a. destini, con efficacia separativa, parte del
proprio patrimonio ad attività non lucrative.
Nell’affrontare
la natura giuridica del patrimonio destinato negli enti non profit, conviene
muovere dalla constatazione che l’autoseparazione di una parte del
proprio patrimonio ad opera della fondazione è stata in passato evocata[6]
per replicare all’obiezione rivolta alla Zweckvermögenstheorie[7]
circa «la contradiction irrèductible qui nâit de
l’erection en subjet actif de la fondation de ce qui n’est autre
que son objet»[8].
Poiché la dottrina, al di là della fondata obiezione, ha comunque
fatto riferimento alla fondazione dipendente, genus al quale appartiene anche la fondazione fiduciaria[9],
per individuare la natura del fenomeno di cui all’art. 32 c.c.[10],
viene da chiedersi se questa categoria concettuale sia idonea a rappresentare
correttamente anche la fattispecie in esame. Gli studiosi della unselbständige Stiftung nel diritto
tedesco hanno a questo proposito evidenziato che, dei tre significati che il
termine Stiftung possiede, ossia, per
sineddoche, il negozio di fondazione (“Stiftungsrechtsgeschäft”), lo scopo che questa si prefigge,
giuridicamente riconosciuto (“rechtlich
anerkannten Zweck”), e il patrimonio destinato allo scopo (“Stiftungsvermögen”), quali
elementi costitutivi della fondazione dotata di capacità giuridica, il
primo e il terzo sono proprî anche della fondazione dipendente[11].
Peraltro, deve notarsi che anche nella fondazione dipendente sussiste una
valutazione dello scopo da parte dell’ordinamento giuridico: per i beni
con destinazione particolare, poiché il perseguimento della medesima
richiede una modifica dell’atto costitutivo dell’ente titolare, da
approvarsi dall’autorità governativa, il fine speciale viene
comunque sottoposto al placet di
quest’ultima[12].
Allora, se tutti i requisiti prima esposti possono dirsi sostanzialmente comuni
alla fondazione dipendente e alla fondazione autonoma, va chiarito quale sia la
differenza tra i due istituti. Che il problema sia rilevante lo si ricava
dall’ampia casistica che, a differenza di quanto riscontrabile nel
sistema italiano[13],
è fiorita sull’istituto nell’ordinamento germanico[14].
Peraltro, sia nel diritto italiano che nel diritto tedesco, nonostante
quest’ultimo abbia recentemente riformato la disciplina delle fondazioni
private (Gesetz zur Modernisierung des
Stiftungsrecht, del 15.07.2002, ma il discorso può estendersi anche
alle legislazioni dei Länder),
il problema della fondazione dipendente non è stato affrontato in via
generale[15],
per cui l’integrazione della disciplina della fondazione dipendente,
costituita da scarne disposizioni di diritto delle obbligazioni e successorio[16],
è legata all’applicazione analogica dei paragrafi 80-88 del BGB
relativi alla fondazione riconosciuta di diritto privato[17].
In Italia invece, premessa l’impossibilità di far assurgere la
fondazione dipendente, o fiduciaria, o non riconosciuta, a principio generale[18],
si è invitato il legislatore, in caso di eventuale riforma del diritto
delle fondazioni, ad astenersi dall’affrontare il problema[19].
Di
diverso avviso è stato il legislatore francese, il quale, con l’art.
6 della legge 90-559 del 4 luglio 1990[20],
ha previsto in via generale la fondazione fiduciaria, modificando l’art.
20 della legge n. 87-571 del 23 luglio 1987, sul presupposto che
l’imposizione del vincolo di destinazione ad un gruppo di beni attribuiti
ad una fondazione già riconosciuta di utilità pubblica fosse
accompagnata dalla previsione nello statuto di quest’ultima della
possibilità di essere titolare di patrimoni separati[21].
Taluna
dottrina ha peraltro sottolineato la distinzione tra fiducia e fondazione
dipendente, quest’ultima definita come «attribution d’un bien
à une personne morale déjà existante et dont le revenus
doivent être employès par cette personn à un but
spécifié par le donateur», nel fatto che l’ente
titolare diventa proprietario in via definitiva del patrimonio lasciato o
donato per uno scopo particolare, e rimette al beneficiario esclusivamente le
rendite dei beni che gli sono stati trasmessi[22].
Ciò
significa che, in realtà, si è voluto attribuire il nomen iuris di fondazione a ciò
che fondazione non è, e che piuttosto consiste, dal punto di vista del
patrimonio, nel termine di riferimento oggettivo di un rapporto di natura
fiduciaria[23],
il quale in più punti si discosta, a cagione delle peculiarità di
questo rapporto, dalla disciplina prevista per le fondazioni, a cui è
legato, a ben vedere, esclusivamente dal rilievo reale della destinazione dei
beni.
Questa
conclusione può replicarsi anche per il nostro ordinamento: la negazione
di un’autonomia soggettiva della fondazione dipendente può in
sintesi ricavarsi i) dalla
titolarità dei beni in via definitiva in capo ad una persona giuridica; ii) dalla responsabilità
sussidiaria di quest’ultima, la quale risponde di un’obbligazione
propria; iii) dal trattamento
normativo riservato ai beni con destinazione particolare in caso di estinzione
o trasformazione della persona giuridica, ossia l’attribuzione ad altro
ente riconosciuto avente fini analoghi, ciò che conferma come il
patrimonio sia mero centro di imputazione oggettiva del rapporto[24].
L’autodestinazione,
invece, a differenza di quanto avviene con la fattispecie di cui all’art.
32 c.c., non si presta ad essere inquadrata negli schemi della fiducia,
poiché è assente il trasferimento dei beni, che della fondazione
fiduciaria costituisce requisito essenziale[25].
Inoltre, anche la ricostruzione in termini di rapporto, essendovi un unico
soggetto, risulterebbe erronea[26].
Il
sintagma “fondazione dipendente” altro non è allora che una
mera espressione riassuntiva di una speciale disciplina che un soggetto
collettivo imprime ai proprî diritti
su taluni beni destinati ad un fine particolare[27].
La distinzione con la fondazione autonoma, di conseguenza, è
esclusivamente legata non al concetto
o alla struttura della fattispecie,
bensì, in un’ottica di diritto positivo, al contenuto della disciplina applicabile.
Giunti a
tale conclusione[28],
si tratta per l’appunto di individuare le regole coerenti al caso
dell’autodestinazione per gli enti non
profit. L’alternativa da cui prendere le mosse si pone, ritengo, tra
l’applicazione analogica, sic et
simpliciter, a) dell’art.
32 c.c. e delle disposizioni connesse[29]
in relazione alla fondazione dipendente[30],
ovvero b) della disciplina dei patrimoni destinati ad uno specifico affare
(artt. 2447 bis e ss. c.c.); oppure,
come soluzione eclettica, c) l’integrazione di tali norme.
Le prime
due proposte si presentano alquanto problematiche sotto varî profili.
Utilizzando come paradigma di riferimento dell’autodestinazione a scopi
non lucrativi la disciplina dei beni con destinazione particolare, si è
detto che tale fattispecie è assai diversa, per presupposti e struttura,
dai patrimonî dedicati nella s.p.a.: anzitutto, mentre in questi ultimi
il titolare del patrimonio separato è artefice della relativa vicenda,
che piega alle proprie esigenze, nell’ipotesi dell’art. 32 c.c.
l’ente destinatario dell’attribuzione è uno strumento nelle
mani del disponente, e persegue uno scopo di quest’ultimo; inoltre, la
disciplina degli artt. 2447 bis e
ss., c.c., è volta a contemperare essenzialmente gli interessi della
s.p.a. e dei creditori[31],
mentre nella ricostruzione della fattispecie dei beni con destinazione
particolare deve tenersi conto degli interessi (i) dell’ente, che non può subire pregiudizio
dall’adempimento dello scopo speciale, (ii) del disponente, il quale ha prescelto la persona giuridica
come il soggetto più idoneo a soddisfarli, (iii) dei creditori della persona giuridica stessa, il cui titolo
sia connesso all’attività istituzionale del debitore o derivi
invece dal fine particolare, (iv) dei
beneficiarî i cui diritti siano identificati in base al suddetto fine[32];
infine, la separazione patrimoniale biunivoca è un effetto naturale
nella società per azioni (art. 2447 quinquies,
3° comma, primo periodo, c.c.), mentre la fattispecie dell’art. 32 c.c.
implica una forma di responsabilità sussidiaria[33],
poiché la persona giuridica risponde con il proprio patrimonio qualora i
beni con destinazione particolare fossero insufficienti ad adempiere alle
obbligazioni contratte per l’attuazione dello scopo speciale. Le
differenze evidenziate impediscono allora, in virtù del citato art.
2740, comma 2°, c.c., di far derivare l’effetto separativo
nell’autodestinazione dalla norma di cui all’art. 32 c.c. (per
evidenti ragioni strutturali), ovvero dalla disciplina dei patrimonî
dedicati nella s.p.a. (a causa dello scopo non lucrativo che si vorrebbe
perseguire con la suddetta autodestinazione, incompatibile con
l’”affare” cui presiedono gli artt. 2447 bis e ss., c.c.).
Se una
soluzione fondata sull’applicazione analogica, in via alternativa, delle
norme richiamate non appare persuasiva per questi motivi, non convince neanche
ai nostri fini un approccio che valorizzi l’integrazione delle medesime,
da essa ricavando fonte e regole di un ipotetico patrimonio destinato a scopi
non lucrativi dall’ente titolare.
Più
precisamente, ritrarre, per identità teleologica, la fonte
dell’effetto separativo dalla norma sui beni con destinazione
particolare, e ricavare le regole relative alla gestione e
responsabilità nell’attuazione dello scopo in base ad un principio
di compatibilità della disciplina dei patrimonî dedicati con la
natura non profit del titolare,
sarebbe il frutto di un’operazione “creatrice” non coerente
con il carattere tassativo e speciale delle norme citate. Queste, difatti, si
pongono come puntuali strumenti di realizzazione dell’effetto separativo,
con ambito di applicazione circoscritto ai dati ricavabili dal diritto
positivo.
Anche
con riferimento a questa prospettiva possono pertanto obbiettarsi le ragioni
che hanno portato ad escludere le precedenti: in tutti i casi si tratta di
operazioni di ortopedia giuridica che, seppure suggestive, non possono valere a
dare fondamento separativo alla destinazione.
Per
ovviare a queste difficoltà non potrebbe, a mio avviso, accogliersi la
tesi che svaluta la portata del principio di tipicità dei
patrimonî separati, affermando che considerare la relativa disposizione,
per la quantità di eccezioni che sono positivamente espresse al suddetto
principio, come fonte di un principio di ordine pubblico appare “persino
un poco ridicolo”[34].
Se così fosse, nulla osterebbe all’applicazione in via analogica
degli artt. 2447 bis e ss. c.c. (o
dell’art. 32 c.c., a seconda della disciplina che si presceglie come
modello), il che risolverebbe la questione in esame anche in assenza di un
coordinamento sistematico con altre disposizioni.
A questa
opinione è stato però persuasivamente replicato che le eccezioni
con le quali essa giustifica la abrogazione tacita dell’art. 2740, comma
2°, c.c., sono pur sempre di carattere legislativo[35],
il che conferma l’attuale presenza di significato della disposizione e,
conseguentemente, l’impossibilità di applicare analogicamente, in
quanto eccezionali, le norme che prevedono patrimonî separati.
Qualora
si volesse ricercare la fonte della separazione nell’autodestinazione di
parte del proprio patrimonio a specifici scopi di carattere non lucrativo,
dovrebbe allora individuarsi un’apposita previsione di legge che
conferisca questo effetto all’atto di autonomia della persona giuridica.
Questa
disposizione a mio parere si rinviene nell’art. 2645 ter c.c., di recente approvazione[36],
il quale consente di trascrivere gli atti di destinazione diretti a realizzare
interessi meritevoli di tutela ai sensi dell’art. 1322, comma 2°,
c.c., a favore di persone con disabilità, pubbliche amministrazioni e
altri enti o persone fisiche.
Difatti
l’art. 2645 ter c.c. individua
talune categorie di soggetti (con particolare riferimento alle categorie
“nominate”: persone affette da disabilità e pubbliche
amministrazioni) come destinatarî degli effetti positivi dell’atto.
Lo scopo per il quale la trascrizione, e la conseguente opponibilità dell’effetto
separativo[37],
viene consentita dalla norma, è pertanto tipicamente volto a determinare
una ricaduta positiva dei beneficî dell’atto sulla
collettività[38],
sovrapponendosi, seppur parzialmente, alle finalità perseguite dalle
persone giuridiche del libro primo del codice civile[39].
La
persona giuridica potrebbe perciò destinare parte del proprio patrimonio
ad uno scopo anche diverso da quello istituzionale dell’ente, ma comunque
di pubblica utilità[40],
con regole di gestione poste dall’autonomia privata e funzionali al
perseguimento di quel fine.
Si pone
allora il problema di individuare le disposizioni applicabili nelle ipotesi non
previste dall’atto di destinazione: ciò significa identificare un
paradigma normativo cui attingere, e stabilire i parametri in base ai quali
selezionare la regola più conferente al caso concreto.
Posto
che il limite all’applicazione analogica delle norme sui patrimonî
dedicati e dell’art. 32 c.c. attiene esclusivamente alla produzione
dell’effetto separativo, tale limite non sussiste per quanto concerne le
prescrizioni relative all’amministrazione dei beni e ai relativi vincoli
di disponibilità. Ne consegue che i modelli cui fare riferimento per una
compiuta disciplina della nuova fattispecie sono appunto gli artt. 2447 bis e ss., c.c., e la norma sui beni con
destinazione particolare.
Peraltro
non è semplice operare una distinzione tra quanto è coerente
all’ipotesi in esame e le regole ad essa non applicabili[41].
In particolare, risulta dubbia la possibilità di trasporre la norma sui
limiti quantitativi alla consistenza dei patrimonî dedicati (art. 2447 bis, comma 2°, c.c.); la previsione
circa la biunivocità della separazione e quella attinente alla
inopponibilità della medesima ai creditori c.d. involontari (art. 2447 quinquies, 3° comma, c.c.); quella
che conferisce ai creditori anteriori alla costituzione del patrimonio separato
il potere di proporre opposizione (art. 2447 quater, 2° comma, c.c.). Si tratta in sintesi di verificare se
le disposizioni elencate siano espressione di regole transtipiche[42],
che contribuiscono a definire lo “statuto” della separazione
patrimoniale, ovvero restino confinate nell’ambito loro proprio[43].
Il primo
compito che a mio avviso si pone all’interprete è la definizione
dei rapporti tra scopo generale e scopo speciale: difatti, posto che
l’autodestinazione consiste nella distrazione di parte del patrimonio
dell’ente per un fine diverso da quello istituzionale, è
necessario modificare l’atto costitutivo e sottoporre la variazione
patrimoniale e organizzativa, ai sensi dell’art. 2 del d.P.R. n. 361 del
10 febbraio 2000 sulla riforma del procedimento per l’attribuzione della
personalità giuridica[44],
all’approvazione dell’autorità governativa. Questa
verificherà se sussista ancora l’adeguatezza del patrimonio
dell’ente rispetto al fine statutario richiesta dall’art. 1, 3°
comma, del d.P.R. citato, negando allora il proprio consenso là dove
detto fine sia compromesso dal perseguimento dello scopo speciale (anche in
relazione al fatto che è improbabile nel caso di specie
un’imputazione al patrimonio separato dei relativi costi di gestione[45]).
