manuale
giuridico e insegnamento del diritto nelle università italiane del XVI
secolo
Università di Sassari
Sommario: 1. Il peso della tradizione.
– 2. Mos gallicus e mos italicus
negli ordinamenti didattici delle facoltà di diritto.
– 3. L’istituzione
della cattedra di Pandette.
– 4. Bartolismo
e umanesimo, due soluzioni inconciliabili?. – 5. Dal trattato didattico al
“manuale” giuridico. – 6. Libri
e “scartafacci”. – 7. Censura e testi giuridici.
– 8. Edizioni di
fonti, repertori e nuove aperture disciplinari.
Nel 1588
nell’«edition nouvelle» dei suoi Essais Michel de
Montaigne criticava l’imperatore Giustiniano per aver pensato di
«frenare con la moltitudine delle leggi il potere dei giudici,
delimitando la loro funzione: non si accorgeva che c’è tanta
libertà e ampiezza nella interpretazione delle leggi quanta nella
fabbricazione di esse [...].
Infatti il nostro spirito non trova davanti a sé, quando verifica il sentimento
altrui, un campo meno spazioso di quando esprime il proprio, e come se ci fosse
meno animosità e asprezza nel glossare che nell’inventare. Vediamo
quanto s’ingannasse. Infatti abbiamo in Francia più leggi di tutto
il resto del mondo insieme, e più di quante ne occorrerebbero per governare
tutti i mondi di Epicuro»[1].
Montaigne
aveva studiato diritto nelle università di Tolosa e di Bordeaux, era
stato consigliere alla Cour des Aides di Périgueux e dal 1557 al
1570 membro del Parlamento di Bordeaux. Proprio l’esperienza diretta
aveva fatto scrivere a questo «maestro del dubbio»[2] pagine profonde e amare sulla
giurisprudenza del proprio tempo: «Avete visto dei fanciulli mentre
cercano di ridurre a un certo volume una massa di argento vivo? Più lo
premono e lo impastano e più si studiano di costringerlo a modo loro,
più irritano la libertà di quel generoso metallo: esso sfugge ai
loro sforzi e va sminuzzandosi e sparpagliandosi al di là di ogni
previsione. È la stessa cosa qui – afferma Montaigne –,
poiché, suddividendo quelle divisioni, si insegna agli uomini di
accrescere i dubbi; ci si mette sulla strada di estendere e diversificare le
difficoltà, le si allungano, le si disperdono [...], si fa fruttificare
e proliferare il mondo d’incertezza e di vertenze [...]. “Difficultatem facit doctrina”.
Dubitavamo già su Ulpiano, ridubitiamo ancora su Bartolo e Baldo.
Bisognava cancellare la traccia di quell’innumerevole varietà di
opinioni, non ornarsene e stordirne la posterità»[3].
Intellettuale
di formazione umanistica, Montaigne si rendeva conto di tutte le contraddizioni
di un sistema basato su un esasperato particolarismo giuridico, in cui il
costante richiamo alle auctoritates degli antichi giureconsulti, spesso
opposte o contraddittorie, ai vecchi statuti, alle raccolte di consuetudini,
alle sentenze dei tribunali supremi, ai bandi e alle ordinanze regie, al
diritto romano e a quello canonico, portava alla confusione assoluta e alla
paralisi, terreno nel quale i causidici trovavano gli argomenti e i pretesti
per rendersi indispensabili[4].
Una
settantina d’anni prima Thomas More, umanista e giurista di lunga
esperienza, aveva polemizzato contro un sistema giuridico complicato e
cavilloso, contraddistinto da un «gran cumulo di aggrovigliatissime
leggi» e dall’interminabile corso dei processi. Nell’isola di
Utopia – aveva immaginato – gli abitanti hanno «pochissime
leggi, perché di più non ne servono a gente educata in quel modo.
Perciò il maggior difetto che essi imputano agli altri popoli è
che le caterve di volumi degli interpreti del diritto restano pur sempre
insufficienti. Considerano poi estrema ingiustizia il fatto che esistano uomini
tenuti a rispettare norme o troppo numerose per poterle scorrere attentamente
da cima a fondo, o troppo oscure perché qualsiasi persona possa capirle.
In conseguenza non ammettono avvocati che trattino con sottigliezza le cause o
discettino astutamente sulle norme»[5].
Un altro
utopista, Tommaso Campanella, immaginerà ne La città del sole
un mondo fondato sull’amore, il lavoro, la giustizia fraterna nel quale
«le leggi son pochissime, tutte scritte in una tavola di rame alla porta
del tempio, cioè nelle colonne, nelle quali ci son scritte tutte le
quiddità delle cose in breve: che cosa è Dio, che cosa è
angelo, che cosa è mondo, stella, uomo, ecc., con gran sale, e
d’ogni virtù la deffinizione. E li giudici d’ogni
virtù hanno la sedia in quel loco, quando giudicano, e dicono:
“Ecco, tu peccasti contro deffinizione: leggi”; e così poi
lo condanna o d’ingratitudine o di pigrizia o d’ignoranza; e le
condanne son certe vere medicine, più che pene, e di soavità
grande»[6].
L’idea
di un ritorno alle origini del diritto e alla semplificazione delle leggi aveva
affascinato anche l’utopista tedesco Kaspar Stiblin, che nel suo Commentariolus
de Eudaemonensium Republica (Basilea, 1550) aveva scritto: «Lo studio
delle leggi e del diritto civile è fiorentissimo nella scuola di
Eudomone», ma non vi sono ammessi né Bartolo, né Baldo,
né il Panormita, né «gli altri commentatori tanto faticosi
quanto barbari», e solo si attende (secondo i dettami del metodo
umanistico) a interpretare il puro testo del Corpus iuris[7].
La
polemica contro i legisti, contro i giureconsulti avidi e tortuosi, accomunava,
nel XVI secolo, umanisti e utopisti. Nessuno è «altrettanto vanaglorioso»
quanto i giuristi, «mentre rotolano senza tregua il sasso di Sisifo
– aveva già scritto Erasmo da Rotterdam nell’Elogio della stoltezza (1509) –,
elaborando una serie di leggi, tutte col medesimo spirito a qualunque cosa si
riferiscano, ed accumulano chiose su chiose, opinioni su opinioni, in modo che
il loro studio sembri il più difficile di tutti»[8].
Eppure
il Cinquecento si caratterizza nel suo complesso come un secolo di grandi,
positive novità nell’ambito dell’insegnamento universitario
del diritto. Un momento “alto”, soprattutto se lo si paragona alla
decadenza degli studi, specie italiana, del secolo successivo. La polemica tra
i sostenitori del metodo umanistico e della lettura del “nudo
testo” e i difensori del bartolismo e del cosiddetto mos italicus
di insegnamento delle materie giuridiche ebbe indubbiamente riflessi positivi,
con l’istituzione delle prime cattedre di Pandette, sui vetusti
ordinamenti universitari. Lo sviluppo delle magistrature e della giurisprudenza
dei tribunali supremi favorì la nascita di nuovi ambiti disciplinari,
come ad esempio il diritto criminale, che furono recepiti nei piani di studio
delle facoltà giuridiche.
Nel
Cinquecento si assiste inoltre alla piena affermazione del libro giuridico. Nel
1548 Konrad Gesner (1516-1565), umanista e naturalista svizzero, genio
multiforme e poliedrico, segnalava nella dedica al tipografo veneziano Tommaso
Giunti del libro XIX delle sue Pandectae, a proposito del De
Iurisprudentia indici tres, la posizione di assoluta preminenza che avevano
le discipline giuridiche nel campo bibliografico[9]. Si può senz’altro
affermare che nel XVI secolo, con le Institutiones iuris canonici (1560)
di Giovanni Paolo Lancellotti, nacque la manualistica giuridica di ambito
universitario. La vasta messe di commentarii, parafrasi, sintesi, delucidazioni
delle Istituzioni giustinianee, pubblicate nel corso del Cinquecento
(Aldobrandini, Baron, Mysinger von Frundeck, Schneidewein, Wesenbeck, etc.),
costituisce anch’essa un indubbio contributo alla formazione del libro di
testo universitario[10].
Nella
gran parte delle università italiane ed europee della prima metà
del Cinquecento i piani di studio e i metodi di insegnamento del diritto
rimanevano ancora legati agli schemi ereditati dai modelli didattici medievali
che prevedevano l’alternarsi di lecturae
“ordinarie” e “straordinarie” e avevano come scopo
l’illustrazione e la spiegazione del Corpus
Iuris Civilis e di quello canonico. Resisteva inoltre la vecchia divisione
del Digesto in tre parti (Digesto Vecchio, Nuovo e Inforziato) attuata dai
glossatori. Le lezioni ordinarie di diritto civile riguardavano le lecturae del Digesto Vecchio e del
Codice; quelle di diritto canonico il Decretum
di Graziano e le Decretali; le lezioni straordinarie di civile erano quelle
sull’Inforziato, sul Digesto Nuovo e sul cosiddetto Volumen (le Institutiones,
l’Authenticum e i Libri feudorum). L’insegnamento
veniva impartito secondo il metodo scolastico: il professore esponeva un’interpretazione
della legge, cui opponeva le altre interpretazioni contrastanti per concludere
con le proprie osservazioni personali o, più frequentemente, richiamando
la communis opinio dominante sul
passo esaminato. Si trattava del cosiddetto mos
italicus iura docendi[11]. D’altra parte, come ha
osservato Francesco Calasso, la «giurisprudenza medievale italiana
dominava il pensiero giuridico di tutta l’Europa»[12].
L’organizzazione
didattica della maggior parte delle università era ispirata a questo
collaudato modello: la circolazione di maestri e studenti a livello europeo era
favorita dai medesimi ordinamenti didattici e dagli stessi programmi dei corsi.
Negli anni 1526-1550, ad esempio, lo Studio di Bologna aveva 26 tra professori
e lettori di diritto civile (così ripartiti: 5 per il Digesto Vecchio,
14 per il Nuovo, 1 per il Volumen, 2
per gli Instituta, 2 per l’Authenticum e 2 per i Libri feudorum), 16 docenti di diritto
canonico e 1 di arte notarile, suddivisi in letture ordinarie e straordinarie,
corsi mattutini e serali[13]. In genere le letture ordinarie
si tenevano la mattina e quelle straordinarie di pomeriggio. Nell’anno
accademico 1566-
A
Padova, università che alla fine del Quattrocento aveva soppiantato
Bologna nell’autorevolezza degli studi legali, i corsi giuridici
ruotavano intorno a quattro letture ordinarie fondamentali: due per il diritto
civile – una «de mane» e l’altra «de sero»
– e due per il diritto canonico – anch’esse una mattutina e
l’altra pomeridiana[15]. Ognuna delle lecturae era tenuta contemporaneamente
da due docenti che “leggevano” nello stesso orario i medesimi libri
del Corpus iuris civilis e di quello
canonico. Per il diritto civile al mattino si leggevano ad anni alterni il
Digesto Vecchio e il Codice; al pomeriggio il Digesto Nuovo e
l’Inforziato. Si prevedeva che tutto il Digesto e tutto il Codice
venissero letti integralmente nel giro di quattro anni. La cattedra che dal
1493 era stata dichiarata principalis ceteris omnibus Gymnasii, era
quella di ius civile della mattina, detta anche di «ragion
civile»: essa attirava il maggior numero di studenti e non si limitava
all’esposizione del “nudo” testo romanistico, ma prevedeva
anche la lettura delle glosse e la spiegazione dell’apparatus per fornire ai giovani il vasto commento delle
interpretazioni dottrinali che erano la magna pars del diritto vigente[16]. A Padova svolgeva inoltre
un’importante funzione il Collegio dei giuristi, cui si rivolgevano per i
pareri non solo i privati ma anche gli Stati, i principi e l’imperatore:
in alcune cause emanava sentenze come una sorta di tribunale di appello[17].
Nel 1585
il canonico romagnolo Tomaso Garzoni, a proposito De’ dottori di legge civile o giureconsulti o leggisti, scrive con spirito
classificatorio nel suo ponderoso trattato La
piazza universale di tutte le professioni del mondo che «le leggi
comprese ne’ nove libri del Codice
sono [...] tremila e seicento e otto; il Digesto
vecchio ne contien duemila e novecento vintiotto; l’Inforziato due mila e duecento
trentaquattro, il Digesto novo due
mila e novecento ottanta tre, i tre libri del Codice meschiati nel libro del Volume
novecento cinquanta e quattro, che farebbero in tutto somma di dodici mila
e settecento e sette»[18]. Secondo le testimonianze del
tempo i docenti si attardavano spesso a commentare poche leggi, esasperando il
commento con futili e dannose subtilitates
e rallentando ad libitum la lettura
delle fonti. Alcuni erano soliti impiegare tre mesi per spiegare una sola
rubrica e finivano così per commentare non più di quattro-sei
leggi all’anno[19].
L’insegnamento
era basato soprattutto sull’oralità: gli studenti assistevano alle
lezioni, prendevano appunti, partecipavano alle dispute e alle opposizioni,
finalizzate spesso ad approfondire casi pratici, con esercitazioni volte a
memorizzare i principi giuridici, ripetendo ad alta voce regulae iuris e brocardi. Nelle lezioni il testo romanistico
restava sullo sfondo, alla Glossa si accennava in termini generici: lo sforzo
maggiore del docente era concentrato sull’«interpretazione
analogica» dei giuristi del XIV-XV secolo e, in particolare, delle
soluzioni proposte nelle raccolte dei consilia e delle decisiones
dei tribunali supremi. Nella commedia Scolastica (Venezia, 1546) di
Lodovico Ariosto (completata dal fratello Gabriele) si ironizza sul fatto che
lo studente non voglia più leggere «testi, né chiose a
Baldi, Cini o Bartoli» come si usava nelle università del tempo[20].
Non
esistevano manuali o libri di testo universitari modernamente intesi. Gli
studenti più poveri studiavano in genere sugli «scartafacci»
degli appunti presi a lezione, quelli più ricchi potevano permettersi
l’acquisto di libri necessari per integrare le lecturae o per approfondire gli argomenti. D’altra parte lo
sviluppo dell’arte tipografica e l’ampliamento del mercato
editoriale avevano notevolmente ammortizzato il costo dei volumi.
Nel 1520
il venticinquenne studente tedesco Bonifacius Amerbach, figlio di un celebre
tipografo di Basilea, che aveva già studiato diritto con Zasius
nell’Università di Friburgo in Brisgovia, iscrivendosi alla
facoltà giuridica di Avignone dove insegnava Alciato sentì la
necessità di acquistare, all’inizio dei corsi, «utrumque
Corpus iuris civilis et canonici» sicuramente glossati, le
«interpretationes Bartoli Sassoferrati et Ranieri Arsendi» ed il
commento di «Felini Sandei In Decretales»[21]. Certo, Amerbach non fa testo:
veniva da una famiglia benestante e colta, dato il mestiere paterno aveva di
sicuro una gran disponibilità di libri, era inoltre seriamente intenzionato
ad approfondire gli studi giuridici e ad intraprendere la carriera di
magistrato o di professore nella sua città natale. Un altro studente di
famiglia nobile, il giovane Carlo Borromeo, iscritto alla facoltà di
diritto di Pavia, scriveva nel 1553 al padre «mi bisogna comprar
L’artigianato
librario mostrò di essere in grado di rispondere positivamente alla
crescente domanda di fonti romanistiche che veniva dalle aule universitarie (e
non solo da esse). Soltanto in Italia vennero stampate dal 1515 al 1578 9
edizioni del Codex (
Il
modello italiano della suddivisione delle discipline e dei corsi e
dell’organizzazione della didattica della facoltà di diritto venne
ripreso e fatto proprio dalla maggior parte degli statuti delle
università europee. Gli statuti dello Studio di Avignone del 1503, ad
esempio, prevedevano che il Corpus iuris
civilis venisse letto secondo il sistema italiano: nelle letture
“ordinarie” mattutine si commentavano alternativamente Codex e Digesto Vecchio; di pomeriggio
Digesto Nuovo e Inforziato; nelle letture “straordinarie” venivano
analizzati le Institutiones, le Novellae e il Volumen. Venivano invece trascurati i Libri feudorum[24]. Alciato,
che pure aveva insegnato nella città francese, definì lo Studio
avignonese «pistrinum Accursianorum», un mulino di glossatori, e
nel 1523 da Milano, chiese scherzosamente ad Amerbach, che vi studiava, se i
corsi bartolisti lo impegnassero troppo («et cum Bartolo luctatus es?»)[25].
Nelle
università spagnole del Cinquecento, da Salamanca – uno dei centri
culturali europei più vivaci nel campo della teologia e del diritto
– a Lérida, da Valencia a Alcalá de Henares, da Valladolid
a Huesca, da Siviglia a Granada, sino agli Studi di nuova fondazione nelle Indie
(dove erano sorte le università di Santo Domingo, Lima, Città del
Messico, Charcas, Santa Fe di Bogotà, Quito), imperavano incontrastati
il metodo didattico tradizionale e il bartolismo[26]. D’altra parte la
monarchia di Filippo II, con la dilatazione delle istituzioni amministrative e
di quelle giudiziarie in Spagna e nelle Indie, aveva bisogno non di filologi
umanisti ma di letrados con una
conoscenza pratica del diritto, indispensabile per esercitare le funzioni di
magistrato nelle Audiencias, di burocrate
nei Consejos o nei viceregni, di
amministratore civico o del patrimonio regio[27]. Non a caso per la fondazione
della Università di Città del Messico nel 1551 vennero, diciamo
così, “esportati” i collaudati ordinamenti didattici dello
Studio di Salamanca che, a loro volta, si ispiravano al modello bolognese. Nei
corsi messicani di diritto furono istituite quattro cattedre ordinarie: una di
Canoni, una di Decreti, una di Codice e una di Istituzioni[28].
Anche
l’Università di Napoli costituiva un bastione di quel
tradizionalismo giuridico di cui – come ricordava Pietro Giannone –
era paladino lo «stile spagnolesco»[29]. Rispetto ad altre
università (Padova, Bologna, Pavia, Pisa, Roma, Torino) che si erano
mostrate in qualche modo aperte alle suggestioni della scuola culta e ai
propositi di rinnovamento delle correnti umanistiche, lo Studio napoletano,
legato ai canoni didattici del mos italicus, si proponeva
finalità essenzialmente pratiche e si presentava come una vera e propria
“fabbrica” di doctores destinati alle carriere burocratiche,
alle magistrature e al mondo forense[30]: «Non c’è
Palazzo di Giustizia, il cui chiasso dei litiganti e dei loro accoliti superi
quello dei tribunali di Napoli – avrebbe scritto Montesquieu nel 1729
– [...]. Ci sono 50.000 di questi causidici e vivono bene. Lì si
vede la lite calzata e vestita»[31].
La
riforma attuata nel 1614-16 dal viceré conte di Lemos, modellata
sull’organizzazione didattica e di governo degli Statuti di Salamanca del
1561, accentuò ulteriormente la vocazione emintenemente pratica dei
corsi giuridici dello Studio partenopeo[32]: «La nostra
giurisprudenza non cambiò sembiante – ha commentato Giannone
–, ed i professori così nelle cattedre come nel foro, de’
quali era il numero cresciuto, seguitavano i vestigi de’ loro maggiori»[33].
Il
movimento umanistico col suo rigoroso metodo storico-filologico finì per
sovvertire il chiuso mondo delle università. Le innovazioni introdotte
dagli umanisti nel campo della filosofia, della teologia, del diritto, della
medicina, delle scienze naturali suscitarono sovente la risentita reazione di
vasti settori del mondo accademico. L’editoria giuridica italiana del XVI
secolo esprime nel complesso il diffuso conservatorismo dei piani di studio
delle facoltà di diritto, ancora legate ai vecchi ordinamenti didattici
e chiuse verso il rinnovamento. Si trattava della riproposizione, pure in un
contesto storico mutato, di un vetusto metodo di insegnamento basato su una
lettura delle fonti romanistiche filtrate attraverso un apparato di auctoritates
e su un frequente ricorso alla communis opinio doctorum e, in
particolare, a quella dei commentatori civilisti del XIV-XV secolo[34]. Il
«filosofeggiare» di questa scuola giuridica aveva portato talvolta
ad «esiti eccessivi», con il conseguente, «progressivo distacco
dal testo giustinianeo»: si era infatti affermata una concezione del
diritto nella quale la «legge romana» trovava applicazione soltanto
attraverso la «lente deformante dell’opinione del
commentatore» e si esprimeva nell’uso crescente (addirittura dilagante
tra Quattro e Cinquecento) dell’argomento ab auctoritate,
cioè di un tipo di argomentazione che fondava il «valore di una
tesi sull’autorevolezza di precedenti enunciazioni»[35].
Nel
corso del XVI secolo il mos italicus appariva a molti legato agli schemi
più tradizionali dell’interpretazione giuridica e sclerotizzato
nella riproposizione di glosse e commenti, spesso superati, tipici del sistema
del diritto comune “vecchia maniera”. I testi romanistici,
integrati dagli iura propria e dalle
leggi locali, venivano utilizzati oltre che per l’insegnamento, per
risolvere i problemi posti dall’applicazione pratica del diritto e per la
soluzione di casi concreti, favorendo la proliferazione di opere a stampa di
casistica e di ambito forense (consilia,
allegationes, decisiones, quaestiones),
infarcite di sovrabbondanti citazioni delle opinioni dei giuristi più
autorevoli. Tuttavia, questo metodo di insegnamento era, soprattutto in Italia,
perfettamente congeniale alle esigenze di formazione pratica del giurista,
chiamato a districarsi tra le fonti romanistiche, la tradizione statutaria e la
vastissima produzione di testi e pareri dei giureconsulti medievali e moderni.
Era quindi inevitabile che un metodo, nonostante tutto per molti aspetti ancora
vitale, venisse difeso ad oltranza dai giuristi pratici e dagli ambienti
forensi inclini alla conservazione.
È
contro questo sistema che nel 1435 si era scagliato Lorenzo Valla –
«vero iniziatore della polemica contro gli interpreti medievali»[36] –, durante il suo
insegnamento della retorica nello Studio pavese, accusando Bartolo di essere il
dissipatore del patrimonio classico del diritto e contro i giuristi moderni che
pedissequamente continuavano a rifarsi a lui. Il rinnovamento umanistico della
scienza giuridica nasceva non soltanto al di fuori delle aule universitarie ma
addirittura contro i metodi tradizionali di insegnamento del diritto romano da
parte di docenti, privi spesso d’un minimo di cultura storica e
letteraria. La conoscenza filologica della lingua latina agevola la
comprensione e l’interpretazione del diritto, afferma Valla nelle Elegantiae:
«Quale sia del resto l’importanza dell’interpretazione
dei termini lo attestano sommamente i libri stessi dei giuristi – afferma
–, che sono sempre impegnati in questo. Così ci fossero rimasti
tutti o almeno non avessimo, contro il divieto di Giustiniano, i loro
successori! I nomi di questi ci sono anche troppo noti [...], uomini che a
stento intendono la quinta parte del diritto civile, e che accecati dal velo
della loro ignoranza asseriscono che chi ricerca l’eloquenza non
può divenir dotto di diritto civile, come se quei giuristi antichi si
fossero espressi rozzamente al modo di costoro, o non fossero stati del tutto
egregi in quella scienza»[37].
Nelle Elegantiae,
opera trasgressiva e rivoluzionaria, che incontrò grandissima fortuna
nell’Europa cinquecentesca (una settantina di edizioni italiane e
straniere soltanto nella prima metà del secolo grazie al loro uso
scolastico come manuale di livello superiore), Valla, con il quasi fanatico
rifiuto della tradizione giuridica medievale dei glossatori e dei commentatori
del Digesto, voleva gettare le basi per la costruzione di un latino letterario
che, espressione di un umanesimo aulico e sublime, includesse e magari
superasse la stessa grandezza della civiltà classica[38]. In questa prospettiva si
colloca il De verborum significatione (1443) di Maffeo Vegio
(1406-1458), un’opera nata all’interno dell’ambiente
intellettuale pavese e con motivazioni culturali assai simili a quelle del
Valla: il trattatello determinava infatti il valore di molti termini del
Digesto, riportando per ogni parola i passi corrispondenti e le relative fonti
e proponendo un metodo nuovo per la spiegazione di molte espressioni dell’antica
giurisprudenza. Come per Valla anche per Vegio l’inizio della decadenza
degli studi giuridici era da addebitare all’opera codificatoria di
Triboniano (e, quindi, di Giustiniano) e a quella dei successivi interpreti
medievali, Cino, Bartolo e altri che, «tamquam Apollinis oracula,
observamus»[39]. Come ha notato Domenico
Maffei, con gli scritti filologico-eruditi di Valla e Vegio viene
«gettato il seme dell’antitribonianismo che si confonde poi con
quello della polemica contro la giurisprudenza medievale», destinato ad
avere notevole fortuna nel Cinquecento con la critica al sistema del jus commune e la nascita dei diritti
“patri”[40].
Un altro
contributo rilevante al rinnovamento degli studi giuridici venne dalla
storiografia umanistica con i suoi rigorosi metodi filologici, l’uso di
un latino curato ed elegante, la cosciente sensibilità laica, il gusto
erudito ed antiquario: nella Declamatio (1440)
sulla falsa donazione di Costantino Valla aveva inaugurato una nuova
metodologia critica nell’analisi delle fonti; Gasparino Barsizza
(1359-1431) nel De nominibus magistratuum
Romanorum libellus aveva affrontato la tematica delle magistrature; Pier
Candido Decembrio (1392-1477), cui Valla aveva dedicato il suo scritto
antibartolista, aveva composto il De
muneribus Romanae rei publicae affrontando le questioni relative al diritto
pubblico romano; Flavio Biondo (1388-1463) nella Roma triumphans (1459) aveva tracciato un nitido quadro delle
antichità giuridiche romane, servendosi di un vasto materiale
filologico, epigrafico e numismatico; un modesto epigono del Biondo, Giulio
Pomponio Leto (1425-1497), col trattatello De
Romanorum magistratibus sacerdotiis iurisperitis et legibus (1483 circa),
aveva tentato di trattare senza apporti innovatori il tema delle leggi e dei
giureconsulti; Marco Antonio Sabellico (1436 circa - 1506), professore di
eloquenza e storiografo ufficiale della Repubblica di Venezia, nel De Praetoris officio libellus (1491
circa) aveva analizzato il ruolo e le funzioni del pretore romano[41].
A proposito
dell’incidenza degli studia
humanitatis sulla cultura quattrocentesca Eugenio Garin ha posto in
evidenza che «si sono scartabellati lessici e documenti universitari per
stabilire che cosa gli umanisti intendevano quando si dicevano
“umanisti”, quali fossero gli insegnamenti che impartivano, e quali
titoli avessero le cattedre di maestri celebrati». A suo avviso il limite
principale di questi tentativi di interpretazione è stato quello di
«prendere come punto di riferimento l’assetto delle scuole universitarie,
senza rendersi conto che era proprio l’università medievale che
era messa in discussione e cadeva in discredito, mentre cultura e ricerca si
cercavano altri centri, o avviavano la costruzione di altre strutture»[42].
In una
celebre pagina del secondo libro di Gargantua et Pantagruel (1534),
François Rabelais, umanista e scienziato, si fa gioco del catalogo della
«magnifica» biblioteca parigina di Saint-Victor. È una
satira estrosa e graffiante della cultura ufficiale del tempo, ma nello stesso
tempo rivela una conoscenza diretta delle letture in voga e dei testi usati o
consigliati nelle università. Si inizia con un’irriverente presa
in giro dei libri giuridici: Bragheta iuris; Pantofla decretorum;
«Dei Piselli al lardo, cum commento»; Praeclarissimi
juris utriusque doctoris Maestro Pallotti Grattadenarii, De Glossae Accursianae
inetiis gabbolandis, Repetitio enucidiluculidissima; «M.N.
Rostocostogambadasina, De Mostarda post prandium servienda, lib.
quatuordecim, apostilati da don Vaurillon»; «Il Coglionamento
dei promotori»; De Calcaribus removendis, decades undecim, per D.
Albericum de Rosata; Justinianus, De bigottis tallendis e via
dicendo[43]. Si trattava della beffarda
parafrasi di un catalogo di libri giuridici assai famosi e celebrati che
potevano essere consultati nelle biblioteche dei Collegi e degli Studi di
mezz’Europa: mentre un buon numero dei titoli elencati sono puramente
scherzosi e immaginari, gli altri si riferiscono ad opere e ad autori realmente
esistenti (
Nel XVI
secolo il pensiero di Bartolo da Sassoferrato costituiva il punto di
riferimento imprescindibile per la formazione del giurista nelle
università italiane, straniere ed in quelle del nuovo mondo americano.
«Nullus bonus iurista nisi bartolista», diceva un celebre aforisma,
che confermava l’autorità assoluta della opinio Bartoli[44]. Non a
caso negli Studi italiani vennero istituite apposite cattedre finalizzate alla
lettura e all’approfondimento dell’opera del grande giurista
marchigiano, ai cui scritti si guardava come ad una summa della sapienza
giuridica civilistica: nello Studio di Napoli si stabilì nel 1507
l’attivazione di una cattedra di «testo, glosse e Bartolo»[45]; nel 1544 venne creata a
Padova, per desiderio degli studenti, una cattedra destinata alla
«lectura textus, Glossae et Bartoli», che doveva seguire passo
passo, per integrarle, le lezioni dei docenti ordinarii; così pure a
Torino nel
Nel 1591
il Senato di Milano consigliava i professori dello Studio di Pavia di limitarsi
nelle lezioni all’esposizione degli antichi interpreti, in particolare i
glossatori, Bartolo e Baldo, e di astenersi dal richiamo degli autori
più recenti[49]. Nell’Università
di Catania, come anche nei due Studi del Regno di Sardegna, Cagliari (1626) e Sassari
(1634), le lezioni tenute nelle facoltà di diritto restavano saldamente
ancorate agli schemi e ai metodi tradizionali dell’insegnamento[50]. «Le letture di Bartolo,
il quale tutti gl’altri meritamente precede – scriveva nel 1604
Annibale Roero a proposito dei corsi giuridici pavesi –. Onde in alcuni
paesi per statuto regio è stabilito, che ove sono discordanti le
opinioni de’ Dottori, prevaglia quella di Bartolo, come del maggiore di
tutti gli altri»[51].
In
Spagna, ad esempio, dal XV secolo
«Viene
el pleito a disputaçión: / Alli es Bartolo e Chino, Digesto, /
Juan Andres e Baldo, Enrique, do son / más opiniones que uvas en
cesto...»[55], recita uno spiritoso Dezir
del XV secolo a proposito di una «pugna» tra il diritto comune e
quello consuetudinario. Un giurista di formazione umanistica come
l’aragonese Antonio Agustín, già allievo bolognese di
Alciato, constatava con una punta di disgusto che i professori di Salamanca
insegnavano secondo il metodo della vecchia scuola del mos italicus bartolista[56]. Le facoltà spagnole di
diritto aderivano infatti ai metodi del mos italicus e del bartolismo: a
Salamanca, ad esempio, secondo gli statuti del 1564 e del 1594,
l’insegnamento delle materie giuridiche era imperniato esclusivamente
sulla lettura e sull’esegesi del Corpus giustinianeo e del Corpus
iuris canonici, integrati dai testi dei commentatori e, in particolare, da
quelli di Bartolo alla cui autorità, esplicitata spesso in regole
generali e in “brocardi”, ci si inchinava. Nei corsi si potevano
comunque richiamare, pur marginalmente, per le inevitabili concordanze
pratiche, le leyes della Corona di Castiglia (Siete Partidas, Leyes de Toro,
Nueva Recopilación, etc.)[57]. Dalle leggi lusitane emanate
da Alfonso V nel 1446 alle Ordenaçoes Filipinas (1603) per il
Portogallo si prescriveva che «se guarde a opinião de Bartolo,
porque sua opinião commummente he mais conforme á
razão» (cioè al diritto romano)[58]. In Italia il duca di Urbino,
Francesco Mario II della Rovere, nelle costituzioni del 26 febbraio 1616, per
«levare a’ giudici e professori di legge l’incertezza nella
quale molte volte si trovano» indicava che «nelle cause tanto
civili, quanto criminali non si possa [...] valersi nel sententiare et allegare
in iure, di altro, che del semplice testo, Glosa et leture di Bartolo, Baldo,
Paolo di Castro, Alessandro, Iasone et Imola...»[59].
Nel
corso del XVI secolo vennero pubblicate in tutta Europa 512 edizioni delle
opere di Bartolo, di cui ben
La
più antica edizione di un commento di Baldo è perugina:
Tra gli
altri esponenti della scuola dei commentatori le opere di Francesco Accolti,
noto come Francesco Aretino, i commenti alla seconda parte del Digesto vecchio,
dell’Infortiato, del Codice, delle Decretali, hanno 44 edizioni, quelle
di Paolo di Castro, autore di estesi commentari e di apprezzati consilia,
41 edizioni, quelle di Alessandro Tartagni, con i commenti al Digesto, i Consilia
e le sue glosse a Bartolo vennero incorporate nei testi bartoliani, un
centinaio di edizioni, quelle di Angelo Gambiglioni 34 edizioni, di cui 17 del De
maleficiis, la più popolare e diffusa trattazione di diritto e
procedura penale, e 16 degli In Institutiones Iustiniani commentarii,
quelle di Bartolomeo Cipolla 48 edizioni (31 italiane), di cui 11 delle Cautelae
e 10 dei Consilia criminalia, quelle di Giason del Maino (1435-1519), doctor
totius Italiae notissimus, professore negli Studi di Pisa e di Pavia,
autore di una vasta produzione esegetica, 111 edizioni, fra cui si distingue
Alla
tradizione didattica del mos italicus si oppose con vigore, ai primi del
Cinquecento, una metodologia di insegnamento fortemente innovativa che, sulla
base dell’umanesimo giuridico, si proponeva di applicare l’analisi
storico-filologica allo studio del diritto: in Francia, dove la scuola dei
Culti aveva ampi riconoscimenti, assunse la denominazione di mos gallicus
iura docendi[65]. Un ruolo importante nel
rinnovamento della cultura giuridica venne svolto dal milanese Andrea Alciato
che, non trovando rispondenza nel mondo accademico italiano al suo nuovo metodo
di studio del diritto, si trasferì in Francia dove, insieme al
giurista-filologo Guillaume Budé, diede vita, alla fine degli anni
trenta del Cinquecento, alla scuola umanistica dell’Università di
Bourges che, con l’insegnamento di Jacques Cujas, raggiunse l’apice
della sua fama[66].
Immaginando
gli studi di Pantagruele nella facoltà di diritto di Bourges, Rabelais
nel Gargantua approfittò
dell’occasione per sferrare un duro attacco ai vecchi sistemi di
insegnamento del mos italicus:
Pantagruele affermava infatti che «i libri di legge gli sembravano una
belle veste d’oro, trionfale e preziosa a meraviglia, che fosse stata
ricamata di merda: Perché – diceva – non c’è al
mondo libri così belli, ornati ed eleganti, come i testi delle Pandette;
ma quel che ci han ricamato sù, cioè la glossa di Accursio,
è così sucida, infame e volgare, che non vi si trovano se non
porcherie e trivialità»[67].
Nel giro
di pochi anni le università francesi di Montpellier, Poitiers, Bourges,
Valence, Tolosa, Cahors ed Avignone contesero agli Studi italiani il primato
nell’insegnamento delle materie giuridiche. Gli Statuti
dell’Università di Strasburgo (16 marzo 1568) prevedevano, ad
esempio, nell’insegnamento del diritto un misurato richiamo alle istanze
della scuola culta: oltre, naturalmente, ai testi giustinianei e alle glosse di
Azzone e di Piacentino, si suggeriva ai professori di utilizzare i Paratitla di Zasius (Ulrich Zasy) e le
opere di Appelus (Johann Apel), Conrad Lagus, Vigelius (Nicolaus Vigel) e
Wesembecius (Matthaus Wesenbeck)[68]. Nel 1621 gli statuti
strasburghesi raccomandavano ai professori di tenere presente, nelle proprie
lezioni, il diritto “moderno”, «adhuc in usu et
exercitio». Nel 1634 gli stessi statuti prescrivevano che il professore
di Pandette dovesse concentrare la sua esegesi su argomenti utili, legati alla
prassi, adeguando i testi «ad praesentis saeculi usum»[69].
Budé
(Budaeus, 1468-1540), che affermava di non riconoscere come vera e legittima
amante se non Dama Filologia, pubblicò nel 1508 le sue Annotationes
in XXIV libros Pandectarum che, rifiutando le interpretazioni medievali e i
metodi di indagine tipici del bartolismo italiano, propugnavano lo studio del
diritto romano secondo una prospettiva storica: era il primo organico
contributo storico-filologico all’analisi delle fonti romanistiche e una
sorta di vero e proprio manifesto dell’umanesimo giuridico francese e
dell’indirizzo della scuola dei Culti. Le Annotationes, sostenendo la necessità di mettere da parte la
glossa e i commenti, suscitarono infatti una profonda impressione negli
ambienti culturali del tempo: la polemica umanistica contro gli indirizzi del mos italicus e la critica filologica sui
fraintendimenti e gli errori nell’interpretazione del Digesto da parte
dei giuristi medievali lo portavano da un lato ad approfondire lo studio del
diritto classico al di là della compilazione giustinianea, riscoprendo
gli antichi giureconsulti e le quasi dimenticate XII Tavole, e dall’altro
a rivendicare con forza le potenzialità di una scientia juris tutta “francese”[70].
Anche
nell’Epistola de ratione
iuris docendi discendique iuris (1544) di François Le Duaren
(Duarenus, 1509-59), considerata non a torto uno dei testi di riferimento della
scuola culta, il mos italicus e il bartolismo imperante venivano
definiti «corruptissima iuris interpretandi consuetudo». Professore
a Bourges dal 1538 al 1547 e dal 1550 al 1559, Duaren pubblicò alcuni
argomenti affrontati nelle lezioni universitarie come nel De in litem iurando (Lione, 1542), in cui poneva in rilievo i
difetti e le incongruenze della metodologia dei bartolisti, sottolineando
l’importanza della cultura storica e filologica nella formazione del
giurista. Nel trattato De sacris
ecclesiae ministeriis ac beneficiis (Parigi, 1551) applicò i metodi
della scuola culta al diritto canonico, riscuotendo notevoli riconoscimenti
negli stessi ambienti ecclesiastici. Non si stancava mai di raccomandare agli
studenti la buona conoscenza del latino, indispensabile per intraprendere gli
studi giuridici e necessaria per l’analisi diretta dei testi romanistici,
al di là delle glosse e dei commenti degli interpreti successivi[71].
A
metà del secolo, però, nella scuola culta, si delineano due
divergenti ipotesi di studio e di insegnamento delle materie giuridiche: da un
lato una tendenza razionalistica che, pur partendo da presupposti umanistici,
si poneva il problema di fare i conti con la tradizione nell’ipotizzare
un’intera sistematizzazione del diritto; dall’altro, una corrente
che riproponeva con maggiore veemenza la polemica antibartoliana e, assai
lontana dalla prassi, finiva per esasperare la critica filologica.
L’impianto sistematico emerge nelle opere di giuristi come
François Connan (Connanus, 1508-51), allievo di Alciato a Bourges, alto
magistrato e membro del Conseil du Roi,
autore dei Commentariorum iuris civilis
libri X (pubblicati postumi a Parigi nel 1553), nei quali aveva tentato la
costruzione di un sistema del diritto civile sulla falsariga delle Institutiones giustinianee e,
soprattutto, come Hugues Doneau (Donellus, 1527-91), anch’egli ugonotto,
allievo di Duaren a Bourges: qui divenne professore nel 1551, ma costretto ad
emigrare per le sue idee religiose, insegnò ad Heidelberg, a Leida e ad
Altdorf, nel cantone svizzero di Uri. Nei Commentarii
juris civilis (Francoforte sul Meno, 1589-90) realizzò
un’esposizione sistematica del diritto privato attraverso un impianto
logico che disponeva in ordine il materiale contenuto nei testi giustinianei in
relazione ai princìpi del diritto naturale e delle genti. Il suo metodo
dommatico (considerato difettoso dal punto di vista scientifico dagli studenti
di Altdorf giacché si discostava dal mos italicus) entrò
comunque in conflitto sia col filologismo di Cujas (con cui Doneau ebbe
peraltro aspre polemiche), sia con le correnti di studio del droit coutumier[72].
Jacques
Cujas (Cujacius, 1522-90), definito non a torto da Arangio Ruiz come il
«principe dei romanisti», insegnò nelle università di
Tolosa (1547), Cahors (1554-55), Valence (1557-59), Bourges (1559-60), Torino
(1566-67), di nuovo Valence (1567-75) ed infine, ancora a lungo, a Bourges
(1575-90), che divenne il centro della vera scuola filologica cuiaciana. Cujas
era una sorta di “artista” del nudo testo: odiava le glosse e i
commenti che lo soffocavano, detestava i bartolisti («verbosi in re
facili, in difficili muti, in angusta diffusi») e possedeva una
straordinaria sensibilità giuridica insieme a raffinati strumenti
critico-filologici; approfondì non soltanto l’esegesi del Corpus iuris, individuandone le
interpolazioni, ma si dedicò anche allo studio delle fonti
extragiustinianee e fu tra i primi a prendere in considerazione quelle
bizantine, come emerge dal Basilikon
liber LX quo juris civilis tituli LXX (Lione, 1564).
La
maggior parte delle sue opere è consacrata allo studio esegetico delle
fonti nel tentativo di ricondurre i testi dei giuristi romani al loro ambito
originario, risolvendo tutti i problemi di carattere storico, filologico,
linguistico e giuridico. L’immensa opera lasciata da Cujas, da cui emerge
una straordinaria intelligenza critico-filologica, non è altro che il
riflesso del suo insegnamento universitario e la redazione scritta delle sue
lezioni, preparate con estrema cura, che seguivano un rigoroso ordine logico:
lettura del testo, esegesi critica, correzioni e integrazioni, suo recupero
filologico. Soltanto alla fine dell’esposizione. Cujas azzardava
un’interpretazione definitiva, conforme al contesto storico
dell’opera in questione[73]. La sua produzione rifletteva
soprattutto il campo delle antichità giuridiche, ma proprio con le
profonde e penetranti esegesi dei singoli passi – ed in ciò sta
l’importanza di Cujas – contribuì in modo decisivo, secondo
Koschaker, «alla esatta comprensione delle fonti del diritto romano dal
punto di vista storico»[74].
Un
discorso a parte merita François Hotman (Hotomanus, 1524-90), giurista
ugonotto, personalità vivace e polemica, scrittore brillante e fine
filologo, professore nelle università di Parigi (1546), Losanna (1550),
Strasburgo (1556), Valence (1563), Bourges (1567), come successore di Cujas, e
Ginevra (1572). Autore di una vasta opera giuridica, di lecturae e commentarii
dovuti in gran parte all’attività di docente, la sua fama è
legata però alla Francogallia,
sive tractatus de regimine regum Galliae et de iure successionis (Ginevra,
1573, tradotta in francese nel 1574 e rielaborata nel 1586): nella ricerca
delle radici storiche delle Leggi fondamentali e degli Stati generali e nella
valorizzazione delle tradizioni “nazionali” della monarchia di
Francia, Hotman individuava l’origine del costituzionalismo e della
limitazione dei poteri del sovrano nelle antiche assemblee dei Galli e dei
Franchi[75]. Si trattava di una sorta di
manifesto politico del “partito protestante” francese volto a
fissare i termini delle proprie rivendicazioni e a porre i vincoli
dell’assolutismo monarchico. Fu una delle opere più lette in
Francia nel XVI secolo, il cui successo è paragonabile, in qualche
misura, a quello del Contrat social
di Rousseau nel Settecento[76].
Nell’Antitribonian, apparso postumo nel 1603
ma redatto nel 1567, Hotman, in una operazione scopertamente funzionale alla
valorizzazione del diritto “nazionale” francese, sviluppò
una polemica radicale contro la compilazione giustinianea: ne negava il valore
intrinseco e la dichiarava inutile per la realtà politica e sociale
della monarchia. In sostanza, dietro l’antitribonianesimo si celava una
sorta di non tanto nascosto antiromanesimo che faceva da fondamento
all’auspicio che il cancelliere Michel de L’Hospital, che aveva
favorito la stesura del libello e chiamato il giurista ugonotto
nell’Università di Bourges, istituisse una commissione di
giureconsulti preposta alla raccolta di tutto il diritto patrio francese: la
compilazione, redatta in forma chiara e intelligibile in lingua volgare, avrebbe
dovuto riguardare tanto la materia pubblicistica, quanto quella privatistica[77]. Tuttavia in Francia vi furono giuristi
di formazione bartolista (Jean Ferrault, Claude Seyssel, Barthélemy
Chasseneuz, André Tiraqueau, Pierre Rebuffi, Charles Du Moulin) che
rinnovarono i vecchi metodi con l’apertura alle istanze umanistiche e ai
problemi del tempo e altri, come Jean de Coras (Corasius), che cercarono una
via intermedia tra il mos gallicus e il mos italicus, e
università, come Orléans e Angers, che rimasero sostanzialmente
ancorate alla tradizione.
Da buon
umanista che aveva studiato il diritto romano, anche Rabelais nel Gargantua volle spezzare una lancia a
favore della scuola dei Culti immaginando che Pantagruele, che nelle
«gran dispuste che aveva sostenuto pubblicamente contro tutti» si
era «rivelato sapiente oltre la capacità dei tempi nuovi»,
venisse chiamato a giudicare una causa complessa e «difficile da
trattare» tra il «signor Baciaculo, querelante» e il
«signor Nasapeti, convenuto», «pendente» presso il
Parlamento di Parigi. I magistrati lo pregarono di voler «spulciare e
districar quel processo, per farne poi una relazione [...] in precisi termini
legali», affidandogli «tutti i sacchi e le scartoffie della causa,
che ce n’era da caricare quattro asini». «Io sono sicuro
– diceva Pantagruele ai magistrati – che voi e tutti quelli per le
cui mani è passato il processo, ci avrete macchinato quanto avete
potuto, per Pro et Contra; e caso mai
la loro lite fosse stata patente e facile da giudicare, l’avrete oscurata
con le sciocche e dissennate ragioni e inette opinioni di Accursio, Baldo,
Bartolo, de Castro, de Imola, e Ippolito, e il Panormo, e Bertacchino, e
Alessandro, e Curzio, e tutti quegli altri vecchi mastini, che non hanno mai
inteso neanche tre righe delle Pandette, ma eran come buoi da macello,
ignoranti tutto quel che è necessario pel buon intendimento delle leggi.
Giacché (ormai è ben certo), essi non avevano nessuna conoscenza
della lingua Greca né Latina, ma solo della Gotica e Barbarica [...].