Nel caso
di una positiva valutazione della modifica, la relativa operatività
esige due adempimenti: la registrazione contabile del patrimonio separato[46],
al fine di rendere costantemente edotti i terzi (essenzialmente, creditori
generali e speciali dell’ente titolare) della relativa consistenza[47];
la trascrizione del vincolo di destinazione sui beni immobili e mobili
registrati eventualmente devoluti allo scopo speciale, ai sensi dell’art.
2645 ter c.c., anch’essa
effettuata a fini pubblicitari, ma con valenza dichiarativa.
Il primo
profilo non trova compiuta rispondenza nell’art. 4, comma 1°, del
d.P.R. 361/2000 citato, il quale, in ordine al fondo dell’ente non profit, impone la identificazione,
che attiene peraltro al mero valore complessivo, del patrimonio generale della
persona giuridica a seguito della menzione nell’atto costitutivo iscritto
nel registro delle persone giuridiche tenuto presso le prefetture[48].
Dovrebbe perciò estendersi la relativa pubblicità-notizia anche
al valore del patrimonio autodestinato dall’ente ad un fine particolare,
con il deposito della delibera di modificazione dell’atto costitutivo in
cui si indica, oltre a quali e quanti beni ne fanno parte, anche la traduzione
in termini monetarî dell’oggetto della separazione.
Quanto
invece alla trascrizione della destinazione, e alla conseguente opponibilità
del vincolo, va anzitutto chiarito che l’effetto separativo si verifica
in relazione ai soli beni immobili e mobili registrati, espressamente
menzionati dall’art. 2645 ter c.c.,
mentre è da escludere che si produca in capo a beni mobili[49].
La
questione che però preme risolvere è relativa
all’identificazione del momento in cui sorge l’effetto separativo:
a mio avviso, la semplice trascrizione ai sensi dall’art. 2645 ter c.c. non è sufficiente,
poiché elementi congiuntamente necessarî per la separazione sono,
anzitutto, l’iscrizione della delibera modificativa dello statuto nel
registro delle persone giuridiche, ai sensi dell’art. 4, comma 2°,
del d.P.R. 361/2000, e, successivamente, la suddetta trascrizione.
Non
può invece ipotizzarsi il riferimento, come causa preclusiva di questo
effetto, ad eventuali opposizioni dei creditorî, previste per i
patrimonî dedicati della s.p.a. dall’art. 2447 quater, 2° comma, c.c., in pendenza delle quali l’effetto
reale sarebbe sospensivamente condizionato[50].
A seguito dell’approvazione governativa, difatti, qualunque ostacolo
preventivo all’efficacia della separazione deve considerarsi rimosso,
residuando allora per i creditorî l’azione revocatoria
dell’atto di autodestinazione, come ordinario rimedio di tutela della
garanzia patrimoniale generica, che mi pare peraltro maggiormente coerente, in
assenza di disposizioni specifiche nell’art. 2645 ter c.c., con la regola generale che governa gli atti di autonomia
privata.
La
necessità di dar conto delle variazioni qualitative e quantitative del
patrimonio speciale, in connessione con l’oggetto del vincolo di
destinazione, conduce poi a valutare l’ammissibilità, concettuale
e operativa, dei collegamenti c.d. intergestori tra il patrimonio destinato
alla garanzia generica e quello riservato all’aggressione dei creditori
il cui titolo trovi causa nella destinazione[51].
Difatti l’inserimento di nuovi beni o la sottrazione di quelli
preesistenti allo scopo sono qualificabili come “acquisti” del
patrimonio dall’ente o dell’ente dal patrimonio[52].
È
indubbio che debba essere tempestivamente pubblicizzata qualunque variazione
nella composizione del patrimonio separato che comporti modifiche
all’oggetto del vincolo, con la cancellazione di questo dai pubblici
registri per i beni che vengono ritrasferiti nel fondo dell’ente. Ma si
pone il problema di tutelare i creditori, il cui titolo sia connesso allo scopo
speciale, che hanno confidato su tali beni, considerando che la distrazione dei
medesimi potrebbe essere connessa a politiche di riequilibrio patrimoniale
dell’esposizione debitoria dell’ente in vista dell’attuazione
dello scopo principale[53].
Ora, la responsabilità sussidiaria della persona giuridica[54]
pone a mio avviso al riparo da preordinati impoverimenti del patrimonio
separato, a danno delle relative classi creditorie; queste peraltro, mentre
possono soddisfarsi sui beni in discorso in via esclusiva, in seguito al
ritrasferimento nel fondo dell’ente, dovranno subire il concorso dei
creditori generali di quest’ultimo.
Il
procedimento inverso, che consiste, una volta deliberata la creazione di un
patrimonio destinato ad uno scopo speciale, nell’arricchimento successivo
della dotazione iniziale con ulteriori cespiti, diminuisce invece la garanzia
generica per i creditori generali dell’ente; essi conservano comunque la
facoltà di agire per la revocatoria dell’atto di destinazione[55].
Molti e
complessi problemi sorgono invece qualora si intenda por fine alla destinazione
patrimoniale e far confluire l’intero residuo nel fondo della persona
giuridica, ovvero quando si verifichi una causa di estinzione del vincolo[56].
Quest’ultima ipotesi è stata oggetto di studio in relazione ai
patrimonî dedicati della s.p.a., con riferimento alla pubblicità
dell’estinzione per il raggiungimento dello scopo ovvero per l’impossibilità
di conseguirlo[57].
Ai nostri fini possono replicarsi le considerazioni svolte sull’art. 2447
novies c.c., in cui si indicano, tra
le questioni non risolte dalla norma,l’eventuale pubblicità del
verificarsi di una causa di scioglimento del vincolo e la sussistenza
dell’obbligo in capo agli amministratori dell’ente di accertare le
cause di estinzione e di astenersi dal compiere operazioni non meramente
conservative del patrimonio destinato[58];
mentre va chiarito se possa analogicamente desumersi dalla disposizione citata
il dovere da parte degli amministratori di depositare un rendiconto finale.
Per
quanto concerne il primo interrogativo avrei serî dubbi ad ammettere che
l’ente titolare possa far cessare la destinazione in assenza di cause
esterne di estinzione del vincolo. E ciò per quanto esposto in questa
sede in ordine alla ratio da
assegnarsi all’art. 2645 ter c.c.,
di alternativa alla costituzione di una fondazione per il perseguimento di
scopi di pubblica utilità[59].
L’unica ragione che legittimi detta cessazione, può rinvenirsi in
un eventuale conflitto sopravvenuto tra scopo generale e scopo speciale; in
ogni caso sarebbe necessaria per l’estinzione un’ulteriore modifica
dell’atto costitutivo, essendo insufficiente a questo scopo cancellare la
trascrizione del vincolo sui beni del patrimonio[60].
La
pubblicità della causa di cessazione del vincolo di destinazione avrebbe
come effetto la confluenza dei beni ad esso sottoposti nel fondo
dell’ente, quindi l’espansione della garanzia generica per i debiti
della persona giuridica.
Va
peraltro identificata la forma che deve assumere l’accertamento
dell’estinzione, quale sia l’organo deputato a pronunciarlo, se
detta pronuncia possa essere oggetto di contestazione da parte dei
destinatarî degli effetti dello scopo. A questo proposito, non mi pare
possa dubitarsi che l’accertamento debba essere effettuato dagli
amministratori dell’ente, tramite delibera del relativo organo; allo
stesso modo, ritengo sia dato ai beneficiari dell’attività
speciale di agire in giudizio al fine di ottenere l’adempimento
dell’obbligazione, sorta da promessa unilaterale (nella forma della
promessa al pubblico[61]),
in cui consiste la suddetta attività, che si assume estinta per
impossibilità sopravvenuta o conseguimento dello scopo.
Quanto
ora precisato chiarisce che in capo agli amministratori sussiste un vero e
proprio obbligo di accertare e rendere note le cause di estinzione del vincolo,
atteso che da queste condotte conseguono riflessi sui rapporti tra patrimonio
generale e speciale, in specie la confluenza del secondo nel primo, i quali
incidono sui diritti dei creditori di entrambe le masse. Diritti, questi, che,
in relazione ai creditori speciali, debbono essere salvaguardati non coinvolgendo
il patrimonio separato in operazioni che non siano strettamente funzionali
all’attuazione dello scopo statutario dell’ente.
Resta da
valutare l’applicabilità in via analogica della norma sui
patrimonî dedicati che sancisce l’obbligo di depositare un rendiconto
in capo agli amministratori a seguito della cessazione del vincolo (art. 2447 novies
c.c.). L’identità di funzione ascrivibile al rendiconto nelle
due ipotesi, soprattutto in termini di accertamento della coerenza della
gestione con lo scopo cui si è finalizzato il patrimonio, consiglia di
ritenere sussistente l’obbligo suddetto, a garanzia della trasparenza di
un’attività rivolta a terzi soggetti[62].
Nei
rapporti tra patrimonio generale e speciale, non è chiara la sorte di
quest’ultimo in caso di estinzione o trasformazione dell’ente[63].
La devoluzione dei beni con destinazione particolare è assegnata
dall’art. 32 c.c. all’autorità governativa, che provvede ad
attribuirli ad altre persone giuridiche aventi fini analoghi; l’art.. 31
c.c., in assenza di disposizioni statutarie o dell’atto costitutivo,
indica la medesima soluzione. La differenza tra le due ipotesi sta nella
sopravvivenza dell’onere sancita dall’art. 32 c.c., da cui la
realità del vincolo, che si trasferisce difatti al nuovo titolare;
questi è obbligato a perseguire lo scopo che il disponente aveva
programmato quando ha lasciato o donato i beni all’ente originario. Da
qui l’interrogativo: l’autodestinazione sopravvive o meno
all’estinzione della persona giuridica, vincolando il nuovo titolare, o
questi può, divenuto proprietario del relativo patrimonio, farne un uso
conforme al proprio fine istituzionale? Per la seconda ipotesi milita la
generalità dell’art. 31 c.c., al quale il successivo art. 32, e la
connessa previsione di sopravvivenza dell’onere, debbono considerarsi
eccezione, quindi non suscettibili di estensione a differenti fattispecie.
La
disposizione generale va però resa coerente con la nuova disciplina del
patrimonio separato: l’art. 2645 ter
c.c. prevede difatti una durata del vincolo pari alla vita del beneficiario
o, se questi è persona giuridica, non superiore a novanta anni;
ciò significa che, indipendentemente dalle vicende del disponente, il
vincolo si perpetua entro i limiti anzidetti. Se allora il rimedio di cui
all’art. 32 c.c. è eccezionale e non riferibile ad ipotesi diverse
dal rapporto fiduciario che disciplina, altrettanto non può sostenersi
per l’atto di autodestinazione, legittimato dall’art. 2645 ter c.c. Il vincolo di destinazione
sopravvivrà allora sui beni devoluti[64],
secondo il criterio analogico indicato nell’art. 31 c.c., ad altra
persona giuridica per la durata della vita del beneficiario o per
novant’anni, se questo sia un ente personificato[65].
La
gestione del patrimonio speciale si differenzia, nei criteri di condotta, dal
modello della “fondazione fiduciaria” di cui all’art. 32
c.c., basato essenzialmente sulla disciplina del mandato[66].
Nel caso dell’autodestinazione l’ente, nel perseguimento dello
scopo speciale, deve attenersi, in via generale, alle seguenti direttive: a) la
derogabilità del modello gestorio sotteso allo scopo statutario, in base
alla natura del fine particolare (se, pertanto, il fondo dell’ente
è oggetto di amministrazione statica, può impostarsi in senso
dinamico il perseguimento dello scopo speciale, qualora tale tipologia di
condotta ne consenta una migliore realizzazione[67]);
b) la compatibilità dell’atto di gestione del patrimonio speciale
con lo scopo generale dell’ente (il che significa l’adozione di un
criterio prudenziale nell’intraprendere operazioni rischiose, in quanto,
se queste si rivelassero in perdita, dei debiti non soddisfabili con il
patrimonio separato risponderebbe il fondo della persona giuridica); la
necessaria menzione della finalità per cui l’atto viene compiuto,
al fine di rendere edotti i terzi dell’imputabilità del medesimo
al patrimonio separato (così per i patrimonî dedicati della s.p.a.
l’art. 2447 quinquies, 3°
comma, il quale, in caso di inosservanza, prevede l’imputazione del
debito al patrimonio generale dell’ente).
Le
regole così individuate debbono ritenersi costitutive della separazione,
nel senso che, in caso di loro in osservanza, deve presumersi che questa non
abbia natura reale, bensì meramente gestionale. Ne consegue la
confluenza dello scopo speciale in quello generale, e la responsabilità
per i relativi debiti in via immediata[68]
con tutti i beni della persona giuridica.
In
generale, la responsabilità con i beni autodestinati è riservata
alle obbligazioni contratte per il perseguimento dello scopo: i relativi
creditori, pertanto, aggrediranno in via esclusiva il patrimonio speciale,
mentre questo sarà al riparo dalle ragioni dei creditori generali
dell’ente[69].
Questi ultimi, si è detto, vedranno concorrere sul fondo della persona
giuridica anche i creditori speciali, se insoddisfatti all’esito
dell’escussione dei beni separati[70].
Questo
assetto lineare deve confrontarsi con una particolare tipologia di crediti,
precisamente quelli relativi alle obbligazioni risarcitorie da illecito
extracontrattuale. Per i patrimoni dedicati della s.p.a. è espressamente
previsto che la separazione patrimoniale non esima la società dalla
responsabilità illimitata per le obbligazioni derivanti da fatto illecito
(art. 2447 quinquies, 3° comma,
secondo periodo, c.c.). La separazione dei patrimoni dedicati non è
cioè opponibile ai creditori involontari, intendendosi con questa
espressione, com’è noto, coloro che non hanno potuto scegliere il
proprio debitore in quanto il relativo diritto non è connesso ad un
precedente rapporto tra le parti.[71]
Ci si
può chiedere se le esternalità di una condotta illecita debbano
infrangere i confini della separazione anche là dove quest’ultima
sia finalizzata ad uno scopo di pubblica utilità: in altre parole, la
responsabilità da illecito extracontrattuale deve parimenti sanzionare
l’intero “valore” dell’ente, a prescindere dalle
relative articolazioni patrimoniali, anche quando non sia connessa al rischio
di impresa, ma derivi da un’attività non profit?
Il
problema non è di poco momento, atteso che l’applicazione della
regola in esame inciderebbe sulla realizzazione dello scopo speciale, chiamando
a rispondere di debiti ad esso non riconducibili i beni del patrimonio separato[72]
e privando in tal modo i destinatarî dell’attività
programmata dei relativi risultati.
Ricostruendo
la ratio dell’art. 2447 quinquies, 3° comma, secondo
periodo, c.c. come disincentivo al frazionamento “anomalo” del
rischio di impresa e alla conseguente traslazione del medesimo sui c.d.
creditori involontari[73],
manca a mio avviso il fondamento di un’applicazione analogica della norma
all’autodestinazione negli enti non
profit, strumentale ad uno scopo non lucrativo[74].
Ne
consegue che, come la responsabilità sussidiaria per le obbligazioni che
residuano all’esito dell’escussione del patrimonio speciale
è applicazione di un principio generale dello “statuto” del
patrimonio separato[75],
così l’opponibilità della separazione anche in caso di
diritti risarcitorî di natura extracontrattuale consegue al suddetto
“statuto”: le eccezioni che si rinvengono a proposito dei
patrimonî dedicati della s.p.a. sono espressione di altrettante regole
non transtipiche, le quali si giustificano in virtù della peculiarità
del fenomeno che disciplinano.
Se, come
si è cercato di dimostrare, all’ente non profit è consentita l’autodestinazione a scopi
coerenti con la propria vocazione statutaria, differente è la
conclusione in ordine alla possibilità che la persona giuridica possa
esercitare attività di impresa strumentale al fine istituzionale tramite
un patrimonio separato[76].
Difatti,
per ripercorrere taluni punti fermi qui raggiunti:
a)
per gli enti del libro I del codice civile non è stato
predisposto uno strumento che consentisse di evitare la costituzione di una
società a responsabilità limitata unipersonale come tecnica di
specializzazione della garanzia patrimoniale[77],
essendo riservato l’istituto dei patrimonî dedicati alla sola
s.p.a.;
b)
contro l’estensione analogica all’ipotesi in esame milita il
consueto argomento della tipicità dei patrimonî separati di cui
all’art. 2740, 2° comma, c.c.;
c)
la fonte della separazione non può rinvenirsi nel recente
art. 2645 ter c.c., il quale, ad onta
dell’enfasi con cui se ne è sottolineata la vocazione generalista,
è piuttosto un competitore del negozio di fondazione, in quanto lo scopo
di pubblica utilità, tradizionalmente perseguito con lo strumento della
fondazione, verrebbe realizzato dal disponente conservando la proprietà
dei beni e sottraendosi alle formalità richieste dalla legge per il
riconoscimento della persona giuridica.
Questa
conclusione non esime peraltro dall’interrogarsi se l’eventuale introduzione
di un istituto analogo a quello disciplinato negli artt. 2447 bis e ss., c.c. a vantaggio degli enti non profit sia auspicabile, e quali
ricadute positive essa concretamente assicuri.
Esaminando
un possibile modello di riferimento, può valutarsi l’impatto
sistematico della disciplina sui
beni con destinazione particolare di cui all’art. 32 c.c., qualora una
massa patrimoniale da organizzarsi per l’esercizio dell’impresa sia
trasferita per donazione o lascito testamentario ad un ente riconosciuto.
La
limitazione di responsabilità che consegue in questa ipotesi alla
realità del vincolo è solo parziale, poiché l’ente,
in caso di insufficienza della garanzia speciale, dovrà adempiere alle
obbligazioni relative all’attività di impresa con il proprio
fondo, andando in tal caso soggetto a fallimento, se insolvente[78].
Il presupposto della responsabilità sussidiaria, valevole nel caso di
specie, conduce a questa conclusione. Da essa può trarsi
un’ulteriore caratteristica del fenomeno, ossia l’ascrizione del
medesimo alla categoria dell’affirmative
asset partitioning, consistente nella «assegnazione ai creditori
dell’impresa di una pretesa sui beni in relazione alle operazioni
dell’impresa, la quale gode di preferenza nei confronti delle pretese dei
creditori personali dei proprietari dell’attività di
impresa»; non vi sarebbe, invece, un defensive
asset partitioning, inteso come «forma di preferenza rispetto ai
creditori dell’impresa stessa su una serie di beni personali» del
proprietario dell’impresa, in quanto creditori dell’ente e
creditori dell’impresa connessa al patrimonio separato concorrerebbero in
posizione di parità sul patrimonio generale[79].
A ben
vedere, allora, la situazione descritta non delinea una forma di esercizio
dell’attività di impresa con limitazione della
responsabilità, pur sussistendo la separazione patrimoniale, ma
esclusivamente un’articolazione della garanzia, per cui la persona
giuridica per certe obbligazioni risponde in
primis con taluni beni, liquidati i quali se ne può aggredire il
restante patrimonio[80].
Sulla
base di questi rilievi disciplinari, può comprendersi
l’utilità di una regolamentazione compiuta
dell’attività di impresa esercitata da un ente non profit in regime, derivante
dall’autonomia privata, di separazione patrimoniale, attualmente da
escludere in via generale. Una semplice trasposizione in questo settore dei
patrimonî dedicati nella s.p.a. incontra però due rilievi che le
si oppongono.
Quanto
al primo, pare incoerente con la fattispecie dei beni con destinazione particolare
prevedere nella nostra ipotesi la responsabilità limitata al solo
patrimonio separato per le obbligazioni connesse all’attività di
impresa, in quanto la persona giuridica godrebbe, se autodestinasse a questo
scopo una parte dei proprî beni, di un regime più favorevole di
quanto previsto in caso di attribuzione ad opera di un terzo, che volesse
dotare l’ente dei mezzi per conseguire i fini statutarî. Va allora
ricercata una identità di regolamentazione nei due casi, a prescindere
da quale forma di responsabilità si prescelga.
La
seconda osservazione, di carattere più generale, muove dalla ratio della disciplina consegnata agli
artt. 2447 bis e ss., per cui la
medesima consisterebbe nell’economia di mezzi realizzata con
l’evitare di costituire società controllate per lo svolgimento di
attività di impresa[81].
Ora,
è evidente che l’autodestinazione a scopo di impresa negli enti non profit si discosta, in punto di
giustificazione sistematica, da quanto rilevato in tema di patrimonî
dedicati della s.p.a., poiché non sussiste l’esigenza di
frazionare il rischio di impresa, bensì di contenere il medesimo nei
limiti del patrimonio a ciò destinato, quindi, e la constatazione appare
ovvia, di realizzare l’assetto di interessi formalizzato piuttosto nella
stessa società di capitali, che nei patrimonî dedicati.
Da
ciò dovrebbe conseguire una diversa regolamentazione della fattispecie,
che tenga conto degli interessi: i)
dell’ente, ad esercitare l’impresa in regime di
responsabilità limitata, ii)
dei beneficiarî, a non veder distratto il fondo dell’ente dallo
scopo statutario, iii) dei creditori,
a conservare la garanzia generica per i debiti della persona giuridica.
In prima
approssimazione, nel proporre taluni tratti di un possibile modello, ritengo si
debba adottare la regola della separazione biunivoca: essa, oltre a
rappresentare un vantaggio per l’ente, incontra il favore dei relativi
creditori, che eviteranno di concorrere sull’intero fondo con i creditori
speciali[82],
e dei beneficiari dello scopo non profit,
i quali, anche in caso di dissesto dell’impresa, potranno far conto sulle
capacità dell’ente di operare con il patrimonio residuo[83].
Questa
regola va peraltro coordinata con una limitazione quantitativa cogente dei beni
destinati, che dovrebbe essere determinata, al di là di soglie
precostituite, tenendo conto sia dell’entità del fondo
dell’ente, sia della necessità di predisporre una dotazione idonea all’esercizio di attività
economiche e sufficiente all’adempimento delle relative obbligazioni. Con
questa precisazione, e visto il rapporto di strumentalità
dell’impresa rispetto al fine statutario, è da escludere qualunque
diritto di opposizione preventiva da parte dei creditori della persona
giuridica, in quanto pare difficilmente configurabile la sottrazione fraudolenta
a loro danno di beni da destinare ad un’attività ausiliaria[84].
Allo stesso modo, l’autodestinazione dovrebbe sorgere esclusivamente
tramite delibera del relativo organo di amministrazione (in ciò
replicandosi quanto previsto dall’art. 2447 ter, 2° comma, c.c.)[85],
da iscriversi nel registro delle imprese[86].
La
strumentalità dell’impresa allo scopo generale va infine resa
coerente con l’ipotesi di estinzione della persona giuridica: il relativo
procedimento dovrà allora comprendere la liquidazione dei beni
aziendali, all’esito della quale l’eventuale residuo sarà
devoluto ai sensi dell’art. 31 c.c., in conformità delle
disposizioni dello statuto o dell’atto costitutivo oppure, in assenza di
queste, dall’autorità governativa ad altri enti che perseguono
fini analoghi. Non è difatti sostenibile la permanenza di un vincolo di
destinazione, che nel caso di specie è sorto come modalità di
perseguimento del fine principale dell’ente: il patrimonio speciale
residuo seguirà allora la medesima sorte del patrimonio generale[87].
Un
problema per certi versi speculare rispetto a quanto osservato nel paragrafo
precedente concerne l’esercizio di attività non profit da parte di società di capitali, sul quale
intendo soffermarmi, peraltro in via sommaria e parziale, allo scopo di
delineare l’impatto che la riforma del diritto societario ha prodotto
anche in questo settore.
Anzitutto
una precisazione: qui si vuole far riferimento all’attività non
lucrativa condotta da imprese societarie
che perseguono fini di lucro, per le quali la suddetta attività
è allora esclusivamente accessoria rispetto a questi fini. Non si vuole,
in altre parole, coinvolgere nell’analisi le “società”
senza scopo di lucro[88],
mentre sarà oggetto di considerazione, per i profili che qui
interessano, il fenomeno dell’impresa sociale[89].
L’interrogativo
che qui intendo affrontare attiene, più precisamente, alla
configurabilità del non profit
in regime di separazione patrimoniale, posto in essere, per motivazioni di
carattere fiscale, o filantropico, o anche meramente promozionale
dell’attività statutaria[90],
da società lucrative[91].
Non
dubiterei della possibilità di utilizzare a questo scopo l’art.
2645 ter c.c., e pertanto di
individuare parte dei beni immobili e mobili registrati che costituiscono il
patrimonio della società per destinarli a finalità ideali. Mi
sembra però necessario puntualizzare taluni aspetti problematici:
anzitutto, va chiarito se debba applicarsi in questa ipotesi la regola che
consente ai creditori della s.p.a. di opporsi alla costituzione del patrimonio
separato, atteso che appare incongruo prevedere questo potere nel caso di
destinazione ad uno specifico affare e precluderlo invece quando la diminuzione
della garanzia generica conseguente alla separazione sia connessa con uno scopo
non lucrativo. In entrambi i casi si pone a mio avviso l’esigenza di
tutelare i creditori e, diversamente da quanto osservato in precedenza per il ricorso
all’art. 2645 ter c.c. ad opera
di enti non profit, nel caso di
specie l’opposizione dei creditori è una regola che trova
giustificazione nell’ambito del tipo “società per
azioni” e dovrebbe pertanto applicarsi a tutte le ipotesi di separazione
patrimoniale che vedono la s.p.a. protagonista.
Altro
problema da affrontare è relativo alla necessità di rendere
coerente l’oggetto sociale con il nuovo scopo, per cui pare necessario,
per aversi l’efficacia separativa dell’atto di destinazione, che si
proceda alla modifica dello statuto in tal senso, cui seguirà la
delibera del consiglio di amministrazione che procede ad individuare i beni e
lo scopo cui debbono essere finalizzati e la trascrizione della medesima[92].
Può discutersi se l’iscrizione nel registro delle imprese
costituisca o meno in questa ipotesi un coelemento necessario della fattispecie
separativa, atteso che essa è dovuta unicamente in base al disposto
dell’art. 2436 c.c. che impone l’iscrizione delle modificazioni
dello statuto e risulta funzionale all’opponibilità non della
separazione, cui presiede la trascrizione, ma esclusivamente
dell’ampliamento dell’oggetto sociale. La problematicità del
quesito, che attiene all’esatta individuazione del momento in cui si perfezionerebbe
l’effetto separativo, si stempera a mio avviso in base al rilievo,
eminentemente pratico, che gli adempimenti connessi a trascrizione e iscrizione
verranno curati pressoché simultaneamente dal notaio rogante.
In base
alla logica che vede la destinazione in oggetto connessa ad una modifica
statutaria, deve riconoscersi poi il diritto di recesso, ai sensi
dell’art. 2437, comma
Un’ipotesi concreta di separazione a scopi non lucrativi
è stata prospettata, nel settore dell’impresa sociale, riguardo
alla creazione di un patrimonio a ciò destinato nella forma dei
patrimonî dedicati della s.p.a.[93].
La riflessione in esame prende spunto dal divieto che l’art. 4, 3°
comma, del D. Lgs. 24 marzo 2006 n. 155 (Disciplina
dell’impresa sociale) pone, per le imprese private con
finalità lucrative, di detenere il controllo di un’impresa
sociale: si sostiene difatti che, con il ricorso agli artt. 2447 bis ss., c.c., queste imprese potrebbero
superare tale divieto e ottenere in tal modo il controllo in questione. Ciò che consente la
costituzione del patrimonio dedicato è l’ampiezza del concetto di
“affare”[94]
di cui all’articolo 2447 ter,
lettera a) c.c., tale da
ricomprendere qualsivoglia attività di impresa, anche se connotata dalla
non lucratività e, conseguentemente, dal divieto di distribuzione degli
utili conseguiti. In particolare, non potrebbe sostenersi che in relazione
all’esercizio di un’impresa sociale, poiché gli utili
dell’impresa sono destinati a scopi ideali, il termine
“affare” sia incongruo; difatti ciò che conta per la
qualificazione in questi termini è l’attitudine
dell’attività alla produzione di utili, non la destinazione dei
medesimi[95].
Neanche potrebbe dirsi che, essendo i patrimonî dedicati
un’alternativa alla costituzione di una nuova società,
l’oggetto dell’affare deve necessariamente essere lucrativo.
Infatti, l’art. 1 del D. Lgs. 155/2006 prevede espressamente che
l’impresa sociale possa essere esercitata da «tutte le
organizzazioni private, ivi compresi gli
enti di cui al libro V del codice civile, che esercitano in via stabile e
principale un’attività economica organizzata al fine della produzione
o dello scambio di beni o servizi di utilità sociale, diretta a
realizzare finalità di interesse generale», con ciò
sottolineandosi ulteriormente la neutralità dello strumento societario
rispetto allo scopo per suo tramite perseguito. Atteso allora che non
sussistono ostacoli interpretativi all’applicazione, anche
all’impresa sociale “societaria”, della disciplina sui
patrimonî dedicati, deve peraltro verificarsi se in tal modo non si
realizzi una frode alla legge nel rapporto tra la norma di cui all’art.
4, 3° comma, del D. Lgs. 155/2006 e lo strumento separativo che realizzi un
risultato (il controllo di un’impresa sociale da parte di
un’organizzazione lucrativa) analogo a quello vietato. Mi pare, difatti,
che non vi sia spazio per l’istituto in esame se si intende correttamente
la ratio del divieto in questione,
che è quella di sottrarre l’impresa sociale a possibili impieghi
suscettibili di snaturarne l’essenza non lucrativa, in dipendenza da un
soggetto che persegue istituzionalmente la redistribuzione degli utili.