Come dunque avrebbero quei vecchi trasognati potuto intendere il testo di
quelle leggi – si domandava –, loro che non avevano mai neppure
guardato un libro in buon Latino, come è chiaramente dimostrato dal loro
stile, che è stile da spazzacamini, da sguatteri o cucinieri, ma non
certo da giureconsulti?»[78].
I
giuristi francesi della scuola culta si posero concretamente il problema dello
studio e dell’insegnamento del diritto nelle facoltà giuridiche.
Nell’Epistola de ratione docendi
discendique iuris del 1544, Duaren spiegò quale atteggiamento i
giuristi-umanisti dovevano tenere nei confronti della codificazione
guistinianea e della tradizione romanistica medievale. Il Corpus juris civilis gli appariva come un’opera umana, non
più un complesso di principi indiscutibili ed eterni, il cui valore
dogmatico e autoritario aveva profondamente influenzato i giuristi medievali.
Nel Digesto ravvisava una serie di norme e di dottrine che dovevano costituire
la base di ogni educazione giuridica: le istituzioni giustinianee
rappresentavano, ad esempio, un insieme di princìpi generali assai utili
per la formazione del giurista e assai facili da memorizzare per gli studenti.
Il contenuto delle Pandette e del Codice gli apparivano distribuiti senza
ordine e senza logica. Sarebbe stato necessario, a suo avviso, riordinare con
razionalità i titoli del Digesto per considerarli analiticamente in un
insieme organico di concetti. Era dunque compito del docente sviluppare
un’elaborazione logica delle materie; da parte sua lo studente avrebbe
dovuto fissare nella mente, tamquam in
tabula, i concetti fondamentali, attraverso i quali, poi, non avrebbe avuto
difficoltà ad orientarsi nei singoli problemi particolari[79].
Nel
breve discorso programmatico pronunciato nell’Università di
Bourges il 16 ottobre 1585, De ratione
docendi juris, Cujas esaltò la maestria dei giuristi classici, il
valore del loro pensiero, la superiorità della giurisprudenza romana nel
campo dell’ars juris,
riaffermando con vigore l’importanza del metodo umanistico nello studio e
nell’insegnamento del diritto[80]. In polemica con Duaren e con
gli altri giuristi che non riuscivano a vedere una distribuzione razionale
negli argomenti trattati dal Digesto, Cujas, nei Paratitla in libros quinquaginta Digestorum (Colonia, 1570), aveva
voluto dimostrare, attraverso una scrupolosa ricerca, l’intima e
razionale connessione che esisteva tra i titoli delle Pandette. Di conseguenza
i professori di diritto avrebbero dovuto rifarsi sempre all’ordo juris del Digesto, che era la parte
più preziosa della compilazione giustinianea, l’unica a riproporre
il pensiero dei grandi giuristi romani. Questa concezione – diciamo
così – “integralistica” del filologismo, che non ammetteva
compromessi, spinse Cujas a polemizzare non soltanto con i bartolisti e i
seguaci del mos italicus, ma anche con gli esponenti della scuola culta
come Duaren, Hotman e Bodin, considerato nel 1577, un «causidicus quidam,
qui nuper de republica vernacula lingua scripsit», a proposito della
traduzione francese (1576) de Les six livres de la Republique[81].
Tra il
XVI e il XVII secolo iniziò così a prender forma un droit
civil commun della Francia, grazie a quei giuristi che studiarono le
centinaia di coutumes, valorizzate dalla prassi e dalla giurisprudenza,
specie del Parlamento di Parigi, e in stretta connessione col diritto romano.
Fra loro Charles Du Moulin (Molinaeus, 1500-1566), con i Commentarii in
consuetudines Parisienses (Parigi, 1539), Guy Coquille (Conchyleus,
1523-1603), con le sue Institutions au droit françois (pubblicato
postumo nel 1607), il magistrato Etienne Pasquier (1529-1615), moderato
simpatizzante della scuola culta, con le sue Recherches de
In
questo ambito, in coincidenza col processo di centralizzazione dei poteri
monarchici e con le prime esperienze di unificazione linguistica e
amministrativa, tipiche del Grand Siècle, sarebbe maturata
l’istituzione nel 1679, presso l’Università di Parigi, della
cattedra di diritto francese[83]. Un insegnamento che, nella
spiegazione delle ordonnances e delle coutumes, si
caratterizzò per la netta affermazione di autonomia rispetto alla
tradizione del diritto comune: nel 1682 François De Launay (1612-1693),
il primo professore chiamato a ricoprirne la cattedra, nelle sue lezioni al Collège
de France poteva affermare, a proposito del diritto romano: «il
n’y a pas de chose plus étrange dans le monde que de voir un
peuple obligé à suivre des lois qu’il n’entend
pas»[84].
In
Spagna, in particolare a Salamanca, erano previste lecturae ed
esercitazioni didattiche – che si tenevano per lo più in
castigliano – affidate a licenciados o a giovani baccellieri su
casi pratici con esplicito riferimento alle leggi e ai fueros del Regno.
Certo, lo studio del diritto patrio occupava una posizione oggettivamente
marginale rispetto al diritto comune, ma comunque non era ignorato del tutto.
Nel 1589
Pedro Simón Abril (1530 circa - 1590 circa), cattedratico di humanitates
a Saragozza, editore di testi di autori latini e traduttore di molte opere
classiche in castigliano, rilevava diversi errori nel metodo di insegnamento
del diritto e delle altre scienze, attribuendoli in particolare all’uso
del latino in luogo della lingua volgare. Duramente critico nei confronti della
compilazione giustinianea e della didattica universitaria fondata sul mos italicus
e sulla communis opinio, esaltava viceversa il diritto regio e in
particolare le Siete Partidas, che avevano il pregio di essere redatte
in castigliano, di essere esposte in maniera chiara e di configurarsi come una
normativa esaustiva. Proponeva pertanto di usare soltanto il diritto regio e di
insegnare quello nelle università. Si rivolgeva a Filippo II
perché si facesse promotere di una riforma degli studi giuridici: il
sovrano però, approvando gli statuti di Salamanca, riproponeva i moduli
tradizionali del mos italicus e del bartolismo[85].
Anche se
non formalmente in una cattedra apposita, nell’Olanda del Seicento sin
dagli anni trenta si affermò l’insegnamento del diritto
patrio, che poteva disporre dell’Inleidinge
tot de Hollandsche Rechtsgeleertheyd di Hugo Grozio (Institutiones juris hollandici, nella successiva traduzione
latina), un manuale in volgare redatto intorno al 1620 e pubblicato nel 1631,
nel quale l’autore, raccogliendo le consuetudini, la legislazione e la
giurisprudenza, guardava soprattutto alla prassi. In Italia invece, sino al
Settecento, i curricula e i programmi dell’insegnamento delle
materie giuridiche in università come Padova, Bologna, Roma, Torino,
Pisa, rimasero nel complesso appiattiti sui modelli tardo-medievali, evitando
ogni apertura nei confronti dei diritti locali[86].
In
Italia il più autorevole esponente dell’umanesimo giuridico
cinquecentesco fu Andrea Alciato, raffinato filologo, esperto di epigrafia latina
e di storia antiquaria, professore nelle università di Avignone
(1518-21), Bourges (1529-33), Pavia (1533-37), Bologna (1537-41), Ferrara
(1542-46) e di nuovo nello Studio pavese dal 1546 al 1550, anno della sua
morte. Rispetto ai suoi colleghi francesi, si mostrava meno iconoclasta nei
confronti della tradizione medievale e del bartolismo: in più occasioni
riconobbe l’apporto fondamentale offerto dall’una e
dall’altro alle necessità di una scienza giuridica aderente al
reale, ma nel contempo rifiutava il metodo scolastico diffuso negli Studi
italiani. Insomma, apprezzava Bartolo, lodandone le intuizioni e l’acume,
ma detestava gli epigoni bartolisti. Il suo insegnamento universitario
prevedeva infatti la lettura diretta dei testi romanistici, spesso dimenticati
a favore dell’apparato di glosse e commenti, l’approccio filologico
alla fonte, l’indipendenza di giudizio anche rispetto agli interpreti e
ai dottori più famosi, la limitazione del ricorso
all’autorità degli autori medievali, l’eliminazione delle
citazioni sovrabbondanti, la corretta conoscenza del latino umanistico[87].
Le opere
di Alciato, a conferma della sua grande influenza nella scienza e nella
didattica giuridica, ebbero nel Cinquecento 187 edizioni: nelle Dispunctiones
(Milano, 1518), 11 edizioni sino al 1543, affrontò con estrema perizia
filologica la questione della restituzione dei termini greci omessi nel Corpus
iuris giustinianeo; il De verborum significatione (Lione, 1530), la
più conosciuta delle sue opere di diritto, che distingueva la
giurisprudenza dall’oratoria, ebbe 16 edizioni sino al 1589; ampia
popolarità, anche per l’attualità dell’argomento,
ebbe il De singulari certamine seu duello tractatus (Parigi, 1541),
dichiaratamente critico nei confronti del duello, con 3 ristampe latine, 4
edizioni in traduzione italiana (Duello, Venezia, 1544, 1545, 1552,
1562),
Nei Parergon
iuris libri III – 11 edizioni, dalla prima di Basilea nel 1538
(seguono nello stesso anno altre due edizioni a Lione) all’ultima lionese
del 1554 –, collezione di frammenti di erudizione e di critica giuridica,
Alciato rivolge un severo attacco alla tradizione italiana della giurisprudenza
pratica e ai pareri legali, esprimendo un giudizio profondamente negativo sulla
proliferazione di raccolte di consilia a stampa: «La pubblicazione
di tanti pareri mostra mente non sana e ambizione smoderata – afferma
–. Si trova il patrono egregio e di gran nome nella necessità di
dar parere sui casi più vari, nei quali talora il cliente è dalla
parte della ragione, talora del torto. Accade qualche volta che non sia abbastanza
chiaro il punto di diritto, e mentre la cosa è fra l’incudine e il
martello, capiti il litigante liberale che provochi con lauto onorario lo zelo
dell’avvocato; sebbene niente o poco diano, e allora il patrono non li
stimi degni di difenderli con molto lavoro. Come potrà uno in casi
così diversi pubblicare tutto, quasi fosse messo insieme con eguale
diligenza? [...]. Quanto più uno ha ingegno acuto, tanto più
è peccatore pericoloso – osserva Alciato –. Preferirei i
pareri del Barbazia, di Giasone, del Parisio a quelli del Socino e del Decio. I
primi di mente più ristretta, ogni volta che male consigliano [...] lo
fanno con sì rozzi argomenti, che subito si può vedere ove sia il
marcio. Ma il Decio o Bartolomeo Socino, d’ingegno acuto, peccano
così velatamente e cautamente da far cadere in inganno anche gli esperti
[...]. Misero e inesperto quel giudice che si appoggia a pareri di tal genere
piuttostoché ai dogmi esposti nell’ordinaria sede dei
dottori!»[90].
Nelle
università dell’area tedesca il diffondersi dell’umanesimo
giuridico e la coeva affermazione della Riforma protestante diedero un duro
colpo alla vecchia tradizione didattica di impianto scolastico: un contributo
notevole all’introduzione del mos gallicus in Germania venne da
Ulrich Zasy (Zasius), professore di Pandette presso l’Università
di Friburgo, considerato da Claudio Cantiuncula (Claude Chansonnette), docente
a Basilea, già dal 1520 membro, insieme a Budé e ad Alciato, di
quella triade che in Francia, in Italia e nei paesi tedeschi era destinata a
rinnovare profondamente lo studio e l’insegnamento del diritto
(«triumviratus constituenda rei pandectariae»)[91]. Zasius insegnava il diritto
romano secondo metodo umanistico e nei suoi corsi criticava con veemenza il mos
italicus, i glossatori e i bartolisti: «Ite Accursiani, ite
Bartolistae – affermava nell’Intellectus
iuris (Basilea 1526) –, et
violanda textus claros et faciles implete mundum erroribus!»[92]. Le opere di Zasius, anch’esse
legate in qualche modo alle lezioni universitarie di Friburgo, ebbero nel corso
del Cinquecento 94 edizioni. Nel prologo dell’Intellectus singulares (Basilea, 1526, sette ristampe
cinquecentesche successive) Zasius esplicitava il suo credo umanistico,
affermando che la verità del diritto derivava dal riscontro delle fonti
e non dall’autorità dei doctores[93]. Il nuovo metodo si
affermò soprattutto nelle università di Basilea, Friburgo,
Tubinga e Heidelberg.
Le opere
della scuola dei Culti ebbero un buon successo editoriale a livello europeo,
tenendo anche conto che molte sedi universitarie si mostrarono sostanzialmente
ostili nei confronti dell’umanesimo giuridico. Gli scritti di diritto e
di humanitates di Budé ebbero 113 edizioni, di cui 22 del De
asse et partibus libri quinque (1515), un trattato sull’esatto
significato delle parole usate presso gli antichi per indicare il valore delle
monete e delle misure, e 20 delle Annotationes in Pandectas. Le opere di
Cujas ebbero 80 edizioni, di cui 16 dei Paratitla in libros quinquaginta
Digestorum (1570), quelle di Duaren 24 edizioni, quelle di Doneau 21 edizioni,
di cui 7 dei Commentarii de iure civili, quelle di Hotman 65, di cui 5
della Franco-Gallia.
D’altra
parte le università del Cinquecento, a differenza di quelle medievali,
non dovevano più formare giuristi con una visione universalistica del jus
commune, ma operatori del diritto essenzialmente pratici, uomini del foro,
ufficiali regi, amministratori civici, procuratori feudali, causidici. Non vi
era una grande domanda per un metodo di insegnamento che privilegiasse le
grandi questioni filologiche dei testi romanistici: il diritto giustinianeo,
filtrato dalle intermediazioni medievali, veniva studiato in funzione delle
esigenze concrete, con un’ottica che dava ampio risalto
all’autorità dei giuristi e alla letteratura forense (consilia, decisiones, allegationes,
quaestiones)[94].
Nel
1566-67, durante il suo semestre di insegnamento torinese, Cujas ebbe modo di
visitare alcune università italiane e di definire i professori di
diritto suoi colleghi, miseri, blaterones e desipientes:
alcuni di essi non si rendevano nemmeno conto di ciò che spiegavano,
spandendo dalla cattedra, senza sollevare mai la testa, gli occhi fissi sui
fogli degli appunti, un inutile «vaniloquio dialettico»; altri
erano totalmente impreparati e si limitavano a compendiare in modo pedissequo
le leggi romane; altri ancora conoscevano a mala pena un solo argomento del
corso «rubacchiato» ai vari giureconsulti. Un quadro sconfortante,
ma in qualche misura anche realista[95].
Uno
studente tedesco, tal Gottifridus Conratterus, iscritto nella facoltà di
giurisprudenza di Padova nel 1577-78 che, non a torto, è stata
considerata come «il Gotha del mos italicus», o meglio, come
ha scritto Biagio Brugi, una «scuola di giurisprudenza pratica illuminata
dalla teoria»[96], ci descrive il metodo
didattico imperante nell’ateneo veneto: «Gl’Italiani –
scrive – nel trattare e discutere le controversie del nostro diritto
hanno quest’uso, che, dopo aver proposto qualche questione, disputano
tanto a favore della tesi affermativa, come della negativa [...]. Ovvero se
l’una e l’altra opinione abbia qualche colore di verità,
s’appigliano a sottili distinzioni, affinché in tal modo si eviti
la correzione dei testi; i quali, a primo aspetto, sembrano fra loro
contraddittori». Questo metodo gli appare però zeppo di difetti:
«È certo – osserva – che con questa maniera
d’insegnare si genera supina infingardaggine nell’animo dei dottori
[...]. Né ciò fa meraviglia, poiché spesso accade ai
dottori medesimi di non sapersi districare negli stupefacenti libirinti delle
dispute che portano in campo [...]. Taccio che in tal modo gli animi dei
singoli discepoli sembran tratti e ammaestrati in veri inganni e vere frodi
[...]. Né per certo l’effetto di questi inutili cavilli e di
queste dispute altro può essere [...] che da cose evidentemente vere,
mediante piccolissimi mutamenti, la disputa sia tratta a cose evidentemente
false»[97].
Nel 1567
le autorità accademiche della Sapienza di Roma chiesero a Marc-Antoine
Muret (1526-1585), umanista di gran nome e prestigio, docente di Filosofia
morale, di insegnare il Digesto «alla francese», cioè con il
metodo storico-filologico del mos gallicus. Era giunto a Roma preceduto
da una gran fama: celebre professore di retorica (fra i suoi allievi il giovane
Montaigne), autore di versi latini e francesi e di una tragedia, Julius
Caesar, editore e commentatore di testi classici (Orazio, Catullo,
Cicerone, Properzio, etc.). Durante il suo insegnamento parigino era stato
accusato di eresia e di sodomia e rinchiuso allo Châtelet; liberato
grazie all’interessamento di autorevoli protettori, dovette abbandonare
la capitale. Colpito anche a Tolosa dall’accusa di costumi depravati fu
arso in effigie, mentre raggiungeva l’Italia. A Ferrara fu segretario del
cardinale Ippolito d’Este, con l’appoggio del quale venne chiamato
a Roma da Pio IV nel 1563. Nel corso dell’insegnamento romano di diritto
volle laurearsi in utroque nello Studio di Macerata, dove
conseguì i gradi il 29 marzo 1572[98]. Era noto che Muret era uno dei
più fieri avversari della tradizione italiana e del bartolismo, ma le
autorità pontificie, con l’istituzione della cattedra di Ad
Pandectas enucleandas volevano sperimentare spazi separati di insegnamento
secondo i diversi metodi didattici[99]. Le lezioni di Muret –
che sarebbero state pubblicate dall’autore – cercavano di offrire,
grazie alle conoscenze erudite e all’acume filologico, un’immagine
“veritiera” della legislazione giustinianea. Esse richiamarono un
gran numero di studenti a scapito, ovviamente, dei corsi più
tradizionali[100]: la loro eco si spinse sino
alla lontana Padova, dove gli studenti tedeschi che frequentavano i corsi di
diritto si adoperarono dapprima per ottenere il trasferimento di Muret nello
Studio veneto e, poi, per l’istituzione di una cattedra di Pandette[101]. Nel 1572, però,
l’esperienza didattica di Muret si concluse bruscamente: i colleghi romani, quelli
che a suo avviso insegnavano «magno fastu» «inezie»
invise pure agli studenti, si rivolsero direttamente al pontefice perché
fosse impedita la prosecuzione di quelle lezioni che rischiavano di indurre la
gioventù a ripudiare la dottrina di Bartolo. Le autorità
trasferirono Muret alla cattedra di retorica, con l’offerta di un salario
più che doppio: il docente francese declinò di conseguenza l’offerta
padovana[102]. La cattedra di Pandette
verrà riattivata alla Sapienza soltanto nel 1658[103].
Eppure
l’ambiente giuridico romano non era del tutto refrattario al rinnovamento
umanistico. Nel 1566 aveva iniziato i suoi lavori la commissione ideata da Pio
IV per l’emendazione del Decretum di Graziano. I Correctores
Romani terminarono l’opera nel 1582: nella premessa
all’edizione a stampa, pubblicata nella tipografia del Popolo Romano, il
pontefice spiegava le finalità della revisione delle concordanze e delle
discordanze del Decretum[104]. Oltre l’editio princeps si segnalano dodici
edizioni del Decretum emendatum, dal 1584 al 1600. Ai lavori presero
parte alcuni giuristi, fra i quali spiccavano Antonio Agustín, allievo
di Alciato a Bologna, uno dei massimi esponenti dell’umanesimo giuridico
spagnolo, assai critico nei confronti del mos italicus imperante nelle
università iberiche (nel 1586, ormai vescovo di Tarragona, avrebbe
chiarito nel De emendatione Gratiani i criteri filologici adottati nella
revisione romana), e Cesare Costa, professore alla Sapienza, autore dei Variarum
ambiguitatum iuris libri tres (Napoli, 1573), un esempio di letteratura di
impianto umanistico funzionale alle esigenze della Chiesa post-tridentina[105].
L’esigenza
di un modo nuovo di concepire e di studiare il diritto iniziava ad essere
condivisa non più da ristretti circoli umanistici ma anche dagli
studenti delle materie giuridiche, specialmente quelli stranieri che
frequentavano le università italiane, desiderosi di seguire corsi
più aderenti all’originario dettato romanistico, meno infarciti di
pesanti citazioni delle auctoritates di dottori e legulei. Contro auctoritates
e opinioni comuni si erano scagliati gli umanisti: Zasio, valutandone
soprattutto le degenerazioni, nella sua Responsorum iuris seu Consiliorum
opus (postuma, Basilea, 1538), le considerava false («communis opinio
ergo falsa») e fonte di confusione.
Su
esplicita richiesta degli studenti «tedeschi e di altri scolari
oltremontani» venne prevista, all’interno del piano di riforma
dell’Università di Siena (1589), l’istituzione di una
cattedra di Pandette che prescriveva al lettore il rigoroso riferimento al
testo della legge e vietava ogni ricorso alla Glossa, a Bartolo e agli altri
interpreti medievali[106]. Nel 1591 la cattedra di
Pandette venne istituita anche nello Studio di Pisa: l’insegnamento fu
affidato al marsigliese Jacques Vias, che non possedeva però una
preparazione filologica capace di approfondire l’esegesi del testo. Due
anni dopo la cattedra veniva soppressa[107].
Già
dal 1533 l’olandese Wiggle van Aytta van Zwichem (Viglius Zuichemius,
1507-1577) di formazione umanista, professore di Istituzioni a Padova,
illustrava il puro testo, anticipando di una quarantina d’anni
l’insegnamento delle Pandette[108]. Nel 1578
Anche a
Bologna la cattedra, istituita nel 1588, ebbe vita stentata: affidata
gratuitamente ad un giovane, Alessandro Maggi, ebbe un profilo modesto e fu
soppressa nel 1592. Riattivata nel 1606, fu ricoperta da Claudio Achillini,
giurista d’ingegno e didatta abile e apprezzato, col lauto stipendio di
300 scudi. Ma, dopo tre anni, Achillini preferì trasferirsi nello Studio
di Ferrara per insegnare nel più prestigioso corso “primario”
di diritto civile. L’insegnamento venne mantenuto acceso per tutto il
secolo, ma dal numero esiguo dei titolari se ne intuisce la modesta fortuna e
s’intravede la scarsa presa presso gli studenti di un impianto meramente
esegetico assai lontano dalla prassi[110]. Anche nell’Università
di Pavia, agli inizi del Seicento, si affianca ai corsi tradizionali il nuovo
insegnamento delle Pandette che resterà acceso fino agli anni sessanta
del Settecento: il primo professore, nel 1609, è il milanese Angelo Stefano
Garoni, segretario del Senato, che lo terrà per un decennio[111].
Insomma,
l’ambiente accademico italiano si mostrava nel complesso refrattario alle
novità. Anche alcuni giuristi assai innovativi nei loro ambiti di
studio, come Tiberio Deciani nel campo penalistico o Alberico Gentili, nel
terreno del nascente diritto “internazionale”, si rivelarono
convinti “conservatori” nella loro intransigente riproposizione del
mos italicus: il primo nella Apologia pro iuris prudentibus qui
responsa sua edunt (1579), composta durante il suo insegnamento padovano,
il secondo nel De iuris interpretibus dialogi sex, redatti durante la
sua docenza ad Oxford, sono accomunati nel duro attacco ai propositi di
rinnovamento della scuola culta[112].
Deciani,
che aveva comunque una formazione umanistica, scrisse l’Apologia come orgogliosa e appassionata
risposta al Parergon di Alciato, che aveva aspramente criticato la
giurisprudenza consulente e i giuristi autori di responsa e consilia
(«an publicae utilitati conducant juris consultorum responsa quae vulgo
consilia vocant», si era domandato). Il professore patavino considerava
al contrario il consilium come uno strumento essenziale per
l’applicazione del diritto, sia perché dalla prassi emergevano
sempre nuove istituzioni che non erano contemplate dalle antiche leggi, sia
perché il giurista consulente era costretto a verificare costantemente
nella realtà le spesso astratte elaborazioni teoriche. Insomma, Deciani
rivendicava con forza il ruolo di un giurista che, assoluto padrone di tutti
gli aspetti “tecnici” del diritto, riuscisse, al di là delle
astrattezze filologiche della scuola culta, a coniugare felicemente teoria e
prassi, sostenendo che non poteva essere definito giureconsulto chi non sapeva
decidere una controversia[113].
A conclusioni
non dissimili giungeva pochi anni dopo Alberico Gentili (1552-1608) nei suoi
celebri De iuris interpretibus dialogi sex (Londra, 1582). Gentili si
era laureato nel 1572 solo in diritto civile a Perugia, Studio saldamente
ancorato alla tradizione del mos italicus. Dopo alcune esperienze di
avvocato e di amministratore locale aveva abbandonato l’Italia per le sue
idee religiose, trasferendosi definitivamente a Londra nel 1580: membro del
Collegio dei dottori, dal 1581 iniziò a tenere lezioni di civil law
nel St. John’s College di Oxford, università nella quale venne
nominato nel 1587 regius professor[114]. I Dialogi
nascevano all’interno del rinnovato interesse per il diritto romano,
tipico dei fermenti assolutistici dell’età elisabettiana, il cui
insegnamento era stato ripristinato nelle università inglesi[115]. In questo ambito il mos
italicus, per il suo impianto sistematico e nel contempo per la sua
duttilità, si presentava, rispetto al filologismo erudito dei Culti,
come lo strumento più idoneo per soddisfare le esigenze della pratica e
integrare un diritto eminentemente giurisprudenziale come la common law.
Si
sbaglierebbe a considerare i Dialogi come una mera difesa, in parte
anche datata, del vecchio contro il nuovo: Gentili non era affatto chiuso alle
istanze umanistiche e apprezzava le opere e, soprattutto, le posizioni
equilibrate di Alciato, Viglio Zuichemo, Zasio, Doneau e Agustín. La sua
critica è rivolta soprattutto contro i Culti francesi, specie quelli
della seconda generazione, come Cujas, Duaren e Hotman, sulle cui affermazioni
spesso e volentieri ironizza, ridicolizzandone le posizioni. Si trattava, a suo
avviso, di eruditi, insaziabili ricercatori di manoscritti, divenuti giuristi
loro malgrado, convinti di conoscere tutta la scienza del diritto e di
percorrere tutto lo smisurato regno dell’antichità soltanto per
aver rinvenuto qualche dimenticato testo di legge: quando trovavano in un libro
il nome di Bartolo o di Baldo lo gettavano via inorriditi. Rintuzzando le
intemperanze dei novatori, Gentili difendeva con convinzione l’autonomia
della scienza giuridica contro le “invasioni” spesso inconcludenti
e pretestuose dei filologi e degli storici. Si poteva infatti essere un buon
giurista, affermava, senza conoscere il latino («absque latinae linguae
cognitione exquisitori»), il greco, la storia e la filologia[116].
Finalizzati
ad orientare gli studenti nell’attività pratica e ad indicare al
ceto forense gli strumenti logici che venivano negati dai fautori del mos
gallicus ed erano invece l’essenza del diritto, i Dialogi di
Gentili, nella vigorosa difesa del bartolismo e della tradizione italiana,
intendevano valorizzare la figura del giurista formato non sui classici o sui
grammatici, ma sulle opere di quei maestri che, pur essendosi espressi in un latino
barbaro e rozzo, erano stati nondimeno acutissimi ed esperti nella prassi e
nelle controversie[117]. Gentili distingueva tra interpretatio
etymologica e interpretatio analogica: la prima era orientata
esclusivamente ad una critica filologica del testo; la seconda svolgeva un
ruolo creativo nell’adattamento e nell’interpretazione
evolutiva delle norme romane alle esigenze della prassi[118]. Lo stesso Gentili, in
un’opera di poco successiva, ribadendo la piena validità del
regime normativo fondato sul diritto comune, avrebbe affermato che soltanto i
passi glossati del Corpus iuris avevano valore come fonte di diritto
positivo[119].
In
realtà, come ha osservato Piano Mortari, nell’Apologia di Deciani e nei Dialogi di Gentili affiora lo
stesso «senso storico umanistico presente nelle indagini» dei
seguaci della scuola culta, che dalla «constatazione
dell’insufficienza attuale dei precetti del diritto romano trassero
ragioni per sostenere la sua eliminazione come fonte di diritto positivo»[120]. Ovviamente a questo problema
Deciani e Gentili davano una risposta diametralmente opposta a quella dei
giuristi del mos gallicus, i quali avevano trasformato il diritto romano
in diritto storico[121]. I due giureconsulti italiani
erano invece assertori della necessità della trasformazione continua dei
principi e degli istituti romanistici attraverso l’opera creatrice
dell’interpretazione giuridica.
Mos gallicus o mos italicus? La
storiografia otto-novecentesca ha spesso accentuato in chiave nazionalistica la
contrapposizione tra le due tradizioni giuridiche[122]. In questi ultimi decenni
è emersa una lettura più problematica: Jean-Louis Thireau, ad
esempio, ha posto in evidenza come una corrente, sicuramente maggioritaria, dei
giuristi della prima metà del XVI secolo si mostrasse sostanzialmente
favorevole ad una «conciliazione» tra il metodo umanista e quello
bartolista. All’umanesimo li avvicinava soprattutto il «gusto della
libertà» e la lettura dei testi senza le intermediazioni delle auctoritates
o i condizionamenti della communis opinio; il mos italicus
diventava invece necessario nell’attività pratica e nella
soluzione di numerosissimi problemi concreti. Nell’insegnamento, poi, si
registrava un oggettivo accordo tra le due scuole sia nella piena accettazione
degli ordinamenti didattici universitari, sia nell’utilizzazione delle
regole della dialettica giuridica[123].
Emblematico
è a questo proposito il caso di Alciato, che nella sua lunga carriera
accademica insegnò il diritto secondo il metodo umanistico ma anche
secondo il mos italicus. Il 23 aprile 1529 Alciato doveva illustrare
nell’Università di Bourges la seconda parte del Digestum novum
e, in particolare, il titolo più importante il De verborum
obligationibus. Poiché per spiegare quel titolo non si poteva
prescindere dai responsa di Bartolo e degli altri commentatori
quattrocenteschi, decise di fare lezione secondo il metodo tradizionale che
aveva appreso a Pavia e a Bologna dai suoi maestri Giason del Maino e Carlo
Ruini e che già aveva sperimentato ad Avignone nell’anno
accademico 1518-19, quando aveva letto quella stessa parte del Digesto, subito
pubblicata da Sacco a Lione (Lectura
super secunda parte Digesti novi in titulo de verborum obligationibus, 1519).
Ma dopo poche settimane dall’inizio del corso, gli studenti francesi e
tedeschi che erano accorsi numerosi a Bourges per ascoltare le lecturae
del celebre maestro iniziarono a disertare le lezioni. Alciato se ne
lamentò, chiedendone la causa: gli studenti risposero di essere rimasti
delusi per l’abbandono del metodo che gli aveva dato una meritata fama e
osservarono che il sistema tradizionale si esauriva nel riferire e confutare le
opinioni di diversi interpreti senza costrutto alcuno: sarebbe bastato, a loro
avviso, un breve ed efficace sunto – esposto in un latino chiaro e
scorrevole – che avrebbe favorito la spiegazione di una ventina di leggi
in un anno, invece delle quattro o sei nelle quali spesso si consumava
l’intera trattazione[124].
Alciato,
in principio titubante, finì per accogliere l’istanza degli
studenti. Anche se il metodo nuovo – disse – gli sarebbe costata
una maggiore fatica, giacché così non si trattava soltanto di
esporre gli argomenti dei diversi giureconsulti, ma di mirare direttamente al
nocciolo del problema, mettendo in campo un’unica ragione capace di
ridimensionare tutte le opposizioni. Così nell’autunno del 1530
iniziò a Bourges, dinanzi a un uditorio di seicento studenti, le lezioni
col nuovo metodo umanistico ispirato ai caratteri della
«latinità» e della «brevità» (latine breviterque de iure disserendo).
Leggeva il testo e glossava le parole o le frasi ritenute più importanti; la concisione non gli
impediva tuttavia l’esame delle opinioni e delle citazioni degli antichi
interpreti, di Bartolo, di Baldo, dei commentatori, dei consulenti e dei
decisionisti. Individuava subito l’opinione dominante, non tanto sulla
base del numero dei giuristi che la professavano quanto sulla qualità e
il valore degli aderenti. Condannava la prolissità dei longa
enthymemata e l’abuso della retorica, considerando la brevità
e l’essenzialità il pregio maggiore delle lezioni universitarie[125]. Gli importava infatti fornire
«receptioris sententiae rationem». Negli anni accademici 1530-33
Alciato a Bourges (dove percepiva l’importante salario di 1.200 ducati)
commentò la prima parte del Codice, la seconda parte del Digesto
vecchio, la prima parte dell’Inforziato e la seconda parte del
Digesto nuovo secondo il metodo umanistico. Questo stesso metodo didattico
ripropose a Pavia (1533-34), Bologna (1540-41) e Ferrara (1543-44), dove nella
prolusione ai corsi criticò i colleghi che seguivano il sistema delle repetitiones
e delle trattazioni di tipo monografico. Ad Avignone, Studio nel quale aveva
insegnato sino al 1522 e dove, dopo la sua partenza, era stato reintrodotto il mos
italicus, uno studente, Hieronimus Lopis, dichiarò nel 1532 il suo
aperto dissenso per il metodo didattico vigente, nel quale non trovava
«nullum bonorum studiorum exemplum»[126].
Nell’autunno
del 1533 Alciato, chiamato alla cattedra ordinaria di diritto civile dello
Studio di Pavia, teneva le lezioni in concorrenza con Gianfrancesco Sannazari
della Ripa (1480 circa - 1535), con il quale aveva insegnato ad Avignone nel
1518-21. Ripa, che ricopriva la stessa cattedra “de mane”,
bartolista convinto, era un vero e proprio maestro del mos italicus e
seppe reggere brillantemente il confronto diretto col più illustre e
acclarato collega, attirando nel suo corso un gran numero di studenti[127]. Antonio Agustín,
studente a Bologna, trovava il metodo tradizionale di Pietro Paolo Parisio
superiore a quello dello stesso Alciato[128].
Guido
Panciroli (1522-1599), profondo conoscitore della tradizione italiana,
inaugurando le sue lezioni a Torino il 3 novembre 1570, faceva intendere che
nel suo corso avrebbe spiegato more gallico il titolo de iure dotium[129]. Bonifacius
Amerbach (1495-1562), umanista, amico di celebri intellettuali come Erasmo e Zasio,
allievo di Alciato, professore e rettore dell’Università di
Basilea, giurista nel quale passioni filologiche e interessi pratici si
trovarono spesso in radicale conflitto, mantenne una posizione intermedia tra i
difensori del mos gallicus e i fautori del mos italicus: nella
sua lezione Defensio interpretum iuris civilis criticò i Culti
che disprezzavano le opere dei glossatori e dei commentatori, ma nel contempo
riconobbe l’utilità dello studio umanistico delle fonti. Le sue
lezioni richiamavano costantemente la storia e la filosofia greco-romana, tanto
che risultavano, spesso, secondo i testimoni, assai ostiche per gli studenti[130].
Zasio
era anche un “asso” nella conoscenza della letteratura del mos
italicus, altrimenti non sarebbe stato in grado di stabilire, secondo
Koschaker, «quel felice legame tra diritto romano e diritto
tedesco» che aveva realizzato nel Freiburger Stadtrecht, gli
statuti municipali di Friburgo (1520), comprendenti norme di diritto civile,
criminale e pubblico, città nella quale egli in qualità di
segretario comunale aveva esercitato un’attività pratica[131]. Dopo essere stato uno dei
primi sostenitori della filologia umanistica, Zasio, in vecchiaia, ne
rifiutò le pretese più radicali: anzi nei suoi Responsa sive
consilia (pubblicati postumi nel 1538-39) diede un notevole contributo allo
sviluppo in Germania di una specifica letteratura finalizzata alla prassi[132].
Di certo
la severa critica di Zasio dell’absyntsthius
Accursianus iniziava a penetrare nelle università tedesche. La
polemica luterana contro
Il
metodo umanistico non soppiantò nelle università europee (ad
eccezione, ovviamente, di alcune francesi) il mos italicus, ma
più spesso gli si collocò accanto. Ad un confronto diretto tra i
due indirizzi si giunse nel
Se nella
prima metà del Cinquecento si assiste ad una coesistenza e ad una complementarietà,
soprattutto nel mondo universitario, dei due sistemi, nella seconda
metà del secolo si verifica invece da un lato (in particolare in alcune
università francesi) una profonda e radicale frattura e
dall’altro, soprattutto nell’area tedesco-olandese, ad un nuovo
interscambio tra le due tradizioni, umanistica e pratica. È soprattutto
con l’insegnamento di professori come Cujas e, in misura minore, Doneau,
che inizia in Francia un doppio movimento di separazione tra la didattica
universitaria e la pratica giuridica, da un lato, e tra
l’università e il mondo giudiziario dall’altro. Questa
differenziazione provocò un irrigidimento delle posizioni culturali e
scientifiche del mos gallicus e una radicalizzazione polemica che,
abbandonando ogni forma di compromesso o di accomodamento col bartolismo, portava
ad una rottura definitiva con la tradizione.
Il
disegno della seconda generazione dei Culti puntava all’affermazione
di una concezione del diritto profondamente diversa da quella medievale e alla
sostituzione del labirinto delle opinioni discordanti delle auctoritates,
con un insieme di regole semplici e razionali, in una parola il Digesto senza
le interpretazioni successive. Per ottenere questo risultato, che avrebbe
dovuto facilitare la conoscenza del diritto e recare certezza nell’ambito
giuridico, i giuristi-umanisti svilupparono l’esegesi dei testi come
peraltro avevano già fatto i glossatori, ma con mezzi e strumenti
incomparabilmente più raffinati, che investivano la filologia, la
storia, la conoscenza delle lingue antiche. Cujas, in particolare,
affrontò lo studio sistematico delle interpolazioni del Corpus iuris,
spesso accompagnato da un’accesa polemica contro Giustiniano e il suo
giurista Triboniano[136].
Nel 1880
Roderich von Stintzing si poneva la domanda se mai si sarebbe giunti ad una
recezione del diritto romano qualora i glossatori fossero stati degli umanisti.
Ovviamente, a questa domanda volutamente provocatoria lo storico tedesco dava
una risposta negativa[137]. Il quesito aiuta però a
mettere in chiaro alcuni punti. La fase tarda del mos gallicus, come ha
messo in luce Thireau, era destinata a «degenerare» in storicismo
puro, nel quale «il diritto romano non era più studiato come un
sistema giuridico in vigore ma come un diritto morto, come vestigia
archeologica» del passato[138]. Era stato abile Hotman nel suo
Antitribonian ad evitare di naufragare tra Scilla e Cariddi, prendendo
partito a favore dei bartolisti o dei cujaciani: da un lato un ammasso di
commentatori indigesti, dall’altro infinite e noiose discussioni erudite
e grammaticali. Hotman osservava divertito che nelle università del
tempo si affrontavano due specie di fazioni di legisti: quelli che venivano
definiti Scarabocchiatori, Bartolisti e Barbari e quelli
che si autoconsideravano Umanisti, Purificati e Grammatici.
La prospettiva indicata da Hotman per superare quelle ormai sterili diatribe
era dar vita al diritto “nazionale” con un nuovo
“codice” di leggi che consentisse l’accantonamento del
diritto romano[139].
Anche
nei corsi ancorati alla tradizione riusciva tuttavia a filtrare qualche
novità. Ce lo conferma ne Lo scolare Annibale Roero, studente di
giurisprudenza a Pavia dal 1596 al
Nel
XV-XVI secolo, in coincidenza con la proliferazione delle sedi universitarie,
si affermò un particolare genere letterario, quello dei trattati
pedagogici che affrontavano il complesso problema dell’insegnamento del
diritto e dei metodi didattici funzionali all’apprendimento delle materie
giuridiche. Già nel Medioevo erano stati redatti trattatelli di precetti
educativi, ammonizioni moralistiche e regole pratiche per la corporazione
universitaria (Martino del Cassero da Fano, Baldo, Battista Sambiagi, Simone da
Borsano)[143]. Nel 1467 Giovanni Battista
Caccialupi (1420 circa-1496), professore di diritto civile nello Studio di
Siena, autore di Lecturae e Consilia, componeva il De modo studendi
et vita doctorum tractatus, che sarebbe stato stampato a Venezia nel 1472
da Giovanni da Colonia e da Vindelino da Spira: destinato, con le sue 30
edizioni, ad una discreta fortuna, il trattato, concepito probabilmente come
una sorta di premessa al corpo di Institutiones, resta, come è
stato osservato, se non del tutto estraneo, certo ai margini della cultura
umanistica, anche per la piena adesione al pensiero dei commentatori.
Raccomandava infatti agli studenti di studiare Odofredo, Iacopo Bottrigari,
Bartolo, Baldo e Alberico da Rosciate. L’interesse dell’opera sta
nella breve storia dei giureconsulti da Irnerio, a Bartolo («quia
bartolista optimus iurista censendus est»), a Baldo, ai maestri perugini
dell’autore: insomma, il De modo studendi si caratterizza come un
«manuale metodologico e scolastico», scritto da un giurista nel
latino dei giuristi, che recuperava il passato e le auctoritates dei
maestri in funzione del presente[144].
Nel 1476
appare a Padova il De modo studendi in iure libellus di Giovanni Giacomo
Can (1425 circa-1494), professore di diritto canonico e civile, il primo
manuale, secondo Dionisotti, «scritto, bene o male, nella nuova lingua,
nel latino degli umanisti, non più in quello dei giuristi»;
tuttavia, rispetto al trattatello del suo collega senese, l’opuscolo di
Can ha un respiro molto più limitato, giacché si concentra
soprattutto sui sistemi di insegnamento del diritto in vigore nello Studio di
Padova[145].
Uno dei
contributi più interessanti al tema della didattica giuridica e, insieme,
la più convinta difesa del mos italicus è rappresentata
dal De methodo ac ratione studendi libris tres (Lione, 1541) del
giurista piemontese Matteo Gribaldi Moffa (morto nel 1564), aderente alla
Riforma e caposcuola dell’antitrinitarismo italiano ed europeo,
professore di diritto civile a Valence, Tolosa, Grenoble, Padova e Tubinga[146]. In un notissimo distico
(«Premitto, scindo, summo, casumque figuro, / Perlego, do causas, connoto
et obiicio») Gribaldi riassume efficacemente il metodo del mos
italicus e delle sue forme logiche fissate dalla tradizione. Il giurista,
infatti, dopo aver determinato l’argomento della sua trattazione (praemitto) e dopo averlo diviso nelle
sue parti costitutive (scindo),
espone, in sintesi, il contenuto del testo esaminato (summo), accompagnandolo con un caso pratico (casumque figuro); quindi rilegge il testo delucidato dalla critica
(perlego), aggiungendovi le causae,
ossia le rationes dubitandi et decidendi, per giungere infine alla
formulazione della regola generale contenuta nella legge o relativa ad essa (connoto), a cui deve far seguire, per
controprova, i contraria e le oppositiones (obiicio).
Il
collaudato metodo scolastico riproposto dal giurista piemontese è
diretto essenzialmente a ricavare il motivo della legge e la regola generale, e
volto a ricondurre così tutte le norme ai principi generali (loci communes), punto di arrivo e,
insieme, punto di partenza per altre interpretazioni. Nel difendere il mos
italicus Gribaldi respinge la tesi che esso consista unicamente in un
affastellamento di decisiones e in
una vocazione eminentemente compilatoria, di cui peraltro critica le
degenerazioni presenti in tante opere giuridiche del tempo. Esorta gli studenti
a concentrarsi nello studio del diritto per emulare e superare i grandi maestri
del passato, raccomandando di leggere «paucos et idoneos auctores»,
individuati nella tradizione italiana del commento («Bartolus et Baldus,
Paulus, Tartagnus, Iason»), ma riconosce nel contempo il rinnovamento
degli studi attuato dai giuristi umanisti («Budaeus, Zasius et Alciatus,
viri immortalitate digni»)[147].
Si
sbaglierebbe a considerare
Peraltro
a Padova, università assai sensibile ai dibattiti metodologici sui temi
della didattica giuridica, era apparso una decina d’anni prima il Tractatus
de ratione studendi che segnava invece un’apertura verso i temi
dell’umanesimo giuridico. L’aveva scritto il giurista vercellese
Gerolamo Cagnolo (1491-1551), professore di diritto civile nello Studio di Torino
dal 1518 al 1536 e dal 1544 titolare della cattedra mattutina di ius civile.
Nel De regulis iuris (Venezia, 1546), che raccoglieva le lezioni del
corso patavino, emergeva, secondo Brugi, un’impostazione, se non in
tutto, «in parte alciatea»[150].
La
strada già tracciata dalla Methodus gribaldiana sarebbe stata
sostanzialmente ripercorsa nel secolo successivo dal trattato De ratione
studendi in utroque iure (Roma, 1627) del milanese Girolamo Lampugnani
(morto nel 1644), lettore alla Sapienza di Roma, pubblicato in appendice ad un
«compendio» delle istituzioni giustinianee, finalizzato
all’esposizione del corpus iuris e del relativo apparato ordinario
di glosse, riproponeva le linee sostanziali del vecchio metodo scolastico[151]. Di stampo dichiaratamente
umanistico è la prolusione letta nel 1585 nell’Università
di Heidelberg, De iuris civilis difficultate ac docendi methodo, dal
giurista vicentino Giulio Pace da Beriga (Pacius, 1550-1637), formatosi alla
scuola patavina, dove ebbe maestri, fra gli altri, Menochio e Panciroli,
professore anche a Ginevra, Montpellier, Padova e Valence. Giurista di vasti
interessi culturali, studioso di filosofia e commentatore delle opere logiche
di Aristotele, esegeta delle fonti giustinianee, autore di un significativo
trattato (Tractatus de contractibus et
rebus creditis, seu de obligationibus..., Spira, 1596) sulla natura
giuridica del contratto, considerato come conventio cum causa, Pace
scrisse anche testi destinati all’insegnamento universitario e
all’apprendimento del diritto, come l’efficace Synopsis
iuris civilis (Lione, 1588) e
Nella
seconda metà del Cinquecento iniziava a maturare l’esigenza di
disporre di veri e propri manuali delle materie giuridiche, semplici e chiari
nell’esposizione, necessari sia per la didattica universitaria che per il
foro. Tanto i bartolisti, con l’eccessivo monografismo dei temi e la
ridondanza di citazioni contrapposte, quanto i Culti con l’attenzione
predominante per le questioni linguistiche e filologiche, non erano riusciti a
dare una risposta convincente a una domanda ormai largamente sentita.