Anche sotto questo aspetto, allora, trova conferma il
riconoscimento da parte del legislatore della capacità degli enti
lucrativi di gestire secondo criterî di efficienza scopi ideali, con il
conseguente incremento degli incentivi (di carattere fiscale[96]
o derivanti dall’opponibilità del vincolo di destinazione) volti
ad ulteriormente favorire il perseguimento delle suddette finalità[97].
Nel
proporre una riflessione finale, ritengo opportuno formulare una constatazione
e due conclusioni.
La
constatazione, che potrebbe apparire a prima vista singolare rispetto ai
risultati cui si è cercato di pervenire, concerne l’assenza nel
settore non profit di uno strumento
paragonabile ai patrimonî dedicati della s.p.a. che, per compiutezza di
disciplina e per nettezza di scelte di fondo nel contemperamento degli
interessi dei soggetti coinvolti, possa costituire un’efficace
alternativa alla personificazione.
Mi pare
che i motivi di insoddisfazione attengano non tanto alla possibilità di
attivare la separazione e la conseguente responsabilità limitata, che
potrebbero attualmente desumersi dal sistema, quanto alla ricostruzione dei
profili operativi che fondano l’effettiva capacità
dell’autodestinazione a scopi ideali di imporsi nella prassi e di
confrontarsi con le molteplici difficoltà che questa presenta.
Le
conclusioni, che si giustificano in base a tali premesse, muovono l’una
dal dato normativo esistente, l’altra dall’opportunità di
regolare ex novo determinati aspetti
del problema in esame.
La
prima sorge dalla considerazione
dei recenti tentativi di rivisitare il concetto di Rechtssubjekt tramite l’elemento destinatorio[98],
il che, lungi dal riproporre note teorie in tema di soggettività[99],
è finalizzato alla costruzione di una personalità della
fondazione tramite l’emancipazione dello scopo dalla volontà del
fondatore[100].
Percorrere questa via significa fondare l’applicazione delle norme sulla
fondazione riconosciuta al patrimonio autodestinato in via diretta e non
analogica, completando in tal modo la regolamentazione del medesimo sotto il
profilo amministrativo e gestionale (si pensi alle disposizioni in tema di
controlli, coordinamento e trasformazione delle fondazioni di cui agli artt.
25, 26 e 28 c.c.). Quanto segnalato in precedenza, circa il differente
contenuto disciplinare che distinguerebbe la fondazione personificata da quella
dipendente, va perciò corretto in base a ciò, che le regole sono
le medesime per le due figure, salva la non applicabilità delle norme
che presuppongono una struttura organizzativa autonoma[101].
La
seconda conclusione, attesi i limiti segnalati alle possibilità
ricostruttive dell’interprete, si inserisce necessariamente in una
prospettiva de iure condendo di
disciplina dell’autodestinazione nel settore non profit: tra le materie oggetto di un possibile intervento del
legislatore, segnalo, anzitutto, la previsione della separazione patrimoniale
perfetta, così da eliminare l’asimmetria con la regola dei
patrimonî dedicati della s.p.a.; inoltre, la correlazione della
responsabilità limitata alla nomina di amministratori con requisiti di
competenza specifica ed indipendenza rispetto all’organo gestorio
dell’ente titolare; infine, la predisposizione di strumenti ad efficacia
preventiva di tutela dei creditori contrari alla costituzione del patrimonio
separato. Il paradigma fornito dagli artt. 2447 bis e ss. sarà allora in grado di contribuire efficacemente
alla costruzione, in via sistematica, di una figura unitaria di patrimonio separato
delle persone giuridiche che prescinda dalle caratteristiche dello scopo
perseguito.
* In A. Zoppini-M. Maltoni (a cura di), La nuova disciplina delle associazioni e
delle fondazioni. Riforma del diritto societario ed enti non profit,
Padova, 2007, 231 ss.
[1] Con
ciò completando un processo il cui primo momento può individuarsi
senz’altro nel recepimento della XII Direttiva di armonizzazione del
diritto delle società (89/667 CEE) sulla s.r.l. unipersonale, e che ha
come ulteriore punto di approdo la previsione relativa alla s.p.a. ab origine unipersonale di cui
all’art. 2362 c.c. riformato; l’alternativa cui si fa riferimento
nel testo è delineata da C. Ibba,
La s.r.l. unipersonale tra alterità soggettiva e separazione patrimoniale,
in Riv. dir. civ., 1997, II, 541 ss. Cfr. inoltre P. Spada, Persona giuridica e articolazioni del patrimonio: spunti legislativi
recenti per un antico dibattito, in Riv.
dir. civ., 2002, I, 837 ss. spec. 842 ss., ove si prende atto della equivalenza
funzionale tra personalità giuridica e articolazione del patrimonio in
compendi separati, specificando che, nella prospettiva della
responsabilità patrimoniale, il ricorso al linguaggio della persona
giuridica, in assenza di difformi indicazioni di diritto positivo, presenta una
valenza precettiva che si radica nella autonomia compiuta, mentre al linguaggio
“sommesso” della articolazione patrimoniale corrisponde, in via
residuale, l’autonomia incompiuta.
[2]
Così A. Zoppini, Autonomia e separazione, nella prospettiva
dei patrimoni separati della società per azioni, in Riv. dir. civ., 2002, I, 545 ss., 548.
[3]
Tuttavia, l’applicazione analogica della norme dettate per la s.p.a. al
fine di colmare le lacune normative riscontrabili nella disciplina della s.r.l.
non è da escludere in via generale, sempre che si tratti di norme che
rinvengano la propria giustificazione in elementi estranei al modello sotteso
alla disciplina complessiva della s.r.l. (come non hanno mancato di
sottolineare i primi commentatori della riforma; cfr. per tutti G. Zanarone, Introduzione alla nuova società a responsabilità limitata,
in Riv. soc., 2003, 58 ss., spec. 81
ss., il quale peraltro, a pg. 100, mette in guardia, circa il ricorso
all’analogia, dal possibile effetto di «riprodurre proprio
quell’incertezza che si voleva evitare e di far rientrare dalla finestra
proprio quella imitazione della s.p.a. che i lavori preparatori della legge
delega imputano a difetto dell’abrogato regime della s.r.l.»). Nel
caso dei patrimonî destinati ad uno specifico affare la preclusione
all’estensione, mi sembra, deriva non da un problema di
connotatività tipologica delle relative disposizioni, quanto dal numerus clausus delle ipotesi di
separazione patrimoniale. A conferma di ciò, basti citare l’opinione
in cui si nega che l’esclusività di una data disciplina rispetto
al tipo sia costitutiva del regolamento del medesimo; così G. De Nova, Il tipo contrattuale, cit., 50 ss., spec. 54.
[4]
Sottolinea il parallelismo tra l’art. 32 c.c. e i patrimonî dedicati
della s.p.a. A. Zoppini, Autonomia e separazione, nella prospettiva
dei patrimoni separati della società per azioni, cit., 560.
[5] Ho
cercato di dare dimostrazione di questo assunto in L. Nonne, Note in tema di
patrimoni destinati ad uno scopo non lucrativo, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2003, 1299 ss. (spec. 1311, testo e
nota 42, e bibliografia ivi citata).
[6] Da G. Bonelli, Di una nuova teorica della personalità giuridica, in Rivista italiana per le scienze giuridiche,
1890, vol. IX, fasc. III, 330, affermando che «Obbietto del rapporto è sempre un elemento patrimoniale,
elemento che può trovarsi o al di
fuori del patrimonio del disponente, e in tal caso la distinzione tra
subbietto e obbietto è netta e patente, o nel patrimonio medesimo, ed allora il rapporto ha significato di separazione patrimoniale nulla meno e
nulla più: il patrimonio separa da
se stesso una sua parte; subjetto: il patrimonio;
obietto: una sua parte»
(corsivi nel testo). La posizione del Bonelli,
che nasce dalla critica a G. Giorgi,
La dottrina delle persone giuridiche o
corpi morali, Firenze, 1889, 27 s. («l’uomo essendo il solo essere capace di doveri è
perciò il solo soggetto possibile
di diritti», corsivi nel testo), è indicativa del dibattito
che all’epoca anche in Italia opponeva sostenitori e detrattori della
teoria del patrimonio senza subbietto,
e vedi infra nota successiva.
[7] Il cui
principale fautore è, come noto, A. Brinz,
Lehrbuch des Pandektenrechts, I2, Erlangen, 1873, 201 ss. e III2, parte II, Erlangen, 1888, 453 ss. In
Francia la teoria in esame è stata presentata in forma attenuata nella thèse di H. Gazin, Essai critique sur la notion de patrimoine dans la doctrine classique,
Dijon, 1910, spec. 371 ss., che organizza la nozione di patrimonio intorno ai
concetti di scopo e di persona, per cui è possibile che un soggetto
possa avere più patrimonî che si differenzino in base alla
varietà di destinazione, ma perché ciò avvenga è
necessario, anzitutto, che vi sia uno scopo nuovo tale da aggregare intorno a
sé i valori positivi o negativi che concorrono alla sua realizzazione (op. cit., 371), poi che lo scopo
suddetto presenti un carattere positivo, nel senso che non deve essere
accessorio ad un altro fine del quale facilita il perseguimento (op. cit., 373). In tal modo, la massa
dei beni così caratterizzata fungerà da centro di imputazione dei
debiti e assumerà caratteri autonomi. Per una critica di questa proposta cfr. S. Guinchard, L’affectation des biens en droit privé français,
Paris, 1976, 335.
[8]
Così
[9] Per
delimitare l’ambito di questa indagine va peraltro chiarita la
distinzione tra unselbständige
Stiftung e Zustiftung, intesa
come «Vermögenszuwendung, durch die das Grundstockvermögen der
Stiftung erhölt werden soll», ossia come strumento per incrementare
il fondo della Hauptstiftung, la
quale distinzione si fonda sul fatto che, nella Zustiftung, lo scopo della destinazione deve corrispondere allo
scopo della fondazione incorporante in ragione della sua funzione promozionale
del medesimo, mentre nella unselbständige
Stiftung è senza importanza il fatto che lo scopo sia identico a
quello della Hauptstiftung o ne
differisca, poiché non è intenzione del fondatore di promuovere
quest’ultimo. Una sintesi ragionata
in R. Herzog, Die unselbständige Stiftung des
bürgerlichen Rechts, Baden-Baden, 2006, 32.
[10] Cfr. L. Nonne, Note in tema di patrimoni destinati ad uno scopo non lucrativo,
cit., 1299, nota 2.
[11] Il punto
è evidenziato da H. Hauger,
Die unselbständige Stiftung,
Heidelberg, 1929, 8 s. R. Herzog,
Die unselbständige Stiftung des
bürgerlichen Rechts, cit., 24 s., inserisce tra i Begriffsmerkmale der unselbständige Stiftung, oltre
all’assenza di una propria capacità giuridica, allo scopo e al
patrimonio, anche
[12] Che
questa valutazione si differenzi dalla staatliche
Genehmigung, nel nostro caso senza significato (lo constata H. Hauger, Die unselbständige Stiftung, 69), è fuor di dubbio, ma
il requisito formale cede in questa riflessione alla equipollenza sostanziale
tra approvazione dello scopo per la fondazione riconosciuta e approvazione
della modifica statutaria per la destinazione del patrimonio speciale. Si veda
L. Nonne, Note in tema di patrimoni destinati ad uno scopo non lucrativo,
cit.,
[13] La
giurisprudenza italiana difatti si è occupata esclusivamente della
fondazione non riconosciuta, istituto concettualmente più ampio della
fondazione dipendente (ma vedi per un’equiparazione S. Koos, Fiduziarische Person und
Widmung. Das stiftungsspezifische Rechtsgeschäft und die Personifikation
treuhänderisch geprägter Stiftungen, München, 2004, 55)
atteso che comprende anche la fondazione in attesa di riconoscimento, alla
quale si è propensi ad attribuire soggettività giuridica: cfr. la
sintesi di F. Di Ciommo, Sulle fondazioni non riconosciute, in Foro it., 1999, I, c. 347 ss. (nota a
Trib. Napoli, ord., 26 giugno 1998).
[14] Ampia
rassegna di Fallgruppen, seppur
risalente, in P. Bächstädt,
Die unselbständige Stiftung des
Privatrechts, Göttingen, 1966, 7 ss., che si occupa poi nel dettaglio
della Abgrenzung von anderen Stiftungen
alle pgg. 149 ss.
[15] Per cui «Grundlage des privaten Rechts der
unselbständige Stiftung sind daher bis heute die schuld – und
erbrechtlichen Bestimmungen des BGB»; così R. Herzog, Die
unselbständige Stiftung des bürgerlichen Rechts, cit., 16. La
destinazione di un patrimonio per uno scopo speciale è espressamente
individuata come fondazione dall’art. 80 del ZGB svizzero, a tenore del
quale «Zur Errichtung einer Stiftung bedarf es der Widmung eines
Vermögen für einen besonderen Zweck».; cfr. sul significato
sistematico della norma il commento di H. Grüninger,
Vor Art. 80-89bis, in H.
Honsell-N.P. Vogt-T. Geiser (Hrsg.), Basler Kommentar zum Schweizerischen
Privatrecht. Zivilgesetzbuch I. Art. 1-456 ZGB, 2. Auflage,
Basel-Genf-München, 2002, 507 ss., spec. 525 ss., (con un riferimento,
essenzialmente descrittivo, alle unselbständigen
Stiftungen a pg. 529). Ciò comunque non depone per un riconoscimento
legislativo del concetto: cfr. P. Vez,
La fondation: lacunes et droit desirables,
Berne, 2004, 13, testo e nota 81, la quale rileva inoltre che solo la
legislazione del Liechtenstein menziona espressamente la fondazione dipendente
(art. 552, 2° comma, PGR), sottoponendola peraltro non al diritto delle
fondazioni, ma alle regole applicabili alle donazioni, successioni e rapporti
taciti di fiducia. Vedi inoltre infra nota
19.
[16]
Sull’insufficienza delle quali si veda P. Bächstädt, Die
unselbständige Stiftung des Privatrechts, 115 ss.
[17] In tal senso R.
Herzog, op. cit., loc. ult. cit.; N. L. Beckmann, Die
unselbständige, nichtrechtsfähige Stiftung, in R. Graf Strachwitz - F. Mercker (Hrsg.),
Stiftungen in Teorie, Recht und Praxis,
Berlin, 2005, 220 ss., 222. Pone il problema in un’ottica
dubitativa H. Hauger, Die unselbständige Stiftung, cit.,
67 ss. Per una indicazione dello stato di dottrina e giurisprudenza contraria
all’applicazione analogica delle disposizioni suddette (ad oggi, pare,
superata) si veda H. Kronke, Stiftungtypus
und Unternehmensträgerstiftung, Tübingen, 1988, 97.
Sull’equiparazione
tra fondazione riconosciuta e dipendente si basa il modello di K. Schmidt, Ersatzformen der Stiftung - Unselbständige Stiftung, Treuhand und
Stiftungskörperschaft, in K.