Già Gribaldi nella Methodus aveva posto il problema
dell’individuazione di axiomata iuris, necessari per la
semplificazione della didattica giuridica, e tre anni dopo Duaren aveva
invocato nel De discendi iuris la necessità della ricerca di theoremata
universalia indispensabili per la razionalizzazione e la classificazione
metodica del diritto. Louis Le Caron (Charondas, 1536-1617) nell’opera
giovanile De restituenda et in artem redigenda iurisprudentia (Parigi,
1553) e, soprattutto, Jean De Coras (Corasius, 1513-1572), professore a Valence
e magistrato del Parlamento di Tolosa, nel De iure civili in artem redigendo
(Lione, 1560) avevano espresso l’esigenza di ridurre il diritto a scienza
compendiosa nel disegno di un’elaborazione sistematica del sapere
giuridico[153].
Nell’estate
del 1563, mentre si concludevano i lavori del Concilio di Trento, Giovanni Paolo
Lancellotti (1522-1590), dal 1548 professore di diritto civile e poi di
canonico nello Studio di Perugia, licenziava per la stampa i suoi Institutionum
iuris canonici libri quatuor, pubblicati a Venezia nel medesimo anno dal
tipografo Comin da Trino. Si trattava del primo manuale vero e proprio di
diritto modernamente inteso, basato sull’innovativa e sistematica
divisione della materia canonistica in quattro libri, dedicati, secondo lo
schema romanistico di matrice giustinianea, il primo alle persone in
Ecclesia, il secondo alle res sacrae nelle loro articolate
classificazioni, dai sacramenti ai beni patrimoniali, il terzo al processo in
civilibus, il quarto al diritto criminale sostanziale e processuale.
Nella
lettera dedicatoria l’autore spiega, con una punta di amarezza, di aver
tentato di far approvare dalla Santa Sede la sua trattazione sistematica del
diritto canonico per una pubblicazione ufficiale da affiancare al Corpus
iuris canonici, rinnovato dal Concilio tridentino, e alle Decretali. Nel
1555 il testo lancellottiano era stato sottoposto ad una commissione di
revisori appositamente costituita da Paolo IV. Lo stesso Lancellotti si era
trasferito a Roma per seguirne il lavoro, accogliendo suggerimenti e proposte.
Ma la novità dell’esposizione ed alcune teorie avevano suscitato
perplessità e riserve sull’opportunità di
un’approvazione ufficiale. Infine una nuova commissione nominata nel 1559
da Pio IV , accogliendo le resistenze degli ambienti curiali, era riuscita a
bloccare il progetto[154].
Rientrato
a Perugia Lancellotti aveva deciso di pubblicare le Institutiones in
un’edizione privata premiata da un grande successo (ben 20 edizioni dal
1563 al 1599,
Per uno
strano paradosso, nel 1669 un professore dell’Università di
Wittenberg, il luterano Caspar Ziegler (1621-1690), curava un’edizione
delle Institutiones di Lancellotti che, arricchita da un’ampia
messe di note, diventava un’arma d’accusa contro
Diverso
è ovviamente il caso dell’ambito civilistico. Qui il manuale esisteva
per davvero, ed era rappresentato dalle Institutiones giustinianee che
avevano costituito e costituivano il testo base per l’apprendimento del
diritto. Da Padova a Città del Messico, da Bologna a Cracovia, da
Salamanca ad Heidelberg, da Coimbra a Lipsia, gli studenti delle facoltà
giuridiche continuavano ad imparare i primi rudimenti del diritto sulle pagine
delle Institutiones. Esse avevano comunque necessità di un
adeguamento alle esigenze semplificatorie dei tempi: nel Medioevo il corso di
Istituzioni aveva una funzione meramente propedeutica alle altre, più
importanti materie giuridiche, un corso secondario appannaggio in genere di
docenti alle prime esperienze didattiche o addirittura di giovani non ancora
laureati; ora, grazie al movimento umanista, il corso di Istituzioni acquisiva
una dignità nuova, si caratterezzava come il momento iniziale della
formazione del giurista e rivolgendo un’attenzione particolare alla
lettura del de regulis iuris del Digesto assumeva una collocazione ben
determinata nel quadro dell’insegnamento giuridico in riferimento al
«diritto privato»[159]. Appaiono in questo periodo
“compendi giuridici ragionati” capaci di offrire un quadro completo
delle dottrine romanistiche riassunte in un insieme logico facilmente
accessibile per gli studenti o per i pratici, anche se in genere questi
tentativi, finalizzati soprattutto all’attività didattica, non si
discostavano dal modello giustinianeo, ma anzi ne riproponevano sia lo schema
generale, che la suddivisione delle materie[160].
Claude
Chansonette (Claudius Cantiuncula, 1490-1549), giurista e umanista, durante il
suo insegnamento dal 1517 al 1523 nello Studio di Basilea, nel De ratione
studii legalis Paraenesis (Basilea, 1522) indicava come base per la
«classificazione dei precetti» la partizione adottata nelle Institutiones
giustinianee, delle quali compilò anche una Paraphrasis
articolata in tre libri (Haguenau-Norimberga, 1533-38)[161]. Nel 1538 Silvestro
Aldobrandini (1499-1558), professore a Pisa, poi cancelliere delle Riformagioni
della Repubblica fiorentina, auditore generale e consigliere del duca
d’Urbino e, infine, avvocato consistoriale a Roma, pubblicava a Venezia
le Institutiones iuris civilis, un’edizione glossata a fini
esplicativi delle istituzioni giustinianee, finalizzata essenzialmente alla
didattica: le sue 38 ristampe sino al 1599 mostrano il favore del mondo
universitario e soprattutto degli studenti[162]. In una prospettiva diversa si
colloca Éguinaire Baron (Eguinarius, 1495 circa-1550), professore
nell’Università di Bourges negli anni successivi
all’insegnamento di Alciato, con i suoi Institutionum civilium ab
Iustiniano Caesare editarum libri IIII (Poitiers, 1546) che si accostano
alle istituzioni giustinianee attraverso due esposizioni separate, la prima
delle quali costituisce un vero e proprio commentario del manuale e la seconda
affronta la trattazione di ogni singolo istituto attraverso la comparazione col
jus patrium francese[163].
Destinato
alla didattica universitaria è anche l’Isagogicus di Marco Mantua Benavides (1489-1582), professore di ius
civile e dal 1572 di diritto canonico nell’Università di
Padova, giurista legato al mos italicus, autore di consilia e di
diversi scritti di diritto civile, penale, pubblico e pontificio, che
dettò questo trattatello al proprio allievo Gerolamo Ermolao nelle ferie
scolastiche del 1544 per istruirlo sul modo di sciogliere tutti i nodi e le
apparenti antinomie dei testi giuridici[164].
Un testo
assai diffuso nelle aule universitarie italiane e straniere – come ci
conferma anche Roero ne Lo scolare – era il Topicorum seu de
locis legalibus liber (Lovanio, 1516), più noto come Topica,
dell’olandese Nicolaas Everaerts (Nicolaus Everardi, 1462 circa-1532),
professore dal 1492 di ius civile nell’Università di
Lovanio, consigliere e poi, dal 1528, presidente del Gran Consiglio di Malines,
l’organo giudiziario supremo dei Paesi Bassi[165]. Giurista di impianto
tradizionale, legato alle vecchie categorie medievali dei genera e delle species, autore di Responsa sive consilia
(Lovanio, 1554, postumi), Everaerts affronta nei Topica il problema
dell’argomentazione giuridica per rendere accessibili agli studenti,
come ai futuri giudici e avvocati, le complesse dottrine presenti nella glossa
e nei testi dei commentatori giuridici. L’opera tratta dei loci o positiones,
cioè dei fondamenti da cui si evincono gli argomenti per difendere o
discutere un caso, desuendoli dalla compilazione giustinianea, dal diritto
naturale e dalle auctoritates. Everaerts continuò a lavorare alla
sua opera, che ampliata e modificata, fu pubblicata postuma dai figli col nuovo
titolo di Loci argumentorum legales (Lovanio, 1552). La prima edizione
dei Topica comprende 100 loci, la seconda 131. I loci
hanno spesso un carattere generale e comprendono regole di dialettica
giuridica: ad esempio, il locus ab ordine (come si può dedurre
l’ordine di successione, l’ordine cronologico e l’ordine di
distribuzione nel diritto?), il locus a genere ad speciem (come passare
dal generale al particolare?), i loci a minori e a maiori, e via
dicendo; altri sono funzionali alla comprensione del diritto vigente, come ad
esempio il locus a feudo ad emphyteusim (sono applicabili anche
all’enfiteusi le regole relative ai feudi?). Con il loro stile chiaro e
succinto e la puntuale spiegazione degli argomenti legali, i Topica
esercitarono una considerevole influenza nella pratica giuridica e nella
didattica universitaria sino alla fine del XVII secolo[166].
In
Germania il diffuso particolarismo del XVI secolo, in mancanza di un diritto
“patrio” di derivazione monarchica, rafforzò la posizione
preminente del diritto romano rispetto agli altri ordinamenti concorrenti, come
la tradizione statutaria, gli iura propria e le consuetudini[167]. Ciò spiega, rispetto
alle altre realtà europee, l’affermazione di una letteratura romanistica
in lingua tedesca, non rivolta, nel suo insieme, né ai giuristi di
professione né agli studenti universitari, i quali attingevano
direttamente alle fonti e alla trattatistica giuridica in latino, ma alla gran
massa dei lettori – mercanti, artigiani, amministratori civici –
che non conoscevano il latino. La versione tedesca delle Institutiones
(Ingolstadt, 1549, postuma) del magistrato bavarese Andreas Perneder (1500
circa-1543) ebbe una larghissima diffusione, come la traduzione delle
istituzioni giustinianee (Basilea, 1519) ad opera del poeta luterano
strasburghese Thomas Murner (1475 circa-1537). Il progetto dell’umanista
Sebastian Brant (1457-1521), il celebre autore di Das Narrenschiff
(1494, La nave dei folli), popolare poema satirico, di tradurre in
tedesco l’intero Corpus Juris Civilis (che avrebbe dovuto
costituire il corrispettivo profano della traduzione luterana della Bibbia) non
andò in porto[168].
Nelle
università tedesche di questo secolo si assiste alla fioritura di opere
destinate alla didattica, sia sotto forma di commentari e di esposizioni della
compilazione giustinianea, che di compendio delle istituzioni, si avvicinavano
per taluni aspetti al modello di un vero e proprio “manuale”
giuridico, modernamente inteso. Rientrano in questo schema
Vengono
pubblicate in questa fase alcune opere di impianto diverso, ma accomunate da
chiari intenti di sintesi, destinate soprattutto alla prassi, al foro e alla
didattica universitaria, come il Lexicon iuris civilis (Lione, 1545) di
Jakob Spiegel (1483-1547), i Libri dialecticae legalis quinque (Lipsia,
1531) di Christoph Hegendorff (1500-1540) e gli Apotelesma sive corpus
perfectum scholiorum ad quatuor libros Institutionum iuris civilis
(Basilea, 1555) di Joachim Mynsinger von Frundeck (Mynsingerus, 1514-1588),
allievo di Zasio e professore a Friburgo, di formazione umanistica, uno dei
primi esponenti, insieme ad Andreas Gail (1525-1587), della
«cameralistica» tedesca[171]. Gli Apotelesma, con le
32 edizioni apparse sino al 1691, ebbero uno straordinario successo editoriale,
segno dell’apprezzamento che il testo di Mynsinger aveva ottenuto
nel foro e nelle aule universitarie europee[172]. In questa prospettiva si
colloca anche
In
questo ambito gli apporti più significativi sono però gli In
quattuor Institutionum imperialium domini Iustiniani libros commentarii (postumi,
Strasburgo, 1571) di Johann Schneidewein (Oinotomus, 1519-1568), professore dal
1551 nello Studio di Wittenberg che dichiarava esplicitamente di voler seguire
una via intermedia tra il mos italicus e la scuola culta, e gli Institutionum
Iustiniani libri IIII (Basilea, 1572) di Matthaeus Wesenbeck (Wesenbecius,
1531-1586), anch’egli professore a Wittenberg dal 1569 alla morte.
Seguace del metodo umanistico, allievo del giurista fiammingo Gabriel van der
Muyden (Mudaeus, 1500-1560), professore di Digesto a Lovanio e assertore del mos
gallicus, che si era cimentato col problema della sistematizzazione del
diritto romano, Wesenbeck pubblicò i Paratitla in Pandectarum iuris
civilis libros quinquaginta (prima edizione non autorizzata Basilea, 1563,
seconda edizione rivista e ampliata Basilea, 1568) e gli In Codicis
Iustinianei libri XII commentaria (Basilea, 1576). Assai apprezzata nel
mondo universitario del tempo fu la sua De compositione iuris,
introduzione al testo giustinianeo, in cui gli argomenti erano presentati nel
loro ordine e connessione, summatim et generatim (per generi e per
specie), nel rispetto dell’esatta tripartizione della materia che solo
intelletti «smaniosi di novità» ritenevano di poter
abbandonare. Su questa base lo studente doveva poi procedere (dopo aver
memorizzato le Istituzioni che esponevano non solo gli elementi ma
l’intero corpo della giurisprudenza) allo studio delle Pandette per
acquisire «generalem iuris cognitionem»[175].
In
sostanza i commentari cinquecenteschi alle istituzioni aprirono la strada al
celebre In quattuor libros Institutionum imperialium commentarius academicus
et forensis (Leida, 1642) di Arnold Vinnen (Vinnius, 1588-1657), opera di
grande successo, tradotta spesso nelle lingue locali, testo di riferimento per
l’insegnamento in molte università europee del XVIII secolo, e
all’Istituta civile di Giambattista De Luca (1614-1683), redatta
in italiano, che, per quanto assai meno importante, ebbe tra il 1733 e il 1781
sette edizioni, un testo «di impronta pratico-forense» che si
caratterizzava come un riuscito «manuale istituzionale»[176].
Il vero,
primo, organico manuale universitario di diritto sarebbe stato concepito dal
Il Manuale
era in realtà concepito come una sorta di trilogia manualistica: la
prima parte, rivolta essenzialmente a studenti privi di nozioni giuridiche,
prevedeva un’introduzione storica al diritto (historia); la seconda
raccoglieva le sententiae e le regulae iuris compendiate dalle
sette parti del Digesto giustinianeo (florilegium
sententiarum iuris); la terza, destinata agli studenti più avanti
nel corso, illustrava le fonti del diritto: XII Tavole, Lex Iulia et Papia,
i Libri tres iuris civilis di impostazione scolastica di Masurio Sabino
(series librorum et titulorum in Digestis
et in Codice); l’ultima parte, purtroppo perduta, era dedicata
all’analisi dei casi controversi[178].
Nel
novembre del 1561 un giovane studente sardo, Giovanni Francesco Fara, si
iscriveva nella facoltà giuridica dello Studio pisano. Erano passati
diciotto anni da quando l’Università di Pisa era stata riformata
dal granduca Cosimo I, che aveva anche tentato, peraltro senza successo, di
chiamarvi il grande Alciato. L’obiettivo era infatti quello, in linea con
le equilibrate posizioni del celebre giurista milanese, di offrire un corso di
studi che, pur accogliendo la scienza giuridica della tradizione italiana dei
commentatori, non fosse del tutto chiusa alle istanze dell’umanesimo
giuridico e della scuola culta[179]. A Pisa Fara ebbe come maestri
Pietro Calefati, Gerolamo Papponi, Antonio Ciofi, Camillo Plauzio Pezone:
soprattutto quest’ultimo incise sulla sua formazione giuridica
guidandolo, dopo la laurea conseguita nell’agosto 1567, nella stesura del
Tractatus de essentia infantis, in cui, analizzando lo fonti
romanistiche attraverso una esegesi diretta e testuale, mostrava
un’aperta adesione al metodo umanistico[180]. Durante la frequenza nello
Studio pisano Fara, che apparteneva ad una famiglia agiata (il padre era notaio
civico di Sassari), acquistò un gran numero di libri a stampa e manoscritti:
essi rappresentano il nucleo iniziale della sua cospicua biblioteca –
formata da oltre mille titoli, di cui il 60% era costituito da testi di diritto
–, che continuò ad arricchirsi anche negli anni successivi, quando
il giovane giureconsulto ritornò definitivamente nella sua città
natale e abbracciò la carriera ecclesiastica, divenendo nel 1591 vescovo
di Bosa. Nella biblioteca di Fara figurano le opere dei Culti, quali le Dispunctiones,
i Paradoxa, il Duello di Alciato, le Annotationes di
Budé, gli scritti di Cujas, Zasius, Azpilcueta, Covarrubias,
Agustín, e di altri giuristi contemporanei di orientamento umanistico:
egli possedeva però anche le edizioni dei maggiori esponenti del mos
italicus (Menochio, Decio, Paolo di Castro, Cipolla, Bartolomeo Sozzini,
Giason del Maino, etc.), segno che per la maggior parte dei giuristi del tempo
il bartolismo e la scuola dei culti non costituivano affatto due tradizioni
opposte o inconciliabili[181].
Negli
otto anni di frequenza (1599-1607) nella facoltà di diritto di Salamanca
per lo studente fiorentino Girolamo da Sommaia il manuale universitario era
quasi inesistente: studiava infatti leggi e canoni sugli appunti presi a
lezione. Sommaia si era iscritto nella prestigiosa facoltà castigliana
per conseguire il baccellierato in utroque iure. Il suo diario, relativo
agli anni 1603-07, è un documento straordinario non soltanto sulla vita
universitaria ma anche sul clima culturale, sulla circolazione dei libri, sulla
sensibilità religiosa e sui costumi del suo tempo[182]. L’autore è uno
studente di agiate condizioni economiche che aveva preso in affitto una casa
dove invitava spesso compagni, amici e influenti membri della società
locale, e che frequentava eruditi e letterati, fra i quali Ambrosio Alemán
e Lorenzo Ramírez con cui scambiava volentieri libri e impressioni. Nel
1604 il giovane e promettente giurista Juan Solórzano Pereira (nel 1606
otterrà l’insegnamento della prima cattedra di leggi) gli
fece leggere in anteprima il suo trattato sul parricidio («Parlai a Solórzano
del suo libro de Parricidijs»)[183]. Appassionato di teatro, buon
conoscitore delle lingue – parlava correttamente lo spagnolo e il
francese e studiava l’inglese –, esperto giocatore d’azzardo
(a «primiera» e a «picchetto» vinceva talvolta somme
consistenti), Sommaia era molto devoto e partecipava regolarmente a tutte le
cerimonie religiose, annotando il contenuto delle prediche o delle lezioni
universitarie di teologia. Tuttavia ciò non gli impediva di frequentare
con assiduità ragazze compiacenti («A dolcitudine con
Pur
frequentando le biblioteche dei Collegi di Salamanca per le fonti di diritto
romano e canonico, Sommaia poteva, grazie alla sua disponibilità di
denaro, acquistare anche numerosi libri. Nel 1605, ad esempio, comprava per 154
reali d’argento l’opera di Bartolo «in 10 capi di
Venetia» (sicuramente l’edizione giuntina), per 242 reali un
«Derecho civil», per 187 reali un «Derecho canonico di
Venecia» in 4 tomi e per 165 reali «Las [Siete] Partidas in 4
tomi»[187]. Ma la sua vera passione erano
i libri – diciamo così – extrauniversitari: i classici
latini e greci, le relazioni di viaggi, i volumi di storia, particolarmente
spagnola, gli autori del Rinascimento italiano e, soprattutto, opere di
letteratura. A Salamanca ebbe modo di leggere, acquistandoli o scambiandoli, i
testi più significativi della letteratura spagnola contemporanea come
«le poesie di Don Luys de Gongora», il «sueño»
di Francisco de Quevedo,
Rispetto
al benestante e gaudente Sommaia, lo studente castigliano Gaspar Ramos Ortiz
aveva un tenore di vita molto più modesto, di fatto privo di
divertimenti, di laute cene e di ragazze enamoradas. Era giunto a
Salamanca nel giugno del 1568 dal villaggio di Masueco a dorso di un mulo,
accompagnato dal padre, piccolo proprietario rurale, per iscriversi alla
facoltà di diritto nella speranza di intraprendere una carriera
burocratica nella quale si erano distinti due zii paterni, uno come magistrato
dell’Audiencia di Charcas nelle
Indie e l’altro come corregidor di Vilvestre. Amministratore
oculato e scrupoloso delle proprie risorse, Ramos dovette fare i conti con le
ingenti spese per l’alloggio, il vitto, l’abbigliamento e
l’acquisto dei libri necessari. Gli statuti salmantini del 1561
prescrivevano che gli studenti del primo anno frequentassero esclusivamente le
lezioni di Instituta e del Codice per acquisire i rudimenti del diritto.
Per questo motivo Ramos comprò alcuni libri indispensabili per il corso:
un testo de «derecho civil» e un volume di «Instituta
pequeña», per 143 reali d’argento, un Teofilo per 5 reali e
mezzo, le «leyes de Toro» per 12 maravedí e un libro di
Francesco Balbi. I libri e le spese vive per la frequenza incidevano più
del 12,5% sul modesto bilancio di Ramos che, nel 1569, decise di abbandonare
gli studi proprio a causa delle difficoltà economiche. La sua vita
universitaria era durata appena quattordici settimane. Nell’ottobre del
1569 sposava a Valladolid donna Maria Lasso de Chaves, figlia del licenciado
Lasso de San Vicente, esponente della piccola e agiata hidalguía
castigliana: in seguito venne assunto come segretario dalla duchessa di Bibona[189].
Non
tutti gli studenti avevano i mezzi per acquistare i libri usati nei corsi o necessari
per un ulteriore affinamento della propria cultura giuridica. Anzi, la maggior
parte di coloro che frequentavano le università studiava sugli appunti
manoscritti delle lezioni dei maestri o dei lettori. Nel 1534 il Senato
milanese, cui era affidata la gestione dell’Università di Pavia,
vietava ai docenti la dettatura del corso durante le lezioni per evitare che «li
ingenii de’ scolari e dottori novelli se opprimano», con una
«commissione del tempo di leggere e de non dare in scritto». Il
provvedimento venne sottoposto al giudizio («acciò che non
habbiano da dolersene») dei due professori più illustri dello
Studio, l’Alciato e il Ripa[190]. Nel 1591 il Senato rinnovava
agli studenti dello Studio pavese il divieto di annotare per iscritto le
lezioni dei docenti: il provvedimento mirava stavolta a tutelare i professori
per l’inesatta o arbitraria diffusione del loro pensiero, distorto
sovente da allievi poco preparati[191]. La disposizione rimase di
fatto inapplicata. Ce lo conferma Roero, che ne Lo scolare riconosce
l’utilità degli appunti scritti presi durante le lezioni:
«pure io ti ammetterei lo scrivere alle scole [...]: perché, se
dopo aver hudita la lettione, l’haverai in iscritto, anderai a vedere i
lochi [cioè le fonti e le citazioni], farai le induttioni, e nulla te ne
sfuggirà»[192]. Le lezioni erano spesso
turbate dal rumoreggiare della scolaresca preoccupata soprattutto di scrivere:
Alciato si lamentò dell’indisciplina degli studenti pavesi, che
interrompevano spesso le sue lezioni[193]. Il metodo di studio dominante
negli atenei italiani faceva ampio ricorso all’oralità, alla
capacità di apprendere «bene e sanamente» alle lezioni, alla
memoria, alla ripetizione quotidiana delle nozioni apprese, alla conoscenza
eminentemente pratica degli argomenti necessari per «far le induttioni,
nelle quali sta la forza delle leggi»[194]. Non deve quindi stupirci il
fatto che in questo collaudato meccanismo il libro a stampa avesse una funzione
marginale, di fatto sussidiaria al manoscritto di uso privato e
all’oralità.
Nell’Università
di Perugia, ci racconta nel 1602 un autorevole testimone come Alberico Gentili
che in quella sede si era laureato trent’anni prima, gli «studenti
ricevono dai dottori al termine di ogni lezione la indicazione del tema che sarà
trattato prossimamente, e degli scrittori interpreti e dove questi si possono
reperire, affinché siano letti prima della lezione che segue, e ad un
tempo sia esaminato ciò che poi verrà esposto e brevemente vi sia
rivolta la loro attenzione, onde i dottori abbiano poi pochissimo da esporre di
cui i discepoli non abbiano in precedenza preso conoscenza: utilissimo metodo
di studio – conclude Gentili –, poiché non è
sufficiente che gli uditori ascoltino con tutta attenzione il professore, ove
già non abbiano precedentemente conosciuta la materia»[195].
In tutte
le università europee, del resto i corsi universitari si basavano
prevalentemente sulla trasmissione orale del sapere e sugli appunti delle
lezioni, prescindendo in parte dal manuale a stampa. A Salamanca, ad esempio,
la pratica della dettatura delle lezioni («debent scribere quae
dicemus») venne introdotta dal domenicano Francisco de Vitoria,
cattedratico di teologia dal 1526 al 1546, uno dei principali esponenti della
seconda scolastica spagnola, che l’aveva già praticata alla
Sorbona di Parigi, dove aveva conseguito il baccellierato e fatto le prime
esperienze di insegnamento. Le Relectiones di Vitoria, fra cui quella
assai celebre De iure belli (1539), circolarono manoscritte nelle mani
degli studenti e dei professori sino alla prima edizione a stampa di Lione del
1557 e a quella salmantina del 1567[196]. In principio la dettatura del
corso era una soluzione che permetteva agli studenti dotati che non avevano
mezzi per acquistare i libri di testo di disporre di un compendio e di uno
schema logico su cui preparare l’esame. Tuttavia ben presto questa
pratica degenerò: gli studenti si dedicavano esclusivamente a
trascrivere la lezione e a riportare gli argomenti del corso senza capire o
memorizzare le tematiche trattate; molti si accontentavano di studiare sugli
appunti presi da amici o, addirittura, da servitori; e si era affermato un
commercio delle “dispense”. Gli statuti salmantini del 1561
tentarono di regolare questo problema limitando notevolmente questa pratica: «Yten
ordenamos – si legge nel titolo XXI,1 degli statuti – que los
lectores de quelquier facultad que sea no lean por cartapacio ni quaderno ni
papel alguno ni dictando»[197]. Nel 1568 il Consiglio del re
stigmatizzava «los daños e inconvenientes» della dettatura
delle lezioni e ricordava ai docenti che la funzione del corso era «la
ynteligencia de los textos y glosas» che si spiegavano.
Le
autorità accademiche di Salamanca verificavano il rispetto degli
statuti, la qualità e la regolarità dello svolgimento dei corsi,
il puntuale richiamo dei testi attraverso periodiche visitas de
cátedras con dei testigos che seguivano le lezioni delle
diverse discipline stilando dettagliate informazioni. Il dottor Nuño de Acosta,
portoghese, titolare nel 1575 della cattedra serale di Canoni, spiega il corso
«de modo que – si legge nel verbale della visita –
este testigo no puede escribir su leçión [...] no lee ditando ni
dando theoricas e lee muy de priesa»: le allegazioni, le glosse o le
«remysiones las dize una vez» soltanto e quando gli studenti gli
chiedono di ripeterle «no quiere volver a repetirlas». A proposito
della visita del corso del dottor Rafael Rodriguez de Carvajal, canonista, il
testimone riferisce che «lee in voce y en latin y explica en romanze [in
castigliano] y escribe como se puede acomodar como un quarto de ora poco
más o menos»[198].
Proibizioni
e limitazioni della dettatura, accolte con ostilità dalla gran parte di
maestri e allievi, rimasero in gran parte inapplicate. I fautori della
dettatura sostenevano che essa costituiva una conferma della serietà del
docente, obbligato così a predisporre con cura e metodo
l’argomento della lezione; la dettatura – si sosteneva –
evitava errori o ambiguità che potevano essere fraintesi in materie
tanto delicate come quelle teologiche. Luis de León, professore di
teologia, nel 1598 illustrava le Sacre Scritture «in scriptis».
Pedro de Herrera, anch’egli teologo, spiegava le teorie di Giovanni Duns
Scoto con un’abbondante dettatura. Gli statuti del 1594 recepirono queste
istanze: nel corso di cánones e leyes 3/4 d’ora
della lezione dovevano essere tenute a «viva voce» con
l’illustrazione del testo romanistico, delle fonti canoniche, della
Glossa, di Bartolo, «sacando en limpio la verdadera y común
doctrina»; il restante 1/4 d’ora poteva essere dato «in
scriptis», con una «breve theórica en la qual resuelva qual
es la verdadera y común opinión, y el principal texto». Lo
stesso procedimento era adottato nelle facoltà di arti e di medicina,
dove la dettatura doveva offrire «una breve resolución de la
verdad y fundamento principal». Nel corso di teologia il rapporto era
invertito: un 1/4 d’ora era dedicato alla «viva voce» e 3/4
alla dettatura, con la possibilità di «dar a escrivir a los
oyentes» ciò che sarebbe stato spiegato[199].
Anche
Sommaia studiava leggi e canoni sugli appunti presi a lezione. Lo studente
fiorentino partecipava inoltre attivamente alla vita universitaria salmantina,
assistendo regolarmente alle disputas e alle conclusiones
pubbliche di diritto e di teologia, che costituivano uno straordinario
esercizio dialettico e un modo davvero eccezionale per memorizzare o per
approfondire i temi dibattuti: «Lesse il maestro Herrera di opposizione,
argomentò Curiel – scriveva sul proprio diario il 27 novembre 1604
–. Lesse Curiel di ostentatione et Solórzano, et altri
molti»: cioè, all’interpretazione del teologo Pedro de
Herrera si oppone don Luis Cudiel y Peralta, professore di diritto, e a questi
il collega Solórzano Pereira. Sommaia assisteva anche alle disputas
della facoltà di arti: «Lesse d’oppositione alla cattedra di
prima di grammatica – scrive il 21 ottobre 1603 – il maestro Pigna
[Paulo Piña Caldeira, docente di latino], sopra un capitolo
dell’Eleganze del Valla [...] arguì il maestro Bustamante
[Baltasar de Bustamente, anch’egli professore di latino]». Si
cimentava spesso in prove didattiche («Lessi le lettioni di baccellieri
et le provrai»), si procurava le “dispense” dei corsi
(«Don Iuan Bodeckero mi dette molte scritture de Auxiliis della
università»), assisteva all’esame di baccellierato
(«Udii don Francesco Ciaccone leggere de probationibus capitolo di
baccelliere. Lesse famosamente»), confrontava con i colleghi i programmi
dei corsi («Parlai a Monleone sopra il titolo capitolo II De Concessione
prebendae Concilii Lateranensis»), si faceva prestare i testi («Mi
prestò il titolo De Tutelis uno studiante criado de don Luys
Cid»). Le sue letture di libri di diritto erano occasionali e spesso
eterodosse (Tiraqueau, Mariana, Bodin); per il resto la sua cultura giuridica
canonistica e romanistica si basava sugli «scartafacci» degli
appunti delle dettature e sul manoscritto privato, talvolta acquistato da terzi
(«Al licenciado Velazquez per la materia de testibus in 22 fogli» e
per altre scritture, «reali 96»)[200].
Il
volume di Francisco Bermúdez de Pedraza (1585-1655), professore di
diritto e a più riprese rettore dell’Università di Granada,
Arte legal para estudiar jurisprudencia, pubblicato a Salamanca nel
1612, con le numerose considerazioni sulla didattica giuridica, non è
poi così diverso nelle sue finalità pratiche da Lo scolare
di Roero: il metodo indicato era infatti un bartolismo integrato da letture
antiquarie, fondato su regulae iuris generali, sillogismi, induzioni,
assiomi, brocardi e continui richiami alle auctoritates[201]. Bermúdez è un
assertore convinto del metodo induttivo: la vera interpretazione delle leggi,
sostiene, non consiste nell’assemblare le opinioni di diversi dottori, ma
nel domandarsi quali siano le reali intenzioni del legislatore. Il giurista non
deve essere un semplice causidico: di qui la necessità di conoscere la
ragione delle leggi come fondamento della scienza giuridica:
«¿Qué le aprovecherá – si domanda –
saber mil leyes, si ignora su razón y causa? [...]. Con los años de Matusalén no
alcançará la jurisprudencia quien la fundaré en solamente
memoria de textos [...]. El que supiere solamente la decisión de una
ley, sabrá decidir un caso; pero el que supiere su razón,
deciderá con ella cien mil».
La scienza giuridica, inoltre, si
configura nella sua molteplicità come concordante: lo studente «ha
de sacar la solución y concordia de los contrarios»,
giacché «todos los textos por contrarios que parezcan tienen concordia».
Per ottenere le concordanze bisognerà considerare il significato
letterale di ogni legge: «ninguna cosa hay más util – spiega
Bermúdez –, ni más delectable, que reduzir a breves reglas
el sentido y alma de las leyes. Estudio que exercita mucho el ingenio,
delcitándolo con su brevedad». La capacità del giurista
deve consistere nell’individuare le regulae iuris e i principi
generali dai casi particolari[202]. Il canonista Diego Espino
forniva agli studenti dettagliati piani di studio delle materie giuridiche:
bisognava studiare, a suo avviso, sei ore al giorno, due la mattina sul
Digesto, due il pomeriggio sul Codice, due la sera sulle Decretali. Il Digesto
andava studiato con l’apparato tradizionale delle glosse di Accursio e
con l’aiuto dei commenti di Bartolo, Baldo e Paolo di Castro[203].
Ai primi
del Seicento l’Università di Salamanca viveva ancora del riflesso
della grande stagione cinquecentesca che aveva visto la scuola
teologico-giuridica salmantina, con docenti come Vitoria, Melchor Cano, Domingo
de Soto, Pedro de Sotomayor nelle materie teologiche e Diego de Covarrubias y
Leyva, Martín de Azpilcueta, Antonio Gómez, Pedro de Peralta,
Manuel de Acosta in quelle giuridiche, dare un contributo di estremo rilievo ai
grandi dibattiti del tempo, dal diritto naturale a quello internazionale, dalla
polemica sulla conquista e sull’evangelizzazione delle Indie
all’elaborazione di un «diritto patrio» castigliano[204]. I trattati dei giuristi
salmantini ebbero una capillare circolazione europea: delle opere civilistiche
e canonistiche di Covarrubias (1512-1577) si fecero 60 edizioni nel corso del
secolo. Le sue Opera omnia (Lione, 1568) ebbero 24 edizioni complete e
più di 30 parziali; quelle di Azpilcueta (1492-1586), il Doctor
Navarro, ben 137 edizioni, di cui 47 dell’Enchiridion sive manuale confessariorum et poenitentium (Coimbra,
1549) e 8 del Tractado de las rentas de los beneficios ecclesiasticos
(Valladolid, 1566)[205].
L’editoria
giuridica del Cinquecento, che – non dimentichiamo – era destinata
soltanto in parte alle aule universitarie, attraversava una fase ricca di
contraddizioni. Si trattava di un’attività frenetica, soggetta ad
una sempre crescente domanda di un pubblico di magistrati, avvocati, burocrati,
studenti e docenti universitari. Nel Parergon Alciato confessa di esser
stato a lungo assillato dai tipografi per la pubblicazione dei suoi Consilia:
«Più volte mi chiesero le tipografie di conceder loro i pareri che
son solito dare a quanti a me ricorrono e di seguire in ciò
l’esempio del Decio – racconta –. Il quale, fissato un prezzo
a fogli, consegnava i pareri al tipografo, perché, dopo averli uniti
insieme, li pubblicasse di lustro in lustro»[206].
Spesso
erano gli studenti che raccoglievano i testi delle lezioni dei docenti per
destinarli alla pubblicazione: nel 1589 gli «scolari» padovani trascrissero
il corso di diritto civile di Angelo Matteazzi e lo presentarono al maestro
quando il volume era già pronto per la stampa. È difficile
credere, comunque, che il testo venisse preparato ad insaputa del docente.
Dall’opera emerge un corso organico, razionalmente suddiviso nei vari
argomenti: il metodo giustinianeo d’insegnamento del diritto; il soggetto
della giurisprudenza; le parti e i titoli delle Pandette; il patto nudo; il rigor
iuris, l’arbitrium e le actiones
arbitrariae; la giustizia; l’usucapione e la prescrizione;
l’origine del diritto e delle leggi con un elenco di giureconsulti;
l’ordine e il metodo del diritto civile; la materia delle leggi; la
consuetudine; la potestà del Principe rispetto delle leggi; il diritto
dei veneziani sul mare Adriatico[207].
Lo
sviluppo del mercato editoriale stimolò inevitabilmente un fiorente
commercio del libro usato. Spesso, per far fronte ai debiti di gioco o ai loro
«capricci», gli studenti impegnavano presso gli usurai «i
testi civili per sei testoni, l’instituta
per quattro gazette, il Porzio per una da otto, l’Aretino per un
mocenigo, Bartolo – scriveva il canonico Garzoni – va a spasso per
il ghetto [gli usurai erano in gran parte ebrei], Baldo passeggia sotto la
loggia dei librari, e tutti i libri s’accordano di fare una rassegna per
caminare alla volta di Cuccagna»[208].
L’autorevolezza
di Bartolo, Baldo e degli altri commentatori in un’epoca di piena
espansione del mercato librario e del “consumo” di opere di diritto
produsse nei primi decenni del secolo il fenomeno delle falsificazioni
editoriali. Era inevitabile che il progressivo dilatarsi della domanda portasse
a vere e proprie contraffazioni di testi a fini eminentemente speculativi,
fenomeno non ignoto agli stessi contemporanei: Giason del Maino indicava
già una serie di opere «quae attribuuntur Bartolo, et tamen non
sunt Bartoli»[209]. Risultano ad esempio apocrifi
due trattatelli: il De tabellionibus, dedicato al notariato, pubblicato
a Venezia nel 1491 da Goffredo da Trani (ma già quattro anni dopo considerato
dubbio nell’edizione veneziana di Battista de Tortis, annotata da
Bernardino da Landriano) e le Differentiae inter leges Romanorum et leges
Longobardorum (in realtà opera del giurista duecentesco Andrea da
Barletta) inserite nella raccolta Leges Longobardorum, curata dal
giureconsulto barese Giovanni Battista Nenna ed edita a Venezia nel 1537
«da Domenico Giglio e fratelli». Nel 1541 fu pubblicato da Aurelio
Pinzi, sempre a Venezia, un volume pseudobartoliano, Contrarietates iuris
civilis Romanorum et iuris Longobardorum, curato dal magistrato ravennate
Giulio Ferretti (morto nel 1546), che affermava di aver rinvenuto lo scritto
«in antiquo libro» in cui «plures alii Bartholi tractatus
descripti sunt»[210].
Nel XV
secolo la produzione editoriale aveva la possibilità di un’ampia
scelta del materiale da pubblicare: la «massa immensa della letteratura
giuridica medievale» era a disposizione dei tipografi-editori degli
incunaboli. Nelle edizioni quattrocentesche si «travasavano» anche
le attribuzioni «vere e false» già presenti nella tradizione
manoscritta; nel Cinquecento, invece, l’editore manipolava spesso il
manoscritto originale e indicava deliberatamente nelle stampe un autore che
spesso non ne era l’effettivo compilatore (è il caso di Pierre de
Belleperche, scambiato con Jacques de Revigny)[211].
Domenico
Maffei ha scoperto che Bonifacio Vitalini, che si credeva l’autore
trecentesco dei Commentarii in Clementinas constitutiones, in
realtà non è mai esistito (l’opera era una compilazione
più antica) e che Iacopo di Belviso non aveva mai composto
Quando i
falsari tentarono nel 1516 di appropriarsi della redazione delle consuetudini
di Borgogna, il vero autore, Barthélemy de Chasseneuz (1480-1541), non
tardò a denunciare la contraffazione[215]. L’operazione editoriale
era assai astuta: assegnare ad acclarati giureconsulti, come Baldo o Belvisi,
famosi per lo più per i loro trattati teorici, opere eminentemente
pratiche, come quelle processual-penalistiche dello pseudo-Baldo e dello
pseudo-Vitalini. La falsificazione prendeva le mosse dalle quaestiones
provenienti non di rado dalle dispute universitarie e da quelle summae
quaestionum che, a fini scolastici, cucivano insieme frammenti di testi di
autori diversi[216]. Si inserisce in questo
contesto anche il falso consilium di Bartolo, Mulier striga,
contraffatto probabilmente dal giurista novarese Giovanni Battista Piotti
(morto nel 1576), sia per magnificare la nobiltà della propria famiglia,
sia per portare acqua al mulino dello zelo inquisitorio del tempo che, in
contrasto con i prudenti pareri in tema di stregoneria di alcuni giureconsulti,
e in particolare di Alciato, aveva tutto l’interesse ad accentuare una
forma di severo controllo religioso su ogni ambito della “devianza”[217].
Lo
stesso Alciato fu vittima di una truffa editoriale: nel 1536 venne stampato a
Colonia da Melchior Neuss l’apocrifo Iudiciarii processus compendium;
l’anno seguente furono pubblicate a Lione, ad insaputa dell’autore,
alcune lezioni universitarie come commentario della rubrica del Digesto
«Si certum petatur»[218]. Il nipote del grande Andrea,
Francesco Alciati, erede e successore dello zio nella cattedra pavese,
pensò bene di sfruttare la fortuna editoriale dell’illustre
parente, favorendo nel 1554 la pubblicazione a Lione, nella tipografia di
Sébastien Griphe, del Parergon, opera di grande successo
(ristampato altre due volte nel medesimo anno), e nel 1561, sempre a Lione,
presso Pierre Fradin, dei Responsa, da lui riordinati in nove libri,
anch’essi molte volte ristampati[219].
L’imponente
crescita della produzione editoriale cinquecentesca e la nuova, ampia
circolazione del libro negli anni della Riforma con la diffusione di idee
eterodosse o ereticali avevano allarmato le gerarchie ecclesiastiche che
dovettero constatare la difficoltà della Chiesa romana di arginare
efficacemente «questa peste»: Roberto Bellarmino si era augurato
che almeno per qualche tempo la stampa cessasse del tutto[220]. La chiesa postridentina aveva
dovuto imparare a difendersi dai libri e a combatterli, facendo
«dell’inaccessibilità del suo sapere per la massa dei
credenti» un «obiettivo fondamentale della propria strategia
magistrale», escludendo di fatto i laici dalle questioni religiose
attraverso l’uso esclusivo del latino e i «condizionamenti della
censura preventiva»[221]. L’obiettivo era infatti
quello di erigere barriere difensive contro le opere degli avversari, specie
dei protestanti, stabilendo una sorveglianza centralizzata della produzione
editoriale. Le imposizioni censorie diedero un colpo durissimo, per esempio,
alla fiorente industria veneziana del libro, che con i suoi 493 fra tipografi,
editori, librai stampava il 30-40% dei libri pubblicati in Italia e aveva ormai
acquisito un ruolo di leader nel mercato editoriale europeo: dal 1542 al 1550 i
periodici roghi di libri proibiti, in piazza San Marco e a Rialto (soltanto in
quello del 1559 vennero bruciati dai 10 ai 12.000 volumi), proiettarono una
luce sinistra su un’attività che aveva raggiunto livelli
d’avanguardia e costituiva una fonte di ricchezza per l’economia
della Repubblica. La grande stagione della stampa veneziana era ormai prossima
alla fine[222].
Il mondo
universitario fu il primo a trovarsi al centro delle attenzioni censorie: tesi
erronee o teorie eterodosse venivano spesso enunciate non soltanto nella
facoltà di Teologia, dove spesso filtravano le idee della Riforma, ma
anche in quelle di diritto, dove talvolta si contestavano le prerogative pontificie,
in quelle di filosofia ed arti, dove iniziava a circolare la cosmologia
copernicana e si attenuava la presa dell’aristotelismo, perfino in quelle
di medicina, dove venivano guardatE con sospetto la rivoluzione anatomica
vesaliana e le prime ricerche sulla circolazione sanguigna. D’altra parte
erano state le stesse università – non a caso il primo Index
librorum prohibitorum (1544) era stato elaborato dalla facoltà
teologica della Sorbona di Parigi, cui fece seguito quello di Lovanio (1546)
– a farsi sostenitrici dell’ortodossia cattolica, ad attuare una
rigida vigilanza e a promuovere la persecuzione censoria nei confronti delle
idee e dei libri[223]. L’università era
stata tradizionalmente il luogo della libera circolazione dei docenti e degli
studenti, delle idee e dei libri: ora questo non sarebbe più stato
possibile che in minima parte, con il conseguente effetto della
“regionalizzazione” o, peggio, della “localizzazione”
degli Studi.
Il mondo
universitario diventava così «un luogo dove i libri vivevano una
vita grama e stentata, sempre insidiata da sguardi malevoli – ha scritto
Adriano Prosperi –. Bastava che l’occhio di un passante si posasse
sulla scansia di una stanza di un professore e cogliesse al volo un titolo
sospetto perché l’inquisitore ne fosse avvertito»[224]. E il clima di sospetto
finì per coinvolgere anche chi professava le idee dei libri: per coloro
che non si piegavano all’ortodossia dominante non restava altra scelta che
il silenzio o la via dell’esilio. I giuristi francesi di fede ugonotta,
François Hotman, Hugues Doneau, Denis Godefroy, dopo la notte di San
Bartolomeo del 1572 – nel corso della quale venne assassinato a Tolosa
Jean de Coras, magistrato ed ex-professore di Digesto –, furono costretti
a rifugiarsi a Ginevra e nelle città tedesche; Alberico Gentili dovette
abbandonare l’Università di Perugia col giovane fratello Scipione
(che sarebbe diventato allievo di Doneau e professore di diritto ad Altdorf) e
rifugiarsi a Lubiana, a Tubinga e ad Heidelberg[225]; Giulio Pace per la sua fede
calvinista lasciò Padova nel 1576 per trasferirsi a Ginevra[226]. E gli esempi potrebbero
continuare.
Un caso
emblematico è quello di Matteo Gribaldi Moffa, una delle
“glorie” della facoltà di Giurisprudenza di Padova. Il fatto
che l’illustre professore, di cui si sospettava l’adesione alla
Riforma, non andasse a messa non passò inosservato. Qualcuno lo fece
notare agli inquisitori che poterono contare sulla collaborazione di un
«caro collega», il novarese Tornielli, invidioso per l’alto
numero di studenti che frequentavano le lezioni di Gribaldi. Le autorità
venete erano consapevoli che con l’allontanamento di Gribaldi avrebbero
perso un illustre giurista, un importante punto di riferimento didattico
invidiato da altre università. Gli offrirono «summos
honores» per farlo assistere a una messa: Gribaldi preferì non
tradire le proprie convinzioni religiose, e nell’aprile del 1555
lasciò Padova per andare a insegnare a Tubinga[227]. La repressione inquisitoriale
nelle facoltà di diritto, forse per il carattere tendenzialmente
“asettico” dei programmi di studio romanistici e canonistici, fu
comunque molto più blanda di quella che colpì i corsi teologici e
di humanitates, le facoltà di arti e filosofia e la stessa
medicina.