Hopt/D. Reuter (Hrsg.), Stiftungerecht
in Europa, cit., 175 ss., il quale descrive la unselbständige Stiftung come una «virtuelle juristiche
Person» (178), il cui titolare è concepito come
«Als-ob-Organ» di una «Als-ob-Stiftung» ( 194). Tale
modello non è peraltro esente da critiche, per una sintesi delle quali
cfr. N. L. Beckmann, Die unselbständige,
nichtrechtsfähige Stiftung, cit., 223.
Opera una
connessione tra Stiftung ohne Rechtspersönlichkeit e BGB-Stiftung
basata sul comune elemento destinatorio (Widmung) S. Koos, op. cit., 356.
[18]
Ciò a causa dei limiti posti dall’ordinamento alla sostituzione
negli atti di ultima volontà e nelle donazioni, con le norme in tema di
sostituzione fedecommissaria (art. 692 c.c.) e di usufrutto successivo (art.
698 c.c.), che contrasterebbero con la supposta vocazione perpetua (o
tendenzialmente tale) dell’attività dell’ente fondazionale,
insuscettibile di essere sottoposta a restrizioni temporali. È il noto
insegnamento di P. Rescigno, del
quale si veda sul punto Fondazione e
impresa, in Riv. soc., 1967, 819 s., testo e nota 7, e la
voce Fondazione (dir. civ.), in Enc. dir., XVII, Milano, 1968,
804 ss.
[19] P. Rescigno, Le fondazioni. Prospettive di riforma, in Id. (a cura
di), Le fondazioni in Italia e
all’estero, Padova, 1989, 467 ss., 475. Anche in sede di progetti di
riforma dello ZGB
[20] Il testo
della legge è pubblicato in Recueil Dalloz Sirey - Legislation,
1990, 293 ss. Per un primo commento si veda C. Debbasch, Le nouveau statut des
fondations: Fondations d’entreprise et fondations classiques, in Recueil
Dalloz Sirey, Chron. Leg. XLVII, 1990, 269 ss.
[21] Che il
legislatore francese abbia utilizzato la denominazione “fondation”
presumibilmente allo scopo di rendere applicabile al nuovo istituto le norme
generali sulla fondazione è conclusione affatto plausibile, tenendo
conto del fatto che la dottrina aveva ben presente il concetto di
“fondazione” realizzata tramite l’attribuzione ad un ente
preesistente, e sul punto vedi S. Guinchard,
L’affectation des biens en droit
privé français, cit., 121 s., il quale sottolinea la
distinzione tra beni attribuiti ad una persona giuridica per uno scopo
rientrante nel fine statutario, e patrimonio trasferito per un fine diverso,
specie in ordine alla determinazione dei beneficiari (122) (distinzione che non
è invece prospettabile in relazione all’art. 32 c.c. italiano).
Una
riflessione sistematica sull’argomento in A. Zoppini, Considerazioni sulla fondazione d’impresa e
sulla fondazione fiduciaria regolate da una recente legge francese, in Riv.
dir. civ., 1991, I, 573 ss., alle 580 ss., in ordine allo stretto raccordo tra
fondazione e fiducia in taluni ordinamenti (spec. 581, testo e nota 29).
Difatti la comparazione offre a questo proposito taluni significativi esempi,
come il Code Civil du Quebec del
1994, il quale, agli artt. 1256-1370, dedica una minuziosa regolamentazione a certaines patrimoines d’affectation;
in particolare la fondazione dipendente è menzionata nell’art.
1257, comma 1°, in cui si precisa che «Les biens de la fondation
constituent soit un patrimoine autonome et distinct de celui du disposant et de
toute autre persone, soit le patrimoine d’une personne morale»,
sottoponendo espressamente la prima tipologia di fondazioni alle disposizioni
relative alla fiducie
d’utilité sociale. All’art. 1268 è invece
disciplinata la fiducie
d’utilité privée, nella cui nozione rientra anche
«l’utilisation d’un bien affecté à un usage
determiné». Cfr. sul
punto M. Cantin Cumyn, La fiducie en droit québécois,
dans une perspective nordamericane, in J.
Herbots-D. Philippe, Le trust et
la fiducie. Implications pratiques, Bruxelles, 1997, 71 ss., spec. 75 s., in
cui l’autore precisa peraltro come si sia rifiutata una concezione della fiducie come personne morale, ciò che avrebbe comportato una indebita
assimilazione dell’istituto alla corporation
o alla compagnie (societé par actions) rischiando
di compromettere gli obbiettivi della riforma, per perseguire invece una soluzione originale e strutturare la fiducie come patrimoine d’affectation.
[22]
Così C. Reymond, Essai sur la nature et les limites de
l’acte fiduciarie, Montreux, 1948, 92, nell’ampia dissertazione
comparatistica che dedica alle institutions
voisine de la fiducie. La non necessaria correlazione tra fiducie e attribuzione di beni per uno
scopo ad una persona giuridica esistente, oltre al fatto che il termine fondation, con cui talvolta si designa
la suddetta attribuzione, è utilizzato in senso ampio, in quanto
«ce service nouveau ainsi créé n’a aucune existence
juridique autonome», è evidenziata da C. Witz, La fiducie en
droit privé français, Paris, 1981, 80 ss., spec. 81, testo e nota 1.
[23] Di questo avviso A. Zoppini,
op. ult. cit.,
[24] Conclude per la qualificazione della unselbständige Stiftung come Rechtsverhältnis R. Herzog, Die unselbständige Stiftung des bürgerlichen Rechts,
cit., 137. Alla medesima conclusione giunge, nell’ambito di una
comparazione strutturale tra fondazione dipendente e trust S. Koos, op. cit., 29, ponendo in evidenza come, a differenza del trust che
sorge da un negozio giuridico del solo settlor, la unselbständige Stiftung sia
riconducibile ad un rapporto contrattuale tra fondatore (Stifter) e titolare del patrimonio (com’è, tipicamente, lo Stiftungsträger).
Sotto il profilo dei rapporti
con il trust conserva sicuro valore lo studio di H. Kötz, Trust und Treuhand, cit., 114 ss., in
cui si precisa che «bei den
unselbständigen Stiftungen ist Rechtsträger des Zweckvermögens
nicht eine eigens für diesen Zweck geschaffene juristische Person, sondern
derjenige, dem das Zweckvermögen zu treuen Händen zugewandt worden
ist» (116).
[25] E vedi
per un positivo riconoscimento di questa struttura l’art. 1260 del Code Civil du Quebec; cfr. inoltre C. Witz, La fiducie en droit privé français, cit., 238 ss.,
spec. 241, sulla sostanziale omogeneità dello sviluppo del trasferimento
fiduciario in Francia e Germania, al di là della differenza di efficacia
del consenso nell’ordinamento francese, immediatamente traslativo della
proprietà, e nell’ordinamento tedesco, in cui deve necessariamente
accompagnarsi alla consegna (Übergabe)
per i beni mobili o all’iscrizione nei libri fondiarî (Auflassung)
richiesta dal § 873 del BGB.
[26] Pur se
da taluno si è ritenuto concettualmente ammissibile il c.d. rapporto
unisoggettivo, si pone comunque il problema di identificare se ad esso siano
applicabili istituti e norme che presuppongono la plurisoggettività; per
questa impostazione cfr. S. Pugliatti,
Il rapporto giuridico unisoggettivo,
in Diritto civile. Metodo-Teoria-Pratica,
Milano, 1951, 394 ss. Può essere interessante notare come la tesi di
Pugliatti abbia costituito un proficuo termine di confronto, in quanto analoga
vicenda concettuale, per la teoria dei diritti senza soggetto nella riflessione
di R. Orestano, Diritti
soggettivi e diritti senza soggetto, in Jus, 1960, 149 ss., spec.
195 s.
[27]
Replicando a questo proposito l’impostazione di F. D’Alessandro, Persone giuridiche e analisi del linguaggio,
in Studi in memoria di Tullio Ascarelli,
vol. I, Milano, 1969, 243 ss., spec. 282 ss., per i nomi di persone giuridiche
come “simboli incompleti”. Tale riflessione è stata poi
sviluppata da F. Galgano, Struttura logica e contenuto normativo del
concetto di persona giuridica, in Riv.
dir. civ., 1965, I, 553 ss., spec. 567, ove si sottolinea il collegamento
tra il concetto di persona giuridica e la disciplina di rapporti intercorrenti
tra persone fisiche. Questo modo di prospettare l’ente personificato
induce a qualificare allora l’atto di autodestinazione come una
disciplina speciale dei rapporti tra persone fisiche relativa ad una certa
porzione del patrimonio della persona giuridica titolare.
[28] Nelle
riflessioni finali si vedrà come tale risultato preliminare subisce
modifiche nel portato applicativo; cfr. infra
par. 9.
[29]
Tipicamente quelle relative alla donazione modale, e si veda sulla Schenkung unter Auflage come momento
genetico della fondazione dipendente le riflessioni di R. Herzog, Die
unselbständige Stiftung des bürgerlichen Rechts, cit., 46.
[30]
Più complesso mi pare invece riproporre in questa sede quanto è
stato teorizzato per l’associazione non riconosciuta, ossia
l’applicazione, diretta o analogica, delle norme sulla associazione
riconosciuta (e vedi per la ricostruzione del dibattuto sul punto A. Fusaro, L’associazione non riconosciuta. Modelli normativi ed esperienze
atipiche, Padova, 1991, 100 ss.; cfr. inoltre 259 ss., spec. 262 ss., per
un’impostazione metodologica favorevole all’argomentazione per
principî generali al fine del reperimento delle regole applicabili);
difatti nel caso che ci occupa, a rendere problematica l’applicazione
della disciplina della fondazione con personalità giuridica conduce la
considerazione che sull’aspetto del centro di imputazione di effetti
giuridici dovrebbe prevalere, nella ricostruzione della fattispecie in esame,
quello relativo all’attuazione dello scopo (ossia sul profilo soggettivo
prevarrebbe quello teleologico), quindi la regola va selezionata in base alla
coerenza con quest’ultimo. Le regole relative all’attuazione dello
scopo che risultano più coerenti con l’autodestinazione sono, per
l’appunto, contenute nelle norme sui patrimoni destinati di cui agli artt.
2447 bis e ss. e l’art. 32 c.c.
(ma vedi infra par. 9 per una
ricostruzione unitaria della disciplina della fondazione).
La
soluzione relativa alla applicazione c.d. tipologica, che propone un costante
confronto, nella ricerca della normativa applicabile, tra il tipo modellato dal
legislatore e la fenomenologia che il medesimo assume nella prassi, al fine di
selezionare gli interessi che questa esprime, è sostenuta da A. Zoppini, La disciplina delle associazioni e delle fondazioni dopo la riforma del
diritto societario, in A. Zoppini-M.
Maltoni (a cura di), La nuova disciplina
delle associazioni e delle fondazioni. Riforma del diritto societario ed enti non
profit, Padova, 2007, 3 . Utili, anche in relazione a questo problema, le indicazioni
sulla misura di alterabilità del tipo e sul metodo tipologico di G. De Nova, Il tipo contrattuale, cit., 121 ss., spec. 149 s., in cui si
evidenzia la sostituibilità del tipo al concetto come medio logico tra
il caso concreto e la normativa che lo disciplina.
[31] Oltre a
tali interessi debbono considerarsi quelli che si incentrano sui finanziatori,
i quali sono anch’essi creditori, sia nei patrimonî dedicati del
primo tipo,stante la previsione dell’art. 2447 ter, comma 1°, lett. d) ed e), c.c., sia nei patrimoni dedicati del secondo tipo, di cui
all’art. 2447 bis, 1°
comma, lett. b) c.c. Cfr. sul punto F. Gennari,
I patrimonî destinati ad uno
specifico affare, Padova, 2005, 80, il quale evidenzia come proprio
l’apporto dei finanziatori possa dare impulso ai patrimonî dedicati
del primo tipo, che soffrono del limite del 10% del patrimonio netto della
società come valore massimo destinabile al perseguimento
dell’affare.
[32] Difatti
il problema principale, comune a tutte le ipotesi di amministrazione del
patrimonio separato ad opera del titolare, consiste proprio nel contemperamento
tra l’interesse del proprietario a disporre e gestire i proprî beni
e l’interesse dei beneficiarî della specifica destinazione impressa
sui medesimi. Cfr. per questa osservazione M.
Bianca, Vincoli di destinazione e patrimoni separati, Padova,
1996, 203 ss., a pg. 206.
[34] Si veda
sul tema A. Gambaro, voce Trust, in Dig. disc. priv., sez. civ., vol. XIX, Torino, 1999, 449 ss., spec.
466 ss. (467 per l’espressione citata nel testo) e, con maggiore
articolazione delle ipotesi legislative di proliferazione dei patrimonî
separati, Id., Segregazione e unità del patrimonio,
in Trusts, 2000, I, 158.
Il
dibattito sul punto, sostanzialmente volto a riconoscere la possibilità
in via generale in capo ai privati di creare vincoli di destinazione con
efficacia reale, sembra aver trovato un approdo normativo nell’art. 2645 ter c.c. Per una diversa conclusione in
questo lavoro cfr. infra, par. 4.
[35] L. Salamone, Gestione e separazione patrimoniale, Padova, 2001, 395, nota 81,
sottolinea che in ciascuna delle eccezioni al principio di universalità
della garanzia patrimoniale ‹‹una norma di legge è
intervenuta per superare lo sbarramento dell’art. 2740, comma II, c.c.››.
[36] Avvenuta
ad opera dell’art. 39 novies
della legge n. 51 del 23 febbraio 2006, di conversione del D. L. 30 dicembre
2005, n. 273.
[37] La
necessaria correlazione tra adempimento pubblicitario e opponibilità del
vincolo, dopo essere stata enunciata a livello concettuale (cfr. A. Zoppini, Autonomia e separazione, nella prospettiva dei patrimoni separati della
società per azioni, cit., 563 e, con specifico riferimento ai
patrimonî destinati della s.p.a., C. Ibba,
Il “sistema” della
pubblicità di impresa, oggi, in Riv.
dir. civ., 2005, I, 587 ss., spec. 604 ss.) trova in questa norma un
ulteriore riconoscimento legislativo.
[38] F. Gazzoni, Osservazioni sull’art. 2645 ter c.c., in http://www.judicium.it/news_file/news_glo.html,
propone come referente normativo della pubblica utilità l’art. 699
c.c., anche a giustificazione della possibilità che più persone
si succedano nel godimento degli effetti positivi dell’atto. Di diverso
avviso G. Petrelli, La trascrizione degli atti di destinazione,
in Riv. dir. civ., II, 2006, 161 ss.,
spec. 178 ss., in cui si ritiene sufficiente l’individuazione di un
interesse, di natura patrimoniale o morale, anche appartenente ad un terzo, ma
del quale non si richiede «la verifica da parte dell’interprete di
una sua “graduazione” pozione rispetto all’interesse dei
creditori o alla libera circolazione dei beni»; in altre parole,
qualunque interesse diverso dalla mera salvaguardia del patrimonio del
costituente da azioni esecutive dei proprî creditori, ovvero dalla mera
esigenza di rendere inalienabile e indisponibile il bene vincolato. Questa
opinione si espone peraltro a due obiezioni: anzitutto, dal punto di vista
formale, non si valorizza il dato letterale, che, seppure non conclusivo,
costituisce comunque un indice sufficientemente significativo delle intenzioni
che hanno mosso il legislatore storico nella redazione della norma; inoltre,
dal lato sostanziale, una simile interpretazione della meritevolezza, che in
poco si distinguerebbe dalla mera liceità proposta in riferimento
all’art. 1322 c.c. da autorevole dottrina (cfr. per tutti G. B. Ferri, Causa e tipo nella teoria del negozio giuridico, Milano, 1966, 406,
il quale indica come criterî dei quali l’ordinamento si avvale per
la valutazione della meritevolezza i parametri enunciati dall’art. 1343
c.c. per l’illiceità della causa; opinione ribadita in Meritevolezza dell’interesse e
utilità sociale, in Riv. dir.
comm., 1971, II, 81 ss., spec. 87 ss.; un articolato dissenso è
proposto da F. Gazzoni, Atipicità del contratto,
giuridicità del vincolo e funzionalizzazione degli interessi, in Riv. dir. civ., 1978, I, 52 ss., spec.
57 ss.), avrebbe un impatto negativo sugli interessi dei creditori, consentendo
una proliferazione dei limiti all’escussione del patrimonio assai
problematica sotto il profilo economico. È allora da escludersi un
significato del concetto causale come semplice conformità
dell’atto all’ordinamento giuridico, con il che nella disposizione
in esame il riferimento all’art. 1322, 2° c.c. risulterebbe
pleonastico; a mio avviso, esso va pertanto inteso come semplice indicazione
del topos normativo
dell’espressione, senza alcuna valenza sistematica.
Cfr.
inoltre P. Manes, La norma sulla trascrizione degli atti di destinazione
è, dunque, norma sugli effetti, in Contratto e impresa, 2006, 626 ss., la quale sottolinea il valore
significativo che la disposizione assume nella creazione (“a volte
surrettizia”) di forme alternative di garanzia, nella specie di cause di
prelazione funzionalmente legate a speciali categorie di creditori ( 633).
Ciò dovrebbe motivare una più ampia riflessione sulla
giustificazione causale degli effetti così rappresentati, atteso che
l’attuale tendenza espansiva dei limiti all’autonomia privata nel
settore delle garanzie è correlata alla dimensione d’impresa, che
non è però connaturale all’istituto previsto all’art.
2645 ter c.c. (per il concetto di
“autonomia d’impresa” si veda in termini generali G. Portale, Tra responsabilità della banca e “ricommercializzazione”
del diritto commerciale, in Jus,
1981, 141 ss, spec. 148).
[39] Si
vedano i risultati cui perviene nella prospettiva della fondazione la
monografia di A. Zoppini, Le fondazioni. Dalla tipicità alle
tipologie, Napoli, 1995, 141 ss., spec. 143, per quanto concerne il
problema, e i conseguenti riflessi disciplinari, dell’autonomia
riconosciuta al fondatore nella determinazione dello scopo in rapporto al
processo di particolarizzazione che le finalità prescelte possono subire
(di cui esemplarmente si ha contezza nella fondazione di famiglia prevista
all’art. 28, comma 3°, c.c.).
[40]
Ciò che ne impedisce l’applicazione ad ambiti non coerenti con
questa caratteristica, in quanto è riscontrabile un’asimmetria tra
particolarizzazione dei fini dell’ente personificato, in connessione con
la neutralità della relativa forma giuridica rispetto agli interessi in
astratto perseguibili, e generalità della proiezione degli effetti
conseguenti all’attività finalizzata allo scopo speciale,
positivamente richiesta dall’art. 2645 ter c.c. In questo caso può ben sostenersi che,
all’evoluzione delle tipologie fondazionali, cui corrisponde
l’inidoneità dell’archetipo normativo disegnato dal
legislatore del ’42 a comprenderne la varietà, si opponga la
struttura della norma citata, che di quell’archetipo conserva il dato
qualificante, ossia la pubblica utilità (un’analisi puntuale dei
presupposti qui considerati in A. Zoppini,
Le fondazioni. Dalla tipicità alle
tipologie, cit., 145 s.).
[41] D. Messinetti, Il patrimonio separato e la c.d. “cartolarizzazione” dei
crediti, in Riv. dir. civ., 2002,
II, 101 ss., spec. 103, indica come metodo di ricostruzione della disciplina
mancante, che ritengo di accogliere in questa riflessione, l’utilizzo graduale
di criterî sistematici contigui che sono dati dalla somiglianza tra i
tipi di problemi suscitati.
[42]
Sull’applicazione agli enti non
profit di norme di diritto societario qualificabili come transtipiche, nel
senso di «regole che sono coerenti con un determinato modello di
conflitto di interessi e che possono trovare applicazione ove quello stesso
conflitto di interessi si ravvisi, a
prescindere dal tipo normativo ove quella disciplina ha originariamente
trovato accoglienza» (corsivo dell’Autore), si veda A. Zoppini, La disciplina delle associazioni e delle fondazioni dopo la riforma del
diritto societario, cit., 20.
[43] Lo
“statuto” del patrimonio separato esisterebbe cioè non in
ordine alla fonte della separazione, che rimane tipica, bensì in relazione
alle regole di gestione del patrimonio in vista dello scopo. L’operazione
di raccordo sistematico finalizzata alla definizione delle regole in discorso
non è certo agevole, in quanto «non esiste una figura prevalente o
assorbente di patrimonio separato, nel senso che la figura generale sia capace
di funzionare a priori e in assoluto,
come un principio produttivo di norme particolari implicite, a meno che non sia
consentita, secondo le normative di settore, l’utilizzazione del metodo
analogico»; la constatazione è di D. Messinetti, Il
patrimonio separato e la c.d. “cartolarizzazione” dei crediti,
cit., 102, cui adde A. Zoppini, Autonomia e separazione, nella prospettiva dei patrimoni separati della
società per azioni, cit., 559 s., testo e note 60-61, ove i
necessarî riferimenti. Imputa l’incertezza della dottrina sulla
portata della nozione di patrimonio separato al fatto che, pur riscontrabile su
un piano economico e sociale, la separazione non sia rilevante per il diritto A. Pino, Il patrimonio separato, Milano, 1950, 16. La ricostruzione
concettuale deve, peraltro, operarsi riguardando la disciplina positiva del
patrimonio separato come fondamento della ipotesi formulata piuttosto che come
banco di prova della medesima.
[44] Per una
prima esegesi della norma cfr. G. Iorio,
Le modificazioni dell’atto costitutivo e dello statuto, in M. V. De giorgi, G. Ponzanelli, A. Zoppini, (a
cura di), Il riconoscimento delle persone giuridiche, Milano, 2001, 73
ss., spec. 79.
[45] Tali
costi graverebbero allora sul fondo dell’ente titolare e andrebbero
perciò valutati come costi aggiuntivi non strumentali al fine
statutario. Sul punto, seppure con riguardo ad amministrazioni solo
contabilmente separate, si veda G. Oppo,
Sull’autonomia delle sezioni di credito speciale, in (Banca,
borsa e tit. cred., I, 1979, 1 ss., poi ripubblicato in Studi in onore
di Andrea Arena, Palermo, 1981, 1599 ss., e ora in ) Banca e titoli di credito. Scritti giuridici, vol. IV, Padova,
1992, 26 ss., spec. 57 s., in cui si ipotizza una ripartizione dei costi
correlata al volume di affari di ciascun patrimonio (58).
[46] Avente
valore di mera pubblicità-notizia, come anche le iscrizioni nel registro
delle persone giuridiche previste all’art. 4, 2° comma, del d.P.R.
361/2000. Per questa conclusione vedi M. Mistretta,
Iscrizioni nel registro, in M. V. De giorgi, G. Ponzanelli, A. Zoppini, (a
cura di), Il riconoscimento delle persone giuridiche, cit., 94 ss., 100.
[47]
Essenzialmente, ad un primo inventario seguirà la documentazione dei flussi
di reddito e delle variazioni dello stato patrimoniale.
[48] La
valutazione di adeguatezza del patrimonio allo scopo, necessaria ai fini del
riconoscimento, si basa difatti su un criterio quantitativo, attinente al
valore monetario espresso dalla totalità dei cespiti, piuttosto che
qualitativo, in base alla natura dei medesimi. Sul punto cfr. A. Fusaro-G. Viotti, Procedimento per l’acquisto della
personalità giuridica, in M. V. De
giorgi, G. Ponzanelli, A. Zoppini, (a cura di), Il riconoscimento
delle persone giuridiche, cit., 49 ss., spec. 50.
[49] Di
contrario avviso G. Petrelli, La trascrizione degli atti di destinazione,
cit., 171 ss., spec. 172 s., il quale, citando tra le disposizioni in cui il
nostro ordinamento ha previsto ipotesi di separazione patrimoniale su beni
mobili, accompagnate da idonei meccanismi di pubblicità anche
l’art. 2447 quinquies, 1°
comma, c.c., sostiene che «la
disciplina sostanziale del vincolo di destinazione contenuta
nell’art. 2645 ter c.c.
…. deve ritenersi applicabile, in
via estensiva o analogica, anche ai beni mobili non registrati, a condizione
che del vincolo medesimo sia possibile effettuare idonea pubblicità, in
conformità alla legge di circolazione del singolo bene mobile che ne
forma oggetto». Ora, questa opinione si risolve in realtà
nell’ampliamento dell’effetto separativo al di là della
previsione di legge, operazione che, compiuta in relazione al fondo
patrimoniale, la cui disciplina (alla quale fa riferimento il Petrelli), individua tra i beni
vincolabili anche i titoli di credito nominativi (art. 167 c.c.), può
riguardarsi come interpretazione estensiva di quest’ultima categoria
(atteso che i beni mobili non registrati dei quali preme affermare la
separabilità sono essenzialmente strumenti finanziarî), seppur opinabile
comunque ancorata ad un preciso dato normativo, mentre nel caso dell’art.
2645 ter c.c., non essendo
contemplato questo riferimento, si dovrebbe necessariamente ricorrere
all’analogia. Ma il procedimento analogico, in relazione alla produzione
dell’effetto separativo, è da escludersi in virtù
dell’art. 2740, comma 2°, c.c. (mentre può senz’altro
ammettersi, si è detto, in relazione alle regole di gestione e
responsabilità, come cercherò di dimostrare a breve). Da
ciò consegue l’inopponibilità del vincolo separativo sui
beni mobili, a differenza di quanto avviene in relazione ai beni con
destinazione particolare, in cui peraltro, essendo la separazione di natura
legale, si attua per questi non una forma di pubblicità dichiarativa,
bensì di pubblicità notizia (per questa conclusione sia
consentito rinviare a L. Nonne, Note in tema di patrimoni destinati ad uno
scopo non lucrativo, cit., 1323).
[50] Da
ultimo vedi C. Ibba, Il “sistema” della
pubblicità di impresa, oggi, cit., 605, che nega a tal proposito
l’immediato prodursi dell’effetto separativo a seguito della mera
iscrizione della delibera costitutiva del patrimonio destinato.
[51] È
il senso dello studio di G. Oppo,
Sull’autonomia delle sezioni di credito speciale, cit.; cfr.
inoltre A. Zoppini, Autonomia e separazione, nella prospettiva
dei patrimoni separati della società per azioni, cit., 564 s.
[52]
Così, avvertendo dell’improprietà dell’espressione
utilizzata, peraltro decisamente icastica, C. Ibba,
Il “sistema” della
pubblicità di impresa, oggi, cit., 607, alla nota 100, il quale
precisa come debba più correttamente parlarsi di assoggettamento al
vincolo di destinazione o di liberazione dal medesimo.
[53] Da
ultimo si veda, in relazione ai problemi derivanti da atti dispositivi del patrimonio
separato, R. Quadri, La circolazione dei beni del
“patrimonio separato”, in Nuova
giur. civ. comm., II, 2006, 7 ss., che pone in dubbio la limitazione del
potere di disposizione dei beni destinati come connotato del “patrimonio
separato”., restando consegnata l’inefficacia di atti che violino
il vincolo di destinazione alle sole ipotesi di malafede del terzo contraente
(11).
[54] Si
pronuncia in questo senso, per quanto concerne l’applicazione
dell’art. 2645 ter c.c., G. Petrelli, La trascrizione degli atti di destinazione, cit.,
[55] In
questo caso l’atto verrebbe vulnerato secondo le regole previste
dall’art. 2901, 1° comma, n. 1) c.c.; che poi una simile tutela sia
coerente con il miglior perseguimento dello scopo statutario per la persona
giuridica è discutibile, ma a seguito dell’approvazione da parte
dell’Autorità governativa del patrimonio destinato, per i
creditori generali dell’ente residua quest’unico rimedio. Discorso
differente per i c.d. creditori involontari, su cui vedi infra par. 6.
[56]
Sull’estinzione della fondazione dipendente cfr. R. Herzog, Die
unselbständige Stiftung des bürgerlichen Rechts, cit., 124 ss.,
il quale concentra l’attenzione sulla fondazione fiduciaria (si veda in
particolare la 125, per quanto concerne l’attivazione del Rückforderungsrecht in capo al
fondatore a seguito dell’inadempimento, o inesatto adempimento, da parte
del titolare, degli obblighi inerenti all’onere cui è sottoposta
[58] Le
quali, se venissero compiute, sarebbero certamente imputabili al patrimonio
destinato; per questa conclusione C. Ibba,
Il “sistema” della
pubblicità di impresa, oggi, cit., 608.
[59] In
analogia con quanto previsto dall’art. 15 c.c., che ammette la revoca
dell’atto di fondazione nel solo caso in cui non sia intervenuto il
riconoscimento (qui sostituito dall’approvazione della modifica
statutaria da parte dell’autorità governativa) ovvero il fondatore
non abbia fatto iniziare l’attività dell’opera da lui
disposta (inizio che nell’ipotesi in discussione è scontato). In questo mi pare sussista
una perfetta corrispondenza con l’art. 32 c.c., i cui rapporti con
l’art. 2645 ter debbono essere
ricostruiti a tal proposito nel seguente modo: i beni con destinazione
particolare fungono da alternativa all’erezione di un ente personificato,
consentendo al disponente di destinare un patrimonio ad uno scopo che
verrà poi assolto dalla persona giuridica titolare, in quanto la
proiezione cronologica del fine programmato va oltre la vita dello stesso
disponente. L’art. 2645 ter c.c.
persegue gli stessi fini, ma, se utilizzato da persona fisica, ritengo sia
strumentale ad effetti più circoscritti nel tempo, mentre, come ho
cercato di dimostrare in questa sede, costituisce l’unico strumento a
disposizione della persona giuridica per una separazione patrimoniale autonoma (è invece eteronoma, per ovvie ragioni, quella che si realizza in base
all’art. 32 c.c.). Viene così a delinearsi una situazione che
trova corrispondenza nella unselbständige
Stiftung di diritto tedesco, in cui il titolare può essere
indifferentemente una juristiche o natürliche Person; cfr. N. L. Beckmann, Die unselbständige, nichtrechtsfähige Stiftung, cit.,
221.