Nel 1542
venne istituita
Il primo
Index librorum prohibitorum apparso in Italia era stato pubblicato a
Venezia nel 1549 ad opera del nunzio pontificio Giovanni Della Casa con la
collaborazione dell’inquisitore locale e dei Savi all’Eresia
– magistratura secolare veneziana preposta ad affiancare e a controllare
l’operato del Santo Uffizio –:comprendeva 150 interdizioni, un terzo delle quali riguardava
l’intera produzione di un autore. L’Index suscitò forti opposizioni sia da parte di stampatori e
librai, che vedevano in esso una forte limitazione al commercio librario e un
duro colpo per uno dei settori più fiorenti dell’economia
cittadina, sia da parte del Senato, che temeva ripercussioni negative
sull’Università di Padova a causa dell’alto numero di
iscritti «oltremontani» proveniente dai paesi della Riforma, che
avrebbero sicuramente abbandonato lo Studio patavino con gravi effetti sulla
vita economica della Repubblica. L’Index
venne perciò immediatamente ritirato, stessa sorte subì il
nuovo Index veneziano edito nel 1554, che contava ben 600 interdetti,
fatto ritirare, per le forti proteste, l’anno dopo[230].
Nei
decenni successivi alla conclusione del Concilio di Trento si assiste dunque al
«trionfo politico e religioso» dell’Inquisizione romana,
«nucleo dell’azione e dell’identità stessa della
Chiesa» della Controriforma. Insomma, il «disciplinamento
postridentino fu essenzialmente volto – secondo Massimo Firpo – a
imporre un’ortodossia e un’ortoprassi, a controllare credenze e
comportamenti, a reprimere deviazioni e dissensi, a promuovere devozione e
conformismo». Il «primato dell’obbedienza alla norma
teologica e all’autorità ecclesiastica», accantonati i
propositi di riforma istituzionale e religiosa della Chiesa, si
concentrò soprattutto «nella lotta contro l’eresia,
allargandone via via l’ambito al sapere filosofico e scientifico, alla
pericolosa creatività e alla spregiudicata fantasia di artisti e
letterati»[231].
È
stato osservato che la generazione di intellettuali nati all’inizio del
secolo, in un clima di relativa libertà, avvertì le proibizioni
dell’Indice come qualcosa di contingente e transitorio, faticando non
poco ad accettarne i divieti, nei cui confornti mostrò un atteggiamento
sostanzialmente distaccato. All’opposto le generazioni nate dopo il
Concilio Tridentino interiorizzarono le disposizioni dell’Indice al punto
da sentirne la trasgressione come un peccato[232].
Professori
e studenti universitari mal sopportavano, ad esempio, di doversi privare dei
loro libri o vederli danneggiati da censure ed espurgazioni. La barriera che
L’attenzione
censoria si indirizzava soprattutto alle opere teologiche, a quelle filosofiche
e scientifiche: ma anche le più asettiche materie giuridiche non
sfuggivano al rigido controllo dell’Indice, che aveva proibito quegli
autori che avevano teorizzato la liceità del prestito ad interesse o
giustificato il ricorso al duello e quei testi che avevano posto in discussione
i fondamenti del potere temporale dei papi – come
Il
Concilio di Trento, conclusosi nel 1564, pur confermando gli antichi privilegi
delle università, impose un rigido controllo sull’insegnamento
rendendo obbligatoria per i docenti e gli studenti la professione di fede (solo
l’Università di Padova per l’alto numero di studenti
tedeschi che si iscrivevano ai suoi corsi riuscì a sottrarsi a
quest’obbligo), attuando un’occhiuta sorveglianza sulle tipografie
e sul commercio librario, proibendo la pubblicazione anonima di opere
teologiche, decidendo la fondazione di seminari per la formazione del clero,
imprimendo nuovo impulso agli studi teologici e filosofici e quindi,
indirettamente, alle stesse istituzioni universitarie[237].
Nel
1571, considerando che le autorità locali si erano dimostrate lente e
inefficaci nella prevenzione e nella circolazione delle opere proibite, Pio V
diede vita ad una nuova Congregazione dell’Indice incaricata del
controllo dell’ortodossia dei testi destinati alla stampa. Nello stesso
anno venne pubblicato ad Anversa il primo Index expurgatorius che
comprendeva 210 opere di 102 autori, divise in sei sezioni: teologia, diritto,
medicina, filosofia, matematica e umanità (per ognuno dei titoli
venivano elencati i passi da cancellare). Nel 1584 venne edito in Spagna un Index
librorum expurgatorum, voluto dall’Inquisitore generale Gaspar
Quiroga, che comprendeva 146 opere di 80 autori[238].
A Roma intanto
si progettava la pubblicazione di un nuovo catalogo dei libri proibiti: i
lavori incominciati nella primavera del 1584 si interruppero per la morte di
Gregorio XIII. Ripresi nel 1587 si conclusero con la redazione di un Indice
stampato ma mai pubblicato ufficialmente. Un altro testo, del 1593, di cui ci
restano almeno due versioni a stampa, non ricevette l’autorizzazione
pontificia anche per le reazioni negative da parte di numerosi ecclesiastici,
intellettuali, librai e la ferma opposizione politica della Repubblica di
Venezia[239].
In
effetti l’Index del 1593 operava un duro giro di vite nei
confronti della cultura italiana del tempo. Venivano sottoposte a censura molte
delle più importanti opere letterarie del XVI secolo: dalle Satire
di Ariosto al Libro del cortegiano di Baldassar Castiglione, dalle Rime
di Veronica Franco ai Madrigali di Alessandro Striggio, dalle Novelle
del Firenzuola agli scritti dell’Aretino, di Guicciardini, di Francesco
Berni, di Francesco Sansovino, di Alessandro Piccolomini, ed altri. Anche i
testi scientifici non passavano inosservati: erano infatti censurati i Libri
tres chirurgiae e le Opera omnia
di Theophrastus Paracelsus (Philipp Theophrast Bombast von Hohenheim), Commentarii
in sex libros De causis plantarum Theophrasti di Giulio Cesare Scaligero,
Nella
primavera del 1596 il papa emanava il cosiddetto Indice clementino,
«culmine del tentativo romano di disciplinamento delle coscienze attraverso
la proiezione del libro»[241], che esercitava un controllo
capillare non solo su tutta la produzione editoriale ma anche su tutto il
patrimonio librario esistente. Esso si presentava come un
«supplemento» a quello del 1564 ed «oscillava a fatica fra
inflessibilità e moderazione»[242]. Riprendeva in pieno il
catalogo pubblicato trentadue anni prima e inseriva numerosi titoli che si
trovavano già negli Indici non pubblicati del 1590 e del 1593: in tutto
1.143 condanne per 682 autori, delle cui opere veniva vietata la lettura
integrale. Alle regole dell’Indice tridentino Clemente VIII aggiunse
precise direttive che dovevano essere seguite nella proibizione, la correzione
e la pubblicazione dei libri: primato dell’Index romano e della censura esercitata dalla Congregazione
dell’Indice; riconoscimento del diritto di potestà censoria per le
autorità religiose nazionali e diocesane; diritto dei vescovi, degli
inquisitori e delle università di concedere l’autorizzazione a
leggere e a possedere opere proibite; procedure cui avrebbero dovuto sottoporsi
gli autori per l’approvazione di un’opera e per la concessione
dell’imprimatur; controllo
dell’esercizio del mestiere di stampatore, editore, libraio e lavoratore
di tipografia.
L’istruzione
clementina (de correctione librorum)
fissava anche i criteri per l’espurgazione dei testi, nella convinzione
che alcune opere – come, ad esempio, gli scritti giuridici di Zasio o gli
Adagia e i Colloquia di Erasmo, adottati come libro di testo
nelle classi di retorica di mezz’Europa – potessero essere
utilizzati anche nel mondo cattolico espungendo, in modo più o meno
radicale, i brani controversi e le affermazioni eterodosse. Nell’Instructio si parlava anche di eventuali
“aggiunte” e “spiegazioni” ai testi da espungere,
indicati con la formula «donec corrigantur» o «donec
expurgantur»: si prefigurava in sostanza un sistema più che di
cancellazioni di sostanziali interventi correttivi. Ovviamente la correzione
riguardava sia il testo che il paratesto. Talvolta lo zelo espurgatorio sfociava
nel grottesco. Il frate Gerolamo Malipiero si impegnò in una riscrittura
del Canzoniere del Petrarca, ricavandone un Petrarcha spirituale,
che tra il 1536 e il 1587 ebbe ben 8 edizioni: il termine «donna»
vi veniva trasformato in un meno carnale «Madonna». Certo, il Canzoniere
non sarebbe mai finito all’Indice, tranne che per tre sonetti
antiavignonesi, considerati perciò antipapali: bastava cancellarli o, al
limite, bastava strappare le pagine corrispondenti dalle diverse edizioni in
commercio. Il Decamerone per il suo tono scanzonato, per le ricorrenti
allusioni sessuali, per la satira nei confronti di suore e badesse, di frati e
di abati, sconci e dissoluti, arrivò ripetutamente nel laboratorio dei
censori, corretto prima da Ludovico Dolce (1541) e da Girolamo Ruscelli (1552),
successivamente «riassettato» dal benedettino Vincenzo Borghini
(1573) e pesantemente stravolto e manipolato da Leonardo Salvati (1582)[243]. Con l’edizione espurgata
del 1584 anche il Cortegiano di Castiglione subì un pesante rifacimento[244].
Spesso
erano gli stessi librai o gli editori, che per paura di veder sequestrate le
opere, curavano essi stessi l’espurgazione dei brani sospetti,
cancellandoli con l’inchiostro, incollandovi sopra nuove, corrette
versioni a stampa, rivestendo, con braghe e bikini, le incisioni dei
personaggi mitologici ignudi[245]. L’espurgazione si
rendeva talvolta necessaria per far circolare volumi che altrimenti sarebbero
stati condannati all’oblio: i nipoti di Machiavelli, e in particolare
Niccolò di Bernardo, canonico fiorentino, tentarono in tutti i modi di
far pubblicare un’edizione espurgata degli scritti del loro antenato (per
il Principe era peraltro disponibile una traduzione latina dissimulata, De
regnandi peritia (Napoli, 1523), di Agostino Nifo)[246]. Come osservava nel 1615 Paolo
Sarpi, qualsiasi modifica apportata al pensiero di un autore era più
grave della sua completa proibizione: «li scritti [...] sono stati con
aggiunte, detrazioni ed altre alterazioni mutati in sensi contrari alla
sententia dell’autore; e chi ha conservato delle stampe vecchie e le
confronta con quelle moderne, vede che li libri adesso parlano in contrario di
quello che gli autori scrissero»[247].
Ma un
vero e proprio Indice espurgatorio, cioè interamente dedicato alle sole opere
da correggere con l’indicazione dei passaggi da cancellare o modificare,
tardava ad essere pubblicato, anche per le oggettive difficoltà della
sua elaborazione. Nel 1607 veniva pubblicato a Roma il primo ed unico volume di
un Indicis librorum espurgandorum in studiosorum gratiam confecti tomus
primus, curato dal domenicano Giovanni Maria Guanzelli, che esaminava solo
53 opere di 50 autori[248].
Rispetto
ai precedenti, l’Index del 1596 evita di censurare i testi
letterari contemporanei (ad eccezione degli osceni Priapea di
Nicolò Franco) e riduce notevolmente il numero delle opere di carattere
scientifico che sottopone a revisione: condannate fra queste tutte le opere di
Gerolamo Cardano, il De natura rerum di Bernardino Telesio,
Nutrita
la schiera dei giuristi (oltre, naturalmente, la riconferma della condanna di
Machiavelli e, in particolare, dei Discorsi sopra la prima deca di Tito
Livio e degli scritti di Marsilio da Padova) con il De libertate
ecclesiae Gallicanae e il De sacris ecclesiae ministeriis di
François Duaren, le Opera omnia
di Johannes Thomas Freige, le Opera omnia
e il Brutum fulmen di François Hotman,
Le
università non ebbero possibilità di opporsi agli Indici papali.
D’altra parte non era facile far capire a un professore di diritto che
non poteva leggere Zasio, Mynsinger, Wesenbeck, o a un medico che non poteva
consultare Gesner, Fuchs o Paracelso solo perché si trattava di autori
appartenenti all’area protestante. Si cercarono pertanto, sia a livello
corporativo che individuale, forme di compromesso, concessioni speciali,
dispense. A Bologna il gesuita Francesco Palmio intercedeva a favore di Ulisse
Aldovrandi che chiedeva per la «sua profession» di poter tenere una
lista di libri proibiti: si trattava – spiegava – di un
«publico professore di philosofia» che «con le sue lettioni
dà molte utilità a questa università»[250].
Un altro
illustre medico, Girolamo Mercuriale, professore a Padova, nel 1595 si
rivolgeva al cardinal Santoro per domandare un trattamento di favore in fatto
di libri: «Io mi ritrovo – scriveva – una libreria assai copiosa,
dove sono molti libri, di medicina, di philosofia et humanità, et anco
di theologia»[251]. Per Mercuriale la
consultazione delle opere pubblicate nei paesi protestanti era stata un vero e
proprio calvario, testimonianza emblematica di come le proibizioni censorie
impedissero la circolazione delle idee e il progresso delle scienze. Il 1°
novembre 1572, il medico e libraio veneziano Girolamo Donzellini scriveva a
Theodor Zwinger famoso naturalista di Basilea, spiegandogli che Mercuriale
desiderava ricevere la seconda edizione del Theatrum vitae humanae,
stampata da Froben l’anno precedente, indispensabile per i suoi studi di
medicina. Nel 1574 il cardinale Guglielmo Sirleto comunicava al professore
padovano la proibizione inquisitoriale di leggere o consultare libri proibiti
provenienti d’Oltralpe. Ma, tramite le relazioni commerciali che univano
Venezia al mondo tedesco, Mercuriale poté, grazie al contrabbando
librario e a dispetto delle imposizioni censorie, entrare in possesso di una
copia del Theatrum e stabilire proficui contatti con Zwinger e con
l’ambiente scientifico basilense[252]. Spesso i divieti venivano
aggirati: a Venezia non era difficile, durante le perquisizioni inquisitoriali,
scovare fra gli scaffali dei librai
le opere giuridiche di Du Moulin o di Hegendorff, gli Adagia e gli altri
testi di Erasmo[253]. Ma alla lunga, come ha
osservato Prosperi, nonostante le attenuazioni e le dispense «furono
proprio gli argomenti dell’Inquisizione a prevalere» e nel mondo
universitario «l’intolleranza ebbe la meglio»[254].
Un
discorso a parte meritano Charles Du Moulin (Molinaeus) e Jean Bodin, vere
bestie nere del furore censorio, due autori che comparvero ripetutamente
insieme negli Indici romani (1590, 1593, 1596), con una frequenza inferiore
soltanto a quelle del tanto detestato Machiavelli[255]. Le opere di Du Moulin
circolavano ampiamente nelle università: nel 1566 Gabriele Paleotti,
canonista e cardinale, vescovo di Bologna, osserva che nella città
«essendo terra di studio, ci serano infiniti che l’additioni del Molineo
in iure [...] et simile sorte de’ libri che hanno li scolari»[256]. Nello stesso anno, durante un
trasferimento di studenti dall’Università di Pisa a quella di
Bologna, vennero perquisiti i bagagli: vi furono trovati e sequestrati libri
giuridici, tra cui «testi canonici con l’additioni del
Molineo», segno del favore che i suoi trattati canonistici incontravano a
vari livelli nel mondo universitario[257].
La
biografia di Du Moulin è ricca di vicissitudini dovute al suo
egocentrismo e al suo spirito polemico e talvolta aggressivo. Dopo lunghi anni
dedicati all’avvocatura e allo studio, a 53 anni decise di dedicarsi
all’insegnamento: fu professore nelle università di Tubinga,
Strasburgo, Dôle, Besançon, Parigi ed Orléans. Nel 1542
aderì al calvinismo, ma dopo alcuni anni, si allontanò dal
protestantesimo (restando però sempre antipapale) per riabbracciare in
punto di morte la fede cattolica, seppur in un’ottica erasmiana. Il suo
motto, «ego qui nemini cedo, ne a nemini doceri possum», esprime
assai bene la spregiudicatezza del suo pensiero e l’acume delle sue
critiche, spesso durissime, al sistema della giurisprudenza del tempo[258]. Le Additiones e i
trattati dell’«empio» Molinaeus furono sempre presenti
negli Indici (a partire da quello inquisitoriale del 1557, ripreso in quello
del 1559 e in quelli successivi): l’autore fu collocato nella prima
classe, cioè tra gli scrittori di cui venivano condannate tutte le
opere, anche quelle future[259]. Il motivo della censura era
dovuto soprattutto alla sua ostilità nei confronti della Chiesa romana
che emerge in modo particolarmente esplicito nelle Annotationes seu
additiones in Corpus iuris canonici... Decretum divi Gratiani (Lione,
1554), un’edizione importante con un vasto apparato di note,
l’indicazione delle false Decretali e la numerazione dei canoni, ad
eccezione delle paleae. Si trattava di un’opera destinata
all’insegnamento canonistico, che rivelava la cultura umanistica del
giurista francese e, nel contempo, il suo attaccamento alla tradizione,
inficiata però da quei passi ritenuti ingiuriosi nei confronti del
Papato, accusato a più riprese di aver alterato i testi della Chiesa
primitiva. Anche il Commentarius ad edictum Henrici II, contra parvas datas
et abusus curiae Romanae (Lione, 1552), tradotto in francese nel 1554,
tendeva a fissare dal punto di vista di un convinto gallicanista i confini tra
potere temporale e potere ecclesiastico, con la rivendicazione in chiave
patriottica dei diritti della monarchia di Francia[260].
L’opera
più celebre di Du Moulin sono senza dubbio i Commentaria alle
consuetudini parigine (Parigi, 1539), in cui l’autore, grazie alla sua
formazione bartolista che lo portava a considerare il diritto romano sotto
un’angolazione essenzialmente pratica, valorizzava gli elementi giuridici
patri nella prospettiva di una raccolta unitaria ed uniforme del droit
coutumier[261]. La sua celebre Oratio de
concordia et consonantia consuetudinum Franciae (Parigi, 1555) disegnava il
progetto di una “codificazione” delle consuetudini francesi. Du
Moulin aveva però anche una profonda conoscenza della tradizione
romanistica, come è confermato da alcuni trattati civilistici di grande
attualità per esempio (quello sul commercio e le usure) e dell’Extricatio labyrinthi dividui et individui
(Lione, 1562), sulla divisibilità e indivisibilità delle
obbligazioni, considerato da alcuni come il suo capolavoro[262].
Le opere
dei trattatisti italiani (Decio, Tartagni, Dino del Mugello) erano assai
richieste per l’insegnamento e la pratica forense ma, anche per
l’ampia diffusione dell’editoria lionese, non si trovavano in
commercio che le edizioni con le additiones e le annotationes
– come affermavano le autorità inquisitoriali –
«maledicti Caroli Molinaei», per cui i giuristi erano costretti ad
utilizzare loro malgrado questi volumi, nonostante il divieto censorio[263]. Lo stesso valeva per
l’accurata edizione del Decretum di Graziano e delle Decretales.
Come ha osservato Rodolfo Savelli, il caso di Du Moulin assume connotati
esemplari nella storia della politica censoria, «sia perché lo
sforzo di ripulire testi da lui editi e glossati portò in effetti a
risultati concreti, sia perché il giudizio sulle sue opere fu sempre
oscillante tra una condanna recisa e una benevola (e curiosa) tolleranza»[264]. Dal
In
quegli anni
Nel 1593
veniva pubblicata a Roma
I due
grossi tomi della Bibliotheca selecta affrontano gli argomenti
più disparati[276]: in principio, come avverte
l’autore, egli aveva intenzione di intitolare la sua opera Bibliotheca
Principum ac Nobilium proprio per segnalare che vi si indicavano gli ambiti
culturali formativi nei vari campi del sapere alle élites dirigenti e ai
futuri governanti[277]. Il primo libro è
strettamente legato a questo progetto: non a caso sarebbe stato ripubblicato
cinque anni dopo in traduzione italiana col significativo titolo di Cultura
degl’Ingegni. In esso Possevino espone un ambizioso programma
che prevedeva l’educazione della nobiltà nei collegi della
Compagnia, la promozione della conoscenza della dottrina cristiana presso i
ceti subalterni attraverso le scuole primarie, la necessità di
contrastare con la propaganda il flusso delle eresie provenienti dai paesi protestanti[278]. La stampa e il libro
diventavano quindi il terreno privilegiato per combattere questa battaglia,
utilizzando «le candide et prudenti censure», la correzione e la
«purgazione» delle opere sospette – necessaria per
«togliere il sinistro sentimento et intelligenza, l’eresie e le
dishonestà et le cose oscene» –, e per fronteggiare «i
mezi tenuti da Satanasso per turbar la coltura degl’ingegni negli
studi»[279].
Della Bibliotheca
selecta sono state date valutazioni discordi. Luigi Balsamo, ad esempio,
sottolinea che la sua «matrice dogmatica» la configura come
«una vera opera anti-Gesner a cominciare dalla metodica: nel contrapporre
un modello enciclopedico rigidamente delimitato, quello della dottrina
cattolica controriformistica, essa diventa strumento di controllo rigoroso
dell’informazione bibliografica e della circolazione libraria mirando a
costituire [...] una memoria collettiva selezionata in funzione di un preciso
programma pedagogico»[280]. All’opposto, Alfredo
Serrai, pur riconoscendo che Possevino possedeva «tutti i caratteri del
paradigma tipico-gesuita» come «difensore strenuo, ma anche
fanatico dell’ortodossia», sostiene che, «per quanto sembri
paradossale», egli «è un prosecutore di Gesner, e certamente
un suo epigono od un suo emulatore»[281]. Secondo Albano Biondi si
tratta in primo luogo di «un’impresa bibliografica» che,
negli obiettivi e nella «volontà progettuale, affianca Possevino
ai Baronio o ai Bellarmino, nell’intento di racchiudere in una cornice
compattamente cattolica tutto un settore dell’esperienza umana»[282].
Certo,
la volontà di Possevino di confrontarsi e di competere con Gesner
è evidente: ma è proprio nel metodo che i due grandi apparati
bibliografici divergono radicalmente; il metodo gesneriano deriva da un
impianto classificatorio di matrice scientifico-naturalistica, mentre quello
posseviniano è legato ancora ad una visione aristotelica, rivolta
sostanzialmente verso il passato. Ad esempio, nel libro XII, dedicato alla
giurisprudenza, pubblicato a parte nello stesso 1593 dalla Tipografia Apostolica
Vaticana col titolo Christiana methodus ad Iurisprudentiam, Possevino si
rivela non soltanto un bibliografo informato, ma anche un trattatista non
convenzionale, che si confronta con tematiche – per questa parte si
servì dell’aiuto e dei pareri di Guido Panciroli, professore nelle
università di Torino e poi di Padova, studioso aperto al metodo
umanistico, e del giurista Antonio Massa, conosciuto a Roma, autore di un
apprezzato trattato Contra l’uso del duello (Venezia, 1555)
–, come l’origine del diritto, il rapporto tra le leggi e la
morale, il metodo di studio delle istituzioni giustinianee, il dibattito
cinquecentesco tra giureconsulti italiani e ultramontani, e via dicendo[283].
Si
sbaglierebbe a considerare quello di Possevino un apporto scarsamente originale
alla scienza giuridica. Egli intende riaffermare il carattere sovranazionale
della sua opera («non ad Italos tantum, sed ad alios Bibliothecam esse
conditam. Si enim isti in Italia non leguntur, leguntur alibi, et quidam cum
fructu»), ma evita di cadere nella trappola “patriottica”,
prendendo posizione nella controversia tra mos italicus e mos
gallicus. La sua conoscenza della giurisprudenza culta appare ampia e
puntuale, con i richiami alle opere di Alciato, Budé, Connan, Duaren,
Cujas, Hotman: «Num vero Ultramontani iurisperiti – afferma –
(expurgati quidem prius, si quos continebant errores) legendi sunt post
antiquos»[284]. Valuta positivamente le
istanze di rinnovamento degli umanisti, e ammettendo che in Italia vi era il
prevalente predominio dei pratici, fa propria la necessità della
conoscenza del greco e della filologia per lo studio del diritto. Sconsiglia la
lettura dei lessici e dei commentari alle Istitutiones, assai diffusi
nelle università, dei giuristi luterani come Mynsinger, Schneidewein,
Wesenbeck, proponendo in alternativa i commenti di area cattolica di
Aldobrandini e di Viglius (Wigle von Aytta). Anche nell’accostarsi al corpus
giustinianeo il gesuita lombardo predica prudenza, soprattutto quando ci si
imbatte in argomenti delicati quali «de divortio, de concubinato, de
nuptiis, de adoptione, de patria potestate, de religiosis, de
iureiurando», nel qual caso bisogna tenersi più stretti al diritto
canonico e ai deliberati del Concilio tridentino. Ritiene infatti che il
diritto civile, depurato della sua laicità, vada sottoposto ai valori
della dottrina cristiana e alle indicazioni del diritto canonico e dei sinodi
ecclesiastici. Insomma, Possevino propone una cultura giuridica espurgata e
ricondotta, pur con le caute aperture umanistiche, nell’alveo
dell’intransigenza censoria controriformista.
Lo
spirito polemico dell’«Aristarco cattolico» si infiamma nella
cernita censoria della letteratura giuridica del tempo: c’è
l’aperta condanna per gli autori considerati radicalmente anticristiani, come
Machiavelli, Bodin, François De
Nel 1606
Possevino pubblicava a Venezia tre tomi di un Apparatus Sacer, sorta di
prosecuzione della Bibliotheca Selecta destinata all’ambito
religioso, nel quale era particolarmente versato: un repertorio bibliografico
di straordinaria ricchezza, con l’indicazione delle opere manoscritte e a
stampa di circa ottomila autori cristiani in un impianto erudito e dottrinale
dogmaticamente militante[289]. L’opera usciva a Venezia
proprio nel momento in cui si scatenava la cosiddetta «guerra delle
scritture» suscitata dalla controversia per l’Interdetto.
Pochi
anni dopo Paolo Sarpi, nel trattato Sopra l’officio dell’Inquisizione
(1613), riflettendo sulla potenza dei libri e della stampa, poteva scrivere:
«La materia de’ libri par di poco momento perché tutta di
parole; ma da quelle parole vengono le opinioni del mondo, che causano le
parzialità, le sedizioni e finalmente le guerre. Sono parole sì,
ma che in conseguenza tirano seco eserciti armati»[290].
I primi
tentativi di rivisitazione critica dei testi giuridici romani e in particolare
del Corpus iuris civilis di Giustiniano nascono all’interno del
dell’umanesimo giuridico, che si poneva l’obiettivo di restituire
queste fonti nella loro forma originale. L’attenzione degli umanisti non
poteva non concentrarsi sulla Littera florentina, il celebre manoscritto
del VI secolo conservato prima a Pisa e poi a Firenze. Il contributo più
significativo della fine del XV secolo agli studi giuridici è senza
dubbio quello di Angelo Poliziano (1454-1494), volto a realizzare un apparato
critico-filologico al Corpus iuris,
cui doveva poi seguire un’edizione critica del testo giustinianeo
attraverso il raffronto della Littera
florentina, considerata (ma a torto) l’edizione originale delle
Pandette, con il testo che veniva normalmente adoperato sin dall’epoca
dei glossatori,
Il
progetto venne ripreso da Ludovico Bolognini (1446-1508), professore di diritto
civile nell’Università di Bologna, che nel 1490 chiese di poter
effettuare la collazione del manoscritto e negli anni 1501-07 tentò di
pubblicare un’edizione critica della Florentina[292]. Le motivazioni di Poliziano
erano soprattutto di natura filologica; Bolognini era mosso invece da fini
esegetici, nell’intento di eliminare ogni corruttela dal testo giustinianeo
risalendo all’«archetipo» fiorentino. Solo che il giurista
bolognese era privo di quei raffinati strumenti critico-filologici di cui era
all’opposto dotato il grande umanista toscano: l’ideale sarebbe
stato poter disporre di uno studioso che, come ha puntualizzato Calasso, fosse
insieme «giurista, storico e filologo»[293].
L’opera
di Budé, soprattutto le sue Annotationes in Pandectas (1508), e
l’insegnamento universitario di Alciato e di Zasio spingevano per un
ritorno critico ai testi del Corpus iuris giustinianeo e delle altre
fonti romanistiche. Un apporto innovativo alla conoscenza delle leggi e delle
istituzioni romane venne dato da opere di ispirazione erudita come i Libri
de Historia iuris civilis et pontificii (Valence, 1515) del giurista
francese Aymar du Rivail (Rivallius, 1490 circa-1560), che aveva affinato la
sua preparazione umanistica nell’Università di Pavia negli anni in
cui vi studiava Alciato (il trattato si distingue soprattutto per lo studio e
l’acuta interpretazione delle XII Tavole), e i Geniales dies
(Roma, 1522) dell’umanista e giureconsulto napoletano Alessandro
D’Alessandro (1461-1523), un’esauriente storia del diritto pubblico
romano dalla monarchia all’impero, poggiata su una ricca messe di fonti e
con la minuziosa descrizione degli istituti e delle magistrature[294]. Nel 1550 venivano pubblicati a
Mantova i Fasti consulares ac triumphi acti a Romulo rege usque ad Tiberium
Caesarem del modenese Carlo Sigonio (1520-1584), professore di
“humanità” a Venezia, Padova e Bologna, cui avrebbe fatto
seguito il De antiquo iure populi Romani (Venezia, 1560), opere di
erudizione umanistica che mostravano una spiccata sensibilità per
l’elemento giuridico come fattore di sviluppo delle istituzioni e della
società[295]
Il
giovane giurista tedesco Gregor Meltzer (Haloander, 1501-1531) fu il primo a
pubblicare un’edizione completa del Corpus Iuris priva di glosse e
senza la tradizionale suddivisione medievale tipica delle stampe precedenti:
per l’edizione dei Digestorum seu Pandectarum libri quinquaginta,
apparsa a Norimberga, sua città natale, nel 1529, impiegò un
anno; nel maggio seguirono le Istituzioni; il Codex fu stampato nel
settembre del 1530 e le Novellae nella primavera del 1531.
Un’impresa condotta con baldanza, addirittura con furore giovanile.
Haloander fu il primo a mettere a frutto
Alla
strada aperta da Haloander fece seguito nel 1548 l’edizione del Digesto
pubblicata a Basilea da Herwagen: curata da Viglio (Wiggle van Aytta), si
giovava del contributo di Alciato, cui si deve la traduzione latina (forse
sulla base del codice fiorentino) dei frammenti greci di Modestino nel titolo de
excusationibus[299]. Nel 1556-58 l’editore
lionese Ugo dalla Porta pubblicava i testi giustinianei corredandoli sia della
Glossa, per accontentare i pratici e i tradizionalisti, sia delle varianti
della Littera florentina, per venire incontro alle esigenze dei dotti,
ma essi presentavano inevitabilmente numerose incongruenze tra il testo e
l’apparato[300]. Nel 1569 Antoine Le Conte
(Contius, 1517-1586), professore a Bourges, dava alle stampe a Lione presso
Il
tributo più rilevante dell’editoria giuridica italiana alla
tradizione umanistica è senz’altro l’editio princeps della Littera florentina curata nel 1553 da
Lelio Torelli e da suo figlio Francesco per i tipi di Lorenzo Torrentino
tipografo del granduca Cosimo I di Toscana[302]. Considerata non a torto come
un vero e proprio «monumento dell’arte tipografica» per la
bellezza dei caratteri, la freschezza della stampa, la qualità della carta,
la composizione elegante dei volumi, gli ampi margini del testo, essa era
destinata a restare insuperata sino allo scrupoloso lavoro filologico di
Theodor Mommsen, pubblicato a Berlino nel 1870[303].
L’iter
editoriale delle Pandette è stato particolarmente lungo e complicato.
Già dal 1541 Torelli aveva studiato il prezioso manoscritto,
esemplandolo per intero e scoprendo che, per colpa dell’antico
rilegatore, gli ultimi due fogli della Littera florentina erano stati
invertiti: ciò aveva determinato l’errato ordine dei frammenti (da
Nel 1543
Torelli comunicava al suo amico spagnolo di aver terminato la collazione delle
Pandette. Si poneva ora la necessità di individuare un tipografo
all’altezza di un non facile compito come la pubblicazione del Digesto
giustinianeo[307]. Nel corso degli anni quaranta
e nei primi cinquanta vennero presi in considerazione vari stampatori: Tommaso
Giunta di Venezia, Robert Estienne di Parigi, Froben di Basilea per la sua
autorevolezza nell’edizione dei manoscritti antichi, il fiorentino
Francesco Priscianese, attivo a Roma, Sébastien Gryphe di Lione[308]. Il granduca Cosimo nutriva
però diverse perplessità sulla pubblicazione: sia per gli alti
costi tipografici, sia perché
Ma,
nonostante il notevole sforzo finanziario del granduca e l’impegno
ultracedennale di Torelli, le Pandette fiorentine ebbero una limitata
circolazione, risultando di fatto un’edizione assai rara[311].
La prima
edizione comprendente tutte le compilazioni giustinianee, destinata a
sopravvanzare quella del Torrentino, significativamente intitolata Corpus
Iuris Civilis, è dovuta a Denis Godefroy (Gothofredus, 1549-1622),
uno degli ultimi esponenti della grande scuola culta francese. Giurista ed
umanista di apertura europea, Godefroy fu allievo a Parigi di François
Bauduin (Balduinus) e studiò nelle università di Lovanio,
Colonia, Strasburgo – dove nel 1591 ottenne la cattedra di Pandette
–, Heidelberg e di nuovo a Strasburgo, dove rimase sino alla morte.
L’edizione compendiava in un’opera sistematica tutti gli apporti
dell’umanesimo giuridico, da Haloander ad Agustín, da Budé
a Cujas, a Torelli. La sua recensio dei testi giustinianei, che
attingeva dalla Florentina e non ignorava
Il Corpus
Iuris privo della glossa venne pubblicato a Lione (ma stampato a Ginevra)
nel 1583 e subito ripubblicato a Venezia nel 1583-84 dalla Compagnia
dell’Aquila, a Francoforte nel 1587 dalla tipografia di Johan Wechel per
conto di una società editoriale composta da Sigmund Feyrabend, Heinrich
Track e Peter Vischer[313].
Per
tutta la seconda metà del secolo però, prima del Corpus Iuris
gotofrediano, si continuò a pubblicare ancora la vecchia vulgata
con l’apparato di commenti di Accursio, meglio noto come magna glossa:
in tutto 23 edizioni dal 1561 al 1591. Nell’editoria giuridica
cinquecentesca l’ancoraggio al passato e alla tradizione finiva per
prevalere sulle novità. Il pubblico dei giureconsulti era
fondamentalmente conservatore. Nel XV secolo aveva inizialmente osteggiato il
libro a stampa a favore del manoscritto; ora guardava con diffidenza qualsiasi
innovazione, come mostra, ad esempio, la preferenza per i libri di grande
formato (in folio, in 4° e in
8°). Quando nel 1525 il tipografo Alessandro Paganino di Tuscolano sul Lago
di Garda stampò, con un’operazione indubbiamente azzardata,
un’edizione delle Istituzioni di Giustiniano in 24°, il libro venne
accolto male dal mercato e la sua commercializzazione risultò
sostanzialmente fallimentare[314]. I formati piccoli del testo
giustinianeo si imposero soltanto nell’ultimo trentennio del secolo, come
le Istituzioni in 16° nel
Nella
seconda metà del Cinquecento, peraltro, sia gli orientamenti della
scienza giuridica sia, di riflesso, la stessa produzione editoriale iniziano a
volgersi verso un’impostazione eminentemente pratica. «È il
“sapere giuridico” che verrà cambiando – ha osservato
Riccardo Orestano –: da un lato accentuerà le sue componenti
“pratiche”, dall’altro, uscendo dal chiuso delle aule universitarie,
vedrà larga partecipazione di “forensi”, magistrati e
avvocati»[316]. Si andava spegnendo la
polemica tra la scuola culta e i bartolisti: la radicatissima tradizione del
commento, che aveva evitato di essere soppiantata negli Studi dai modelli oltremontani
e dall’istituzione di alcune cattedre di Pandette, non aveva alcuna
intenzione di porre in discussione il proprio «statuto
metodologico» e, d’altra parte, il cosiddetto mos italicus
si trovava in piena sintonia con l’esigenza di un’interpretazione del
diritto in funzione della pratica. Il particolarismo istituzionale, tipicamente
italiano, insieme all’assenza di una forte monarchia, aveva impedito, a
differenza di quanto era avvenuto in Francia e in Spagna, l’affermazione
di un diritto, diciamo così, “nazionale”[317]. Biagio Brugi, a proposito dei
giureconsulti italiani del XVI secolo, aveva colto il mutamento della
sensibilità culturale, ma aveva anche posto in evidenza gli aspetti
innovativi della crisi del diritto comune: «Nelle lezioni e nelle opere loro
il testo è sullo sfondo,
Nel
corso del Cinquecento si sviluppa così un filone di opere giuridiche
volte all’esposizione, più o meno sistematica, di nuovi ambiti del
diritto e di istituti particolari. Certo, i trattati monografici
cinquecenteschi erano in larga misura gli eredi di una forma letteraria ampiamente
diffusa nel Medioevo, come le summae di singoli titoli o di determinati
temi del corpus giustinianeo, o come le raccolte di quaestiones[319]. La monografia si presenta ora
come trattazione autonoma e completa di una materia specifica individuata secondo
esigenze provenienti dalla pratica, capace di consentire ai giuristi, agli
uomini del foro, ai magistrati, ai burocrati di individuare, in maniera
più agevole rispetto ai vecchi commentaria espressione
dell’insegnamento universitario, dottrine e risoluzioni concrete sui vari
problemi giuridici.
Lo
sviluppo della stampa e la dilatazione del mercato editoriale favorirono
ulteriormente la produzione di trattati, ad esempio nell’ambito del
diritto criminale. Il Cinquecento è infatti un secolo assai fecondo per
le scienze penalistiche: ciò è dovuto sia ad una maturazione
della dottrina, che inizia ad affrancarsi dall’ambito civilistico, sia
all’affermazione di un diritto criminale di Stato, che matura grazie
all’espansione degli apparati giudiziari in cui vengono recepiti i
caratteri nuovi di un «diritto penale ordinamentale». È
appunto il cosiddetto Stato moderno, come ha osservato Mario Sbriccoli, ad
appropriarsi della «potestà punitiva» e della
«giustizia penale egemonica» in un quadro in cui il Principe provvede
a promuovere la riforma dei vecchi statuti medievali, a garantire la
promulgazione di nuove organiche compilazioni, a sollecitare lo studio e
l’insegnamento del diritto criminale nelle università[320]. Non è un caso che lo
studio autonomo e l’insegnamento universitario del diritto criminale si
siano affermati proprio nel XVI secolo, acquistando una dimensione autonoma, di
dottrina e di studio, dal diritto romano: sin dal 1509 veniva insegnato a
Bologna, dal
Il punto
di riferimento della trattatistica penale cinquecentesca è rappresentato
dalle opere di tre giuristi, Giulio Claro, Tiberio Deciani e Prospero
Farinacci, la cui autorevolezza in materia resterà un costante punto di
riferimento lungo tutta l’età moderna sino alle riforme ispirate
alle teorie dell’illuminismo giuridico[322]. L’editoria si
mostrò particolarmente attenta a questo nuovo ambito disciplinare che
suscitava una domanda sempre crescente, che proveniva, più che dalle
aule universitarie, dal mondo del foro e delle magistrature. Ad esempio, le
opere di Ippolito Marsili (1451-1529), il primo professore di diritto criminale
nello Studio bolognese, ebbero 71 edizioni italiane, 10 della celebre Practica
causarum criminalium (1526-29), detta Averolda, e 9 dei Consilia
criminalia. Giulio Claro (1525-1575), allievo pavese di Alciato, dal 1556
magistrato del Senato di Milano e dal 1565 reggente nel Consiglio
d’Italia a Madrid, nel 1568 pubblicava come quinto libro delle Sententiae
la parte penalistica, la celebre Practica criminalis, definita non a
torto la «bibbia penalistica cinquecentesca», che sino al 1672
avrebbe avuto ben 45 edizioni[323]. Anche il Tractatus
criminalis di Tiberio Deciani (1509-1582), pubblicato postumo nel
Fra gli
altri cultori della scienza penalistica bisogna ricordare il milanese Egidio
Bossi (circa 1488-1546), giurista oggi ampiamente rivalutato dalla
storiografia, autore dei Tractatus varii (pubblicati postumi nel 1562)
dedicati alla procedura e alla trattazione dei principali reati, che conobbero
una buona diffusione (17 edizioni, di cui 12 italiane, 4 lionesi, 1 basileense)
sino al 1588.
Insomma,
nel XVI secolo la trattatistica giuridica si va sempre più adeguando
alle esigenze della prassi, mostrandosi attenta alle istanze provenienti dalla
vita sociale e sensibile alla necessità di dare soluzioni giuridiche
concrete ad ambiti sin allora poco approfonditi o appena sfiorati dalle
teoriche precedenti, se non addirittura ignorati o snobbati dal tradizionalismo
accademico. Rientrano in questa prospettiva Roberto Maranta (morto intorno al
1534-35), giurista napoletano, autore di un fortunato Tractatus de ordine
iudiciorum, detto pomposamente Speculum aureum et lumen advocatorum
(scritto nel 1520-25, ma pubblicato postumo nel 1545), che proprio per la sua
stretta aderenza alla “domanda” del mondo forense ebbe sino al 1650
23 edizioni, di cui alcune all’estero (Lione 1557, 1567, 1573;
Francoforte, 1575; Colonia 1650); Giambattista Asini (morto nel 1585),
professore per undici anni nello Studio pisano, autore di una Practica
aurea, seu processus iudiciarius (1569-71), 8 edizioni sino a quella di
Francoforte del 1629; Giuseppe Mascardi, canonista ligure, cui si deve la
raccolta di Conclusiones probationum (1584-88), che aveva lo scopo di
elaborare una sistemazione della materia probatoria, con 14 edizioni sino a
quella di Francoforte del 1661; Francesco Mantica (1534-1614), professore a
Padova, poi magistrato a Roma e, infine, cardinale, autore di due trattati di
materia successoria e contrattuale, il Tractatus de coniuncturis ultimarum
voluntatum (1579) e le Vaticanae lecubrationes de tacitis et ambiguis
conventionibus (1607), il primo con 15 edizioni anche estere (Ginevra 1631,
1645, 1669, 1695, 1737; Lione, 1592), il secondo con 8 edizioni, di cui 6
all’estero[329].
Il
più illustre dei giuristi pratici fu senza dubbio il pavese Giacomo
Menochio (1532-1607), professore a Mondovì, Padova e a Pavia, alto
magistrato del Senato milanese, ampiamente sopravvalutato dai contemporanei,
che lo considerarono un novello Bartolo – Cordero gli riconosce comunque
il merito di aver visto «come l’intero metabolismo legale sia
riconducibile a tecniche giudiziarie» –, autore di una poderosa
raccolta di Consilia –
1.286 responsi – sul ius commune, diritto feudale e diritto
criminale, in tredici volumi stampati a Venezia da Francesco Ziletti (1575-92),
che raccolgono i frutti della sua attività professionale di consulente,
e di una serie di trattati su temi prevalentemente civilistici e
processualistici, in una quarantina di edizioni[330]. Il consilium, o parere del
giurista, era un’eredità del Medioevo e rappresentava la forma
attraverso la quale il diritto comune (la fonte primaria di tutti i consilia)
si inseriva nella pratica giudiziaria. La fase culminante della letteratura
consulente è il periodo compreso tra il XIV e il XV secolo[331]: ma anche nel Cinquecento si
assiste ad un’ampia circolazione europea delle raccolte a stampa dei consilia,
come quelle di Filippo Decio (15 edizioni cinquecentesche), Giason del Maino (5
edizioni), Aimone Cravetta (9 edizioni), Pietro Paolo Parisio (6 edizioni),
Marco Antonio Natta (14 edizioni), Giovanni Nevizzano (5 edizioni), Guido
Panciroli (1 edizione), Tiberio Deciani (5 edizioni), e così via.
È stato calcolato che le raccolte di consilia pubblicate in
Europa tra il XVI ed il XVIII secolo
siano almeno 400, di cui circa 125 di autori italiani[332].