[60]
Conseguentemente: a) i creditori del patrimonio separato il cui titolo sia sorto
anteriormente alla cancellazione della trascrizione, possono comunque, in
assenza della modifica prospettata nel testo, aggredire i beni in discorso,
poiché essi continuano a far parte del suddetto patrimonio; b) i
creditori del patrimonio separato subirebbero però il concorso dei
creditori dell’ente il cui titolo sia sorto successivamente alla suddetta
cancellazione, poiché a questi non è opponibile nessun vincolo,
non essendovi trascrizione, né potrebbe inferirsi detta
opponibilità dalla modifica dello statuto, iscritta nel registro delle
persone giuridiche, con cui è sorto il patrimonio separato,
poiché, anche a prescindere dal fatto che l’iscrizione realizza
una forma di pubblicità-notizia, in essa non vengono indicati i beni che
ne fanno parte, ma esclusivamente il valore complessivo.
[61]
Replicando a questo proposito quanto precisato in tema di fondazione da A. Zoppini, Le fondazioni. Dalla tipicità alle tipologie, cit., 184 ss.,
spec.
[62]
Più che l’applicazione analogica dell’art. 2447 novies c.c. orienta per la
configurabilità di un obbligo di rendiconto il concetto stesso, ed i
conseguenti riflessi disciplinari, della attività svolta
nell’interesse altrui, cui si accompagna il dovere di tenere la
controparte informata di quanto compiuto al fine di metterla in condizione di
far valere i proprî diritti; il punto è ben evidenziato da G. Mignone, Dei patrimoni destinati ad uno specifico affare. Commento, in G. Cottino-G. Bonfante-O. Cagnasso-P.
Montalenti (a cura di), Il nuovo
diritto societario, **, Bologna, 2004, 1661, testo e nota 113.
[63] Il
problema si pone in particolare in caso di fallimento dell’ente, in
relazione al quale è l’origine del patrimonio separato a
influenzarne il destino. Sulla distinzione tra Treuhandvertrag e Schenkung
unter Auflage, in relazione alle differenti conseguenze sul patrimonio
della unselbständige Stiftung a
seguito della insolvenza dello Stiftungsträger,
cfr. N. L. Beckmann, Die unselbständige,
nichtrechtsfähige Stiftung, cit., 225 s.
La
soluzione che depone per l’insensibilità dei beni con destinazione
particolare alle vicende del titolare, per cui essi non verrebbero a far parte
della massa attiva fallimentare, è impostata in chiave comparatistica da
P.G. Jaeger, La separazione
del patrimonio fiduciario nel fallimento, Milano, 1968, spec. 324 ss. Si
precisa peraltro in questo lavoro che sarebbe errato concepire nella fondazione
fiduciaria l’oblatore come fiduciante ed attribuirgli l’azione di
separazione o di opposizione nei confronti del fallimento, poiché esso
si è spogliato di ogni diritto sui beni del fondo; l’azione in
oggetto, stante la natura pubblicistica dell’interesse alla cui tutela
è preordinata la disciplina della fondazione fiduciaria, dovrebbe essere
esercitata da un organo della pubblica amministrazione ( 396 s.).
[64] Il
vincolo permane, a mio parere, anche qualora l’atto costitutivo o lo
statuto dell’ente (o la deliberazione dell’assemblea che ha
stabilito lo scioglimento, in caso di associazione) disciplinino la devoluzione
dei beni all’esito del procedimento di liquidazione, essendo anche in
questa ipotesi replicabili le osservazioni svolte nel testo circa il rapporto
tra art. 2645 ter e 31 c.c.
[65] Un
problema particolare si pone a mio avviso nel caso in cui, a seguito di
trasformazione eterogenea ai sensi dell’art. 2500 septies c.c., una società di capitali che abbia costituito
un patrimonio destinato ai sensi dell’art. 2645 ter c.c. (per l’ammissibilità di questa costituzione
vedi infra par. 8) si trasformi in
comunione d’azienda. In tal caso, all’esito della trasformazione,
non sussiste più un ente personificato ma una pluralità di
soggetti-persone fisiche, il che fa dipendere la sorte del patrimonio destinato
dalla funzione dello scopo con esso perseguito. In specie, qualora il fine
della destinazione fosse strumentale all’oggetto sociale dell’ente
venuto meno, i beni separati dovrebbero ritenersi acquisiti all’azienda
su cui è sorta la comunione, mentre nel caso l’attività
ideale non fosse teleologicamente riconducibile alla migliore attuazione dello
scopo lucrativo opererebbe la regola della devoluzione ad altre persone
giuridiche aventi fini analoghi, con sopravvivenza del vincolo.
[66]
Ciò poiché la fattispecie dell’art. 32 c.c. esige la
rispondenza degli atti di gestione all’interesse del disponente, in
quanto esterno e ultroneo rispetto all’interesse del gestore (e infatti la
recente dottrina tedesca, peraltro ispirandosi al modello della fondazione
indipendente, concepisce la unselbständige
Stiftung come una combinazione tra il contratto di donazione, di cui ai
§§. 516 ss. BGB, per l’elemento destinatorio, e il contratto di
mandato, disciplinato ai §§ 662 ss. del BGB, per l’elemento
organizzativo; in tal senso K. Schmidt,
Ersatzformen der Stiftung -
Unselbständige Stiftung, Treuhand und Stiftungskörperschaft,
cit., 181; cfr. inoltre S. Koos, op.
cit., 68 ss., per la distinzione tra Auftragstiftung e
Schenkungstiftung, e 131 ss., per le implicazioni tipologiche di questa
ricostruzione, specie in ordine al rapporto con il Zuwendungsgeschäft),
mentre nell’autodestinazione vi è un unico centro di interessi, variamente
perseguibili dal titolare, il quale deve attenersi unicamente ad un criterio di
coerenza dell’atto-strumento con lo scopo generale o speciale.
Il rapporto tra mandato e gestione è diversamente concepito
da G. Ferri jr., Patrimonio e gestione. Spunti
per una ricostruzione sistematica dei fondi comuni di investimento, in Riv. dir. comm., 1992, I, 25 ss., spec.
51, testo e nota 60, il quale sottolinea che «il concetto stesso di
gestione si ricava dalla normativa in tema di mandato», pur se «la
qualificazione di un fenomeno in termini di mandato non impone che tutte le
norme dettate per tale tipo contrattuale siano applicabili», e da L. Salamone,
op. cit., 27, secondo il quale, invece, «non appare
corretto alcun approccio che avvicini le gestioni ad una figura
contrattuale», in quanto la relativa nozione sarebbe «estranea alla
zona concettuale dell’atto giuridico».
[67] Si veda
sul punto l’analisi di diritto nordamericano di P. Iamiceli, Prime riflessioni sul governo degli enti non profit negli Stati Uniti, in Riv. crit. dir.priv., 1999, 239 ss., la
quale, muovendo dalla constatazione che non esiste un modello di governance unitario, dal momento che le
relative regole dipendono dalla natura dell’attività svolta, dalle
modalità di svolgimento della stessa e dal tipo di risorse (umane e
materiali) di cui l’ente si serve nel perseguire i suoi obbiettivi,
conclude per la maggiore contiguità della governance degli enti non
profit con il paradigma della businnes
corporation (anche se, si sottolinea, l’adempimento dei relativi duties of care and loyalty viene
valutato meno rigidamente di quanto accadrebbe per i manager della businnes
corporation) ( 267 ss., e si veda anche 270, testo e nota 24 per
approfondimenti giurisprudenziali su quest’ultimo problema).
Per quanto
concerne in particolare il profilo gestorio relativo alla economic activity delle charitable
organizations (sulla quale, in relazione al problema qui affrontato, si v. infra par. 7) è sviluppato da P. Verrucoli, Non- profit organizations (A Comparative Approach), Milano, 1985,
87 ss., ove ampio confronto delle forme tipiche degli ordinamenti di Civil Law e Common Law; si osserva in particolare che l’uso atipico delle
foundations nel diritto nordamericano
comporta, nel caso in cui si adotti la corporate
form, una singolare sterilizzazione del potere del board of directors rispetto alle istruzioni del fondatore (88).
[68] La
precisazione si rende necessaria in quanto i creditori del patrimonio speciale
debbono rivalersi su quest’ultimo, prima di aggredire il fondo
dell’ente.
[69] B. Dauner Lieb, Unternehmen in
Sondervermögen: Haftung und Haftungsbeschränkung. Zugleich
ein Beitrag zum Unternehmen im Erbgang, Tübingen, 1998, 47, nel
trattare della einseitige Haftungssorderung, pone l’accento sulla
mancata corrispondenza, al verificarsi della separazione patrimoniale, di una
limitazione di responsabilità intesa come esonero del patrimonio
generale (Hauptvermögen) dalle obbligazioni riconducibili al
patrimonio separato, secondo la ricostruzione di A. von Thur, Der
Allgemeiner Teil des Deutschen Bürgerlichen Rechts, Band I, Berlin,
1957 (ristampa della 1° edizione del 1914), 338.
[70] Che vi
sia separazione patrimoniale e non deroga al principio della par condicio creditorum (art. 2741 c.c.),
è ulteriormente dimostrato da queste conclusioni, atteso inoltre che sul
patrimonio generale dell’ente non vi è una posposizione dei
creditori del patrimonio separato rispetto a quelli della persona giuridica, ma
perfetta eguaglianza, salvo le cause legittime di prelazione,
nell’accesso alla garanzia generica.
[71] Cfr., in
una prospettiva comparatistica, E. Courir,
Per una limitazione della
responsabilità limitata, in Quadrimestre,
1992, 704 ss., spec. 712, 716 ss.; per un’ottica sistematica vedi invece
A. Zoppini, Autonomia e separazione, nella prospettiva dei patrimoni separati della
società per azioni, cit., 573 ss.
Si veda
inoltre C. Amatucci, Fatto illecito della società e
responsabilità limitata dei soci, Milano, 2002, 14 ss., il quale ha
parlato di “disuguaglianza non dichiarata” per i creditori
involontarî, atteso che, pur senza prevedere apposite cause legittime di
prelazione a detrimento dei medesimi, la legislazione societaria ha prodotto
un’alterazione contrastante con il principio di eguaglianza per effetto
della estrema postergazione cui essi vengono di fatto sottoposti (16 s.).
[72] In
questo la duplicazione soggettiva sembrerebbe essere maggiormente competitiva
rispetto alla separazione patrimoniale, in quanto nel primo caso il venir meno
dello schermo della personalità giuridica è legato al mancato
rispetto delle regole che governano la separazione patrimoniale, mentre nella
seconda ipotesi la confusione dei patrimonî si verifica anche in ragione
della natura extracontrattuale del credito vantato.
[73] A. Zoppini, Autonomia e separazione, nella prospettiva dei patrimoni separati della
società per azioni, cit., 575.
[74] C. Amatucci, Fatto illecito della società e responsabilità limitata
dei soci, cit., 63 ss., chiarisce che il criterio di imputazione della
responsabilità da tener presente nella riflessione
sull’inopponibilità della separazione patrimoniale ai creditori
involontarî si basa sulla capacità dell’imprenditore di far
riflettere nel prezzo dei singoli beni o servizi tutti i costi affrontati per
produrli, non essendovi perciò alcuna ragione di esonerarlo dalla piena
sopportazione delle perdite da lui provocate (68).
E. Courir, Per una limitazione della responsabilità limitata, cit.,
È
qui opportuno sottolineare anche come la responsabilità limitata produca
un effetto di contenimento dei costi di assicurazione in relazione
all’attività esercitata con il patrimonio separato (la quale
coprirà solo gli illeciti riconducibili alla suddetta, non estendendosi
a quelli derivanti in via indiretta dall’attività istituzionale
dell’ente).
[75] Seppure
in altro ambito, sembra invece riconnettere la separazione imperfetta alla natura
dello scopo perseguito F. Gazzoni,
Il cammello, la cruna dell’ago e la trascrizione del trust, in Rass.
dir. civ., 2003, 953 ss., 957.
[76] Mi pare
superfluo dar conto dell’ammissibilità di un’attività
imprenditoriale da parte delle persone giuridiche non profit, essendo un dato acquisito con certezza nel nostro
sistema; limitando i riferimenti ai due studi che hanno definitivamente
chiarito la questione, segnalo ovviamente
P. Rescigno, Fondazione e impresa,
cit., e R. Costi, Fondazione e
impresa, in Riv. dir. civ., 1968, I, 8 ss. Si veda inoltre,
per la distinzione tra mero oggetto dell’ente (attività economica)
e scopo (non lucrativo) del medesimo, F. Galgano,
Delle associazioni non riconosciute e dei
comitati, cit., spec. 73 ss.
Ampia
sintesi delle principali opinioni in tema di utilità dello scopo nelle
fondazioni in A. A. Carrabba, Scopo di lucro e autonomia privata,
Napoli, 1994, 305 ss., spec. 314 ss. e 319, il quale, all’esito
dell’analisi, constata la necessità di abbandonare la posizione
restrittiva del legislatore del ’42 alla luce dei principî
costituzionali che impongono all’interprete di «rescindere ogni
forzoso collegamento, se irragionevole e non motivato da esigenze relative all’attività esercitata, tra
“forma” e finalità perseguibili» (corsivo mio).
Un
articolato panorama del problema nell’ordinamento germanico, in cui la
fondazione d’impresa è concettualmente originata (il riferimento
è ovviamente alla Carl Zeiss
Stiftung), viene delineato da R. Goerdeler,
Stiftungen in der Bundesrepublik aus
heutiger Sicht, in Festschrift
für Theodor Hensius zum 65. Geburtstag am 25. September 1991,
Berlin-New York, 1991, 169 ss., alle 172 ss., che dà peraltro conto del
dibattito sviluppatosi in seno al 44. Juristentag del
Sviluppa
in una prospettiva comparatistica la ricostruzione del tipo
“fondazione” nel prisma della fondazione titolare di impresa, H. Kronke, op. cit., part. 209 ss.
(per l’utilizzo come criterio metodologico della distinzione tra rechtlichen Strukturtypus e gesetzlichen Typus, v. 210).
Sotto il
profilo della giustificazione economico-sociale dell’attività di
impresa svolta dagli enti non profit
cfr. H. Hansmann, The Role of Nonprofit Enterprise, in 89
Yale Law Journal 835 (1980), il quale concepisce i medesimi come attori nel
processo di soddisfazione dei bisogni sociali a seguito di una particolare
forma di fallimento del mercato, denominata “contract failure”,
ossia «the inability to police producers by ordinary contractual
devices» ( 845). Si veda
anche S. Rose Ackerman, An Economic Analysis of Nonprofit
Organizations, in K. Hopt/D. Reuter
(Hrsg.), Stiftungerecht in Europa,
cit., 73 ss., spec. 82 ss., la quale, nell’identificazione delle funzioni
ascrivibili alle nonprofit organizations
indica, oltre al favore dei donatori verso queste istituzioni, generato dal
timore che elargizioni a favore di enti lucrativi siano convertite in profitti
per i titolari, anche il ruolo svolto dalle medesime in ordine al problema
delle asimmetrie informative dei customers,
oltre che nella predisposizione di servizî più varî di
quanto sia possibile per il settore pubblico, atteso il vincolo legislativo che
ne impaccia l’azione.