Uno
degli ambiti dottrinali destinati a rimanere sempre vivo nel corso dei secoli
XVI-XVII, nonostante il progressivo affievolirsi della presa sociale delle
istituzioni feudo-vassallatiche altomedievali e i limiti posti alla
giurisdizione baronale dallo Stato moderno, è quello della feudistica:
la materia veniva tradizionalmente insegnata in alcune università
all’interno delle discipline romanistiche, attraverso i cosiddetti Libri
feudorum, in altre godeva di una piena autonomia, grazie
all’istituzione di apposite cattedre come a Napoli nel
Accanto
alle tematiche ancorate al passato, si delineano nel XVI secolo anche altre
specialità giuridiche proiettate verso il futuro, come, ad esempio, il
diritto mercantile e delle assicurazioni, stimolato dall’ampliarsi quasi
planetario delle relazioni economiche e dai commerci internazionali che poneva
ai giuristi nuovi quesiti e aspettava nuove risposte. Risale al 1553 la
pubblicazione del primo trattato scientifico di diritto commerciale, il De
mercatura seu mercatore, edito a Venezia da Paolo Manuzio, di Benvenuto
Stracca (1509-1578), patrizio di Ancona che aveva studiato a Bologna, faceva
l’avvocato, ricopriva diverse cariche pubbliche. Il trattato, che rivela
una buona ed aggiornata cultura giuridica, affronta diversi argomenti come
l’esercizio della mercatura, i contratti, il commercio marittimo, i casi
di cessazione dell’attività, il fallimento, la giurisdizione
commerciale[335]. L’opera ebbe 15 edizioni
sino al 1669 (di cui
Al
genere pratico appartiene anche la straordinaria produzione editoriale di raccolte
(dalle stime effettuate sarebbero circa 400) di decisioni e sentenze di grandi
tribunali (sotto questo termine si unifica l’indicazione di organi
giudiziari assai diversi fra loro, Audiencias, Rote, Senati, Parlements)
– che già dal XV secolo assumono il nome di decisiones ad
imitazione di quella della Rota romana –: esse offrivano ai giudici, agli
avvocati, ai burocrati un vastissimo repertorio di soluzioni concrete per
un’ampia gamma di controversie[336]. Certo, anche la letteratura
decisionista era essenzialmente curiale, tuttavia non restava del tutto avulsa
dal mondo universitario, in cui il metodo didattico fondato sul mos italicus
faceva ampio ricorso nelle esercitazioni scolastiche alle auctoritates,
ai consilia e, talvolta, alle stesse fonti giurisprudenziali. Ad
esempio, le Decisiones Sacri Regii Consilii Neapolitani di Matteo
D’Afflitto (1448-1528), stampate nel 1509, ebbero 12 edizioni
cinquecentesche, 6 seicentesche e 1 settecentesca; la raccolta delle decisiones
napoletane di Antonio Capece (morto nel 1545 circa), pubblicata nel 1541, ebbe
9 edizioni cinquecentesche; quella di Tommaso Grammatico (1473-1556), stampata
a Venezia nel 1547, ebbe 9 edizioni nel corso del XVI secolo; le Decisiones
Sacrae Rotae Romanae di Guglielmo Cascadori (morto nel 1528), pubblicate a
Venezia nel 1540, ebbero 9 edizioni cinquecentesche e 2 seicentesche; le Decisiones
Sacri Senatus Pedemontani di Ottaviano Cacherano (morto nel 1580),
pubblicate a Torino nel 1569, ebbero 6 edizioni cinquecentesche (di cui
In
effetti la prima metà del XVI secolo conosce la pubblicazione di diversi
repertori bibliografici relativi al diritto: l’Inventarium librorum in utroque iure (Lione, 1522) di Giovanni
Nevizzano, con la sua ampia serie di argomenti (Textus et lecture in iure civili et feudis; Singularia et
cautele; Repertoria; Decisiones; Consilia diversa et
extravagantia, etc.), costituiva uno strumento di lavoro utilissimo sia per
il giurista, che per il libraio[338]. Si ricordano inoltre l’Index librorum in utroque iure (1525)
dello spagnolo Luis Gómez, le Iurisconsultorum vitae (1536) di
Bernardino Rutilio, gli Indices dominium scriptorum in iure (1539) del
tedesco Johann Fichard,
Si
distingue in questo ambito il De claris iureconsultis di Tommaso
Diplovatazio (1468-1541), avvocato, magistrato e amministratore civico a
Pesaro, che si trasferì poi a Venezia, dove esercitò l’avvocatura
e collaborò con l’industria tipografica, preparando edizioni, additiones
e vitae di giuristi. Nel De claris iureconsultis (1511) –
la sua opera più famosa, un piccolo capolavoro del genere
bio-bibliografico con le vitae legisti e l’elenco delle loro opere
–, Diplovatazio ha infatti ricostruito la storia della scienza giuridica
medievale, partendo dalle biografie e dagli scritti dei protagonisti e gettando
nuova luce su un’età fino ad allora caratterizzata da una
tradizione storiografica confusa[340]. In questa prospettiva si
colloca anche il De claris legum interpretibus (apparso postumo nel
1637) di Guido Panciroli, che costituisce il primo vero e proprio studio di
storia della storiografia giuridica: giurista di cultura umanista, durante il
suo insegnamento torinese Panciroli aveva curato per il tipografo
Niccolò Bevilacqua l’edizione dei Commentaria al Codice e
al Digesto di Giason del Maino (1573), i Consilia e i Commentaria
di Bartolo (1577), e durante la docenza padovana aveva fatto da consulente per
La
domanda di trattazioni su temi specifici viene ampiamente recepita
dall’editoria giuridica: a Venezia una società formata dagli eredi
di Lucantonio Giunti, dai Giolito, da Comin da Trino e da Federico Torresani si
consorziava per la pubblicazione, negli anni 1548-50, di una raccolta di Tractatus
omnes de cognitione iuris et interpretatione verborum in 18 volumi. Quasi
contemporaneamente, nel 1548-49, veniva pubblicata a Lione dal tipografo
Georges Regnault un’altra gigantesca raccolta di trattati in 17 tomi[343].
Il
Cinquecento si chiude con una “titanica” impresa editoriale, i Tractatus
Universi Iuris, pubblicati a Venezia tra il 1583 e il
[1] Michel de Montaigne, Saggi,
a cura di Fausta
Garavini, II, Milano, Mondadori, 1970 (I ediz. Milano, Adelphi,
1966), 1423-1424.
[2] La definizione è di Giovanni Macchia,
La letteratura francese, I, Dal Medioevo al Settecento, Milano,
Mondadori, 1987, 511. Cfr. inoltre le belle pagine di Giacomo Debenedetti, Quaderni
di Montaigne, Milano, Garzanti, 1986, 10-14.
[4] Nel libro II, cap. XII, dei Saggi
cit., I, 774, Montaigne aveva sottolineato questo concetto: «Ho sentito parlare
di un giudice che quando trovava un aspro conflitto tra Bartolo e Baldo, e
qualche argomento molto controverso, segnava in margine al suo libro: Questione
per l’amico; volendo dire che la verità era così
imbrogliata e dibattuta che in una causa simile egli avrebbe potuto favorire
quella delle parti che gli sarebbe parso meglio. Dipendeva solo dalla mancanza
d’ingegno e di dottrina che egli non potesse mettere dappertutto: Questione
per l’amico. Gli avvocati e i giudici del nostro tempo trovano in ogni
causa cavilli sufficienti per volgerla come loro sembra meglio. In una scienza
così vasta che dipende dall’autorità di tante opinioni e
con un oggetto tanto arbitrario, non può non nascere una confusione
estrema di giudizi».
[5] Thomas More, Utopia (1516),
a cura di Luigi
Firpo, Napoli, Guida, 19903, 246-247 (si tratta
dell’edizione originale edita a Lovanio nel 1516 da Martens). Cfr.
inoltre Luigi
Firpo, Sfiducia nel diritto e riforma delle leggi
nell’utopismo del Cinquecento, in La storia del diritto nel quadro
delle scienze storiche, Atti del primo congresso internazionale della
Società italiana di storia del diritto, Firenze, Olschki, 1966, 459-467;
Id.,
Utopismo, in Storia delle idee politiche economiche e sociali,
dir. da Luigi
Firpo, III, Umanesimo e Rinascimento, Torino, Utet, 1987,
821: «Qualunque norma positiva – ha osservato Firpo – viene
guardata con diffidenza e la critica della congerie caotica dei bandi
principeschi e delle allegazioni dei giureconsulti si estende fino ad investire
ogni norma formale, dal Corpus iuris giustinianeo, su, fino al decalogo
mosaico. Quello che si vuole è restaurare la giustizia nei tribunali,
istituire un corpo vulgato e piano di leggi semplificate e renderlo
indiscriminatamente operante».
[6] Tommaso Campanella, La
città del sole, a cura di Adriano Seroni, Milano,
Feltrinelli, 19913, 66. Cfr. Luigi Firpo, Lo Stato ideale
della Controriforma, Bari, Laterza, 1957, 288-290. L’opera scritta in
italiano in due redazioni (1602 e 1611), e in latino in altre due redazioni (1613
e 1631), fu pubblicata a Francoforte nel 1623 col titolo Civitas Solis idea
reipublicae philosophica come Appendix politica alla Realis
philosophia epilogistica.
[7] Kaspar Stiblin, Commentariolus
de Eudaemonensium Republica, in Coropaedia sive de moribus et vita
virginum sacrarum, Basileae, per I. Oporinus, 1550 (rist. anast.
Regensburg, S. Roderer, 1994), riprodotto anche in Luigi Firpo, Kaspar Stiblin
utopista con il testo originale del “De Eudaemonesium Republica” e
la bibliografia dell’autore, Torino, s.n., 1959, 97.
[8] Erasmo da Rotterdam, Elogio
della stoltezza, a cura di Cristina Baseggio, con un saggio di Hugh Trevor-Roper,
Milano, Tea, 1988, 85. L’edizione originale dell’opera apparve a
Parigi nel 1509 dai torchi di Gilles de Gourmont.
[9] Konrad Gesner, Pandectarum sive
partitionum universalium libri XXI. Ad lectores secundus hic bibliotecae
nostrae tomus, Tiguri, apud Christophorum Fraschonerum, 1548, epist. dedic.
Cfr. inoltre Alfredo Serrai, Conrad Gesner,
a cura di Maria
Cochetti con una bibliografia delle opere a cura di Marco Menato,
Roma, Bulzoni, 1990, 99-100; Massimo Ceresa, Giunti (Giunta), Tommaso, in Dizionario
biografico degli italiani, LVII, Roma, Istituto della Enciclopedia
Italiana, 2001, 101-104.
[10] Cfr. in generale Luigi Balsamo, Il libro per
l’università nell’età moderna, in Le
Università dell’Europa. Le scuole e i maestri. L’età
moderna, a cura di Gian Paolo Brizzi e Jacques Verger, Milano, Silvana
editoriale, 1995, 45-65.
[11] Sull’impianto didattico cfr. soprattutto
Manlio Bellomo,
Saggio sull’Università
nell’età del diritto comune, Roma, Il Cigno Galileo Galilei,
1996 (I ediz. Catania, Giannotta, 1979), 205-
[13] Cfr. Umberto Dallari, I rotuli dei lettori legisti e artisti dello
Studio di Bologna dal 1384 al 1799, II, Bologna, Regia Tipografia dei
fratelli Merlani, 1889, 90-92, 229-233 ss.; Grendler, The universities of the Italian Renaissance cit., 453-456; Luigi Simeoni,
Storia dell’Università di
Bologna, II, L’età
moderna (1500-1888), Bologna, Zanichelli, 1940, 39-42.
[14] Cfr. Mario Chiaudano, I lettori
dell’Università di Torino ai tempi di Emanuele Filiberto (1566-80),
in L’Università di Torino nei secoli XVI e XVII, Torino,
Giappichelli, 19722, 73; Annamaria Catarinella, Irene Salsotto, Andrea
Merlotti, Le istituzioni culturali, in Storia di Torino,
3, Dalla dominazione francese alla ricomposizione dello Stato (1536-1630),
a cura di Giuseppe
Ricuperati, Torino, Einaudi, 1998, 529-537.
[15] Cfr. Annalisa Belloni, Professori giuristi a Padova nel secolo XV.
Profili bio-bibliografici e cattedre, Frankfurt am Main, Klostermann, 1986,
88-104; Ead.,
L’insegnamento giuridico nelle
università italiane, in Luoghi
e metodi di insegnamento nell’Italia medioevale (secoli XII-XIV), a
cura di Luciano
Gargan e Oronzo Limone, Galatina, Congedo editore, 1989,
146-148.
[16] Cfr. Biagio Brugi, La scuola
padovana di diritto romano nel secolo XVI, Padova, Tipografia Sacchetto, 1888,
5 ss.
[17] Cfr. Melchiorre Roberti, Il
Collegio padovano dei dottori giuristi. I suoi consulti nel secolo XVI. Le sue
tendenze, «Rivista italiana per le scienze giuridiche», 35
(1903), 171-249.
[18] Tomaso Garzoni, La piazza universale di tutte le professioni
del mondo, a cura di Paolo Cherchi e Beatrice Collina, I, Torino,
Einaudi, 1996, 180. Cfr. Ottavia Niccoli, Garzoni
Tomaso, in Dizionario biografico
degli italiani, LII, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1999,
449-453.
[19] Cfr. Biagio Brugi, Come gli italiani intendevano la culta
giurisprudenza, in Per la storia
della giurisprudenza e delle Università italiane. Nuovi Saggi,
Torino, Utet, 1921, 115-117.
[20] Lodovico Ariosto, La
Scolastica, commedia non meno piacevole che ridicolosa, in Vinetia, appresso
Gabriele Giolito de’ Ferrari, 1562, 9.
[21] Die
Amerbachkorrespondenz, II, Die briefe aus den Jahren 1514-1524, ed. Alfred Hartmann, Basel, Verlag
der Universitatsbibliothek, 1943, n. 743, rr. 58-60; cfr. anche Belloni,
L’insegnamento giuridico in Italia
cit., 142, e Pascal
Pichonnaz, Bonifacius
Amerbach, in Juristas universales,
II, Juristas modernos. Siglos XVI al XVIII:
da Zasio a Savigny, Rafael Domingo ed.,
Madrid-Barcelona, Marcial Pons, 2004, 166-168, con relativa bibliografia.
[22] Carlo Marcora, Le lettere
giovanili di San Carlo (1551-1560), «Memorie storiche della diocesi
di Milano», 14 (1967), 423.
[24] Cfr. Marcel Fournier, L’Université
d’Avignon (XIIIe-XVe siècle), in Les universités françaises et l’enseignement du
droit en France au Moyen Âge, Paris, Larose et Forcel, 1892, 659
(rist. anast. Aalen, Scientia Verlag, 1970).
[25] Gian Luigi Barni, Le lettere di Andrea Alciato giureconsulto,
Firenze, Le Monnier, 1953, n. 33, r. 10; e Belloni, L’insegnamento giuridico cit., 142.
[26] Cfr. Richard L. Kagan, Universidad
y sociedad en la España moderna, Madrid, Editorial Tecnos, 1981,
119-1129; Mariano
Peset, Enrique Gonzáles Gonzáles, Las facultades de leyes y cánones,
in La Universidad de Salamanca, dir. Manuel
Fernández Álvarez, II, Atmosfera intelectual y perspectivas de investigación,
Salamanca, Universidad de Salamanca, 1990, 25-41; Agueda Rodríguez Cruz, La estructura universitaria salmanticense,
modelo de la hispanoamericana, in Historia
de las universidades hispanoamericanas, I, Bogotà, Instituto Caro y
Cuervo, 1973, 36-83, 99-139; Ramon González Navarro, Felipe II y las reformas constitucionales de la Universidad de
Alcalá de Henares, Madrid, Sociedad estatal para la
Conmemoración de los centenarios de Felipe II y Carlos V, 1999, 102-103;
Amparo Felipo,
La Universidad de Valencia durante el
siglo XVI (1499-1611), Valencia, Universitat de Valencia, 1993, 176-184; Id., La Universidad de Valencia durante el siglo
XVII (1611-1707), Valencia, Generalitat Valenciana, 1991, 219-240; Mariano Peset,
Le università spagnole e
portoghesi, in Le università
dell’Europa. Dal Rinascimento cit., 221-239.
[27] Cfr. Paz Alonso Romero, Universidades y administración de la
monarquía, in Felipe II un
monarca y su época. La monarquía hispánica, Madrid,
Sociedad estatal para la Conmemoración de los centenarios de Felipe II y
Carlos V, 1998, 235-241; Mariano Peset, La
monarchie absolue et les universités espagnoles, in
«CRE-Information», n. 72, 1985, 75-104.
[28] Cfr. Emma Montanos Ferrín, Felipe II y la Universidad de Mexico,
«Rivista internazionale di diritto comune», 7 (1997), 77-117; Mariano Peset,
José
Luis Peset, Le università ispaniche in America, in Le
università dell’Europa cit., Dal rinnovamento scientifico
all’età dei Lumi, 171-179.
[29] Pietro Giannone, Istoria
civile del Regno di Napoli, a cura di Antonio Marongiu, VI, Milano, Marzorati,
1971 (XXXV, 2), 275-280. Cfr. anche le considerazioni di Giuseppe Ricuperati,
L’esperienza civile e religiosa di Pietro Giannone, Milano-Napoli,
Ricciardi, 1970, 202-217.
[30] Cfr. Nino Cortese, Il governo
spagnuolo e lo Studio di Napoli, in Cultura e politica a Napoli dal
Cinquecento al Settecento, Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 1965,
33-119; Id.,
Lo Studio di Napoli nell’età spagnuola, Napoli, Ricciardi,
1924, 89-127; Carlo
De Frede, Studenti e uomini di legge a Napoli. Contributo alla
storia della borghesia intellettuale del Mezzogiorno, Napoli, L’arte
tipografica, 1957; Ileana
Del Bagno, Legum doctores. La formazione del ceto giuridico a
Napoli tra Cinque e Seicento, pres. di Raffaele Ajello, La
città dei dottori, Napoli, Jovene, 1993.
[31] Montesquieu, Viaggio in
Italia, a cura di Giovanni Macchia e Massimo Colesanti, Roma-Bari,
Laterza, 1990, 215.
[32] Cfr. Cortese, Il governo spagnolo
cit., 69-73; Giuseppe
Galasso, Storia del Regno di Napoli, II, Il Mezzogiorno
spagnolo (1494-1622), Torino, Utet, 2006, 970-971; Ileana del Bagno,
Il Collegio napoletano dei dottori. Privilegi, decreti, decisioni,
Napoli, Jovene, 2000, 73-84; José Maria Garcia Marín, Teoría
política y gobierno en la Monarquía Hispánica, Madrid,
Centro de Estudios Políticos y Constitucionales, 1998, 143-169, sulla
formazione delle élites dominanti con un’interessante comparazione
tra la realtà spagnola e quella napoletana; Vittor Ivo Comparato, Uffici
e società a Napoli (1600-1647). Aspetti dell’ideologia del
magistrato nell’età moderna, Firenze, Olschki, 1974, 245-288,
sulla ricaduta delle riforme del Lemos.
[34] Sull’insegnamento del diritto
nell’età moderna cfr. Helmut
Coing, Die juristische Facultät und ihr Lehrprogram, in Handbuch
der Quellen und Literatur der neuren europäischen Privatrechtsgeschichte,
I, Mittelalter (1100-1550), hrsg. von
Helmut Coing, München, C.H. Beck, 1973, II, 1, 3-69; Id., L’insegnamento
del diritto nell’Europa dell’Ancien Régime, «Studi
senesi», serie III, 19 (1970), n. 2, 181-193; Franz Wieacker, Storia del diritto privato moderno con
particolare riguardo alla Germania, pres. di Umberto Santarelli, I, Milano, Giuffrè, 1980 (II ed.
Göttingen, Vendenhoek & Ruprecht, 1967), 127-130, 305-321; Annalisa Belloni,
L’insegnamento giuridico in Italia e in Francia nei primi decenni del
Cinquecento e l’emigrazione di Andrea Alciato, in Università
in Europa: le istituzioni universitarie dal Medio Evo ai nostri giorni.
Strutture organizzazione funzionamento, a cura di Andrea Romano, Soveria Mannelli,
Rubbettino, 1995, 137-158; Italo Birocchi, Alla
ricerca dell’ordine. Fonti e cultura giuridica nell’età
moderna, Torino, Giappichelli, 2002, 54-69, 233-239; Andrea Romano,
Daniela Novarese, L’insegnamento
del diritto da Alciato a Grozio, in Le università
dell’Europa. Le scuole e i maestri cit., 149-167; Paul F. Grendler,
The universities of the Italian
Renaissance, Baltimore & London, The Johns Hopkins University Press,
2002, 430-473, con aggiornata bibliografia; Ennio Cortese, Contenuti e
metodi dell’insegnamento: il diritto nei secoli XI-XV, e Italo Birocchi,
Contenuti e metodi dell’insegnamento: il diritto nei secoli XVI-XVIII,
entrambi in Storia delle Università in Italia, a cura di Gian Paolo Brizzi,
Piero Del
Negro, Andrea Romano, II, Messina, Sicania, 2007.
[35] Ennio
Cortese, Il diritto nella storia medievale, II, Il basso
medioevo, Roma, Il Cigno Galileo Galilei, 1995, 454; cfr. anche Domenico Maffei, Gli inizi dell’umanesimo giuridico,
Milano, Giuffrè, 1956, 156-176.
[37] Lorenzo Valla, Prefazione al
terzo libro delle Eleganze, in Prosatori latini del Quattrocento, a
cura di Eugenio
Garin, Milano-Napoli, Ricciardi, 1952, 613. Cfr. Vincenzo De Caprio,
Elegantiae di Lorenzo Valla, in Letteratura italiana. Le Opere,
dir. da Alberto
Asor Rosa, I, Dalle origini al Cinquecento, Torino,
Einaudi, 1991, pp 647-679, con relativa bibliografia. Cfr. Mario Speroni,
Lorenzo Valla a Pavia: il libellus contro Bartolo, «Quellen und Forschungen
aus italianieschen Archiven und Bibliotheken», 59 (1979), 454-467;
inoltre Mariangela
Regoliosi, L’Epistola
contra Bartolum del Valle, in Filologica
umanistica. Per Gianvito Resta, a cura di Vincenzo Fera e
Giacomo
Ferraù,
II, Padova, Libreria Antenore, 1997, 1501-1571.
[38] Cfr. Mariangela Regoliosi, Nel
cantiere di Valla. Elaborazione e montaggio delle “Elegantiae”,
Roma, Bulzoni, 1993, 1-35, e il classico lavoro di Eugenio Garin, L’Umanesimo
italiano, Bari, Laterza, 1952, 62-69.
[39] Cfr. Matteo Vegio, De verborum significatione, in Opera novis et argumentis et scholiis
illustrata, Brixiae, apud Damianum Turlinum, 1564, e in Opera, I, Laudae, ex Typographia Pauli
Bertoeti, 1613. Cfr. Maffei, Gli
inizi dell’umanesimo cit., 41-44. Su Vegio cfr. Luigi Raffaele,
Matteo Vegio: elenco delle opere, scritti
inediti, Bologna, Zanichelli, 1909; W.S. Maguinnes, Maffeo Vegio continuatore dell’Eneide,
Milano, Vita e Pensiero, 1968, passim.
[40] Maffei, Gli inizi dell’umanesimo cit., 42. Cfr. Mario Speroni,
Il primo vocabolario giuridico-umanistico: il “De verborum
significatione” di Matteo Vegio, «Studi Senesi», 88
(1976), 7-43. Sulla cultura giuridica nello Studio pavese del Quattrocento cfr.
Gigliola di
Renzo Villata, Scienza giuridica e legislazione nell’età
sforzesca, e Agostino
Sottili, L’Università di Pavia nella politica
culturale sforzesca, entrambi in Gli Sforza a Milano e in Lombardia e i
loro rapporti con gli Stati italiani del tempo (1450-1530), Milano,
Cisalpino-Goliardica, 1982, rispettivamente 65-145, 519-580.
[41] Cfr. Eduard Fueter, Storia della storiografia moderna, trad.
it. di Altiero
Spinelli, Milano-Napoli, Ricciardi, 1970 (I ediz.
München-Berlin, Olenburg, 1936), 39-50, 130-144; Denys Hay,
Storici e cronisti dal Medioevo al XVIII
secolo, Roma-Bari, Laterza, 1981 (I ediz. London, Methuen & co., 1977),
93-115; Maffei,
Gli inizi dell’umanesimo cit.,
109-118; Eugenio
Garin, La storia nel
pensiero del Rinascimento, in Medioevo
e Rinascimento. Studi e ricerche, Bari, Laterza, 1954, 192-210; gli atti
del convegno (Messina, 22-25 ottobre 1987) La
storiografia umanistica, I, Messina, Sicania, 1992.
[42] Eugenio Garin, Il filosofo e il mago, in L’uomo del Rinascimento, a cura di
Eugenio Garin,
Roma-Bari, Laterza, 1988, 177; Id., Leggi, diritto e storia nelle discussioni dei
secoli XV e XVI, in La storia del diritto nel quadro delle scienze
storiche cit., 417-435.
[43] François
Rabelais, Gargantua e Pantagruele, a cura di Mario Bonfantini, I, Torino, Einaudi,
1953, 222-227. Cfr. il Catalogue
de la bibliothèque de l’abbaye de Saint-Victor au seizième
siècle rédigé par François Rabelais,
commenté par le bibliophile Jacob et suivi d’un Essai sur les
bibliothèques immaginaires par Gustave Brunet, Paris, J. Techener,
1862; Le Catalogue de la bibliothèque de Saint-Victoire de Paris de
Claude de Granduc (1514), édition de Gilbert Ouy et de Veronika
Gerz-von Buren, Paris, Éditions du CNRS, 1983, secondo cui ai
tempi di Rabelais la biblioteca possedeva 1.049 manoscritti incatenati a 52
leggii. Sugli orizzonti culturali di Rabelais cfr.
l’ancora fondamentale studio di Lucien
Febvre, Il problema dell’incredulità nel secolo XVI. La
religione di Rabelais, Torino, Einaudi, 1978 (I ed. Paris, Albin Michel,
1942).
[44] Cfr. Francesco Calasso, Bartolismo, in Enciclopedia del diritto, V, Milano, Giuffrè, 1959, 71-74,
e, dello stesso, L’eredità
di Bartolo, ora in Storicità
del diritto, Milano, Giuffrè, 1966, 317-337; la fortuna
cinquecentesca di Bartolo era dovuta anche a fatto che nel suo pensiero il
diritto romano veniva a costituire una sorta di «parte generale»
riguardo al diritto statutario, e di conseguenza serviva ad
“illuminare” quest’ultimo: C. Karsten, Die Lehre vom
Vertrage bei den italienischen Juristen, Rostock, Werther’s Verlag,
1882, 150; cfr. anche Bruno Paradisi, La
diffusione europea del pensiero di Bartolo, in Bartolo da Sassoferrato. Studi e documenti per il VI centenario, I,
Milano, Giuffrè, 1962, 395-472; Diego Quaglioni, Il pubblico dei legisti trecenteschi: i
“lettori” di Bartolo, in Scritti
di storia del diritto offerti dagli allievi a Domenico Maffei, Padova,
Antenore, 1991, 181-201. «L’opinione di Bartolo – ha
osservato Paolo Grossi a proposito dell’interpretatio –, cioè di quello che è ritenuto
il più autorevole giurista del diritto comune, non ha assolutamente
carattere normativo; ha invece carattere normativo la interpretatio Bartoli
come congiunzione fra un testo autoritativo e una costruzione dottrinale, fra
momento di validità e momento di effettività»: Paolo Grossi,
L’ordine giuridico medievale, Roma-Bari, Laterza, 1995, 227.
[46] Cfr. Francesco Calasso, Bartolo da Sassoferrato, in Dizionario biografico degli italiani,
VI, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1964, 665; Dallari,
Rotuli dei lettori legisti e artisti cit., II, XI.
[48] I Capitoli dello Studio della Nobile
città di Messina, a cura di Daniela
Novarese, pref. di Andrea Romano,
Messina, Sicania, 1993, 41-42, 46. Cfr. Andrea Romano, «Primum ac Prototypum Collegium
Societatis Iesu» e «Messanense Studium Generale».
L’insegnamento universitario a Messina nel Cinquecento, in Studi e diritto nell’area mediterranea
in età moderna, a cura di Andrea
Romano, Soveria Mannelli, Rubbettino, 1993, 144-145; Daniela Novarese,
Istituzioni politiche e studi di diritto fra Cinque e Seicento. Il
Messanense Studium generale tra politica gesuitica e istanze egemoniche
cittadine, Milano, Giuffrè, 1994, 189-207, sull’insegnamento
del diritto nello Studio messinese.
[49] Cfr. Biagio Brugi, I giureconsulti italiani del secolo XVI,
in Per la storia della giurisprudenza
cit., 105.
[50] Su Catania cfr. Giuseppe La Mantia, L’Università
degli Studi di Catania e le pretensioni di Messina e Palermo,
«Archivio Storico per la Sicilia Orientale», serie II, 12 (1934),
304 ss.; Giuseppina
Nicolosi Grassi, “Audiencia” e
“quietitudine” alle lezioni di Cosimo Nepita nello Studio di
Catania, «Rivista internazionale di diritto comune», 1 (1990), 183-191.
Sulle università sarde cfr. Raimondo Turtas, La nascita
dell’università in Sardegna. La politica culturale dei sovrani
spagnoli nella formazione degli Atenei di Sassari e di Cagliari (1543-1632),
Sassari, Università di Sassari, Dipartimento di Storia, 1988, 75-94; Id., Scuola
e Università in Sardegna tra ’500 e ’600.
L’organizzazione dell’istruzione durante i decenni formativi
dell’Università di Sassari (1562-1635), Sassari, Centro
interdisciplinare per la Storia dell’Università di Sassari, 1995,
99-108, 322-323.
[51] Annibale Roero, Lo scolare, dialoghi ne’ quali con
piacevole stilo a pieno s’insegna il modo di fare eccellente riuscita
ne’ più gravi studij e la maniera di procedere honoratamente,
Pavia, ad instantia di Gio. Battista Vismara, s.d. (ma 1604), 14. Su Roero cfr.
Giulio Vismara,
Vita di studenti e studio del diritto
nell’Università di Pavia alla fine del Cinquecento, ora in Scritti di storia giuridica, 3, Istituzioni lombarde, Milano,
Giuffrè, 1987, 147-215.
[52] Cfr. a questo proposito Antonio García y García,
Bartolo de Saxoferrato y España,
in Derecho comun en España. Los
juristas y sus obras, Murcia, Universidad de Murcia, 1991, 99-128.
[53] Cfr. Jesús Lalinde Abadía, Iniciación
histórica al derecho español, Barcelona, Editorial Ariel, 1983,
133.
[54] Elio
Antonio de Nebrija, Lexicon iuris civilis adversus
quosdam insignes Accursii errores..., Lugduni, excudebat Joannes Barbous,
alias Le Normand, 1537. Nell’Italia del Cinquecento ebbe una buona
diffusione il Vocabolarium utriusque iuris, Venetiis, apud Hieronymum
Scotum, 1547, ristampato a Venezia nel 1575 da Michele Bonelli e poi sempre
nella città lagunare in altre 8 edizioni nel 1581, 1584, 1589, 1597,
1599, 1606, 1612 e 1622. Cfr. Dennis E. Rhodes, Le edizioni italiane delle opere
di Nebrija, in «La Bibliofilia», (2004), n. 3, 277-289; Catalogo
de la exposición bibliográfica de Elio Antonio de Nebrija, Luis Maria Plaza
Escudero coord., Barcelona, Diputación provincial de
Barcelona. Biblioteca Central, 1950, ad indicem. Su Nebrija giurista
cfr. Piero
Fiorelli, Vocabolari giuridici fatti e da fare,
«Rivista italiana per le scienze giuridiche», 84 (1947), 293-327; Antonio García y García, Las
anotaciones de Elio Antonio de Nebrija a las Pandectas, «Anuario de
historia del derecho español», 35 (1965), 557-564. Nebrija era stato dal 1465 collegiale del Collegio di San
Clemente a Bologna. Il suo umanesimo giuridico era quindi di matrice italiana:
era anche a conoscenza dei progetti per un’edizione critica delle
Pandette accarezzati da Angelo Poliziano negli anni novanta del Quattrocento.
Nebrija aveva una limitata cultura giuridica ma avvertiva nel contempo la
necessità di nuovi metodi di lettura e di interpretazione delle fonti
romanistiche secondo i criteri della filologia umanistica.
[55] Codices
operum Bartoli a Saxoferrato recensiti, a cura dell’Istituto per la storia dei postglossatori e
commentatori dell’Università di Roma, II, Antonio García y García, Iter Hispanicum, Firenze, Olschki, 1973,
VIII. I versi anonimi sono tradizionalmente attribuiti al poeta Juan de Mena
(1411-1456).
[56] Vincente Beltrán de Heredia, Ruiz
de Alegria, Bulario de la
Universidad de Salamanca (1219-1549), III, Salamanca, Universidad de
Salamanca, 1966, 557-560.
[57] Cfr. Luis
Enrique Rodríguez-San Pedro Bezares, La Universidad Salmantina
del Barroco, periodo 1598-1625, II, Regimen docente y atmosfera
intelectual, Salamanca, Ediciones Universidad de Salamanca, 1986, 506-511; Francisco Javier Alejo Montes, La
Universidad de Salamanca bajo Felipe II: 1575-1598, Valladolid,
Consejería de Educación y Cultura, 1998, 116-121.
[58] Ordenaçoes Filipinas, Lisboa,
Pedro de Craesbeeck, 1603, lib. III,
tit. LXIV. Cfr. anche Mário Jùlio de Almeida Costa, História do direito portoguês,
Coimbra, Almedina, 1989, 288-293.
[59] Antonio Marongiu, Legislatori e giudici di fronte
all’autorità dei giuristi, in Studi di storia e di diritto in onore di Enrico Besta, III, Milano,
Giuffrè, 1939, 456-457.
[60] Gesamtkatalog
der Wiegendrucke, Leipzig, Karl W. Hiersemann, 1928, nn. 3525, 3605, 3616,
3617, 3631, 3941, 3509, 3549, 3550, 3566, 3569; Federico Carlo de’ Savigny,
Storia del diritto romano nel Medio Evo, tradotta da Emanuele Bollati,
II, Torino, Gianini e Fiore, 1857, 642-651; Martin Lowry, Nicolas Jenson e le origini
dell’editoria veneziana nell’Europa del Rinascimento, Roma, Il
Veltro editrice, 2002 (I ediz. Oxford, Blackwell, 1991), 222-223, 374-379.
[61] Il primo e il secondo tomo dei Commentaria
sono dedicati al Digestum Vetus, il terzo e il quarto all’Infortiatum, il quinto e il sesto al Digestum
Novum, il settimo e l’ottavo al Codex, il nono comprende i Consilia,
le Quaestiones e il Tractatus. L’edizione anastatica dei Commentaria
editi da De Tortis è stata pubblicata da Il Cigno Galileo Galilei, Roma,
1996.
[62] Paolo Camerini,
Annali dei Giunti, I, Venezia, 2,
Firenze, Sansoni antiquariato, 1963, n. 728, 39-40; Catalogue of books printed on the continent of Europe from the
beginning of printing to
[63] Cfr. Vincenzo Colli, Le opere di Baldo dal codice d’autore
all’edizione a stampa, in VI
Centenario della morte di Baldo degli Ubaldi 1400-
[64] ICCU. Giason del Maino pubblicò
con glosse e additiones la Lectura super Institutionum del
professore pavese Cristoforo
Porco (morto nel 1483): Excellentissimi
iuris utriusque doctoris domini Christophori Porci insignis lectura super
primo, secundo et tertio Institutionum cum additionibus Iasonis de Mayno...,
Tridini, per Ioannem Iolitum, 1509. Dell’opera di Porco furono stampate
19 edizioni sino al 1585. Le opere complete di Giason del Maino furono
pubblicate a Torino da Niccolò Bevilacqua nel 1573 e a Venezia nel 1590
dalla Società dell’Aquila.
[65] La bibliografia sull’argomento
è vastissima. Cfr. comunque in particolare Roberto Abbondanza, Culti
(Scuola dei), in Enciclopedia del diritto, XI, Milano,
Giuffrè, 1962, 464-470; Myron P. Gilmore, Humanists and Jurists. Six
studies in the Renaissance, Cambridge, Cambridge University Press, 1963; Guido Kisch,
Humanistic Jurisprudence, «Studies in the Renaissance», 8
(1961), 71-87; Francisco
Carpintero, “Mos italicus” “mos
gallicus” y el humanesimo racionalista. Una contribución a la
historia de la metodologia jurídica, «Ius Commune», 6
(1977), 108-171, e soprattutto Hans Erich Troje, Die
Literatur des gemeinen Rechts unter dem Einfluss des Humanismus, in Handbuch
der Quellen cit., II, 1, Neuere Zeit, 615-754, cui si rinvia.
[66] Cfr. Vincenzo Piano Mortari, Cinquecento giuridico francese. Lineamenti
generali, Napoli, Liguori, 1990, 195 ss.; Belloni, L’insegnamento
giuridico in Italia e in Francia cit., 137-
[67] Rabelais, Gargantua cit., I, 216. Cfr. anche Enzo Nardi, Rabelais e il
diritto romano, «Studi urbinati», 12 (1963), 39 ss.
[68] Marcel Fournier, Les statuts et les privilèges des
universités françaises depuis leur fondation jusqu’en 1798,
IV, Paris, L. Larose editeur, 1894 (rist. anast. Bologna, Forni, 1969),
144-145; cfr. anche Laurence
W.B. Brockliss, Le contenu
de l’enseignement et la diffusion des idées nouvelles, in Histoire des universités en France,
sous la direction de Jacques
Verger, Toulouse, Privat, 1986, 231-239.
[70] Cfr. a proposito di Budé e della
scuola culta francese gli studi di Vincenzo Piano Mortari, Diritto romano e diritto nazionale in
Francia nel secolo XVI, Milano, Giuffrè, 1962, 31 ss.; Id., Itinera juris. Studi di storia giuridica dell’età moderna, Napoli,
Jovene, 1991, 69-78, 113-140, 367-398; Michel Reulos, L’influence des juristes humanistes
sur l’évolution du droit en France (enseignement et pratique) au
XVIe siècle et au début du XVIIe siècle, in La formazione storica del diritto moderno in
Europa, I, Firenze, Olschki, 1977, 281-288; Pierre Legendre, La France et
Bartole, in Bartolo da Sassoferrato cit., I, 133-172; David O. Mc Neil,
Guillaume Budé and humanism in the Reign of Francis I,
Genève, Droz, 1975, 771-791; Manlio
Bellomo, L’Europa del diritto comune, Roma, Il Cigno
Galileo Galilei, 19915, 220-223; Birocchi, Alla ricerca dell’ordine cit., 12-14, 23-41; Douglas J. Osler,
Budaeus and Roman law, «Ius
commune», 13 (1985), 195-212; Domenico Maffei, Les débuts de l’activité
de Budé, Alciat et Zase, in Pédagogues
et juristes, Congrès du Centre d’Études
Supérieures de la Renaissance de Tours (été 1960), Paris,
Vrin, 1963, 93-106; Id.,
Gli inizi dell’umanesimo cit., 128-130, e il vecchio studio di Louis Delaruelle, Guillaume Budé (1468-1540). Les origines, les
débuts, les idées maîtresses, Paris, Champion, 1907; Petra Nagel,
Budé (Budaeus), Guillaume, in Juristen. Ein biographisches
Lexikon. Von der Antike bis zum 20. Jahrhundert, hrg. von Michael Stolleis,
München, Beck, 1995, 104-106; José Luis de los Mozos, Guillaume
Budé, in Juristas universales cit., II, 97-100, con
bibliografia aggiornata.
[71] Cfr. Vincenzo Piano Mortari, La sistematica come ideale
umanistico dell’opera di Francesco Connano, in La storia del
diritto nel quadro delle discipline storiche cit., 521-531; Wilfrid Vogt,
Franciscus Duarenus, 1509-1559: sein
didanctisches Reformprogramm und seine Bedeutung für die Entwicklung der
Zivilrechtsdogmatik, Stuttgart, Kohlhammer, 1971; Jochen Otto,
Duaren (Duarenus), François,
in Juristen cit., 179-180; Ana Mohíno,
François Le Duaren, Manuel Jesús
Rodríguez Puerto, François Connan, entrambi
in Juristas universales cit., II,
185-188, 183-185.
[72] Cfr. Arnout Philip Theodor Eyssel, Doneau, sa vie et ses ouvrages. L’École de Bourges:
synthèse du droit romain au XVIe siècle, son influence
jusqu’à nos jours, Dijon, Veuve Decailly, 1860 (rist. anast.
Genève, Slatkine, 1970); Roderich von Stintzing, Hugo Donellus in Altdorf, Erlangen,
Verlag Eduard Besold, 1869; Robert Feenstra, Donello e Grozio:
l’influenza dei loro «sistemi» sull’evoluzione del
diritto privato in Europa, «Atti dell’Accademia Peloritana dei
Pericolanti», 58 (1989), 16-30; Jean-Louis Thireau, Hugues Doneau et les fondaments de la
codification moderne, «Droits», 26 (1997), 81-100; Birocchi,
Alla ricerca dell’ordine cit.,
28-35; Piano
Mortari, Cinquecento
giuridico francese cit., 233-239, 368-374; Ernst Holthöfer, Doneau (Donellus) Hugo, in Juristen cit., 175-177; Juan Miguel
Albuquerque, Hugues Doneau,
in Juristas universales cit., II, 232-238,
con bibliografia aggiornata.
[73] Cfr. a questo proposito Esteban Varela, Jacques Cujas, in Juristas universales cit., II, 223-224; oltre il vecchio studio di Ernst Peter Johann
Spangenberg, Jacob Cujas
und seine Zeitgenossen, Leipzig, Hartknoch, 1822; Pierre Mesnard, La place de Cujas dans la querelle de
l’humanisme juridique, «Revue historique de droit
français et étranger», serie IV, 28 (1950), 521-537; Piano Mortari,
Cinquecento giuridico francese cit.,
358-365; Hans
Erich Troje, Graeca
leguntur. Die Aneignung des byzantinischen Rechts und die Entstehung eines
humanistichen Corpus iuris civilis in der Iurisprudenz des 16 Jahrhunderts,
Köln-Wien, Böhlau, 1971, 109 ss.; Jochen Otto, Cujas (Cujacius), Jacques, in Juristen cit., 146-147. Le sue Opera omnia
vennero pubblicate a Parigi nel
[74] Paul Koschaker, L’Europa e il diritto romano, intr. di Fancesco Calasso,
Firenze, Sansoni, 1962, 193.
[75] François Hotman, Franco-Gallia, ed. an. della trad. francese
del
[76] Rafael Domingo, Vicente Domínguez, François Hotman, in Juristas universales cit., II, 227-228; Rodolphe Dareste de
la Chavanne, Hotman
d’après de nouvelles lettres des années 1561-63,
«Revue historique», 97 (1908); André Lemaire, Les Lois fondamentales de la Monarchie
Française d’après les théoriciens de l’Ancien
Régime, Paris, Albert Fontemoing éditeur, 1907, 92-111,
sull’influenza culturale della Franco-Gallia;
Denis Richet,
Lo spirito delle istituzioni. Esperienze
costituzionali nella Francia moderna, a cura
di Francesco Di
Donato, Roma-Bari, Laterza, 2002 (I ediz. Parigi, Flammarion,
1973), 127-129.
[77] Cfr. Birocchi, Alla ricerca dell’ordine cit., 37-41; Donald R. Kelley,
François Hotman. A revolutionary
ordeal, Princeton, Princeton University Press, 1973, 192 ss.; Piano Mortari,
Cinquecento giuridico francese cit.,
289-296; Jean-Louis
Ferrary, À propos
d’un texte de François Hotman. Les juristes
humanistes et l’édition du Corpus iuris civilis glosé, in A Ennio Cortese cit., II, 86-104; Jochen Otto, Hotman (Hotomannus), François, in
Juristen cit., 293-294.
[78] Rabelais, Gargantua cit.,
I, 241-242. Rabelais richiamava fra gli altri i giuristi Paolo di Castro,
Giovanni Nicoletti da Imola, Ippolito Marsili, Niccolò Tedeschi detto il
Panormita, Giovanni Bertacchino, Alessandro Tartagni e Franceschino Corti.
[79] François Duaren, De
docendi discendique iuris ratione ad Andream Guillartum epistola..., Lugduni,
Sebastien Gryphius, 1547, passim; cfr. anche Piano Mortari, Cinquecento
giuridico francese cit., 254-256, e soprattutto Jean-Louis Thireau, L’enseignement
du droit et ses méthodes au XVIe siècle. Continuité ou rupture?, «Annales d’histoire
des Facultés de droit et de la science juridique», 1985, n. 2,
29-33.
[80] Jacques Cujas, De ratione docendi
juris. Oratio habita in scholis Biturgum, Lutetiae, apud Fed. Morellum,
1594 (I ediz., Argentorati, excudebat Antonius Beltramus, 1585).
[81] Margherita Isnardi Parente, Introduzione
a Jean Bodin,
I sei libri dello Stato, I, a cura di Margherita Isnardi Parente, Torino,
Utet, 1964, 13-14.
[82] Sul droit coutumier e sul droit
civil français la bibliografia è assai vasta. Cfr. fra gli
studi consultati Vittorio
De Caprariis, Propaganda e pensiero politico in Francia
durante le guerre di religione, I, (1559-1572),
Napoli, ESI, 1959, 153-301; Piero Craveri, Ricerche sulla formazione del
diritto consuetudinario in Francia (sec. XIII-XVI), Milano, Giuffrè, 1969,
183-208; Vincenzo
Piano Mortari, Potere regio e consuetudine redatta nella
Francia del Cinquecento, «Quaderni fiorentini per la storia del
pensiero giuridico moderno», 1 (1972), 131-175; Jean-Louis Thireau, L’alliance
des lois romaines avec le droit français, in Droit romain, jus
civile et droit français, sous la direction de Jacques Krynen,
Toulouse, Presses de l’Université des Sciences Sociales de
Toulouse, 1999, 347-374; Id., Le comparatisme et la naissance du droit
français, «Revue d’histoire des Facultés de droit
et de la science juridique», 10-11 (1990), 173-174; Jacques Krynen,
Le droit romain, «droit commun de la France»,
«Droits», 38 (2003), 21-35, e nello stesso numero Jean-Louis Thireau,
Droit national et histoire national: les recherches érudites des
fondateurs du droit français, 37-51; Jacqueline Moreau-David, La
coutume et l’usage en France de la rédaction officielle des
coutumes au code civil: les avatars de la norme coutumière,
«Revue d’histoire des Facultés de droit et de la science
juridique», 18 (1997), 133 ss.; per un quadro d’insieme cfr. Birocchi,
Alla ricerca dell’ordine cit., 105-114; Jean-Marie Carbasse, Introduction
historique au droit, Paris, Presses Universitaires de France, 2002,
187-250.
[83] Cfr. Italo Birocchi, Insegnamento
e pratica del diritto nel Seicento giuridico francese, in “Panta
rei” cit., I, 275-
[84] Cit. in Alfred De Curzon, L’enseignement du droit
français dans les Universités de France au XVIIe et XVIIIe
siècles, «Nouvelle revue historique du droit français
et étranger», 42 (1919), 309; Christian Chène, L’enseignement
du droit français en pays de droit écrit (1679-1793),
Genève, Droz, 1982, 1-17. De Launay ha lasciato un ampio commento alle Institutions
coutumières di Antoine Loisel nell’edizione parigina del 1688.
Cfr. anche Jacques
Verger, Les universités françaises et le pouvoir
politique du Moyen Age à la Révolution, in I poteri
politici e il mondo universitario (XIII-XX secolo), a cura di Andrea Romano e
Jacques Verger,
Soveria Mannelli, Rubbettino, 1994, 30-33.
[85] Cfr. Pedro Simón Abril, Apuntamientos
de como se deben reformar las doctrinas y la manera de enseñarlas, para
reducirlas a su antigua entereza y perfeción, en Madrid, en casa de
Pedro Madrigal, 1589. Cfr. anche Romano, Novarese, L’insegnamento
del diritto cit., 165.
[86] Cfr. Italo Birocchi, La formazione
dei diritti patrî nell’Europa moderna tra politica dei sovrani e
pensiero giuspolitico, prassi ed insegnamento, in Il diritto patrio tra
diritto comune e codificazione (secoli XVI-XIX), a cura di Italo Birocchi e
Antonello
Mattone, Roma, Viella, 2006, 65-68.
[87] Cfr. Roberto Abbondanza, Alciato Andrea, in Dizionario biografico degli italiani, II, Roma, Istituto
dell’Enciclopedia Italiana, 1960, 69-77; Maffei, Gli inizi dell’umanesimo cit., 128, secondo cui «gli assunti
fondamentali della filologia umanistica vanno a costituire saldamente la
struttura di un nuovo indirizzo metodologico nel campo stesso del
diritto»; Cortese,
Il diritto nella storia cit., II,
471-475, il quale ritiene che rappresentare Alciato «in veste di maître
à penser denigratore di commenti e di consilia sarebbe una
forzatura»; Douglas
Osler, Andreas Alciatus (1492-1550) as philologist, in A
Ennio Cortese, scritti promossi da Domenico Maffei, e raccolti a
cura di Italo
Birocchi, Mario Caravale, Emanuele Conte, Ugo Petronio, III,
Roma, Il Cigno Edizioni, 2001, 1-7; Hans Erich Troje, Alciats
Methode der Kommentierung des “Corpus iuris civilis”, in Der
Kommentar in der Renaissance, hrsg. von August Buck und Otto Herding,
Boppard, H. Boldt, 1975, 47-61; Pietro Vaccari, Andrea Alciato, in Scritti in memoria di Aldo Giuffrè, I, Milano,
Giuffrè, 1967, 829-857 e i più vecchi studi di Hans de Giacomi,
Andreas Alciatus, Basel, Oppermann, 1934; Paul Emile Viard, André Alciat, 1492-1550, Paris, Societé anonyme
du Recueil Sirey, 1926; Ernst von Moeller, Andreas
Alciat (1492-1550). Ein Beitrag zur Entstehungsgeschichte des modernen
Jurisprudenz, Breslau, Marcus, 1907; ed anche R. Rodríguez Ocaña,
Andrea Alciato, in Juristas universales cit., II, 147-150 con bibliografia
aggiornata. Cfr. inoltre Marco Cavina, Gli eroici furori. Polemiche
cinque-seicentesche sui processi di formalizzazione del duello cavalleresco,
in Duelli, faide e rappacificazioni. Elaborazioni concettuali, esperienze
storiche, a cura di Marco Cavina, Padova, Cedam, 2001, 121; Id., Il
duello giudiziario per il punto d’onore. Genesi, apogeo e crisi
nell’elaborazione dottrinale italiana (sec. XIV-XVI), Torino,
Giappichelli, 2003, 106-110, secondo cui si trattava di un’opera
«intimamente ambigua» che evitava «proclami troppo
intransigenti». Le sue posizioni critiche che emergevano negli ultimi
capitoli, «dove le dimostrazioni prettamente giuridiche si riducevano in
termini angusti e facevano luogo ad ammonizioni ed incitamenti di natura
umanistica». Cfr. anche Id., Il sangue dell’onore. Storia del duello,
Roma-Bari, Laterza, 2005, 55-57.
[89] Cfr. Henry Green, Andrea Alciati and his books of emblems. A
biographical and bibliographical study, London, Trubner & co., 1872. Cfr. anche l’opera manoscritta di epigrafia: Andrea Alciati,
Mediolanensis I.C. antiquae inscriptiones veteraq. monumenta patriae
(rist. anast. Milano, Cisalpino-Goliardica, 1973).
[90] Cit. e tradotto in Biagio Brugi,
Un biasimo e un’apologia dei pareri legali dei nostri antichi
professori, in Per la storia della giurisprudenza e delle
università italiane. Nuovi saggi, Torino, Utet, 1921, 99-
[91] Il riferimento è a Claudius Cantiuncula,
Topica legalia, Basileae, Cratander, 1520, sul «triumviratus ille
pulcherrimus, apud Gallos Budaeus, Zasius apud Germanos, ac apud Italos Andreas
Alciatus». Cfr. Hans Peter Ferslev,
Claudius Cantiuncula: die didaktischen Schriften, Köln, Rechtswiss.
Fak., 1967. Sull’insegnamento del diritto nelle università
tedesche del Cinquecento cfr. Helmut Coing, Bartolus
und der usus modernus Pandectarum in Deutschland, in Bartolo da Sassoferrato cit., I, 25-45; Id., Europäisches Privatrecht 1500 bis 1800, I, Älteres Gemeines Recht,
München, Verlag C.H. Beck, 1985, 7-48; Id., Die juristische Fakultät cit., 59-61; Wieacker,
Storia del diritto privato cit., I,
226-246; Guido
Kisch, Humanism und
Jurisprudenz. Der Kampf zwischen «mos italicus» und «mos
gallicus» an der Universität Basel, Basel, Helbing &
Lichtenhahn, 1955; Id.,
Die Anfänge der Juristischen Fakultät der Universität Basel,
1459-1529, Basel, Helbing & Lichtenhahn, 1962; Id., Claudius
Cantiuncula, ein Basler Jurist und
Humanist des 16. Jahrunderts, Basel,
Helbing & Lichtenhahn, 1970; Aldo Mazzacane, Scienza, logica e ideologia nella
giurisprudenza tedesca del secolo XVI, Milano, Giuffrè, 1971, 31-61;
Id.,
Teorie delle scienze e potere politico
nelle sistematiche tedesche del secolo XVI, in La formazione storica del diritto moderno cit., I, 288-316; Laetitia Boehm,
Le università tedesche nell’età della riforma umanistica, della Riforma protestante e del confessionalismo,
in Le università dell’Europa. Dal Rinascimento alle riforme
religiose cit., 173-195; Bellomo,
L’Europa del diritto comune cit., 232-237, e soprattutto Karl Heinz
Burmeister, Das Studium der Rechte im Zeitalter des Humanismus
im deutschen Rechtsbereich, Wiesbaden, Guido Pressler, 1974, cui si rinvia.
[92] Uldaricus Zasius, Intellectus
iuris civilis singulares... tertio iam excusi et ipsius etiam additionibus
locupletati, Friburgi Brisgoviae, excudebat Johannes Faber Emmeus, 1539,
41. Cfr. Hans Thieme,
Les leçons de Zasius, in Pédagogues et juristes
cit., 31-38.
[93] Cfr. oltre il classico studio di Roderich von
Stintzing, Ulrich Zasius. Ein Beitrag zur Geschichte der
Rechtswissenschaften in Zeitalter der Reformation, Basel, Schweighauser, 1857 (rist.
an. Darmstadt, Wissenschäftliche Buchgeselleschaft, 1961), Steven Rowan,
Ulrich Zasius. A jurist in the German
Renaissance 1461-1535, Frankfurt am Main, Klostermann, 1987, 232-245, con
l’elenco dettagliato delle edizioni; Karl Heinz Burmeister, Ulrich
Zasius (1461-1535), in Humanismus im deutschen Südwestern:
Biographische Profile, Paul Gerhard Schmidt hrsg., Sigmaringen, J. Thorbecke,
1993, 105 ss.; Steffen
Bressler, Ulrico Zasio, in Juristas universales
cit., II, 89-92; Berhard
Pahlmann, Jan Schröder, Ulrich Zasius, in Deutsche
und Europäische Juristen aus neun Jahrhunderten. Eine biographische
Einführung in die Geschichte der Rechtswissenschaft, hrsg. von Gerd Kleinheyer
und Jan
Schröder, Heidelberg, C.F. Müller, 1996, 455-459.
[94] Cfr. Biagio
Brugi, Come insegnavano gli antichi professori italiani, in Per
la storia della giurisprudenza e delle università italiane. Saggi,
Torino, Utet, 1915, 50-61; Grendler, The
universities of the Italian Renaissance cit., 441-447, e per un quadro
più ampio Birocchi,
Alla ricerca dell’ordine cit.,
82-85; Romano,
Novarese,
L’insegnamento del diritto
cit., 149-155; Belloni,
L’insegnamento giuridico in
Italia e in Francia cit., 137-158; Coing, L’insegnamento del diritto cit., 181-186; Jean-Louis Thireau,
L’enseignement du droit et ses
méthodes au XVIe siècle.
Continuité ou rupture?, «Annales d’histoire
des Facultés de droit et de la science juridique», 10-11 (1990),
153-191.
[95] Jacques Cujas, Paratitla in
Libros quinquaginta Digestorum seu Pandectarum imperatoris Iustiniani,
Coloniae, Johann Gymnich, 1577, epist. dedic.; cfr. inoltre Chiaudano,
I lettori dell’Università di Torino ai tempi di Emanuele
Filiberto (1566-1580) cit., 81, 87; Biagio Brugi, Disegno di una storia
letteraria del diritto romano dall’età di mezzo ai tempi nostri
con speciale riguardo all’Italia, in Per la storia della
giurisprudenza e delle università italiane. Saggi cit., 18.
[96] Giorgio
Zordan, Giurisprudenza, in L’Università di
Padova. Otto secoli di storia, a cura di Piero
Del Negro, Padova, Signum, 2001, 147; Biagio Brugi, L’Università
dei giuristi di Padova nel Cinquecento, saggio di storia della giurisprudenza e
delle Università italiane, «Archivio Veneto Tridentino»,
1 (1922), 89.
[97] Cit. in Brugi,
Come insegnavano cit., 51, 59-60. «False furono le accuse,
specialmente nel secolo XVI, contro il mos italicus, che ora, possiamo
dirlo – scrive Brugi –, era un’esagerazione del buon metodo
antico. Leggendo un libro sullo stesso disegno delle lezioni, era possibile
riflettere un poco per orientarsi, aiutati dal richiamo alla sedes materiae
e da minuti indici: ma la lezione orale non dava tregua all’intelletto.
La prolissità del maestro, il soffermarsi su tutto ciò che era
stato detto, impediva di svolger molta materia. Si consumava dallo scolare
carta e inchiostro senza costrutto alcuno, perché il pensiero annegava
nel mare dialettico, né lo sorreggeva, naufragando, l’esempio dei
casi: eran casi impossibili» ( 59).
[98] Sandro Serangeli, Atti dello Studium
Generale Maceratense dal 1551 al 1579, Torino, Giappichelli, 1999, 224-225.
[99] Sulla vicenda cfr. Emanuele Conte,
Umanisti e “bartolisti” tra i
colleghi romani di Marc-Antoine Muret, «Rivista internazionale di
diritto comune», 4 (1993), 171-190, con relativa bibliografia; I maestri della Sapienza di Roma dal 1514 al
1787: i rotuli e altre fonti, a cura di Emanuele Conte, I, Roma,
Istituto storico italiano per il Medio Evo, 1991, 68.
[100] Marc-Antoine Muret, Commentarius in quattuor titulos e libro primo
Digestorum iuris civilis, Ferrariae, apud Victorium Baldinum, 1581, opera
di grande interesse per la ricostruzione delle XII Tavole e per i commenti ai
frammenti di Gaio e Pomponio, dedicati alla storia dell’antico diritto
romano, conservati nel primo libro del Digesto: cfr. Oliviero Diliberto, Bibliografia
ragionata delle edizioni a stampa della legge delle XII Tavole, Roma, Robin
edizioni, 2001, 99-100. Dall’orazione inaugurale del corso romano (Orationes (or. XXIII), Venetis, apud
Hieronymum Polum, 1583, 113) si comprende quanto Muret fosse entusiasta del
metodo proposto da Alciato e da Budé. Prometteva inoltre agli studenti
di mantenersi fedele allo spirito dei testi di Labeone, Paolo, Gaio, Marcello,
Ulpiano e agli altri iuris antistites.
[101] Cfr. Biagio Brugi, Marco Antonio Mureto e la cattedra di
Pandette nello Studio di Padova, «Atti e memorie della regia
Accademia di scienze, lettere e arti di Padova», 32 (1916), estratto. Gli
studenti tedeschi scrissero affermando di desiderare le lezioni «sive ius
civile interpretationem, sive quae cum hoc coniuncta sunt de optimo civitatis
statu».
[102] Cfr. la biografia di Charles Dejob,
Marc-Antoine Muret. Un professeur
français en Italie dans la seconde moitié du XVIe siècle, Paris, E. Thorin, 1881,
176-187; sull’antibartolismo di Muret cfr. anche Paolo Grossi,
La categoria del dominio utile e gli
homines novi del quadrivio cinquecentesco, «Quaderni fiorentini per
la storia del pensiero giuridico moderno», 9 (1990), 212, ora in Il
dominio e le cose. Percezioni medievali e moderne dei diritti reali,
Milano, Giuffrè, 1992, 249-250.
[103] Il titolare dell’insegnamento
sarà «D. Carolus Selvagus Thurius, professus per annos
quatuor»: I maestri della Sapienza cit., I, 339. Secondo Filippo Maria Renazzi,
Storia dell’Università degli Studi di Roma, II, Roma,
Pagliarini, 1804 (rist. anast. Bologna, Forni, 1971), 177-178, nessuno
«aveva osato dipartirsi dall’inveterato sistema, dal metodo e dalle
dottrine introdotte dagli interpreti della scuola bartoliana». Cfr.
inoltre Emanuele
Conte, Accademie studentesche a Roma nel Cinquecento. De modis
docendi et discendi in iure, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1985, 14-17.
[104] Cfr. Decretum
Gratiani emendatum et notationibus illustratum una cum glossis, Gregorii XIII
pontifici maximi iussu editum, Romae, in aedibus Populi Romani, 1582. Sui
lavori della commissione e sui criteri adottati cfr. il severo giudizio di Troje, Graeca leguntur cit., 72-86, 153, 178-181, e Id., Die Literatur des gemeinen Rechts unter dem
Einfluss des Humanismus cit., 664-667, per un orientamento bibliografico ed
anche Aldo
Adversi, Saggio di un
catalogo delle edizioni del Decretum Gratiani posteriori al secolo XV,
«Studia Gratiana», 6 (1959), 286-
[105] Cfr. Antonio Agustín, De emendatione Gratiani dialogorum libri duo,
Tarracone, apud Philippum Mey, 1587; Francis
de Zulueta, Don Antonio Agustín, Glasgow, Jackson, 1939; Pier Silverio Leicht, Rapporti
dell’umanista e giurista spagnolo Antonio Agostino con l’Italia,
«Atti della R. Accademia d’Italia», classe scienze morali e
storiche, serie VII, 2 (1941), 375-384, ora in Scritti vari di storia del
diritto italiano, II, 1, Milano, Giuffrè, 1948, 264-273; ed inoltre Stephan Kuttner,
Antonio Agustín and the Correctores,
«Traditio», 24 (1968), 505 ss.; Id., De Gratiani opere noviter edendo, «Apollinaris», 20
(1948), 118-119; Id.,
Antonio Agustín’s edition of
the compilationes antiquae, «Bulletin of medieval canon law»,
n.s., 7 (1977), 1-14; Arturo Bernal Palacios, Antonio Agustín y su «Recollecta in iure canonico»,
«Revista española de derecho canónico», 45 (1988),
487-534; Tomás
Gómez Pinán, Antonio
Agustín (1517-1586), su significación en la ciencia canonica,
«Anuario de historia del derecho español», 5 (1928), 346-388;
Francisco
Cuena, Antonio
Agustín,
in Juristas universales cit., II, 212-216, per una
bibliografia aggiornata e l’elenco completo delle altre opere
canonistiche. Cfr. Cesare
Costa, Variarum
ambiguitatum iuris libri tres, Neapoli, apud Horatium Salvianum, 1573; su
Costa cfr. Emanuele
Conte, Università e
formazione giuridica a Roma nel Cinquecento, «La Cultura», 2
(1985), 328-346; Id.,
Umanisti e “bartolisti”
cit., 179-180; oltre il profilo biografico di Enrico
Stumpo, Costa Cesare, in Dizionario biografico degli italiani,
XXX, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1984, 167-169.
[106] Cfr. in generale Danilo Marrara,
Lo Studio di Siena nelle riforme del
granduca Ferdinando I (1589 e 1591), Milano, Giuffrè, 1970, e in
particolare Mario
Ascheri, La scuola giuridica
senese in età moderna, in L’Università di Siena, 750
anni storia, Siena, Monte dei Paschi di Siena, 1991, 136.
[107] Cfr. Giovanni Cascio Pratilli, L’Università e il Principe. Gli
Studi di Siena e di Pisa tra Rinascimento e Controriforma, Firenze, Olschki,
1975, 168; Enrico
Spagnesi, Il diritto,
in Storia dell’Università di
Pisa cit., I, 1, 244-245.
[108] Durante la docenza padovana Zuichemius
aveva composto gli Instituta Theophilou anticessores. Institutiones iuris
civilis in Graecam linguam per Theophilum antecessorem olim traductae, ac
fusissime planissimeque explicatae, Parisiis, Chrestien Wechel, 1534,
cioè l’edizione critica della Paraphrasis greca delle Institutiones
di Giustiniano del bizantino Teofilo (morto nel 534), 5 edizioni sino al 1580.
Del giurista olandese vanno ricordati anche i Commentaria in decem titulos
Institutionum Iuris Civilis..., Lugduni, Nicolaus Petit, 1534, con 9
edizioni successive sino al 1591.
[109] Cfr. Atti della Nazione germanica dei
legisti nello Studio di Padova, a cura di Biagio Brugi, I, Venezia,
Deputazione veneta di storia patria, 1912, 344; Biagio Brugi, Origine e decadenza della cattedra di
Pandette nelle nostre Università, in Per la storia della giurisprudenza e delle università italiane.
Nuovi saggi, Torino, Utet, 1921, 140 ss.; Zordan,
Giurisprudenza cit., 148.
[110] Cfr. Dallari,
Rotuli dei lettori legisti e artisti dello Studio bolognese dal 1384 al 1799
cit., II, XI; Simeoni,
L’età moderna (1500-1800)
cit., 105; Emilio
Costa, La cattedra di Pandette nello Studio di Bologna nei
sec. XVII e XVIII, «Studi e memorie per la storia
dell’Università di Bologna», 1 (1909), 181 ss.
[111] Cfr. Maria Carla Zorzoli, La
facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Pavia
(1535-1796), in Studi di storia del diritto, I, Milano,
Giuffrè, 1996, 377-378.
[112] Cfr. a questo proposito Antonio Marongiu,
Tiberio Deciani (1509-1582) lettore di
diritto, consulente e criminalista, «Rivista di storia del diritto
italiano», 7 (1934), 173-202; Enrico Spagnesi, Tiberio Deciani e il diritto
giurisprudenziale. Per l’interpretazione dell’Apologia, in Tiberio Deciani (1509-1582). Alle origini
del pensiero giuridico moderno, a cura di Marco
Cavina, Udine, Forum, 2004, 315-331; Id., Deciani Tiberio, in Dizionario
biografico degli italiani, XXXIII, Roma, Istituto dell’Enciclopedia
Italiana, 1987, 538-542; Michele Pifferi, Generalia delictorum. Il Tractatus criminalis di Tiberio
Deciani e la “parte generale” di diritto penale, Milano,
Giuffrè, 2006, 37-49; Birocchi, Alla
ricerca dell’ordine cit., 261-267; Biagio
Brugi, I dialoghi di Alberico Gentili intorno agli interpreti delle
leggi, in Per la storia della giurisprudenza e delle università
italiane. Saggi cit., 78-88; Guido Astuti, Mos italicus e mos gallicus nei dialoghi “de
iuris interpretationibus” di Alberico Gentili, in «Rivista di
storia del diritto italiano», 10 (1937), n. 1, 149-207, n. 2, 229-347; Alberico Gentili, scritti e discorsi di Pietro De Francisci,
Giorgio Del Vecchio, Amedeo Giannini, Arrigo Solmi, Roma, Anonima
Romana editoriale, 1936; Cesina Herminia Johanna var der Molen, Alberico
Gentili and the development of international law, Amsterdam, H.J., Paris,
1937; Diego
Panizza, Alberico Gentili giurista ideologo
nell’Inghilterra elisabettiana, Padova, La Garangola, 1982; Alberico
Gentili giurista e intellettuale globale, Atti del convegno (25 settembre
1983), Milano, Giuffrè, 1988; Angela De Benedictis, Gentili Alberico, in Dizionario biografico degli italiani,
LIX, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1999, 245-251; Carlo Venturini, Alberico Gentili, in Juristas
universales cit., II, 290-292, per ogni ulteriore bibliografia.
[113] Tiberio Deciani, Apologia pro
iuris prudentibus, qui responsa sua edunt. Imprimenda adversus dicta per
Alciatum Parergon, lib. XII, cap. ult., Francofurti, apud Ioan. Wechelum,
1589 (I ediz. Venetiis, apud Hieronymum et Ioannem Zenarios, 1579). L’Apologia venne inserita successivamente
nei Responsorum d. Tiberii Deciani Utinensis, clarissimi ac celeberrimi
iuris utriusque consultissimi comitis..., Utini, Giovanni Battista
Natolini, 1594 (ediz. successive Francoforte 1596, Venezia 1602). Secondo Brugi, Un
biasimo e un’apologia cit., 105, «in alcuni punti del libro il
Deciani è originale; ma in parecchi altri» emerge un atteggiamento
eccessivamente favorevole ai Consilia: «Così in certo qual
modo quest’Apologia prende il
carattere di una collettiva risposta dei consulenti italiani al loro
Aristarco».
[114] Cfr. Brian P. Levack,
Law, in The history of University of Oxford, IV, Seventeenth-century
Oxford, edited by Nicolas Tyacke, Oxford, Clarendon Press, 1997,
562-563, sull’insegnamento di Gentili ad Oxford.
[115] Cfr. Brian P. Levack, The civil law, theories of
absolutism and political conflict in the late sixteenth and early seventeenth-century
England, in The historical renaissance: new essays on Tudor and Stuart
literatur and culture, Chicago, University of Chicago Press, 1988, 29-48; Id., The
civil lawyers in England 1603-
[116] Alberico Gentili, De iuris
interpretibus dialogi sex, a cura di Guido Astuti, pref. di Salvatore Riccobono,
Torino, Istituto giuridico della Regia Università, 1937, 47-65, 82-83.
[117] «La nostra scuola – ha
osservato Biagio Brugi – era di teoria e di pratica ad un tempo; gli
scolari non volevano digressioni storiche [...]; il professore francese sul
tipo di Bourges somigliava a un romanista di oggi; l’italiano era un
civilista»: Brugi,
I Dialoghi di Alberico Gentili cit., 86.
[118] Gentili, De iuris interpretibus
cit., 169: «Lex semper loquitur, Quincte – si rivolge Gentili al
suo interlocutore Quinto nel quarto dei Dialogi, sul tema
«Dialectica studia non prodesse consulto iuris et interpreti»
–, et ipsa est norma sapientissima, quae tempora, quae mores observat
diligentissime. Quid ergo, si et illud tento, non ex aetate Iustiniani Caesaris
accipiendas suas leges, sed apte ex hac nostra? Certe ita mihi suasum est, et
placent maxime mei interpretes, qui ad sua tempora accomodarunt leges
Iustiniani: nam dubium non est, quod si ille hodie viveret, nec faceret omnino
aliter».
[119] Alberico Gentili, Disputationes
tres: I, De libris Iuri Canonici; II, De libris Iuris Civilis; III, De
Latinitate veteris Bibliorum versionis mala accusata, Hanoviae, apud Guil.
Antonium, 1605, 54; cfr. anche Panizza, Alberico Gentili cit., 134-137.
[121] Cfr. a questo proposito Salvatore Riccobono,
Mos italicus e mos gallicus nella interpretazione del Corpus Iuris Civilis,
in Acta Congressus Juridici Internationalis Romae 12-17 novembris 1934,
2, Romae, apud custodiam Institutum utriusque juris, 1935, 377-394, secondo cui
gli umanisti, nell’intento di far emergere il contenuto originario delle
parti classiche del Corpus iuris, non avevano tenuto conto delle
variazioni più tarde che avevano «modernizzato» il diritto
classico, ma anzi lo avevano condannato, finendo per insegnare «un
diritto romano arcaico che non si adattava al presente». Giudizio
ampiamente superato dalla storiografia più recente.
[122] Cfr. i vecchi studi di Luigi Chiappelli,
La polemica contro i legisti nei secoli XIV, XV e XVI, «Archivio
giuridico», 26 (1881), 296-322; Antonio Pertile, Storia del
diritto italiano, II, 2, Storia del diritto pubblico e delle fonti,
a cura di Pasquale
Del Giudice, Torino, Unione Tipografico-Editrice, 1898, 425-435; Francesco Schupfer,
Manuale di storia del diritto italiano. Le fonti. Leggi e scienza,
Città di Castello-Roma-Torino-Firenze, Lapi-Loescher, 1908, 699-708; e
soprattutto Arrigo
Solmi, Storia del diritto italiano, Milano, Società
editrice libraria, 1908, 660-663. «Ma nella ferragine delle opinioni,
nella abbondanza dei trattati, la scienza del diritto romano ha bisogno –
ha scritto Solmi – di trovare un orientamento, fissando le regole del
processo razionale; e questo orientamento non poteva essere dato che da un
metodo analitico, il quale solo avrebbe consentito di volgere il dettato della
legge romana verso la coscienza giuridica dei tempi nuovi. Questo spiega le
regole e il favore dell’insegnamento more italico, ormai obbligato
a una serie di forme logiche tradizionalmente fissate, che, pur consentendo una
certa larghezza di interpretazione, giovavano tuttavia a restringere
l’arbitrio» ( 663). In relativa controtendenza, Brugi, I
giureconsulti italiani del secolo XVI cit.,
[123] Thireau, L’enseignement du
droit cit., 29-
[124] Cfr. Biagio Brugi, Come gli
Italiani intendevano la culta giurisprudenza, in Per la storia della
giurisprudenza e delle università italiane. Nuovi saggi, Torino,
Utet, 1921, 115-118; Roberto
Abbondanza, La vie et les oeuvres d’André Alciat,
in Pédagogues et juristes cit., 97-101; Belloni, L’insegnamento
giuridico in Italia cit., 143-144.
[125] Andrea Alciato, De verborum
significatione, libri quatuor. Eiusdem in tractatum eius argumenti veterum
iureconsultorum commentaria, Lugduni, apud Sebastianum Gryphium, 1530,
epist. dedic.: «Sed cum quaelibet ars sua habet vocabula, nobis
necessario nostris utendum». Cfr. Brugi, Come gli italiani
cit., 115-118; Roberto
Abbondanza, Premières considérations sur la
métholologie d’Alciat, in Pédagogues et juristes
cit., 107-118; Gian
Luigi Barni, Notizie del giurista e umanista Andrea Alciato su
manoscritti non glossati delle Pandette, «Bibliotheque
d’Humanisme et Renaissance», 20 (1958), 25-35, sulle ricerche
filologico-giuridiche del giurista lombardo.
[127] Cfr. Mario Ascheri, Un maestro del
“mos italicus”: Gianfrancesco Sannazari della Ripa (1480-1535),
Milano, Giuffrè, 1970, 33-37, 87-92; Gian Paolo Massetto, La cultura
giuridica civilista, in Storia di Pavia, III, 2, Dal libero
Comune alla fine del Principato indipendente 1024-1535, Pavia, Banca
Regionale Europea - Banco del Monte di Lombardia, 1990, 522-525. Durante la
frequenza avignonese Bonifacius Amerbach, in una lettera a Zasio del 13 luglio
1520, aveva giudicato Ripa più versato nella scienza giuridica dello
stesso Alciato («in juribus superior»): Die
Amerbachkorrespondenz cit., II, n. 743, rr. 46-49.
[128] Cfr. Emilio Costa, Andrea Alciato allo
Studio di Bologna, «Atti della Deputazione di Storia patria per le
Romagne», serie III, 21 (1903), 32.
[130] Cfr. Hans Thieme, Die beiden Amerbach: ein Basler
Juristennachlass der Rezeptionseit, in L’Europa e il diritto
romano. Studi in memoria di Paolo Koschaker, I, Milano, Giuffrè,
1954, 137 ss.; Guido
Kisch, Bonifacius Amerbach, in Studien zur
humanistichen Jurisprudenz, Berlin, de Gryter, 1972, 127 ss.; Hans Erich Troje,
Bonifacius Amerbach als juristichen Gewissen der Blasler Rats, dargestellt
anhand von dresseiner Gutachen, «Zeitschrift für Neuere
Rechtsgeschichte», 19 (1997), 1 ss.
[131] Koschaker, L’Europa e
il diritto romano cit., 203. Il riferimento è a Nüwe Stattrechten und
Statuten der loblichen Statt Fryburg im Pryszgow gelegen, Basel, Adam
Petri, 1520 (rist. anast. Aalen, Scientia Verlag, 1968). Cfr. Roderich von
Stintzing,
Geschichte der deutschen Rechtswissenschaft, I, München,
1880 (ed.
an. Aalen, Scientia Verlag, 1978), 685; Wieacker, Storia del diritto privato cit., I,
289-290; Hans
Thieme, L’oeuvre juridique de Zasius, in Pédagogues
et juristes cit., 39-47; Rowan, Ulrich Zasius cit., 123-134; Wendt Nassall,
Das Freiburger Stadtrecht von 1520, Berlin, Duncker & Humblot, 1989;
Steffen
Bressler, Gesetzliche Erbfolge, testament und Pflichtteil im
Freiburger Stadtrecht, «Forum Historiae Iuris», 3 (2000),
rivista on line; Id., Ulrico Zasio cit., 89-92. Sul rapporto tra Riforma protestante e insegnamento del
diritto cfr. i saggi compresi in Lutheran Reformation and the law,
edited by Virpi
Mäkinen, Leiden-Boston, Brill, 2006.
[133] Cfr. Johann Georg Theodor Muther, Aus dem
Universitäts und Gelehrtenleben im Zeitalter der Reformation vorträge,
Amsterdam, B. Schippers, 1966 (I ediz. Erlangen 1866), 230 ss., 435 ss.; Ernst Wolfang
Böckenförde, Geschichte der Rechts und
Staatsphilosophie, Tubingen, Mohr Siebeck, 2002, 371 ss.
[134] Cfr. Stintzing, Geschichte der deutschen
Rechtswissenschaft cit., I, 287-291; Wieacker, Storia del diritto
privato cit., I, 228, 236-237; Percy García Cavero, Johann
Apel, in Juristas universales cit., II, 130-132.
[135] Cfr. Stintzing, Geschichte der deutschen Rechtswissenschaft
cit., I, 123-125; Otto
Stobbe, Geschichte der deutschen Rechtsquellen, II,
Leipzig, Duncker & Humblot, 1860, 26-28 (rist. anast. Arlen, Scientia Verlag, 1965); Koschaker, L’Europa e
il diritto romano cit., 192. Nel suo testamento politico scritto nel 1556
von Ossé auspicava «dei maestri che insegnassero come avevano
insegnato gli antichi eccellenti maestri Bartolo e Baldo», perché
allora nello Studio di Lipsia si sarebbero educati giuristi inadatti alla
prassi e alle esigenze forensi: Wieacker, Storia del diritto
privato moderno cit., I, 242.
[136] Cfr. Thireau, L’enseignement
du droit cit., 32-35; Legendre, La France et Bartole cit., 154-170; e
il più vecchio Jacques Flach, Cujas, les Glossateurs et les
Bartolistes, «Nouvelle revue d’histoire de droit
français et étranger», 1888, 205-227, e in generale Luigi Palazzini
Finetti, Storia della ricerca delle interpolazioni nel Corpus
iuris giustinianeo, Milano, Giuffrè, 1953.
[138] Thireau, L’enseignement
du droit cit., 33; cfr. anche Piano Mortari, Diritto romano
e diritto nazionale cit., 67 ss., 99 ss., 126 ss.; Riccardo Orestano,
Introduzione allo studio del diritto romano, Bologna, Il Mulino, 1987,
202-207.
[139] François Hotman, Antitribonian
ou discurs d’un grand et renommé Iurisconsulte de notre temps, sur
l’estude des loix..., Paris, chez Ieremie Perier, 1603 (ed. anast. a
cura di Henri
Duranton, Saint-Étienne, Publications de
l’Université de Saint-Étienne, 1980), 156 ss. Cfr. Schupfer, Manuale di storia cit., 704-705; Jacques Krynen,
Voluntas domini regis in suo regno facit ius. Le roi de France et la coutume,
in El dret comú i Catalunya, ed. Aquilino Iglesia Ferreirós,
Barcelona, Fundació Noguera, 1998, 59-89.
[140] Roero, Lo scolare cit., 45. Il riferimento è all’opera di Nikolaus Vigel,
Methodus universi iuris civilis
absolutissima, nunc denuo ab authore ipso recognita…, Basileae, ex
officina Oporiniana, 1586. Cfr. Alejandro Guzmán, Nikolaus
Vigel, in Juristas universales cit., II, 238-240, per ogni ulteriore
bibliografia.
[141] Ivi,
18. Cfr. Vismara,
Vita di studenti e studio del diritto
cit., 190-197; ed anche per i giuristi tedeschi Stintzing, Geschichte der deutschen Rechtswissenschaft cit., I, 309 ss., 485
ss.; Wieacker,
Storia del diritto privato cit., I,
254. Cfr. in generale Zorzoli, La
facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Pavia
(1535-1796) cit., 371-375.
[143] Cfr. Domenico Maffei, La biblioteca di Giminiano Inghirami
e la “Lectura Clementinarum” di Simone da Brossano, in Proceedings
of the Third International Congress of Medieval Canon Law, Strasbourg, 3-6
sett. 1968, edited by Stephan Kuttner, Città del Vaticano, Biblioteca
Apostolica Vaticana, 1971, 235-236; Id., Dottori e studenti nel
pensiero di Simone da Borsano, «Studia Gratiana», 15 (1972),
229-250, secondo cui il suo proemio alla lectura sulle Clementine con la
trattazione specifica su dottori e studenti ha costituito l’archetipo
(ampiamente saccheggiato) del De modo studendi di Caccialupi. Cfr. in generale su
queste tematiche Thomas
Edward Morissey, The art of teaching and learning law. A late medieval tract,
«History of Universities», 8 (1989), 27-74.
[144] Cfr. Giuliana D’Amelio, Caccialupi,
Giovanni Battista, in Dizionario biografico degli italiani, XV,
Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1972, 790-797; Carlo Dionisotti,
Filologia umanistica e testi giuridici
fra Quattro e Cinquecento, in La
critica del testo, Atti del secondo congresso internazionale della
società italiana di storia del diritto, I, Firenze, Olschki, 1971,
193-194; Domenico
Maffei, Giovanni Battista Caccialupi biografo,
«Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte.
Kanonistische Abteilung», 83 (1997), 393-399; Paolo Nardi, Giovanni
Battista Caccialupi a Siena: giudice delle Riformazioni e docente nello Studio,
«Studi Senesi», serie III, 46 (1997), 83-124.
[145] Cfr. Dionisotti, Filologia
umanistica cit., 194-195; Belloni, Professori giuristi a Padova
cit., 61-62, 65, 72, 259-263, per i
dati biografici e le opere. A proposito della didattica patavina Can critica
nelle materie canonistiche l’abitudine di tralasciare la parte più
“spirituale” dei canoni a vantaggio delle Decretali e lamenta la
mancanza nei corsi civilistici della Lectura feudorum, della Lectura
Authenticorum e della Lectura Trium-librorum. Ritiene inoltre che la
dialettica di derivazione aristotelica non sia necessaria per il giurista e
deride di conseguenza la insolentia dyalecticorum. Secondo Mario Ascheri,
Giuristi, umanisti e istituzioni del Tre-Quattrocento, in Diritto
medievale e moderno cit., 122, si tratta di «un’operetta
modesta che ha il merito d’una forma avvicinabile a quella apprezzata
dagli umanisti e di un contenuto oggi utile per ricostruire il sistema di
insegnamento in uso ai suoi tempi nello Studio padovano».
[146] Per la sua biografia cfr. Diego Quaglioni,
Gribaldi Moffa, Matteo, in Dizionario biografico degli italiani,
LIX, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 2002, 345-349, cui si
rinvia. Cfr. anche per le sue posizioni religiose gli studi di Delio Cantimori,
Matteo Gribaldi Moffa chierese e l’Università di Tubinga,
«Bollettino storico-bibliografico subalpino», 35 (1933), 492-504; Id., Eretici
italiani del Cinquecento. Ricerche storiche, Firenze, Sansoni, 19672,
203-211; Francesco
Ruffini, Il giureconsulto chierese Matteo Gribaldi Moffa e
Calvino, «Rivista di storia del diritto italiano», 1 (1929),
208-269; Antonio
Rotondò, Calvino e gli antitrinitari italiani,
«Rivista storica italiana», 80 (1968), 759-784; il vecchio lavoro
di Cesare Nani,
Di un libro di Matteo Gribaldi Mofa, «Memorie della Reale
Accademia delle Scienze di Torino», serie II, 35 (1884), 1-30
dell’estratto; Diego
Quaglioni, La cultura giuridico-politica tra Quattro e
Cinquecento, in Storia di Torino, II, Il basso Medioevo e la
prima Età Moderna, a cura di Rinaldo Comba, Torino, Einaudi,
1997, 639-642.
[147] Matteo Gribaldi Moffa, De
methodo ac ratione studendi libri tres, Venetiis, D. Giglio, 1559, ff.
27-29. Gribaldi aveva voluto scrivere un trattatello ad uso dei propri studenti
di Tolosa e confessava candidamente di non aver avuto molto tempo a
disposizione per organizzare ed elaborare compiutamente il proprio pensiero,
essendo stato costretto dall’insistenza degli scolari e
dell’editore a redigere la prima parte in soli otto giorni e a pubblicare
questo frutto del suo ingegno – come scrive nell’Epistola dedicatoria «Tholosani
legum auditoribus» –, «precox sane atque abortivum». Si
tratta quindi di un testo dichiaratamente scolastico e ciò, in fondo,
costituisce il suo pregio. Per l’analisi di quest’opera cfr.
l’esauriente e approfondito studio di Diego Quaglioni, Tra
bartolisti e antibartolisti. L’Umanesimo giuridico e la tradizione
italiana nella Methodus di Matteo Gribaldi Moffa, in Studi di
storia del diritto medioevale e moderno, a cura di Filippo Liotta, Bologna, Monduzzi,
1999, 185-212. Cfr. inoltre Troje, Graeca leguntur cit., 63-88; Adriano Cavanna,
Storia del diritto moderno in Europa, I, Le fonti e il pensiero
giuridico, Milano, Giuffrè, 1979, 142-143; Birocchi, Alla ricerca
dell’ordine cit., 236-237.
[148] Quaglioni, Tra bartolisti
cit., 211. Quaglioni ricorda che Gribaldi fu tra i primi a formulare il programma
che si sintetizza nella formula «ius in artem redigere»,
cioè nella riduzione del diritto a scienza compendiosa e metodica, in
anticipo con le tesi di Louis Le Caron e Jean de Coras.
[150] Brugi, La scuola padovana di
diritto romano cit., 74-75. Cfr. Aldo Mazzacane, Cagnolo,
Gerolamo, in Dizionario biografico degli italiani, XVI, Roma,
Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1973, 334-335; Quaglioni,
La cultura giuridico-politica cit., 637-638. Paolo Grossi, Ricerche sulle
obbligazioni pecuniarie nel diritto comune, Milano, Giuffrè, 1960,
99, 227,
[151] Girolamo Lampugnani, Compendium
introductionis ad Iustinianeas Institutiones. Et de ratione studendi in utroque
iure, Romae, typis Francisci Corbelletti, 1627. Lampugnani riprendendo
Gribaldi raccomandava: «Continua, Premitte, et Divide, Contrahe, Finge /
Obijce, Confirma, Solve et Lege, Magna notato, / Estende, et Stringe, quod fert
occasio, Deduc, / Haec faciens rite textus et iura docebis». Cfr. Orestano,
Introduzione allo studio cit., 95; Romano, Novarese, L’insegnamento
del diritto cit, 150-151. L’opera, agli inizi del Settecento, era
ancora diffusa nell’ateneo romano: cfr. Maria Rosa Di Simone, La
“Sapienza” romana nel Settecento, Roma, Edizioni
dell’Ateneo, 1980, 77-78.
[152] Il testo della prolusione fu inserito nel
volume De Iuris Methodo libri duo, Spirae, apud Bernardum Albinum, 1597,
che raccoglie gli argomenti del corso tenuto nello Studio di Ginevra nel 1596. Cfr.
Antonio
Franceschini, Giulio Pace da Beriga e la giurisprudenza dei
suoi tempi, «Memorie del Regio Istituto veneto di scienze, lettere ed
arte», 27 (1903), n. 2, 12 ss.; Alain Dufour, Un adepte
italien de l’humanisme juridique a Genève. Julius Pacius de Beriga
(1550-1635) et son “De Iuris Methodo” (1597), in Genève
et l’Italie, par Luc Monnier, Genève, Droz, 1969, 113-147; Orestano,
Introduzione allo studio cit., 93-94, 622; Birocchi, Alla ricerca
dell’ordine cit., 238, e soprattutto Id., Causa e categoria
generale del contratto. Un problema dogmatico nella cultura privatistica
dell’età moderna, I, Il Cinquecento, Torino,
Giappichelli, 1997, 195-208.
[153] Cfr. Vincenzo Piano Mortari, Diritto
logica metodo nel secolo 16,
Napoli, Iovene, 1978, 211-216; Id., L’ordo
iuris nel pensiero dei giuristi del secolo XVI, in La sistematica
giuridica. Storia, teoria e problemi attuali, Roma, Istituto
dell’Enciclopedia Italiana, 1991, 277-294; Birocchi, Alla ricerca
dell’ordine cit., 112-113; A. London Fell, Origins of
legislative sovereignity and the legislative State, I, Corasius and the
Renaissance systematization of Roman Law, II, Classical, Medieval and
Renaissance foundations of Corasius’ systematic methodologie,
Königstein, Athenäeum, 1983; Enrique V. de Mora Quirós,
Louis Le Caron (Charondas), e Francisco J. Andrés, Jean
de Coras, entrambi in Juristas universales cit., II, 257-260,
209-212. Cfr. inoltre Birocchi, Causa e categoria generale del contratto
cit., 95-136, 178-189, sul problema della sistematizzazione giuridica.
[154] Nell’Institutionum iuris canonici commentarium (Perusiae, ex officina
Andreae Brixiani, 1560) Lancellotti narrò le peripezie dell’opera,
denunciando le difficoltà opposte al suo innovativo e ambizioso
“manuale”. Cfr. Lorenzo Sinisi, Nascita e affermazione di un nuovo
genere letterario. La fortuna delle Institutiones iuris canonici di
Giovanni Paolo Lancellotti, «Rivista di storia del diritto
italiano», 77 (2004), 53-95, che costituisce il lavoro di riferimento.
Cfr. inoltre Raissa
Teodori, Lancellotti, Giovanni Paolo, in Dizionario
biografico degli italiani, LXIII, Roma, Istituto dell’Enciclopedia
Italiana, 2004, 300-301; Maria Gabriella Caria, Le
Institutiones iuris canonici di Giovanni Paolo Lancellotti (1522-1590): status
quaestionis e nuove ricerche in corso, «Studi Urbinati», 69
(2001-02), 9-16; Jean
Gaudemet, Les sources du droit canonique VIIIe-XXe
siècles, Paris, Les éditions du cerf, 1993, 196-197; Jesús
Miñambres, Giovanni Paolo Lancellotti, in Juristas
universales cit., II, 225-226.
[155] ICCU. Già dal 1566 il
giurista-editore veneziano Giovanni Battista Ziletti considera il manuale di
Lancellotti come una delle opere di riferimento di portata generale in ambito
canonistico («Institutiones Iuris Canonici per Iohannem Paulum
Lancellottum perusinum»): Giovanni Battista Ziletti, Index
librorum iuris pontificii et civilis, Venetiis, apud Bernardinum Ziletum et
fratres, 1566, c. 10v. Nel 1583 il parmense Giulio Cesare Tinti, Tabulae
sive introductiones in Institutiones Iuris Canonici in IIII libros
distinctae..., Ferrariae, excudebat Victorius Baldinus, 1583, pubblicava
una raccolta di schemi grafici tesi a sintetizzare i contenuti del manuale
lancellottiano per facilitare la memorizzazione didattica del testo.
[157] Cfr. Marco Antonio Cucchi, Institutiones
iuris canonici super ab ispo auctore et recognitae Intersertis etiam opportune
Sacri tridentini Concilii constitutionibus, Papiae, apud Hieronimum
Bartholum et Constantinum Soncinum socios, 1563. Su Cucchi cfr. Simona Negruzzo,
Theologiam discere et docere. La facoltà teologica di Pavia nel XVI
secolo, Milano, Cisalpino, 1995, 143; Caria, Le Institutiones
cit., 28-34.
[158] Cfr. Caspar Ziegler, Jus canonicum
notis et animadversionibus accademicis ad Johanni Pauli Lancellotti...,
Wittenbergae, typis Mattaei Henckelii, 1669; Giovanni Paolo Lancellotti,
Institutiones iuris canonici cum notis variorum praecipue arcana
dominationis papalis, episcopalis et clericalis in Ecclesia Romana detegentibus,
Halae Maydeburgicae, in officina libraria Reugeriana, 1715-1717, quattro
volumi. Cfr. a questo proposito Sinisi, Nascita e
affermazione cit., 69-74.
[159] Cfr. Coing, L’insegnamento
del diritto cit., 184-185; Id., Die juristische Facultat cit., 36; Romano, Novarese,
L’insegnamento del diritto cit., 161.
[160] Cfr. Stintzing, Geschichte der
deutsche Rechtswissenschaft cit., I, 390-395; Troje, Die Literatur des
gemeinen Rechts unter dem Einfluβ des
Humanismus cit., 627-655; Aldo Mazzacane, Sistematiche
giuridiche e orientamenti politici e religiosi nella giurisprudenza tedesca del
secolo XVI, in Studi di storia del diritto medioevale e moderno
cit., 213-252; Orestano,
Introduzione allo studio cit., 582-584.
[161] Cfr. Claudius Cantiuncula, Paraphrasis
in librum institutionum Iustiniani imperatoris, Hagenoae, ex officina
Seceriana, 1533; Paraphrasis in secundum librum institutionum
imperialium Iustiniani imperatoris, Hagenoae, excudebat Petrus Brubachius,
1534; Paraphrasis in tertium librum institutionum Iustiniani imperatoris,
Norimbergae, apud Johannem Petreium, 1538; ristampate insieme col titolo Paraphrasis
in libros tres priores institutionum Iustiniani imperatoris, Lovanii, typis
Servatii Sasseni, 1549 (ristampe Lione 1550 e Lovanio 1562). Cfr. Ferslew,
Claudius Cantiuncula cit.; Mazzacane, Sistematiche
giuridiche cit., 219; Javier Fajardo, Claude Chansonette, in Juristas
universales cit., II, 140-142, con elenco delle opere e recente
bibliografia.