[77] Sembra
più coerente con la nozione di patrimonio separato parlare di
specializzazione della garanzia, piuttosto che della responsabilità, non
essendovi sempre corrispondenza tra i due concetti; da ultimo, anche per questo
profilo, cfr. G. Rojas Elgueta, L’autonomia privata e le limitazioni
della responsabilità patrimoniale del debitore, ed. provv., Roma,
2006, 81 ss., spec.
[78] Il
problema è affrontato, nell’ottica dell’esercizio di
attività di impresa in regime di separazione patrimoniale a proposito
del fenomeno successorio, da B. Dauner
Lieb, op. cit., la quale ritiene necessario, per risolvere la
questione relativa ad un’attività economica esercitata con rischio
limitato, al di fuori delle forme organizzative fornite dal diritto delle
società di capitali, ricorrere ad un concetto di patrimonio separato differente da quello comune. Si ha
perciò una specializzazione della responsabilità nel caso in cui
una determinata massa patrimoniale viene isolata da interventi dell’unico
titolare e/o dei suoi creditori privati finalizzati a scopo estranei da quello
cui i beni sono destinati (50 s.). A questo proposito la separazione biunivoca
e totale della massa patrimoniale è, nel caso di specie, certamente
possibile, ma non necessaria (51).
Un’attenta
analisi dei profili fallimentari dei patrimonî dedicati della s.p.a., a
confronto con la separazione biunivoca sancita dall’art. 2447 quinquies, 3° comma, c.c., è
operata da S. Vincre, Patrimonî destinati e fallimento,
in Giur. comm., 2005, 126 ss.
[79] La descrizione
in questi termini dei fenomeni di separazione patrimoniale nel campo
dell’attività di impresa è proposta da H. Hansmann, R. Kraakman, Il ruolo
essenziale dell’organizational law, in Riv. soc., 2001, I, 21
ss., spec. 26, da cui sono tratte le citazioni nel testo.
[80]
Ciò comporta, a latere entis,
quale risultato sistematico relativo alla responsabilità sussidiaria, un
beneficio di preventiva escussione, comparabile con la situazione che viene a
radicarsi in capo ai soci della s.n.c. ai sensi dell’art. 2304 c.c. La
distinzione tra limitazione di responsabilità e separazione patrimoniale
emerge chiaramente in ordine alla discussa fonte convenzionale di tale
limitazione, per l’ammissibilità della quale vedi G. Rojas Elgueta, L’autonomia privata e le limitazioni della responsabilità
patrimoniale del debitore, cit., 147 ss. (part.
[81] Oltre
alla maggiore concretezza di tutela per l’investitore, il quale
può indirizzare in modo specifico il proprio investimento verso
un’area determinata, correndo solo il rischio ad essa relativo. Si veda amplius G. Mignone, Dei
patrimoni destinati ad uno specifico affare. Commento, cit., 1630 ss.,
spec. 1631, il quale rileva come la giustificazione fondata sul risparmio
economico e temporale non convinca pienamente, atteso che vi è stato un
deciso snellimento nelle procedure di costituzione delle società di
capitali.
[83] La
separazione così intesa dovrebbe costituirsi come regola generale al
fine di ricomprendere anche l’ipotesi relativa all’art. 32 c.c.
[84] Tenuto
conto che essi potranno comunque rivalersi direttamente sui proventi
dell’attività d’impresa, i quali, destinati
all’attuazione dello scopo principale dell’ente, debbono
considerarsi facenti parte del patrimonio generale di quest’ultimo (si
confronti, per una soluzione normativa in tema di patrimonî dedicati
della s.p.a. che rispecchia quanto qui sostenuto, l’art. 2447 quinquies, 1° comma, c.c., laddove
è prevista la possibilità per i creditori sociali di far valere i
proprî diritti sui frutti o proventi derivanti dallo specifico affare per la parte spettante alla società).
[85] Non
sarebbe allora necessaria una modifica statutaria per l’esercizio
dell’impresa, né pertanto può ipotizzarsi la connessa
approvazione governativa, decisamente incoerente con la logica che domina le
dinamiche imprenditoriali.
[86] Per i
problemi relativi alla legge di circolazione dei beni e alla connessione con la
pubblicità nel registro delle imprese dei patrimonî dedicati cfr.
C. Ibba, Il “sistema” della pubblicità di impresa, oggi,
cit., 606 s., il quale sottolinea come l’obbligo di trascrivere le
delibere costitutive dei suddetti patrimonî relative a beni immobili deve
coordinarsi con il catalogo degli atti soggetti a trascrizione ai sensi
dell’art. 2643 c.c, con il principio della tassatività delle
iscrizioni e con la circostanza che, nei casi in questione, non è dato
parlare di un effetto traslativo in assenza dell’alterità
soggettiva necessaria a concepire un trasferimento di beni dalla società
al patrimonio destinato. Per risolvere i suddetti problemi di coordinamento
è allora necessaria un’espressa previsione legislativa (come pare
sostenere anche C. Ibba).
[87]
L’art. 2447 novies c.c. non
affronta il problema per i patrimonî dedicati, limitandosi a rinviare
alla delibera costitutiva la previsione di ipotesi ulteriori di cessazione
della destinazione allo specifico affare, salvo il caso di fallimento della
società, cui si dichiara espressamente applicabile. Cfr. sul punto G. Mignone, Dei patrimoni destinati ad uno specifico affare. Commento, cit.,
1667, specie per quanto concerne l’ipotesi della trasformazione. A questo
proposito, la trasformazione non dovrebbe comportare per gli enti non profit la liquidazione del
patrimonio autodestinato a scopo di impresa, per la ragione evidente che detto
patrimonio sarà sempre strumentale al nuovo scopo; ciò ovviamente
in assenza di una diversa previsione della delibera costitutiva o dello
statuto.
[88] Cfr. sul
punto G. Marasà, Le
“società” senza scopo di lucro, Milano, 1984, 122 ss.,
sul cui ragionamento, di particolare interesse nel caso di specie, merita
soffermare l’attenzione. Nello studio citato si chiarisce anzitutto che
il rispetto della causa lucrativa tipica non è in alcun modo compromesso
dalla possibilità di devolvere a favore di terzi una parte degli utili
conseguiti, anche qualora questa possibilità sia permessa o imposta dal
contratto sociale. Difatti, seppure è vero che quando la destinazione di
utili assume carattere sistematico si può parlare di società
senza fine di lucro soggettivo (si è cioè in presenza di una
società formalmente lucrativa ma in fatto non lucrativa), questa conclusione
va precisata chiarendo che essa è valida solo qualora la quota da
devolvere a terzi sia tale da mascherare un fine sostanzialmente altruistico.
Difatti,
si prosegue, nel campo dei contratti associativi la causa tipica indicata dal
legislatore può ritenersi rispettata a condizione che, nella fattispecie
concreta, essa costituisca lo scopo principale dei contraenti, anche se accanto
a quest’ultimo si inseriscano scopi secondari di diversa natura,
ciò che conferma la elasticità della causa del contratto
(123).
Qualora
invece la destinazione ai terzi non sia prevista nell’atto costitutivo,
affinché essa sia ammissibile, è necessario dimostrare che una
parziale destinazione ai terzi (quindi, nel caso che ci occupa, anche
l’attività ad essa strumentale) è giustificata
dall’aspettativa di una maggiore produzione di utili e quindi di un
futuro incremento dei proventi dell’attività sociale (124).
Dimostrando
allora la premessa che le devoluzioni altruistiche parziali sono ammissibili sia
se previste nel contratto sociale sia se non previste, essendo compatibili con
la causa tipica del contratto di società anche quando assumono carattere
continuativo, l’Autore ne deriva che la relativa tematica esula da quella
delle società senza fine di lucro (125).
Una
conferma di questa impostazione in M.
Stella Richter, Forma e contenuto
dell’atto costitutivo della società per azioni, nel Trattato della società per azioni,
diretto da G. E. Colombo e G. B. Portale, vol. 1*, Torino, 2004, 167 ss., spec.
242 ss., il quale, stante il presupposto che gli elementi ideali non compongono
mai l’oggetto sociale, ma costituiscono una espressa indicazione circa
l’interesse della società, ammette (246) che le s.p.a. possano
nell’atto costitutivo lasciare spazio ad attività di tipo
altruistico, precisando peraltro che l’indicazione statutaria
dell’elemento ideale debba interpretarsi, da un lato, nel senso di un
espresso apprezzamento da parte dei soci delle attività benefiche della
società ai fini del miglioramento dell’immagine della stessa,
dall’altro, come precisa indicazione del settore in cui gli
amministratori debbono concentrare tali attività pro bono.
[89]
Recentemente sul tema M. V. De Giorgi,
Approvato il decreto attuativo della legge delega sull’impresa sociale,
in Studium Iuris, 2006, 755 ss.;
per lo specifico problema della rappresentazione in bilancio dei risultati
dell’impresa sociale si v. F.
Vella, La rendicontazione sociale
delle imprese: quale disciplina, in Studi in onore di Vincenzo Buonocore, vol. III, t. 3°, Milano, 2006, 4043
ss.
[90] Questa
tendenza espansiva del campo di azione degli enti dimensionalmente rilevanti
è esemplarmente riassunta nella riflessione di P. Verrucoli, Non- profit organizations (A Comparative Approach), cit., 3 ss.,
ove si sostiene che «the giant organizations are not, or are not
primarily, a mechanism for the immediate and direct satisfaction of the needs
of individuals, except perhaps for those of their managers. They are, above all, centers of power, and
power, to be defended and expanded, must be multiform and diversified»
(6). Si veda inoltre K. A. Kordana,
Theoretical Considerations in Charitable
Conversions, in K. Hopt/D. Reuter
(Hrsg.), Stiftungerecht in Europa,
cit., 95 ss., spec. 106, nella particolare prospettiva dell’analisi delle
motivazioni che conducono a trasferire beni destinati a scopi ideali sotto il
controllo di entità for profit,
fenomeno che viene descritto in termini di mera vendita di beni al fine di
realizzare un utile che ne rappresenti il giusto valore e che contribuisca agli
scopi del settore non profit. Tale
procedimento presenta, se riguardato nell’ottica del problema che ci
occupa, due vantaggi: da un lato i beni trasferiti assolvono, anche in mano al
nuovo titolare, al medesimo scopo cui erano in precedenza destinati (atteso che
il fenomeno è frequente in special modo nel settore sanitario, è
ipotizzabile ad esempio che una struttura ospedaliera muti proprietario ma
prosegua nella propria attività); dall’altro, l’ente
trasferente consegue una remunerazione coerente con i valori di mercato che
può destinare alle finalità statutarie.
[91] La
propensione delle società a coniugare la propria azione nel mercato con
finalità ideali e la varietà di forme con cui ciò avviene
sono note soprattutto allo studioso di diritto nordamericano. Conserva la sua
attualità a tal proposito l’ampia ricognizione di H. L. Oleck, Mixtures of Profit and
Nonprofit Corporations Purposes and Operations, in 16 N. Ky. L. Rev. 225
(1988), spec.
Anche
l’interprete italiano registra la prassi, diffusa nelle società di
capitali di grandi dimensioni, consistente nel disporre, accanto alla
distribuzione di utili, la devoluzione di somme di denaro in attività
benefiche. Ne dà conto G. Marasà,
Le “società” senza scopo di lucro, cit., 124 s., il
quale nota come le suddette erogazioni possano, se contenute in limiti modesti,
essere trattate alla stregua di liberalità d’uso proprio per la
sussistenza della relativa prassi; da questa qualificazione si ritraggono
importanti conseguenze, specie in punto di oneri formali per gli emolumenti, i
quali non necessiterebbero, ai sensi dell’art. 770, comma 2°, c.c.,
di essere attribuiti per atto pubblico.
Nell’ordinamento
francese, invece, la realizzazione di uno scopo di interesse generale è
consentita, in virtù dell’art. 6 della legge 90-559 del 4 luglio
1990, ad enti lucrativi, pubblici e privati, tramite la costituzione di una fondation
d’entreprise, la quale deriva questa denominazione non tanto dal
fatto di esercitare attività d’impresa, che può essere
meramente eventuale, ma dall’essere uno strumento di azione che
società civili e commerciali, enti pubblici economici, cooperative e
mutue utilizzano per finalità di non lucrative. C. Debbasch,
Le nouveau statut des fondations: Fondations d’entreprise et
fondations classiques, cit., 272, precisa a questo proposito che il fondatore,
nel caso di specie, «le plus souvent, souhaite se lancer dans des actions
de mécénat beaucoup plus pour des raisons diverses tenant
à la stratégie de l’entreprise que pour rechercher la
survie de ce soutien à tel ou tel projet qui peut d’ailleurs se situer
à plus o moins long terme». Si v. inoltre E. Moscati,
Fondazioni e gestione di imprese, in Studi in onore di Pietro
Rescigno, vol. II, t. 1, Milano, 1998, 605 ss., spec. 616 s., il quale, in
relazione alla fondation d’entreprise, sottolinea come, essendo
l’attività della medesima strumentale al conseguimento delle
finalità imprenditoriali dell’impresa fondatrice, sia «addirittura fisiologico che i programmi
della fondazione debbano conformarsi alla strategia globale, anche di mercato,
dell’impresa fondatrice, che, tra l’altro, è responsabile
dell’attività della fondazione nei confronti dei proprî
azionisti».
[92] Per
questa opinione, in relazione ai patrimonî dedicati nel settore
dell’impresa sociale, cfr. G. M. Rivolta,
Profili giuridici dell’impresa
sociale, in Giur. comm., 2004,
1161 ss., 1175.
[94] Da
ultimo si veda la sintesi di F. Gennari,
I patrimonî destinati ad uno
specifico affare, cit., 65 ss.
[96]
L’impresa sociale non è stata invece agevolata sotto il profilo
fiscale, ciò che ha costituito motivo di critica alla relativa
disciplina (cfr. sul punto M. V. De
Giorgi, Approvato il decreto attuativo della legge delega
sull’impresa sociale, cit.,
755). Scelta analoga è stata peraltro compiuta anche per
[97] A questo
proposito, sarebbe opportuno verificare, se non l’estensione analogica,
la possibilità, in via di riforma legislativa, di correlare
l’attuazione dello scopo non profit
all’emissione di strumenti finanziari sul modello dei titoli di
solidarietà previsti dall’art. 29 del D. Lgs. 4 dicembre 1997 n.
[98] Il
riferimento è all’impostazione seguita nel citato lavoro di S. Koos, Fiduziarische Person und
Widmung. Das stiftungsspezifische Rechtsgeschäft
und die Personifikation treuhänderisch geprägter Stiftungen, spec. 135 ss., 353 ss.
[101] Di
conseguenza, non sarebbe ad esempio coerente alla fondazione dipendente
l’art. 29 c.c. in tema di divieto di nuove operazioni che incombe sugli
amministratori dal momento in cui è stato loro comunicato il
provvedimento di estinzione della persona giuridica che ha proceduto
all’autodestinazione, tenuto conto del fatto che, come sopra precisato
(v. par. 6), il vincolo sui beni, ed i connessi doveri degli amministratori di
gestire il patrimonio in conformità allo scopo, sopravvivono
all’estinzione del titolare.