[162] Cfr. Silvestro Aldobrandini, Institutiones
iuris civilis. Habes lector in novissima hac Institutionum imperialium editione
textum ac glosas quam emendatissimas una cum additionibus..., Venetiis,
eredi di Lucantonio Giunta, 1538. Cfr. anche Elena Fasano Guarini, Aldobrandini,
Silvestro, in Dizionario biografico degli italiani, II, Roma,
Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1960, 112-114.
[163] Cfr. Piano Mortari, Cinquecento giuridico
francese cit., 239-252; Erst Holthöfer, Baron de Kerlouan, in Juristen
cit., 64-65; Gérard
Guyon, Eguiner Baron, in Juristas universales cit.,
II, 155-157; Italo
Birocchi, Gli sforzi per una nuova sistematica nel
giusnaturalismo culto: il problema della partizione del diritto, in El
dret comú i Catalunya, Actes del X Simposi (2-3 juny 2000),
edició d’Aquilino Iglesia Ferreirós, Barcelona,
Associació Catalana d’Historia del Dret, 2001, 69-70.
[164] Cfr. Marco Mantua Benavides, Isagogicus
per quam brevis modus ad tollendos fere quoscumque licet inexplicabiles
argumentorum nodos, Venetjis, apud Gabrielem Giolitum de Ferrarjis, 1544.
Cfr. la voce anonima Mantova Benavides, Marco, in Novissimo Digesto
Italiano, X, Torino, Utet, 1964, 188, con l’elenco delle opere.
[165] Cfr. l’esaustiva voce di Jan Hallebeek,
Nicolaas Everaerts, in Juristas universales cit., II, 92-94, cui
abbiamo abbondantemente attinto, ed inoltre Robert Feenstra, Everaerts
(Everardi) Nicolaas, in Juristen cit., 194, e Otto Maria Dominicus
Franciscus Vervaart, Studies over Nicolaas Everaerts
(1462-1532) en zijn Topica, Arnhem, Gouda Quint, 1994, che costituisce oggi
l’opera di riferimento e a cui si rinvia anche per la ricca bibliografia.
[166] I Topica vennero ristampati a
Bologna nel
[167] Cfr. a questo proposito Klaus Luig,
Il diritto patrio in Germania, in Il diritto patrio tra diritto
comune e codificazione cit., 91-100; Mazzacane, Sistematiche
giuridiche cit., 213-234.
[168] Andreas Perneder, Institutiones.
Aussung und Anzaigung etlicher geschriben kayserlichen und des heyligen Reichs
Rechte, Ingolstadt, Weissenhorn, 1549, e l’opera
feudistica, Der
Lehenrechte kurze und eigentliche Verdentschung, Ingolstadt, Weissenhorn,
1544; Thomas
Murner, Instituten ein warer Ursprung und Fundament der
keyserlichen rechtens, Basel, Adam Petri, 1519. Altre traduzioni tedesche
delle Institutiones furono quelle di Ortholf Fuchsberger, Justinianischer
Instituten warhaffte dolmetschung, Ingolstadt, Weyssenhorn, 1541, e di Justin Göbler,
Keyserlicher und des H. Reichs Rechten die vier Bücher der Instituten
und Unterweisung Keysers Justiniani, Frankfort, Egenolff, 1552. Göbler è autore anche di un commento alla Carolina
edito a Basilea nel 1543. Cfr. Stintzing, Geschichte der deutschen
Rechtswissenschaft cit., I, 151-154; Wieacker, Storia del diritto
privato cit., I, 252-253; Helmut Coing, Römisches Recht in Deutschland,
in Ius Romanum Medii Aevii, auspice Collegio antiqui iuris studiis
provehendis, V, 6, Milano, Giuffrè, 1964, paragrafo 50.
[169] La Practica, revisionata nel 1544,
venne ripubblicata col titolo Actionum forensium progymnasmata, interpretatio item, complectens universi
iuris cognitionem, in classem septem distincta..., Lugduni, Sebastien
Gryphius, 1545, che ne accentuava la dimensione “scolastica”. In
questa direzione anche gli altri testi “manualistici” stampati e
distribuiti in tutta Europa da editori lionesi quali Sébastien Gryphe e
Guillaume Rouillé: Loci communes iuris civilis, Lugduni,
Sebastien Gryphius, 1545; Variarum lectionum libri ad iuris civilis
interpretationem, Lugduni, Sebastien Gryphius, 1546; Lexicon iuris, seu
epitome definitionum et rerum, Lugduni, Guiullaume Rouille, 1549; Topicorum
legalium, hoc est: locorum seu notarum ex quibus argumenta et rationes legitime
probandi sumuntur..., Lugduni, Sebastien Gryphius, 1555. Su Oldendorp (che
si era laureato a Bologna nel 1515) cfr.: Stintzing, Geschichte der
deutschen Rechtswissenschaft cit., I, 311-338, assai ricco di informazioni;
Wieacker,
Storia del diritto privato cit., I, 430-432; Klaus Luig, Oldendorp Johann,
in Neue Deutsche Biographie, XIX, Berlin, Dunke & Humblot, 1998,
514-518; Jochen
Otto, Oldendorp, Johann, in Juristen cit., 462-463;
Percy
García Cavero, Johann Oldendorp, in Juristas
universales cit., II, 137-140; Mazzacane, Sistematiche giuridiche cit., 238-241.
[170] Cfr. Stintzing, Geschichte der
deutschen Rechtswissenschaft cit., I, 305-308; Bernhard Pahlmann,
Melchior Kling, in Deutsche und Europäische Juristen cit.,
231-234; Francisco
J. Andrés, Melchior Kling, in Juristas
universales cit., II, 180-183, entrambi con buona bibliografia.
[171] Cfr. Stintzing, Geschichte der deutschen Rechtswissenschaft
cit., I, 485-494; Heirich
Schreiber, Joachim Mynsinger von Frundeck, Freiburg,
Gross, 1834; Jochen
Otto, Mynsinger von Frundeck, Joachim, in Juristen
cit., 449-450.
[172] ICCU. Anche l’opera
“cameralistica” di Mynsinger, Singularium observationum iudicii
imperialis camerae (uti vocant) centuriae quatuor iam primum in lucem emissae,
Basileae, Nicolaeus Episcopius, 1563, ebbe un buon successo con 11 edizioni
sino al 1691.
[173] Cfr. Stintzing, Geschichte der
deutschen Rechtswissenschaft cit., I, 425-440; Michael Stolleis, Geschichte
des öffentlichen Rechts in Deutschland, I (1600-1800), Münich, Beck, 1988, 74-75; Alfred Söllner,
Die Literatur zum gemeinen und partikularen Recht in Deutschland,
Österreich, den Niederlanden und der Schweiz, in Handbuch der
Quellen cit., II, 1, 506-509, 516-518, 533-538; Jan Schröder, Recht als
Wissenschaft, Münich, Beck, 2001, 32 ss.; Aldo Mazzacane, Contrasti di
scienza e rivalità accademiche in una lite del secolo XVI,
«Ius Commune», 3 (1970), 10-32; Id., Umanesimo e sistematiche
giuridiche in Germania alla fine del Cinquecento: “equità” e
“giurisprudenza” nelle opere di Hermann Vultejus, «Annali
di storia del diritto», 12-13 (1968-69), 257-319; Alejandro
Guzmán, Nikolaus Vigel, in Juristas universales
cit., II, 238-240, con elenco completo delle opere.
[174] Su Harprecht cfr. Stintzing, Geschichte der
deutschen Rechtswissenschaft cit., I, 144-145. Le sue Opera omnia, in sei tomi, furono pubblicate
a Tubinga nel 1627-30 e a Francoforte nel 1637. Su Vulteius cfr., oltre gli
studi di Mazzacane,
Contrasti cit., 10 ss., e Umanesimo cit., 257 ss.; Id., Teorie
delle scienze e potere politico nelle sistematiche tedesche del secolo XVI,
in La formazione storica del diritto moderno cit., I, 315-316; Id., Sistematiche
giuridiche cit., 247-252; Birocchi, Causa e categoria generale cit.,
170-178; Alejandro
Guzmán, Hermann Wöhl, in Juristas
universales cit., II, 301-303, con l’elenco delle opere e
bibliografia aggiornata.
[175] Cfr. Johann Schneidewein, In
quattuor Institutionum imperialium domini Iustiniani libros, commentarii...,
Argentorati, excudebat Theodosius Rihelius, 1571. Cfr. Stintzing,
Geschichte cit., I, 351 ss.; Matthãus Wesembeck, Institutionum
domini Iustiniani, sacratissimi principis Libri IIII, Basileae, per
Eusebium Episcopium, 1585, coll. 21-26. Cfr. Mazzacane, Sistematiche
giuridiche cit., 219-220; Wieacker, Storia del diritto privato cit., I,
246; Piano
Mortari, Diritto logica metodo cit., 290-293; Mario Montorzi,
Echi di Baldo in terra di Riforma. Matthäus Wesenbeck e gli spazi
forensi d’una simplex difinitio dominii, in A Ennio Cortese
cit., II, 403-413; Margreet
Ahsmann, Wesenbeck, Matthaeus, in Juristen cit.,
651; Javier
Barrientos Grandon, Matthaeus Wesenbeck, in Juristas
universales cit., II, 246-248 con bibliografia aggiornata.
[176] Su Vinnius cfr. Robert Feenstra, Cornelius Jan Dirk
Waal, Seventeenth-century Leyden lawprofessors and their
influence on the development of the civil law. A study of Bronchorst, Vinnius
and Voet, Amsterdam-Oxford, North-Holland, 1975, 27 ss.; su De Luca cfr. Aldo Mazzacane,
De Luca Giovanni Battista, in Dizionario biografico degli italiani,
XXXVIII, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1990, 340-347, e
soprattutto Italo
Birocchi, L’Istituta
civile di Giambattista De Luca, in Amicitiae pignus. Studi in ricordo di Adriano Cavanna, a cura di Antonio Padoa Schioppa, Gigliola di Renzo
Villata, Gian Paolo Massetto, I, Milano, Giuffrè, 2003,
87-119.
[177] Cfr. Orestano, Introduzione allo
studio del diritto cit., 194; Jacques Godefroy (1587-1652) et
l’humanisme juridique à Genève, Actes du colloque, ed.
par Bruno
Schmidlin et Alfred Dufour, Bâle, Helbing &
Lichtenhahn, 1991; Ernst
Holthöfer, Godefroy Jacques, in Juristen cit.,
240-242; Rosa
Mentxaka, José Angel Tamayo, Jacques Godefroy, in Juristas
universales cit., II, 347-352. Sull’insegnamento giuridico ginevrino
cfr. Charles
Borgeaud, Histoire de l’Université de
Genève: l’Academie de Calvin, 1559-1798, Genève, Gerog
& Co., 1900, 368 ss.; Jacques Godefroy fu un notevole esegeta, il suo
commentario al Codex Theodosianus (Lipsia, 1616) appare «ancor
oggi insostituibile», Wieacker, Storia del diritto privato cit., I,
243, come i Fragmenta Duodecim Tabularum, sui nunc primum tabulis restitua,
Heidelbergae, typis Johannis Lancelloti, 1616, cfr. Diliberto, Bibliografia
ragionata cit., 127-129.
[178] Jacques Godefroy, Manuale iuris seu parva iuris mysteria, Genevae, sumpt. Ioannis Ant. [et] Samuel De
Tournes, 1665 (8 edizioni sino al 1672, stampate dalla medesima
tipografia).
[179] Cfr. Danilo
Marrara, L’età medicea (1543-1737), in Storia
dell’Università di Pisa, I, 1, 1343-
[180] Cfr. Giovanni
Francesco Fara, Tractatus de essentia infantis, et proximi pubertati,
Florentiae, apud Iuntas, 1567; I Giunti tipografi editori di Firenze
1497-1570. Annali, a cura di Decio
Decia, Renato Delfiol, Luigi Silvestro
Camerini, Firenze, Giunti Barbera, 1978, n. 51, 271. L’opera, col
nuovo titolo Tractatus, sive nova opinio de essentia infantis, venne
inserita nel Tractatus Universi Iuris, VIII, 2, Venetiis, Compagnia
dell’Aquila, 1584, ff. 388-405. Su Fara giurista cfr. Antonello Mattone, Giovanni
Francesco Fara giureconsulto e storico del XVI secolo, in A Ennio
Cortese cit., II, 320-348. Sulla circolazione del libro giuridico e sulle
biblioteche dei giuristi si rinvia all’approfondito studio di Rodolfo Savelli,
Giuristi francesi, biblioteche italiane. Prime note sul problema della
circolazione della letteratura giuridica in età moderna, in Manoscritti,
editoria e biblioteche dal medioevo all’età contemporanea. Studi
offerti a Domenico Maffei per il suo ottantesimo compleanno, a cura di Mario Ascheri,
Gaetano Colli, con la collaborazione di Paola Maffei,
III, Roma, Roma nel Rinascimento, 2006, 1239-1270.
[181] L’inventario della biblioteca
è in Enzo Cadoni, Raimondo Turtas, Umanisti sassaresi
del ’500. Le «biblioteche» di Giovanni Francesco Fara e
Alessio Fontana, Sassari, Edizioni Gallizzi, 1988, 63 ss.; cfr. anche Massimo Firpo,
Umanisti sassaresi del Cinquecento, «Quaderni di Sandalion»,
n. 6, 1990, 27-32; Mattone, Giovanni
Francesco Fara cit., 337-341.
[182] Nell’estate del 1604 Sommaia tenne
le dieci lezioni pubbliche, previste dagli statuti dello Studio per ottenere il
baccellierato in leggi, e nell’autunno dello stesso anno si iscrisse ai
corsi superiori conseguendo, nel settembre del 1606, la laurea in utroque
sotto la guida del dottor Juan de León, titolare della prima cattedra di
diritto canonico, ma già pensionato. Rientrato a Firenze
nell’estate del 1607 esercitò l’avvocatura, iscrivendosi
nella facoltà di diritto dell’Università di Pisa dove
ottenne nel maggio 1612 una seconda laurea in utroque. Nello stesso anno
venne nominato referendario della Segnatura della Cancelleria Apostolica di
Roma. Ma il «labirinto politico» romano non era fatto per lui, e
poco tempo dopo ritornò a Firenze. Nel 1614 il granduca, dopo avergli
assegnato l’onorificenza di cavaliere di Santo Stefano, lo nominò
all’ufficio di Provveditore dello Studio pisano, una carica amministrativa
che prevedeva la supervisione del calendario delle lezioni, della disciplina,
delle vertenze tra allievi e maestri, la selezione dei testi e la censura dei
libri stampati. Nel frattempo veniva ordinato sacerdote. Tra il 1632 e il 1633
dovette risolvere la delicata questione del processo inquisitoriale contro
Galileo Galilei, cui Sommaia era legato da amicizia e stima profonda, e della
pretesa papale di sospensione del suo salario. Morì a Pisa nel 1635
all’età di sessantadue anni. Cfr. Angelo Fabroni, Historiae Academiae Pisanae, Pisis,
excudebat Cajetanus Mugnainus, II, 1792, 37, III, 7 (rist. anast. Bologna,
Forni, 1971); Marrara, L’età
medicea cit., passim.
[183] Diario de un estudiante de Salamanca,
ed. George Haley, Salamanca,
Universidad de Salamanca, 1977, 159. Cfr.
l’opera di Juan Solórzano
Pereira, Diligens et accurata de Parricidii crimine Disputatio,
Salamanca, Artus Taberniel, 1605, pubblicata l’anno successivo nella
città spagnola. Cfr. Maria
Paz Alonso Romero, Ius commune y derecho patrio en la Universidad de
Salamanca durante los siglos modernos. Trayectoria docente y métodos de
enseñanza de Antonio Pichardo Vinuesa, Juan de Solórzano
Pereira..., in El derecho y los juristas en Salamanca (siglos XVI-XX).
En memoria de Francisco Tomás y Valiente, coords. Salustiano de Dios, Javier Infante, Eugenia
Torisano, Salamanca, Ediciones
de la Universidad de Salamanca, 2004, 102-110, con relativa, aggiornata
bibliografia; Ead.,
Derecho patrio y derecho común en la Castilla moderna, in Il
diritto patrio cit., 111-114. Per un
profilo biografico di Solórzano cfr. il saggio introduttivo di Miguel Angel Ochoa Brun,
Vida obra y doctrina de Juan Solórzano Pereira, a Juan Solórzano
Pereira, Politica indiana («Biblioteca de Autores
Españoles», 252), Madrid, Ediciones Atlas, 1972; Ana Barrero,
Juan de Solórzano y Pereira, in Juristas universales cit.,
II, 322-324, con bibliografia aggiornata cui si rinvia, ed inoltre Manlio Bellomo,
Al di là dell’obbligazione contrattuale in Juan
Solórzano y Pereira, «Rivista internazionale di diritto
comune», 14 (2003), 205-214.
[184] Ivi, 568. Si tratta de Los Seis
Libros de la Repubblica di Jean
Bodin, forse nella traduzione spagnola di Añastro Usanza, edita a
Torino nel 1590: cfr. a questo proposito Martim
de Albuquerque, Jean Bodin na península ibérica. Ensaio de história das ideias
políticas e de dereito público, Paris, Fundação
Calouste Gulbekian, 1978, 119 ss. Per le
opere di Machiavelli lo stesso Sommaia scrive l’8 aprile 1606, nel
proprio diario ( 489), di aver ricevuto «una Commedia dell’Aretino
et i Discorsi, et Arte militare del Machiavello». Le
«scritture» di Venezia sono le repliche all’interdetto
pontificio del 1606.
[185] Si tratta del volume Relaciones de Antonio
Pérez, secretario de Estado, que fue, del Rey de España don
Phelippe II, Paris, s.n. [ma Robinot], 1598. La Relación di Perez circolava in Spagna
clandestinamente, come emerge da una denuncia agli inquisitori di Barcellona
del 1609 secondo cui nelle librerie della città si vendevano le opere
dell’ex segretario di Filippo II: le ispezioni ordinate consentirono di
rinvenire anche i libri di Machiavelli. Cfr. Juan Blasquez Miguel, La Inquisición en
Cataluña: el tribunal del Santo Oficio de Barcelona 1427-1820,
Toledo, Arcano, 1990, 82-83.
[186] Ivi, 487. Il riferimento è
all’opera di Francisco Suarez,
Commentaria ac disputationes in tertiam partem divi Thomae, Lugduni,
sumptibus Cardon, 1592. Sommaia si riferisce probabilmente all’edizione
veneziana del 1606. La censura venne posta dall’Indice in difesa di
Suarez, giacché l’editore, Giovanni Battista Ciotti, aveva
modificato i paragrafi che erano in contrasto con la politica della Repubblica
di San Marco.
[189] Luis Enrique Rodríguez-San Pedro
Bezares, Universidad moderna y
promoción jurídica. El diario salmantino de Gaspar Ramos Ortiz
(1568-1569), in Universidades españolas y americanas. Epoca
colonial, prologo de Mariano Peset, Valencia, Generalitat Valenciana, 1987,
457-477. Il riferimento è alle Leyes de Toro, glossate da Antonio Gomez,
probabilmente nell’edizione salmantina del 1555 (più volte
ristampata), e all’opera dell’emiliano Francesco Balbi, La verdadera
relación de todo lo que el año de
[190] Cit. in Dante Bianchi, Vita di Andrea
Alciato, «Bollettino della Società Pavese di Storia
Patria», 2 (1912), n. 2, 174-175. La dettatura poteva essere
giustificata, si legge nel provvedimento, «cum pauci libri et nullae
lecturae impressae essent nunc vero totius orbis librorum et lecturarum maxima
copia scatet et quod statim lectura uniuscuiusque mediocrissimi lectoris
imprimitur, ex scripto cum scolasticis agere supervacaneum nobis
videtur». Insomma, il “manuale” giuridico a stampa iniziava
ad affacciarsi nelle aule universitarie. Cfr. a questo proposito anche Ascheri,
Un maestro del “mos italicus” cit., 90-91.
[191] Cfr. Memorie e documenti per la storia
dell’Università di Pavia e degli uomini più illustri che
v’insegnarono, II, Documenti, Pavia, Stabilimento tipografico
successori Bizzoni, 1877, doc. n. 22, 20.
[194] Roero,
Lo scolare cit., 38-41. Roero raccomanda la sistemazione degli appunti
presi durante la giornata per riordinare in un «scartafaccio» le
nozioni indispensabili per la preparazione dell’esame: «Nel primo
– spiega – scriverai le cose pertinenti alla materia dei giudicii;
nel secondo riporrai le spettanti alla materia dei contratti; nel terzo noterai
le estrate della materia delle ultime volontà; nel quarto fiderai le
cose cavate da i titoli a tutti communi, come sono quelli del regulis iuris, de
verborum significatione, de rebus dubiis, de condicionibus et demontrationibus
et de legibus con alcuni altri simili; indi scriverai le conclusioni o sia le
regole, che farai elletta di scrivere, sotto le lettere rubricate» ( 43).
[195] Alberico Gentili, Lodi delle
Accademie di Perugia e di Oxford, a cura di Giuseppe Ermini, Perugia, Libreria
universitaria, 1968, 26-27. Cfr. Giuseppe Ermini, Storia
dell’Università di Perugia, Bologna, Zanichelli, 1947, 418
ss.; Oscar
Scalvanti, L’esame di laurea di Alberico Gentili
nell’Ateneo di Perugia (1572), «Annali
dell’Università di Perugia», nuova serie, 8 (1898), 37 ss.
[196] Cfr. Vicente
Beltrán de Heredia, Los manuscritos del maestro fray Francisco
de Vitoria, Madrid, Santo Domingo el Real, 1928, 20-26, Carlo Galli, Introduzione a Francisco de Vitoria, De iure belli,
a cura di Carlo Galli, Roma-Bari, Laterza, 2005, V-XVII. Per ogni
ulteriore approfondimento bibliografico aggiornato cfr. Antonio Truyol Serra,
Francisco de Vitoria, in Juristas universales cit., II, 121-127.
Su Vitoria e la prima generazione di teologi e giuristi cfr. anche Jaime Brufau Prats,
La escuela de Salamanca ante el descubrimiento del Nuevo Mundo,
Salamanca, Editorial San Esteban, 1989, 121-149. Sul sistema delle dettature cfr. Demetrio Iparraguirre,
Quelques aspects de l’enseignement dans les universités
espagnoles à l’époque de la Renaissance, in Pédagogues
et juristes cit., 78-79.
[197] Estatutos hechos por la muy
insigne Universidad de Salamanca, Salamanca, en
casa de Juan Maria Terranova, 1561, tit. XXI, 1.
[198] Cfr. Alejo Montes, La Universidad
de Salamanca bajo Felipe II cit., 116-118; Maria Paz Alonso Romero, Del
«amor» a las leyes patrias y su «verdadera
inteligencia»: a proposito del trato con el derecho regio en la
Universidad de Salamanca durante los siglos modernos, «Anuario de
historia del derecho español», 67 (1997), 1, 544-545.
[199] Cfr. Kagan,
Universidad y sociedad cit., 241-256; Maria
Paz Alonso Romero, Universidades y administración de la
monarquía, in Felipe II. La monarquía hispánica,
Madrid, Sociedad estatal para la Conmemoración de los centenarios de
Felipe II y Carlos V, 1998, 235-241. Alejo
Montes¸ La Universidad de Salamanca bajo Felipe II cit.,
212-218; Rodríguez-San Pedro Bezares, La Universidad Salmantina
del Barrocco cit., II, 262-334.
[201] Cfr. Francisco
Bermúdez de Pedraza, Arte legal para estudiar la
jurisprudencia, Salamanca, en la emprenta de Antonio Ramirez, 1612,
rudimentos 16-21. L’opera venne ristampata col titolo Arte legal para
el estudio de la jurisprudencia, nuevamente corregido y añadido en esta
segunda edición, con declaración de las rubricas de los diez y
seis libros del emperador Iustiniano, Madrid, por Francisco
Martínez, a costa de Domingo Gonçalez, 1633; nello stesso anno
pubblicava anche i Paratitla y exposición a los titulos de los quatro
libros de las Instituciones de Iustiniano, Madrid, en la imprenta de
Francisco Martínez, 1633. Cfr. anche Rafael
Gibert, Historia del derecho español, Granada, Universidad
de Granada, 1968, 260-261, con notizie biografiche; Iparraguirre, Quelques
aspects de l’enseignement dans les universités espagnoles
cit., 82-83; José
Delgado Pinto, Un traité de didactique juridique au
XVIIe siècle. El “Arte legal para estudiar la jurísprudencia”
di Francisco Bermúdez de Pedraza, in Le Raisonnement juridique,
legal reasoning, die juridische argumentations, ed. by Hubert Hubien, Bruxelles,
E. Bruylant, 1971, 195-201.
[203] Cfr. Diego Espino, Quaderno de las
leyes de Toro, y nuevas decisiones hechas y ordinadas en la ciudad de Toro
sobre las dudas de derecho que continuamente salian y suelen ocurrir en estos
Reynos, en que avia mucha diversidad de opiniones, Salamanca, Diego Cussio,
1605 (edizioni precedenti 1559, 1591 e 1599). Cfr. a questo proposito in
generale Aldo
Mazzacane, El jurista y la memoria, in Pasiones del
jurista. Amor, memoria, melancolía, imaginación, ed. Carlos Petit, Madrid, Centro de Estudios Constitucionales, 1997,
95-100.
[204] Cfr. Rodríguez-San
Pedro Bezares, La Universidad Salmantina del Barroco cit., II,
511-514; La Seconda Scolastica nella formazione del diritto privato moderno,
a cura di Paolo
Grossi, Milano, Giuffrè, 1973; Michel Villey, La formazione del
pensiero giuridico moderno, intr. di Francesco D’Agostino,
Milano, Jaca Book, 1986 (I ediz. Paris, Editions Montchretien, 1975), 295-349; Francisco
Tomás y Valiente, Manual de historia del derecho
español, Madrid, Tecnos, 19834, 298-324, per un quadro generale; José Antonio
Maravall, I pensatori spagnoli del «secolo
d’oro», in Storia delle idee politiche cit., III,
611-693, con ulteriore bibliografia; Antonio García y García, El
iusnaturalismo suareciano, in Il problema del diritto naturale
nell’esperienza giuridica della Chiesa, a cura di Mario Tedeschi,
Soveria Mannelli, Rubbettino, 1993, pp 145-154.
[205] IA, II, 508-527. L’Enchiridion venne tradotto in italiano: Manuale
de’ confessori e penitenti, traduzione italiana di fra’ Nicola di Guglinisi,
Venezia, Giolito, 1569. Lo stesso frate tradusse il Comentario risolutorio
de usuras, Salamanca, A. de Portinariis, 1556, col titolo Commentarii
risolutori delle usure, de’ cambi, della simonia, della difesa del
prossimo e del furto notabile, Torino, presso gli heredi del Bevilacqua,
1579 (la stessa traduzione fu riedita nel
[207] Angelo Matteazzi, De via et
ratione artificiosa iuris universi libri duo, Venetiis, apud Paulum
Meietum, 1591. Il ruolo degli studenti nella pubblicazione dell’opera
è esplicitato dallo stesso Matteazzi nella dedica a Iacopo Foscarini
procuratore di San Marco. Cfr. anche Biagio Brugi, Un corso
sistematico di un nostro professore del secolo XVI, in Per la storia
della giurisprudenza e delle università italiane. Nuovi saggi cit., 150-169,
per un ulteriore approfondimento sui temi del corso.
[209] Giason
del Maino¸ In secundam Digesti Novi partem commentaria...,
Venetiis, apud Iuntas, 1521, c. 163 v.; cfr. anche Gaetano Colli, «Attribuuntur Bartolo et tamen non
sunt Bartoli». Prolegomeni ad una bibliografia analitica dei trattati
giuridici pubblicati nel XVI secolo, «Il Bibliotecario», 1996,
n. 1, 145-154.
[210] Cfr. Antonio Era, Due trattati
attribuiti a Bartolo: “De Tabellionibus” e “Contrarietates
iuris civilis Romanorum et iuris Longobardorum”, in Bartolo da
Sassoferrato cit., II, 217-225.
[211] Domenico
Maffei, Manoscritti ed editoria giuridica nel Cinquecento. Appunti e
proposte, «Annali della Facoltà di Giurisprudenza della
Università di Macerata», 34 (1982), 1605-1610, ora in Studi di
storia delle università e della cultura giuridica, Goldbach, Keip
Verlag, 1995, 343-348; Gaetano Colli,
Per una bibliografia dei trattati giuridici pubblicati nel XVI secolo,
II, Bibliografia delle raccolte, indici dei trattati non compresi nei
Tractatus Universi Iuris, Roma, Viella, 2003, 22-29, con esaustiva, aggiornata
bibliografia cui si rinvia.
[212] Cfr. Arrigo Solmi, Di
un’opera attribuita a Baldo, in Contributi alla storia del diritto
comune, Roma, Società editoriale del «Foro Italiano»,
1937, 417-450.
[213] Cfr. Domenico
Maffei, Giuristi medievali e falsificazioni editoriali del primo
Cinquecento. Iacopo di Belviso in Provenza?, Frankfurt am Main,
Klostermann, 1979, 37-40, 66-70; cfr. anche la recensione di Ennio Cortese, «Studi
medievali», serie III, 22 (1981), 246-259, ora in Scritti, a cura
di Italo Birocchi e Ugo Petronio, II, Spoleto, Centro
italiano di studi sull’Alto Medioevo, 1999, 1445-1458.
[215] Si tratta dei Commentaria in
consuetudines Ducatus Burgundiae, Lugduni, in aedibus Jacobi Mareschal,
sumptibus Symonis Vincentii, 1517. Dell’opera vi sono altre 13 edizioni
cinquecentesche sino al 1590 (IA, VII, 386-390), con una traduzione francese, Le
grand coustumier de Bourgogne, Paris, F. Regnault, 1534. I Commentaria,
nei quali Chasseneuz non esitava a definire il diritto romano estraneo alle
tradizioni giuridiche francesi, per il rapporto tra diritto consuetudinario e
diritto comune ebbero una buona circolazione: li troviamo, ad esempio, nella
biblioteca (sezione «In iure Municipali») dell’ecclesiastico
e giurista sassarese Fara («Bartolomeus Cassaneo, In consuetudinem
Burgundiae»): Cadoni,
Turtas, Umanisti sassaresi del ’500 cit., 129. E
anche in quella del magistrato dell’Audiencia
il cagliaritano Monserrat Rossellò (morto nel 1613), «Bartholamaei
(a Cassaneo) Commentaria in consuetudines Burgundiae, Lugduni 1543»: Umanisti
e cultura classica nella Sardegna del ’500, 3, L’inventario
dei beni e dei libri di Monserrat Rossellò, a cura di Enzo Cadoni e
Maria Teresa
Laneri, II, Sassari, Gallizzi, 1994, 314, n. 682.
[217] Cfr. Mario
Ascheri, Streghe e “devianti”: alcuni
“consilia” aprocrifi di Bartolo da Sassoferrato, in Scritti
di storia del diritto offerti dagli allievi a Domenico Maffei cit.,
203-234; Id.,
Introduzione storica al diritto moderno e contemporaneo. Lezioni e documenti,
Torino, Giappichelli, 2003, 142-148.
[219] Cfr. Nicola Raponi, Alciati,
Francesco, in Dizionario biografico degli italiani, II, Roma,
Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1960, 65-67. Sui Responsa
cfr. Marco
Cavina, Indagini intorno al “mos respondendi” di
Andrea Alciato, «Rivista di storia del diritto italiano», 57
(1984), 221. Le Opera omnia di
Alciato in cinque tomi in folio vennero pubblicate a Basilea da Thomas Guarin
nel 1582.
[220] «Molto reverendo padre –
scriveva il 26 luglio 1614 il cardinale Bellarmino, consultore della
Congregazione romana del Sant’Uffizio, agli inquisitori delle singole
province –, questi miei illustrissimi signori della Sacra Congregazione
dell’Indice, vedendo che di giorno in giorno va sempre più
crescendo il numero de’ libri infetti e perniziosi che specialmente nelle
parti straniere e più che altrove in Francfort, si stampavano e si
vendono, già che permette Dio, per gli peccati, che non si possa
rimediare che colà né si vendino, né si stampino, hanno
pensato di ovviare almeno che simil peste de’ libri non infetti queste
nostre parti d’Italia»: Antonio Rotondò, Nuovi
documenti per la storia dell’Indice dei libri proibiti (1572-1638),
«Rinascimento», n.s., 3 (1963), 196.
[221] Gigliola Fragnito, Proibito
capire. La Chiesa e il volgare nella prima età moderna, Bologna, Il Mulino,
2006, 7-8, 189. Cfr. anche la recensione di Massimo Firpo, «Rivista
storica italiana», 118 (2006), 723-730.
[222] Cfr. Paul F. Grendler, L’Inquisizione
romana e l’editoria a Venezia 1540-1605, Roma, Il veltro editrice,
1983 (I ediz. Princeton, Princeton University Press, 1977), 107 ss.. Due secoli
dopo, i Riformatori dello Studio di Padova, in una relazione del 3 agosto 1765
sulla stampa, si rendevano pienamente conto che nel XVI si era definitivamente
chiusa una stagione dell’editoria universitaria veneziana:
«l’arte rimase priva – si legge nel testo – di tutti
que’ libri ch’erano segnati dall’Indice; o se alcuni ne
adoprò, gli ebbe così alterati e mutilati che ben presto negli
altri paesi s’estinse il credito delle nostre edizioni, né mai
più si riebbero»: cit. in G. Sforza, Riflessi della
Controriforma nella Repubblica di Venezia, «Archivio Storico
Italiano», 93 (1935), 12.
[223] Cfr. James K. Farge, Orthodoxy and
Reform in Early Reformation France. The Faculty of Theology of Paris, 1500-1543,
Leyden, Brill, 1985; Id.,
L’université e le parlement. La censure à Paris au XVIe siècle, in Censures. De la Bible aux larmes
d’héros, Paris, Centre George Pompidou, 1987, 88-95; l’Index parigino comprendeva una lista di
230 libri in latino e in francese, che aumentarono progressivamente nelle sei
edizioni successive, sino a quella del 1556, che conteneva 528 testi vietati,
in genere trattati teologici ed opere legate alla Riforma. Cfr. inoltre Index de
l’Université de Paris 1544, 1545, 1547, 1549, 1551, 1556, par Jesus Martínez
de Bujanda, Francis M. Higman, James K. Farge, avec
l’assistance de René Davignon et Ela Stanck, Index de
l’Université de Louvain 1546, 1550, 1558, par Jesus Martínez
de Bujanda, Léon-E. Halkin, Patrick Pasture et Geneviène
Glorieux, entrambi Sherbrooke-Genève, Centre
d’Études de la Renaissance-Librarie Droz, rispettivamente 1985 e
1986 («Index des livres interdits», dir. Jesus
Martínez de Bujanda, I et
II).
[224] Adriano Prosperi, Anime in
trappola. Confessione e censura ecclesiastica all’Università di
Pisa tra ’500 e ’600, «Belfagor», 44 (1999), n. 3,
275.
[225] Cfr. De Benedictis, Gentili,
Alberico cit., 245-246, e Ead., Gentili, Scipione, in Dizionario
biografico degli italiani, LIII, Roma, Istituto dell’Enciclopedia
Italiana, 1999, 268-269; Arlette Jouanna, Les temps de guerres de religion
en France (1559-1598), in Histoire et dictionnaire des guerres des
religions, Paris, Laffont, 1998, 254 ss.; Salvatore Caponetto, La
Riforma protestante nell’Italia del Cinquecento, Torino, Claudiana,
1992, 447 sui Gentili.
[227] Cfr. Ruffini, Il giureconsulto
chierese Matteo Gribaldi Mofa cit., 34; Prosperi, Anime in trappola
cit., 265, il quale opportunamente osserva che Francesco Ruffini, «un raro,
eccezionale maestro non solo degli studi sulla libertà religiosa ma
della pratica morale della libertà di coscienza», meditò
«sulle avventure di un suo grande predecessore», come Gribaldi, sul
«rifiuto che oppose al giuramento fascista di fedeltà al regime».
[228] Adriano
Prosperi, Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori,
missionari, Torino, Einaudi, 1996, 231.
[229] Cfr. Index de Rome 1557, 1559, 1564. Les premiers
index romains et l’index du Concile de Trente, par Jesus Martínez de Bujanda avec
l’assistance de René
Davignon et Ela Stanek («Index
des livres interdits» dir. J.M. de
Bujanda, VIII), Sherbrooke-Genève, Centre d’Études
de la Renaissance-Librairie Droz, 1990, 261-707; Thesaurus de la littérature interdite au XVIe siècle.
Auteurs, ouvrages, éditions, par J.M. de Bujanda avec
l’ass. de René
Davignon, Ela
Stanek, Marcella Richter («Index des livres
interdits», dir. J.M. de Bujanda, X), Sherbrooke-Genève, Centre
d’Études de la Renaissance-Librarie Droz, 1996. Cfr. Vittorio Frajese, Nascita dell’Indice. La
censura ecclesiastica dal Rinascimento alla Controriforma, Brescia,
Morcelliana, 2006, 39 ss. sullo «sviluppo istituzionale»
dell’Indice, cui si rinvia anche per un’ulteriore bibliografia
aggiornata. Sulla censura ecclesiastica vi è una consistente
bibliografia: oltre il vecchio studio di Franz Heinrich Reusch, Der
Index der verbotenen Bücher, Bonn, Neudruck der Ausg., 1883 (rist.
anast. Aalen, Scientia Verlag, 1967), e il penetrante saggio di Antonio Rotondò, La censura
ecclesiastica e la cultura, in Storia d’Italia, V, I
documenti, 2, Torino, Einaudi, 1973, 1397-1492; Id., Editoria e censura nel
Cinquecento, in La stampa in Italia nel Cinquecento, a cura di Marco Santoro,
I, Roma, Bulzoni, 1992, 72-88. Fra i lavori più recenti, cfr.
l’ottima sintesi di Mario Infelise,
I libri proibiti da Gutenberg all’Encyclopédie, Roma-Bari,
Laterza, 1999; Id., Note sulle
origini della censura di Stato, in Filippo II e il Mediterraneo, a
cura di Luigi Lotti e Rosario Villari, Roma-Bari, Laterza,
2003, 223-240; Ugo Rozzo, Linee
per una storia dell’editoria religiosa in Italia (1465-1600), Udine,
Arti Grafiche Friulane, 1993, 69-119; Id., Biblioteche e censura:
da Conrad Gesner a Gabriel Naudé, «Bibliotheca. Rivista di
studi bibliografici», 2003, n. 2, 33-70; Id., La letteratura italiana
negli “Indici” del Cinquecento, Udine, Forum, 2005; La
censura libraria nell’Europa del XVI secolo, a cura di Ugo Rozzo, Udine, Forum, 1997; Nicola Longo, La letteratura
proibita, in Letteratura Italiana, diretta da Alberto Asor Rosa, V, Le questioni,
Torino, Einaudi, 1986, 978-998; Bruno Neveu, L’erreur
et son juge. Remarques sur les censures doctrinales à l’epoque
moderne, Napoli, Bibliopolis, 1993; Georges
Minois, Censure et culture sous l’Ancien Régime,
Paris, Fayard, 1995, 43-103; Censura ecclesiastica e cultura politica in
Italia tra Cinquecento e Seicento, a cura di Cristina Stango, Firenze, Olschki, 2001; Church censorship
and culture in early modern Italy, edited by Gigliola Fragnito, Cambridge, Cambridge University Press,
2001; Libro e censure, a cura di Federico
Barbierato, intr. di Mario
Infelise, Milano, Edizioni Sylvestre Bonnard, 2002; Libri, idee e
sentimenti religiosi nel Cinquecento italiano, pres. di Adriano Prosperi e Albano Biondi, Ferrara-Modena, Edizioni
Panini, 1987; Hubert
Wolf, Storia dell’Indice. Il Vaticano e i libri proibiti,
Roma, Donzelli, 2006 (I ediz. München, Beck, 2006), 9-38; Jesus Martínez de Bujanda, L’inquisition,
l’Index et l’imprimerie, in L’Inquisizione, Atti
del simposio internazionale (Città del Vaticano, 29-31 ottobre 1998), a
cura di Agostino Borromeo,
Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, 2003, 607-631.
[230] Cfr., Grendler, L’Inquisizione
romana cit., 131-134; Marino Zorzi, Dal manoscritto al libro, in Storia
di Venezia, diretta da Alberto Tenenti e Ugo Tucci, IV, Il
Rinascimento, politica e cultura, Roma, Istituto dell’Enciclopedia
Italiana, 1996, 910-941; Andrea Del Col, Il controllo della stampa a Venezia
e i processi di Antonio Brucioli (1548-1559), «Critica storica»,
17 (1980), 457-510; Michele
Jacoviello, Proteste di editori e librai veneziani contro
l’introduzione della censura sulla stampa a Venezia (1543-1555),
«Archivio Storico Italiano», 151 (1993), 27-56; Federico Barbierato,
Index librorum prohibitorum, in Libro e censure cit., 117; Index
de Venise 1549, Venise et Milano 1554, par Jesus Martínez de Bujanda, Paul F.
Grendler avec l’ass. de René Davignon et Ela Stank,
Sherbrooke-Genève, Centre d’Études de la
Renaissance-Librarie Droz, 1987 («Index des livres interdits», dir.
Jesus Martinez
de Bujanda, III).
[231] Massimo Firpo, Vittore
Soranzo vescovo ed eretico. Riforma della Chiesa ed Inquisizione
nell’Italia del Cinquecento, Roma-Bari, Laterza, 2006, 511-515.
[232] Cfr a questo proposito Silvana Seidel Menchi,
Erasmo in Italia 1520-1580, Torino, Bollati Boringhieri, 1987, 73 ss.
[234] Index de Rome
cit., passim. Cfr. inoltre Vittorio Frajese, Le licenze di lettura e la politica del
Sant’Uffizio dopo l’Indice Clementino, e Ugo Baldini, Le congregazioni romane
dell’Inquisizione e dell’Indice e le scienze, dal 1542 al 1615,
tutti in L’Inquisizione e gli storici: un cantiere aperto, Atti del
seminario, Roma, 24-25 giugno 1999, Roma, Accademia dei Lincei, 2000,
rispettivamente 179-220, 329-364.
[237] Cfr. Hubert
Jedin, Storia del Concilio di
Trento, IV, Il terzo periodo e la conclusione, 2, Superamento
della crisi per opera di Morone, chiusura e riconferma, Brescia,
Morcelliana, 1981 (I ed. Freiburg, Verlag Herder, 1975), 55, 347-348.
[238] Cfr. Ugo Rozzo, Indice
espurgatorio, in Il libro religioso cit., 167-170, e Gigliola Fragnito,
Aspetti e problemi della giustizia espurgatoria, in L’Inquisizione
e gli storici cit., 161-178.
[239] Cfr. Thesaurus de la littérature
interdite cit., 27-29; Grendler, L’Inquisizione romana cit.,
335-361.
[240] Cfr. Index de Rome 1590, 1593, 1596,
par Jesus Martínez de Bujanda,
Ugo Rozzo, Peter G. Bietenholz,
Paul F. Grendler («Index
des livres interdits», dir. Jesus
Martínez de Bujanda, IX), Sherbrooke-Genève, Centre
d’Études de la Renaissance-Librairie Droz, 1994, 353-423, e
l’introduzione storica, 271-304; Antonio Rotondò, Cultura
umanistica e difficoltà dei censori. Censura ecclesiastica e discussioni
cinquecentesche, in Le pouvoir et la plume, Paris, Université
de la Sorbonne Nouvelle, 1982, 15-50; Thesaurus de la littérature
cit., 49 ss.; Giuseppe
Fumagalli, Di alcune edizioni sconosciute o rarissime
dell’Indice dei libri proibiti, «Rivista delle
biblioteche», 1 (1888), 27-28; Vittorio
Frajese, La Congregazione dell’Indice negli anni della
concorrenza con il Sant’Uffizio (1593-1603), «Archivio italiano
per la storia della pietà», 14 (2001), 207-255; Id., Nascita
dell’Indice cit., 131-147.
[241] Federico
Barbierato, Index librorum prohibitorum, in Libro e censure
cit., 123. Cfr. anche Ugo Rozzo, Dieci
anni di censura libraria (1596-1606), «Libri & Documenti»,
9 (1983), n. 1, 43-61. Più in generale cfr. Vittorio Frajese, La revoca dell’Index sistino e la
Curia romana, «Nouvelles de la République des Lettres»,
1 (1986), 15-49; Id.,
Nascita dell’Indice cit., 166-194; Paolo Simoncelli, Documenti interni alla Congregazione
dell’Indice 1571-1590: logica e ideologia dell’intervento censorio,
«Annuario dell’Istituto Storico Italiano per l’Età
Moderna e Contemporanea», 35-36 (1983-84), 187-215, sui prodromi
dell’Index sistino; e infine l’ampio quadro offerto da Rotondò, Nuovi documenti per
la storia cit., 145-211. Più in generale cfr. Dominique Julia, Letture e
Controriforma, in Storia della lettura nel mondo occidentale, a cura di Guglielmo Cavallo e Roger Chartier,
Roma-Bari, Laterza, 1995, 277-313.
[242] Grendler, L’inquisizione
romana cit., 362; Gigliola Fragnito, L’applicazione
dell’Indice dei libri proibiti di Clemente VIII, «Archivio
Storico Italiano», 159 (2001), 107-149.
[243] Cfr. Federico Barbierato, Espurgazione,
in Libro e censure cit., 100-102; Ugo Rozzo, L’espurgazione
dei testi letterari nell’Italia del secondo Cinquecento, in La
censura libraria cit., 219-227; Id., La letteratura italiana
negli Indici cit., 11-71; Nicola Longo, Prolegomeni per una storia della
letteratura italiana censurata, «Rassegna della letteratura
italiana», 68 (1974), 402-419; Id., Fenomeni di censura
nella letteratura italiana del Cinquecento, in Le pouvoir et la plume
cit., 275-284; Id.,
La letteratura proibita, in Letteratura italiana cit., V,
965-999; Gigliola
Fragnito, Censura ecclesiastica e letteratura d’evasione
nel Cinquecento, in Scuola di Dottorato in studi storici
dell’Università di Torino, Intellettuali e
politica, Torino, Aragno, 2006, 75-92.
[244] Cfr. Vittorio Cian, Un episodio
della storia della censura in Italia nel sec. XVI. L’edizione spurgata
del “Cortegiano”, «Archivio Storico Lombardo», 14
(1887), 661-724.
[245] Cfr. Luigi Firpo, Correzioni
d’autore coatte, in Studi e problemi di critica testuale,
Convegno di studi di filologia italiana nel centenario della Commissione per i
testi di lingua, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1961, 143-167.
Cfr. gli esempi delle censure iconografiche compresi in Inquisizione e
Indice nei secoli XVI-XVIII. Testi e immagini delle raccolte casanatesi, a
cura di Adriana
Cavarra, Roma, Biblioteca Casanatense-Aisthesis, 1998, 18-136.
[246] Cfr. Peter Godman, From Poliziano
to Machiavelli. Florentine Humanism in the High Renaissance, Princeton,
Princeton University Press, 1998, 303 ss.; più in generale Luigi Firpo,
La prima condanna di Machiavelli, Torino, SPE, 1967 (estratto
dall’«Annuario dell’Università degli Studi di
Torino», aa. 1966-67).
[248] Indicis librorum expurgandorum in studiosorum
gratiam confecti tomus primus..., Romae, ex Typographia R. Camerae
Apostolicae, 1607; cfr. Gigliola Fragnito, «In questo vasto mare de’ libri proibiti et sospesi tra tanti
scogli di varietà e controversie»: la censura ecclesiastica tra la
fine del Cinquecento e i primi del Seicento, in Censura ecclesiastica e
cultura politica cit., 30-31; Rozzo, Indice espurgatorio
cit., 168-169; Frajese,
Nascita dell’Indice cit., 351-368. Sulla censura e
l’espurgazione dei testi di diritto cfr. i fondamentali studi di Rodolfo Savelli,
Allo scrittoio del censore: fonti a stampa per la storia
dell’espurgazione dei libri di diritto in Italia tra Cinque e Seicento,
«Società e Storia», 26 (2003), n. 100-101, 293-330; Id., The
censoring of law books, in Church, censorship and culture cit.,
223-253; Id.,
La censura dei libri di diritto nella seconda metà del Cinquecento,
in A Ennio Cortese cit., III, 226-
[249] Ivi, 447-739, e
l’introduzione storica, 304-319; cfr. anche Rotondò, La censura
ecclesiastica e la cultura cit., 1469.
[250] Cfr. Mario Scaduto, Lainez e
l’Indice del 1559. Lullo, Sabunde, Savonarola, Erasmo,
«Archivum historicum Societatis Jesu», 24 (1935), 20.
[252] Cfr. Rotondò, La censura
ecclesiastica cit., 1449-1450; Id., Studi e ricerche di
storia ereticale del Cinquecento, I, Torino, Giappichelli, 1974, 277-294,
sull’ambiente culturale di Basilea; Grendler, L’Inquisizione
romana cit., 263.
[255] Thesaurus de la littérature
interdite cit., rispettivamente 90, 159-161. Cfr. Rodolfo Savelli, Da Venezia a Napoli: diffusione e censura
delle opere di Du Moulin nel Cinquecento italiano, e Artemio Enzo Baldini, Jean Bodin e
l’indice dei libri proibiti, entrambi in Censura ecclesiastica e
cultura politica cit., 101-154, 79-100; Luigi
Firpo, Ancora sulla condanna di Bodin, «Il Pensiero Politico»,
14 (1981), 171-186.
[256] Paolo Prodi, Il cardinale
Gabriele Paleotti (1522-1597), II, Roma, Edizioni di storia e letteratura,
1967, 238. Paleotti è autore di un trattato giuridico, De nuptiis
spuriisque filiis, Bononiae, apud Anselmum Giaccharellum, 1550. Paleotti si
riferisce con ogni probabilità alle Additiones ad commentarios Dini
(Muxellani) in regulis iuris pontificii, Lugduni, Jean Frellon, 1545, o
alle Additiones ad Philippum Decium in Regulis iuris, Lugduni, Jean
Frellon, 1545.
[258] L’opera di riferimento è quella di Jean-Louis Thireau,
Charles Du Moulin (1500-1566). Etude sur les sources, la méthode, les
idées politiques et économiques d’un juriste de la
Renaissance, Genève, Droz, 1980, 49-50. Cfr. la recensione al Du Moulin di Thireau di Domenico Maffei,
«Tijdschrift voor rechtsgeschiedenis», 51 (1983), 410-412, che
accentua ulteriormente la formazione umanistica del giurista francese. Cfr.
inoltre Franz
Gamillscheg, Der Einfluβ DumOulins auf Die
Entwicklung des Kollisionsrecht, Berlin, Mohr, 1955; Piano Mortari,
Cinquecento giuridico francese cit., 270-276; Donald Reed Kelley, «Fides historiae» : Charles
Dumoulin and the Gallican view of history, «Traditio», 22
(1966), 347-402; Jochen
Otto, Du Moulin (Molinaeus), Charles, in Juristen
cit., 181-182; Antonio
Pau, Charles Dumoulin, in Juristas universales
cit., II, 174-177, per ogni bibliografia ulteriore.
[260] Posizioni ribadite anche nel In regulas Cancelleriae
Romanae hactenus in regno Franciae usus receptas commentarius analyticus,
Parisiis, apud Hadrianum Perier, 1599, e addirittura accentuate nel Conseil
sur le faict du Concile de Trente..., Lyon, Charles Du Moulin, 1564.
[261] Cfr. Charles Du Moulin, Commentariarum in consuetudines
parisienses, prima pars et secunda pars, Parisiis, apud Poncetum Le Preux,
1539 (altre edizioni 1554, 1559, 1575, 1576 tre edizioni). Cfr. IA, ad
nominem, e Thireau,
Charles Du Moulin cit., 114 ss.; Piano Mortari, Cinquecento
giuridico cit., 270-271; Id., Potere regio e consuetudine cit., 131 ss.; René Filhol,
La rédaction des coutumes en France aux XVe et XVIe siècles,
in La rédaction des coutumes dans le passé et dans le
présent, sous la direction de John Gilissen, Bruxelles,
Editions de l’Institut de Sociologie de l’Université Libre
de Bruxelles, 1962, 63-78; D. Gaurier, La revendication d’un droit
national contre le droit romain, «Revue internationale des droits de
l’antiquité», 41 (1994), supplement, 39-40.
[262] Cfr. Charles Du Moulin, Tractatus commerciorum et
usurarum, Parisiis, apud Ioan Lodoicum Tiletanum, 1546, tradotto in
francese nel 1547. Nel XVI secolo il Tractatus conobbe
altre 9 edizioni (IA). Cfr. a questo proposito Rodolfo Savelli, Diritto romano
e teologia riformata: Du Moulin di fronte al problema dell’interesse del
denaro, «Materiali per una storia della cultura giuridica», 23
(1993), 291-324, cui si rinvia.
[265] Cfr. Antonio Era, Carlo Dumoulin e
Nicola Antonio Gravazio, «Rivista di storia del diritto
italiano», 7 (1934), n. 2, 388-407.
[266] Cfr., oltre il vecchio studio di Alessandro Lattes,
Carlo Dumoulin e Gaspare Caballino, «Archivio giuridico»,
serie IV, 11 (1926), 7-19, Jürgen Becker, Cavallini (Caballino), Gaspare,
in Dizionario biografico degli italiani, XXII, Roma, Istituto
dell’Enciclopedia Italiana, 1979, 773-774; Paolo Colliva, Due studiosi
cinquecenteschi delle “Constitutiones” dell’Albornoz:
Virginio de’ Boccacci e Gaspare Cavallini da Cingoli, in Storiografia
e storia. Studi in onore di Eugenio Dupré Theiseider, II, Roma,
Bulzoni, 1974,
[267] Cfr. le belle pagine, ancora attuali, di Luigi Firpo,
Filosofia italiana e Controriforma, Torino, Edizioni di Comunità,
1951 (estratto da «Rivista di filosofia», 1950-51), 1-55.
[268] Per la biografia di Possevino e per
l’analisi della Bibliotheca selecta cfr. il recente, approfondito
studio di Luigi
Balsamo, Antonio Possevino S.J. bibliografo della
Controriforma e diffusione della sua opera in area anglicana, Firenze,
Olschki, 2006. Secondo Vittorio Frajese, La revoca dell’Index sistino
e la curia romana (1588-1596), «Nouvelles de la République des
Lettres», 1 (1986), 32, l’opera di Possevino era pensata e composta
«in stretta connessione con l’Index
librorum prohibitorum del quale costituiva un’integrazione».
[272] Anton
Francesco Doni, La Libraria, a cura di Vanni Bramanti, Milano, Longanesi & C., 1972, 61; Giovanna Romei, Doni Anton Francesco,
in Dizionario biografico degli italiani, XLI, Roma, Istituto
dell’Enciclopedia Italiana, 1992, 158-166, e le stimolanti osservazioni
di Amedeo Quondam, La
letteratura in tipografia, in Letteratura italiana, dir. Alberto Asor Rosa, II, Produzione e
consumo, Torino, Einaudi, 1983, 620-631; sulle bibliografie cinquecentesche
cfr. anche Lodovica
Braida, Stampa e cultura in Europa tra XV e XVI secolo,
Roma-Bari, Laterza, 2000, 113-117.
[273] Cfr. Vita del Padre Antonio Possevino
della Compagnia di Gesù già scritta in lingua francese dal padre
G. Dorigny della medesima compagnia ora tradotta nella volgare lingua italiana,
I, Venezia, Remondini, 1759, 72-76. La traduzione è del gesuita Nicolò Ghezzi.
Sull’attività di fondatore e di organizzatore di collegi cfr. Laszlò Lukács, Die
nordischen päpstlichen Seminarien und P. Possevino 1577-1587,
«Archivum historicum Societatis Jesu», 24 (1955), 33-94.
[274] Gli esaminatori erano: Giovanni Azorio
(Juan Azor) per la teologia, Roberto Bellarmino per gli aspetti
controversistici, Bernardino Rosignoli per la filosofia, Cristhopher Clavius
per la matematica, Paolo Piccolomini per la giurisprudenza, Vincenzio Buerio
per la medicina, i professori del Collegio Romano per la letteratura (humaniora).
[275] Romeo
De Maio, I modelli culturali della Controriforma. Le biblioteche dei
conventi italiani alla fine del Cinquecento, in Riforme e miti nella
Chiesa del Cinquecento, Napoli, Guida, 1973, 360; cfr. anche Barbara
Mahlmann-Bauer, Antonio Possevino’s Bibliotheca
Selecta. Knowledge as a weapon, in I Gesuiti e la Ratio
studiorum, a cura di Manfred
Hinz, Roberto Righi, Danilo Zardin, Roma, Bulzoni, 2004, 313-355;
Candida Carella,
Antonio Possevino e la biblioteca «selecta» del
principe cristiano, in Bibliothecae Selectae: da Cusano a Leopardi, a
cura di Eugenio
Canone, Firenze, Olschki, 1993, 507-516.
[276] Un’approfondita analisi del
contenuto dell’opera è in Albano
Biondi, La Bibliotheca Selecta di Antonio Possevino. Un
progetto di egemonia culturale, in La «Ratio studiorum».
Modelli culturali e pratiche
educative dei Gesuiti in Italia tra Cinque e Seicento, a cura di Gian Paolo Brizzi,
Roma, Bulzoni, 1981, 43-75; in Balsamo, Antonio Possevino cit., 55-88, e in Alfredo Serrai, Storia della bibliografia
cit., IV, Cataloghi a stampa. Biblioteche teologiche. Biblioteche
filosofiche. Antonio Possevino, a cura di Maria Grazia Ceccarelli, Roma,
Bulzoni, 1993, 713-750. Una comparazione tra l’opera di Gesner e quella
di Possevino è stata fatta da Helmut
Zedelmaier, Bibliotheca universalis und Bibliotheca selecta,
Köln-Weimar-Wien, Böhlau Verlag,
[277] Antonio
Possevino, Bibliotheca selecta qua agitur de ratione studiorum in
historia, in disciplinis, in salute omnium procuranda, I, Romae, ex
typographia Apostolica Vaticana, 1593, 7.
[278] Antonio
Possevino, Coltura degl’Ingegni, Vicenza, appresso Giorgio
Greco, 1598, 98-111. Cfr. a questo proposito le acute osservazioni di Leandro Perini, Editori e potere in
Italia dalla fine del secolo XV all’Unità, in Storia
d’Italia. Annali, 4, Intellettuali e potere, a cura di Corrado Vivanti, Torino, Einaudi, 1981,
811-813; Balsamo,
Antonio Possevino cit., 64-72.
[279] Ivi. Il primo tomo della Bibliotheca
selecta, destinato alla fondazione della cultura religiosa cattolica, prosegue
con il metodo per lo studio della Sacra Scrittura o «Theologia
positiva» (libro II), con l’iniziazione alla «Theologia
scholastica» (libro III), con la «Theologia catechetica»
(libro IV), con la descrizione della milizia di Cristo, cioè gli ordini
regolari e militari (libro V); il secondo gruppo di libri (VI-XI) affronta i
temi missionari e quelli della lotta alle eresie. Il secondo tomo è
dedicato alle discipline «humanae» e Possevino sviluppa temi
monografici sulla giurisprudenza (libro XII), sulla filosofia (libro XIII),
sulla medicina (libro XIV), sulla matematica, con la musica,
l’astrologia, l’architettura, la cosmografia e la geografia (libro
XV), sulla metodica e sull’uso ragionato della storia (libro XVI), sulla
poesia e sulla pittura (libro XVII), sulla retorica e l’arte dello
scrivere (libro XVIII). Insomma, una grande opera enciclopedica e tematica che
intendeva affrontare, indicando le letture e gli autori “ammessi”,
tutti gli ambiti del sapere.
[280] Balsamo,
La bibliografia cit., 38-39; Id., How to doctor a
bibliography: Antonio Possevino’s practice, in Church censorship
cit., 50-78; Id.,
Antonio Possevino cit., 59-64.
[282] Albano
Biondi, Aspetti della cultura cattolica post-tridentina. Religione e
controlli sociali, in Intellettuali e potere cit., 297.
[283] Savelli, Da Venezia a Napoli
cit.,
[284] Possevino, Bibliotheca
selecta cit., II, p.56. Cfr. anche Balsamo, Antonio Possevino
cit., 75-77; Savelli,
La censura dei libri di diritto cit., 243-344, Id., Da Venezia a Napoli
cit., 141.
[285] Possevino,
Bibliotheca selecta cit., II, 1-60. Su Panciroli cfr. Brugi, La scuola padovana di diritto
romano nel secolo XVI, Padova, Tipografia F. Sacchetto, 1888, cap. VIII; Aldo Bacchi Andreoli, Alcuni studi
intorno a Guido Panciroli, Reggio Emilia, Tipografia Calderini, 1903. Il
diritto viene esposto anche attraverso tabelle e specchi diagrammatici.
L’estratto ebbe nello stesso 1593 due edizioni a Roma, una in folio e
l’altra in ottavo. Cfr. a questo proposito anche Biondi, Aspetti della cultura cattolica cit., 44,
62-64.
[287] Balsamo,
Venezia e l’attività cit.,
[288] Cfr. Claude
Clément, Musei sive Bibliothecae tam privatae quam publicae
extructio, instructio, cura, usus libri IV..., Lugduni, sumptibus Jacobi
Prost, 1635, 455.
[289] Cfr. Antonio
Possevino, Apparatus Sacer ad scriptores veteris, et novi testamenti.
Eorum
interpretes, Synodos, et Patres Latinos, ac Graecos..., Venetiis, apud
Societatem Venetam, 1603. Cfr. a questo proposito Serrai, Storia della bibliografia
cit., IV, 750-760, che rivaluta ampiamente l’Apparatus.
[290] Paolo
Sarpi, Sopra l’officio dell’Inquisizione, in Opere
cit., 592, cit. anche in Rotondò,
La censura ecclesiastica cit., 1473. Cfr. inoltre Vittorio Frajese, Sarpi scettico. Stato e Chiesa a Venezia tra
Cinque e Seicento, Bologna, Il Mulino, 1994, 337-
[291] Calasso, Medioevo del diritto cit., I, 599. Cfr. anche Dionisotti,
Filologia umanistica cit., 1971,
196-198; Vittore
Branca, Poliziano e
l’Umanesimo della parola, Torino, Einaudi, 1983, 82-189.
[292] Cfr. i vecchi studi di Lodovico Frati,
Lodovico Bolognini, «Studi e memorie per la storia
dell’Università di Bologna», 1 (1908), 2, 126 ss.; e di Lino Sighinolfi,
Angelo Poliziano, Ludovico Bolognini e le Pandette fiorentine, «La
Bibliofilia», 24 (1922), 165-202, teso a valorizzare il ruolo di
Bolognini rispetto a quello di Poliziano, smentito decisamente da Dionisotti,
Filologia umanistica cit., 197-204, ed inoltre cfr. Severino Caprioli,
Bolognini, Ludovico, in Dizionario biografico degli italiani,
XI, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1969, 337-352; Id., Indagini sul Bolognini. Giurisprudenza e
filologia nel Quattrocento italiano, Milano, Giuffrè, 1969, 205-269.
[293] Calasso, Medioevo del diritto cit., I, 600; Id., Umanesimo giuridico, in Introduzione
al diritto comune, Milano, Giuffrè, 19702, 181-205; Paul Koschaker,
L’Europa e il diritto romano,
intr. di Francesco
Calasso, Firenze, Sansoni, 1962 (I ediz. München-Berlin, Beck, 1958),
185-213.
[294] Su du Rivail cfr. Jean-Louis Ferrary, Naissance
d’un aspect de la recherche antiquaire. Les premiers travaux sur les lois
romaines de l’Epistula ad Cornelium de Filelfo à l’Historia
iuris civilis d’Aymar du Rivail, in Ancient history and the
Antiquarian. Essays in memory of Arnaldo Momigliano, London, Warburg Institut, 1995, 32-72; Domenico Maffei,
Alessandro d’Alessandro giureconsulto umanista (1461-1523),
Milano, Giuffrè, 1956; Mauro de Nichilo, D’Alessandro (Alessandri),
Alessandro, in Dizionario biografico degli italiani, XXXI, Roma,
Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1985, 729-732; Giancarlo Vallone,
Alessandro e Antonino d’Alessandro, in Scritti di storia e di
diritto cit., 319-352. Dell’opera di d’Alessandro si contano 36
edizioni sino al 1673. Su entrambi cfr. Oliviero Diliberto, La
palingenesi decemvirale: dal manoscritto alla stampa, in Le Dodici
Tavole. Dai Decemviri agli Umanisti, a cura di Michel Humbert, Pavia, Iuss
Press, 2005, 487-493; Id., Bibliografia ragionata cit., 47-52.
[295] Cfr. oltre Feuter, Storia della
storiografia cit., 169-171; William Mc Cuaig, Carlo
Sigonio. The changing world of the late Renaissance, Princeton, Princeton University
Press, 1989, 174-250.
[296] Cfr. Hans Erich Troje, Gregor
Haloander, in Juristas universales cit., II, 177-180; Id., Graeca
leguntur cit., 401 ss.; Stintzing, Geschichte der deutschen
Rechtswissenschaft cit., I, 180-209; Wolfang Kaiser, Digesten. Überlieferung, in Der
neue Pauly Enzyklopädie der Antike, 13, Stuttgart-Weimar, Verlag J.B.
Metzler, 1999, 848-849; il vecchio Emilio Costa, Storia delle
fonti del diritto romano, Milano-Torino-Roma, Fratelli Bocca, 1909,
143-148.
[297] «Venit in manus meas –
scriveva il 1° agosto 1528 Amerbach al suo amico e maestro Alciato,
analizzando il lavoro di Meltzer fresco di stampa – Pandectarum nostrarum
volumen Gregorii Haloandri cura et archetypi Florentini (ita enim praefatur)
aliorumque veterum codicum fidem castigatum»: Die Amerbachkorrespondez
cit., III, n. 1369; cfr. anche Bernhard Pahlmann, Bonifacius Amerbach, in Deutsche
und Europäische Juristen cit., 24-27; Guido Kisch, Bonifacius
Amerbach: Gedenkrede anlässlich der 400. Wiederkehr seines Todestages, Basel, Helbing & Lichtenhahn,
1962.
[298] Cfr. Cornel A. Zwierlein, Reformation als Rechtsreform.
Bucers Hermeneutik der lex Dei und sein humanisticher Zugriff auf das
römische Recht, in Martin Bucer und das Recht, Beiträge zum
internationalen Symposium vom 1. bis 3. mars 2001, hrsg. von Christoph Strohm,
Genève, Librairie Droz, 2002, 53-
[299] Pandectarum seu digestorum Iustiniani
imp. libri quinquaginta non solum ad editionem Gregorii Haloandri diligenter
collati sed et Andrea Alciati iureconsultorum nostra aetate decoris consilio
iudicioque in quam plurimis locis feliciter recogniti..., Basileae, apud. Io.
Hervagium, 1548. Alciato si era potuto giovare del testo di Antonio
Agustín, Emendationum et opinionum libri IV. Una cum
eiusdem Ad Modestinum sive de excusationibus liber singularis, Venetiis,
expensis Haeredum Lucaeantonij Iuntae, 1543.
[300] Cfr. Cortese, Il diritto nella
storia cit., II, 469; Osler, Catalogue of books cit., I, nn.
1033-1038, 266-268.
[301] Cfr. Osler, Catalogue of books
cit., I, nn. 1051-1054, 272-273; Costa, Storia delle fonti
cit., 146-147; Piano
Mortari, Itinera juris
cit., 192; Id.,
Cinquecento giuridico francese cit., 358-365; Troje, Die Literatur des
gemeinen Rechts cit., 647-655.
[302] Cfr. Digestorum seu Pandectarum libri
quinquaginta ex Florentinis Pandectis repraesentati, Florentiae, in officina
Laurentii Torrentini ducalis typographi, 1553.
[303] Cfr. Theodor
Mommsen, Praefatio a Digesta Iustiniani Augusti, I,
Berolini, apud Weidmannos, 1870. Cfr. inoltre Giovanni
Gualandi, Per la storia dell’editio princeps delle
Pandette fiorentine di Lelio Torelli, e Franz
Wieacker, Mommsens Digestorum editio maior: Aspekte und Aporien,
entrambi in Le Pandette di Giustiniano cit., rispettivamente 143-198,
199-214; Mario Ascheri, Firenze
dalla Repubblica al Principato: la motivazione della sentenza e l’edizione
delle Pandette, in Tribunali, giuristi e istituzioni dal Medioevo
all’età moderna, Bologna, Il Mulino, 1989, 66-68, secondo cui
la pubblicazione delle Pandette non deve essere valutata alla stregua di un
«semplice recupero antiquario», ma si deve interpretare come un
«intervento editoriale [...] omologo rispetto a quelli della linea
antimedievalistica culta francese che andava ormai sfociando in aperto
nazionalismo giuridico».
[304] Sui rapporti tra la Littera florentina
e quella bononiensis cfr. Hermann
Kantorowicz, Über die Entstehung der Digestenvulgata.
Ergänzungen zu Mommsen, Weimar, H. Böhlaus, 1910; Pietro Pescani, De Digestorum
archetypo, in Studi in onore di E. Betti, III, Milano,
Giuffrè, 1962, 587-628; Id., Studi
sul Digestum vetus, «Bollettino dell’istituto di diritto
romano», 84 (1981), 159-250; Troje,
Graeca leguntur cit., 41-49; Elias Anvery Lowe, Paleographical
Papers 1907-1965, edited by Ludwig Bieler, Oxford, Clarendon
Press, 1972, I, 187-202, II, 251-274; oltre, ovviamente, Mommsen, Praefatio cit., LXIII
ss.; e M.C.
Vicario, Il manoscritto Laurenziano delle Pandette: appunti
per una ricognizione codicologica, in Justiniani Augusti, Pandectarum
Codex Florentinus, I, a cura di Alessandro Corbino e Bernardo Santalucia,
Firenze, Olschki, 1988, 11-21.
[305] Agustín, Emendationum et opinionum iuris civilis cit., lib. I, cap. I, passim. L’umanista spagnolo
dedicò alla Littera florentina anche il De nominibus propriis
tou Pandektos Florentini, Tarraconae, Philippus Mey, 1579, dove incluse un
registro palingenetico dei frammenti del Digesto, l’edizione delle
costituzioni greche del Codice insieme all’Epitome Iuliani delle Novelle
(Constitutionum Graecarum Codicis
Iustiniani collectio et interpretatio, Ilerde, Petrus Roburius, 1567), e il
De legibus et senatus-consultis liber, Romae, ex typ. D. Basal, 1583.
Cfr. anche Domenico
Maffei, Nota minima su Antonio Agustín e Jean Matal,
in Studi di storia delle università cit., 375-382. Cfr. inoltre Peter Landau,
Agustín (Augustinus) Antonio, in Juristen cit., 21-23; Cuena, Antonio
Agustín cit., 212-216, con bibliografia aggiornata. Cfr. anche Jean-Louis Ferrary,
Saggio di storia della palingenesi delle Dodici Tavole, in Le Dodici
Tavole cit., 514-519, e i saggi compresi in Antonio Agustín
between Renaissance and Counter-Reform, edited by Michael H. Crawford,
London, Warburg Institute, 1993.
[307] Cfr. Corrispondence de Lelio Torelli avec Antonio
Agustín et Jean Matal (1542-1555), ed. par Jean Louis Ferrary, Como, New
Press, 1992.
[308] Sui rapporti tra i due studiosi cfr. anche Gualandi, Per la storia dell’editio
princeps cit., 181-198, con documenti inediti, e Cándido Flores Sellés,
Epistolario de Antonio Agustín, Salamanca, Ediciones de la Universidad
de Salamanca, 1980; Id., Escritos
inéditos de Antonio Agustín, «Bulletin of medieval
canon law», n.s., 9 (1979), 84-88.
[309] Cfr. Godefridus
Joannes Hoogewerff, L’editore del Vasari: Lorenzo Torrentino,
in Studi vasariani, Atti del Convegno internazionale per il IV
centenario della prima edizione delle Vite del Vasari, Firenze, 16-19
settembre 1950, Firenze, Sansoni, 1952, 99-101, con il testo del contratto; Gualandi, Per la storia cit.,
178-180; Berta Maracchi Bigiarelli,
Il privilegio di stampatore ducale nella Firenze medicea,
«Archivio storico italiano», 123 (1965), 304-
[310] Sull’attività di Torrentino
cfr. Perini, Editori e potere
cit., 788-798; Claudia di Filippo
Bareggi, Giunta, Doni, Torrentino: tre tipografie fiorentine tra
repubblica e principato, «Nuova rivista storica», 58 (1974),
326-348; ed i vecchi studi di Domenico Moreri, Annali della Tipografia fiorentina
di Lorenzo Torrentino impressore ducale, Firenze, Francesco Daddi, 1819,
ediz. anast. a cura di Mario Martelli, Firenze, Le Lettere, 1989, e di Giuseppe Ottino, Di Bernardo Cennini
e dell’arte della stampa in Firenze nei primi cento anni
dell’invenzione di essa, Firenze, Tipografia Galileiana, 1871, 65.
[311] Cfr. a questo proposito Ernst Peter Johann Spangenberg, Einleitung in das
römisch-Justinianeische Rechtsbuch oder Corpus Iuris Civilis Romani,
Hannover, bei den Brüdern Hahn, 1817, 797.
[312] Cfr. Francisco J. Andrés, Denis Godefroy, in Juristas
universales cit., II, 284-287; Hartmut Nitschke, Dionysus
Gothofredus, in Deutsche und Europäische Juristen cit.,
160-163, entrambi con bibliografia aggiornata. Cfr. Stintzing, Geschichte der
deutschen Rechtswissenschaft cit., I, 386-389; Troje, Graeca leguntur
cit., 151 ss.; Piano
Mortari, Cinquecento giuridico francese cit., 365-368; Id., Itinera juris cit., 191-194.
[313] Iustinianus Corpus Iuris...
commentariis Dionys. Gothofredi
I.C. illustrati, Lugduni, in officina Barthol. Vincentii,
excudebat Iacobus Stoer, 1583, 3 volumi in 4°. Cfr. Osler, Catalogue
of books printed cit., I, nn. 1086-1088, 282, e nn. 1090-1094, 283-286, per
le altre edizioni.
[314] Cfr. Angela
Nuovo, Alessandro Paganino (1509-1538), Padova, Antenore, 1990,
38, 74-77, 135, 179-180.
[315] Cfr. Osler,
Catalogue of books printed on the continent of Europe cit., I, nn.
1076-1085, 1112-1114, 116, 1123-1124.
[317] Cfr. Birocchi,
Alla ricerca dell’ordine cit., 233-243; Adriano Cavanna, Storia del diritto moderno in Europa,
I, Le fonti e il pensiero giuridico, Milano, Giuffrè, 1979,
193-216; Ascheri, Introduzione
al diritto moderno e contemporaneo cit., 98-104; Bellomo, L’Europa del diritto comune cit.,
225-229; Gian Paolo Massetto, La
trattatistica, in Bibliotheca Senatus Mediolanensis. I libri giuridici
di un Grande Tribunale d’ancien régime, a cura di Graziella Buccellati e Anna Marchi, direzione scientifica Antonio Padoa Schioppa, Gigliola di Renzo Villata, Milano,
Università degli studi di Milano, 2002, 99-138.
[319] Cfr. a questo proposito Ennio Cortese, Il rinascimento
giuridico medievale, Roma, Bulzoni, 1992, 71-75; Birocchi, Alla ricerca dell’ordine cit., 240-241.
[320] L’espressione è di Mario Sbriccoli,
Giustizia negoziata, giustizia egemonica. Riflessioni su una nuova fase
degli studi di storia della giustizia criminale, in Criminalità e
giustizia in Germania e in Italia. Pratiche giudiziarie e linguaggi giuridici
tra tardo medioevo ed età moderna, a cura di Marco Bellabarba,
Gerd
Schwerhoff, Andrea Zorzi, Bologna-Berlin, Il Mulino-Duncker &
Humblot, 2001, 345-364; Pifferi, Generalia delictorum cit., 6-11.
[321] Le notizie sono tratte da Birocchi, Alla ricerca dell’ordine
cit., 82; Chiaudano,
I lettori cit., 169; Coing,
Die juristiche Fakultät cit., 41-42, sull’insegnamento
penalistico.
[322] In generale sul diritto penale
cinquecentesco cfr. Franco Cordero,
Criminalia. Nascita dei sistemi penali, Roma-Bari, Laterza, 1983,
289-358; Mario Sbriccoli, Giustizia
criminale, in Lo Stato moderno in Europa. Istituzioni e diritto, a
cura di Maurizio Fioravanti¸
Roma-Bari, Laterza, 2002, 163-184; Ettore
Dezza, Accusa e inquisizione dal diritto comune ai codici moderni,
I, Le fonti e il pensiero giuridico, Milano, Giuffrè, 1979, 146
ss.; Birocchi¸ Alla
ricerca dell’ordine cit., 253-269; fra i saggi meno recenti cfr. Antonio Marongiu, La scienza del
diritto penale nei secoli XVI-XVII, in La formazione storica del diritto
moderno cit., I, 407-429; Italo
Mereu, Storia del diritto penale nel ’500. Studi e ricerche,
I, Napoli, Morano, 1964. Cfr. inoltre Renée
Martinage, La dottrina penale in Europa nel XVI secolo, Mario Sbriccoli, Lex
delictum facit. Tiberio Deciani e la criminalistica italiana nella fase
cinquecentesca del penale egemonico, entrambi in Tiberio Deciani
cit., 75-89, 91-119.
[323] Cordero,
Criminalia cit., 263. Sul giurista alessandrino cfr. Aldo Mazzacane, Claro Giulio, in
Dizionario biografico degli italiani, XXVI, Roma, Istituto
dell’Enciclopedia Italiana, 1982, 141-146; Ernst von Moeller, Julius Clarus aus Alessandria, der
Kriminalist des 16. Jahrhunderts, der Rat Philipps II (1523-1575), Breslau,
Schletter, 1911; Gian Paolo Massetto,
Saggi di storia del diritto penale lombardo (secc. XVI-XVIII), Milano,
Led, 1994, 11-227; Carlo
Venturini, Giulio Claro, in Juristas universales
cit., II, 229-232.
[324] Cfr., oltre il vecchio studio di Marongiu, Tiberio Deciani cit.,
e il profilo biografico di Spagnesi,
Deciani Tiberio cit., 538-542, soprattutto i due contributi di Sbriccoli, Lex delictum facit cit., ed Ettore Dezza, Sistematica
processuale e recupero del principio accusatorio nel Tractatus criminalis di
Tiberio Deciani, entrambi in Tiberio Deciani (1509-1592) cit., rispettivamente
91-119, 156-175; ed il recente Pifferi, Generalia delictorum cit., 93-262.
[325] Cfr. Aldo
Mazzacane, Farinacci Prospero, in Dizionario biografico degli
italiani, XLV, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1995, 1-5; Cordero, Criminalia cit.,
339-406, con penetranti giudizi; Birocchi,
Alla ricerca dell’ordine cit., 267-269.
[326] I dati proposti da Nicolò Del Re, Prospero Farinacci, giureconsulto
romano (1544-1618), «Archivio della Società romana di storia
patria», 98 (1975), 183-186, relativi a 7 edizioni, non coincidono con
quelli dell’ICCU cui si fa riferimento.
[327] Su Bossi cfr. Gigliola di Renzo Villata¸ Egidio Bossi, un
criminalista milanese quasi dimenticato, in Ius mediolani. Studi di
storia del diritto milanese offerti dagli allievi a Giulio Vismara, Milano,
Giuffrè, 1996, 365-616. Nell’IA sono segnalate 9 edizioni. Cfr.
inoltre Maria Teresa Napoli, Follerio
Pietro, in Dizionario biografico degli italiani, XLVIII, Roma,
Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1997, 560-562; e nella stessa opera,
XX, 1977, Aldo Mazzacane, Cartari
Flaminio, 786-788.
[328] Sbriccoli,
Giustizia criminale cit., 174, e 173-178, sulle diverse «practicae
criminales»; cfr. Giorgia Alessi,
Il processo penale. Profilo storico, Roma-Bari, Laterza, 2001, 71-83.
[329] Su Maranta cfr. le notizie biografiche in Domenico Maffei, Prospero Rendella
giureconsulto e storiografo, in Studi di storia delle università
cit., 458-460; Marco
Nicola Miletti, Maranta, Roberto, in Dizionario
biografico degli italiani, di imminente pubblicazione; Filippo Liotta, Asini Giovanni
Battista, in Dizionario Biografico degli Italiani, IV, Roma,
Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1962, 397-398.
[330] Jacopo Menochio, Consiliorum
sive responsorium libri XIII, Venetiis, apud Franciscum Zilettum, 1575-92; Cordero, Criminalia cit., 338.
Cfr. inoltre Luigi Franchi, Memorie biografiche di
Giacomo Menochio, in Contributi alla storia dell’Università
di Pavia, Pavia, Tipografia cooperativa, 1925, 325-354; Cesare Beretta, Jacopo Menochio
giurista e politico, «Bollettino della Società pavese di
storia patria», n.s., 43 (1991), 245-277; Chiara Valsecchi, L’istituto
della dote nella vita del diritto del tardo Cinquecento: i Consilia di
Jacopo Menochio, «Rivista di storia del diritto italiano», 67
(1994), 205-282; Gigliola di Renzo
Villata, Tra leggi e scienza giuridica nella Milano d’ancien
régime, in Bibliotheca Senatus Mediolanensis cit., 88-89.
Bibliografia ulteriore in Martín Serrano-Vicente, Jacopo
Menochio, in Juristas universales cit., II, 248-250; Ernst Holthöfer,
Menocchio Jacopo, in Juristen
cit., 423-424.
[331] Cfr. Guido Kisch, Consilia: Eine
Bibliographie der juristischen Konsielensammlugen, Basel-Stuttgart, Helbing
& Lichtenhahn, 1970; Mario Ascheri, I consilia dei giuristi medievali per
un repertorio-incipitario computerizzato, Siena, Il Leccio, 1982; Gérard
Giordanengo, Consilia feudalia, e Vincenzo Colli, Consilia
dei giuristi medievali e produzione libraria, entrambi in Legal
Consulting in the Civil-Law tradition, edited by Mario Ascheri, Ingrid
Baumgärtner, Julius Kirshner, Berkeley, The Robbins
Colletion, 1999, rispettivamente 143-172, 173-225: a quest’ultimo si
rinvia per la dettagliata ricognizione delle stampe quattrocentesche.
[332] Cfr. Savigny, Storia del diritto
romano nel Medioevo cit., II, 571-572; Mario
Ascheri, I giuristi consulenti d’ancien régime, in Tribunali
giuristi cit., 185-209; Id., Introduzione
storica al diritto moderno cit., 38-44; Id.,
Le fonti e la flessibilità del diritto comune: il paradosso del
consilium sapientis, in Legal consulting in the civil law tradition
cit., 11-53; Consilia in späten Mittelalter. Zum historischen
Aussagewert einer Quellengattung, hrsg. von Ingrid Baumgärtner,
Simmaringen, Jan Thorbecke, 1995; l’elenco delle raccolte a stampa dei consilia
è in Mario Ascheri, Diritto
medievale e moderno. Problemi
del processo, della cultura e delle fonti giuridiche, Rimini, Maggioli,
1991, 234-236; Chiara Valsecchi, La
letteratura consiliare, in Bibliotheca Senatus Mediolanensis cit.,
153-164. Come è stato sottolineato, «la giurisprudenza consulente,
oltre ad essere solidale con il movimento che assegna alla communis opinio
un posto di rilievo e in un certo senso il primato tra le fonti, fornirà
poi alla communis opinio stessa la principale sua sostanza»: Luigi Lombardi
Vallauri, Saggio sul diritto giurisprudenziale, Milano,
Giuffrè, 1967, 124.
[333] Cfr. Cristina
Danusso, Le fonti dottrinali feudistiche, in Bibliotheca
Senatus Mediolanensis cit., 139-
[334] Nella feudistica cinquecentesca si
distinguono i Consilia feudalia (8 edizioni) e la Summa super usibus
feudorum (2 edizioni) del giurista astigiano Alberto Bruno (1467 circa-1541
circa), le Repetitiones feudales (6 edizioni) del giureconsulto
beneventano Bartolomeo Camerario (1497-1564), il Tractatus feudorum (7
edizioni) del pavese Franceschino Corti (1470 circa-1533), il Super feudis
(5 edizioni) del padovano Jacopo Alvarotti, il De concessione feudi
tractatus (4 edizioni) del giurista siciliano Pietro De Gregorio (morto nel
1534 circa), il De subfeudis (3 edizioni) del napoletano Marino Freccia
(1503-1566), il De feudis tractatus (2 edizioni) del catanese
Niccolò Intriglioli (1562-1604), i Consilia feudales (2 edizioni)
del napoletano Sigismondo Loffredo (morto nel 1539), il Theatrum feudale
(3 edizioni) del napoletano Camillo Della Ratta, le Repetitiones feudales
(1 edizione) del giurista partenopeo Giovanni Antonio Lanaro (morto nel 1590).
Continuavano inoltre ad essere stampate le opere feudistiche dei giuristi
medievali: ad esempio, gli In usus feudorum commentaria di Andrea
d’Isernia (morto nel 1316) ebbero 6 edizioni cinquecentesche.
[335] Un dettagliato profilo biografico è
quello di Luigi Franchi¸ Benvenuto
Stracca giureconsulto anconitano del secolo XVI, Roma, Loescher, 1888; cfr.
anche Alessandro Lattes, Lo
Stracca giureconsulto, «Rivista di diritto commerciale», 7
(1909), 624-649; gli atti del convegno Benvenuto Stracca nel quarto
centenario della morte, Ancona, Camera di Commercio Industria e
Artigianato, 1981; Vito
Piergiovanni, Courts and the development of commercial law at
beginning of the Modern Age, in The Courts and the development of
commercial law, edited by Vito Piergiovanni, Duncker & Humblot, Berlin,
1987, 14-16; Id.,
La giustizia mercantile, in Il diritto fra scoperta e creazione.
Giudici e giuristi nella storia della giustizia civile, Atti del Convegno
internazionale della Società Italiana di storia del diritto, Napoli,
18-20 ottobre
[336] Cfr. Mario
Ascheri, I “grandi tribunali” d’ancien
régime e la motivazione della sentenza, in Tribunali, giuristi
cit., 85-183; Angela Santangelo Cordani,
La giurisprudenza dei Grandi Tribunali, in Bibliotheca Senatus
cit., 165-178; i classici studi di Gino
Gorla, Diritto comparato e diritto comune europeo, Milano,
Giuffrè, 1981; Cavanna, Storia
del diritto moderno cit., I, 155-171; i saggi compresi in Grandi
tribunali e Rote nell’Italia di Antico Regime, a cura di Mario Sbriccoli e Antonella Bettoni, Milano,
Giuffrè, 1993; Rodolfo Savelli¸
Tribunali, «decisiones» e giuristi: una proposta di ritorno alle
fonti, in Origini dello Stato. Processo di formazione statale in Italia
fra Medioevo e Età moderna, a cura di Giorgio Chittolini, Anthony Molho, Pierangelo Schiera,
Bologna, Il Mulino, 1994, 397-421; Ugo
Petronio, I Senati giudiziari, in Il Senato nella storia. Il
Senato nel Medioevo e nella prima età moderna, Roma, Istituto
Poligrafico e Zecca dello Stato, 1997, 355-453; Id., Senato (diritto intermedio), in Enciclopedia
del diritto, XLI, Milano, Giuffrè, 1989, 1151-1164; Marco Nicola Miletti, Tra
equità e dottrina. Il Sacro Regio Consiglio e le
«decisiones» di V. De Franchis, Napoli, Jovene, 1995; Id., Stylus
judicandi. Le raccolte di «decisiones» del Regno di Napoli in
età moderna, Napoli, Jovene, 1998; Birocchi,
Alla ricerca dell’ordine cit., 85-93, con il punto sul dibattito
storiografico.
[337] I dati sono tratti da Mario Ascheri, Indice delle raccolte
di giurisprudenza, in Tribunali, giuristi cit., 2111-231, Miletti, Stylus iudicandi cit.,
271-315, per le raccolte napoletane. Su Matteo D’Afflitto cfr. in
particolare Giancarlo Vallone, Le
“decisiones” di Matteo D’Afflitto, Lecce, Milella, 1988.
[338] Giovanni Nevizzano, Inventarium
librorum in utroque jure, Lugduni, s.n.t., 1522. L’opera più
importante di Nevizzano è la Sylva nuptialis liber sex, Asti,
Franciscus de Silva, 1518, seconda edizione rifatta, Lugduni, Vincentius de
Portonariis, 1524 (ristampe Lione 1526, 1540, 1545, 1549, Francoforte 1647). La
Sylva è stata rivalutata dalla storiografia: la sua Quaestio
quomodo posset resecari tanta librorum multitudo venne valutata
positivamente, in particolare per la sua esigenza di una semplificazione
dell’ordinamento ed è stata considerata da Calasso addirittura
come una sorta di «vero procorrimento della codificazione, tanto
più importante in quanto pensato in Italia e in quel secolo». Cfr.
Francesco
Calasso, Il concetto di «diritto comune», in Introduzione
al diritto cit., 85; Carlo Lessona, La Sylva Nuptialis di
Giovanni Nevizzano. Contributo allo studio del diritto italiano, Torino,
Tipografia Locatelli, 1886; Quaglioni, La cultura giuridico-politica cit.,
636.
[339] Cfr. Gaetano Colli, Le edizioni
dell’Index librorum omnium iuris civilis et pontificii di Giovanni
Battista Ziletti. Sulle tracce dei libri giuridici proibiti nella seconda
metà del XVI sec., in Manoscritti, editoria, biblioteche
cit., I, 205-244.
[340] È probabile che l’opera di
Diplovatazio richiamasse un analogo trattato di Baldo, già perduto nel
XVI secolo. Cfr. Tommaso Diplovatazio «De claris iuris
consultis», I, hrsg. von Hermann Kantorowicz und Fritz Schulz, Berlin-Leipzig,
Vereinigung Wissenschaftlicher, 1919; Tomae Dilovatatii “Liber de
claris iuris consultis”. Pars posterior, a cura di Hermann Kantorowicz,
Fritz Schultz e Giuseppe Rabotti, Bononiae, Institutum Gratianum,
1968, 1-140. Cfr. Enrico
Besta, Tommaso Diplovatazio e l’opera sua,
«Nuovo Archivio Veneto», n.s., 3 (1903), n. 4, 261-361; Mario Ascheri,
Saggio sul Diplovatazio, Milano, Giuffrè, 1971, 100-109; Aldo Mazzacane,
Diplovatazio, Tommaso, in Dizionario biografico degli italiani,
XL, Roma, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1991, 249-254; Id., Diplovataccio
(Diplovatazio), Tommaso, in Juristen cit., 172-173; José Miguel
Viejo-Ximénez, Tomás Diplovatacio, in Juristas
universales cit., II, 101-105.
[341] Cfr. Guido Panciroli, De claris
legum interpretibus. Libri quatuor, Venetiis, Marco Antonio Brogiollo,
1637, ristampa Lipsiae, apud Jo. Fri. Gleditschii B. filium, 1721; Bacchi Andreoli,
Alcuni studi intorno a Guido Panciroli cit., 38 ss.
[342] Così scriveva da Padova nel
febbraio
[343] Queste raccolte, anche per le tirature
limitate, vennero soppiantate nel mercato del libro giuridico dai Tractatus
curati da Ziletti. Cfr. Alfredo Serrai¸
Storia della bibliografia, III, Vicende ed ammaestramenti della
Historia Literaria, a cura di Maria
Cochetti¸ Roma, Bulzoni, 1991, 438-452; ed inoltre Giuliana D’Amelio¸ Una
rara raccolta di “Tractatus” nella Biblioteca della Facoltà
di Giurisprudenza di Cagliari, «Studi economico-giuridici della
Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di
Cagliari», 48 (1973-74), 71-75, sulla raccolta veneziana del 1548-50; Troje, Graeca leguntur cit.,
86-89; Cortese, Il diritto
nella storia medievale cit., II, 444; Balsamo¸
La bibliografia cit., 24-25.
[344] Cfr. Gaetano
Colli, Per una bibliografia dei trattati giuridici pubblicati nel XVI
secolo. Indici dei Tractatus Universi Iuris, Milano, Giuffrè, 1994,
XI-XX; Serrai, Storia della
bibliografia cit., III, 453-454; Ascheri¸
Introduzione storica cit., 98-99; Massetto,
La trattatistica cit., 108-111. Nel primo tomo dei Tractatus emergono
anche nuove sensibilità metodologiche, sia per lo studio storico del
diritto romano (la Historia iuris civilis di Aymarus Rivellinus o il De
historia iuris civilis romani libri tres di Valentinus Forster), sia per il
problema dell’interpretazione, con scritti, più aderenti alla
problematica della didattica universitaria, che affrontano il corretto methodus
studendi, come quelli di Jean de Coras (Corasius), De iure civili in artem
redigendo, di Joachim
Hopper, De iuris arte, di Lodovico Pelleo, Confutatio
eorum qui ius civile artis aut scientiae titulo non esse donandum asservere.