Note su uguaglianza e differenza
nella disciplina delle autonomie territoriali*
Università di Sassari
Sommario: 1. L'uguaglianza nel modello tradizionale
di amministrazione: l'uniformità come articolazione organizzativa
dell'uguaglianza (formale) – 2.
Dal pregiudizio
dell'uniformità alla “Repubblica differenziata” delle
autonomie. – 3. Differenziazione
normativa e differenziazione amministrativa. – 4. Differenziazione normativa e “disuguaglianze
sostenibili”: il ruolo uniformante dei livelli essenziali delle
prestazioni concernenti i diritti civili e sociali. – 5. L’“amministrazione differenziata”
quale modello idealtipico. – 6. Differenziazione
amministrativa e disciplina delle autonomie (al plurale): buon andamento
e differenziazione “dinamica”.
Il tema oggetto delle presenti note si pone in linea di ideale
proseguimento e sviluppo della riflessione svoltasi nell'ambito di un recente
convegno, dedicato a “Le disuguaglianze sostenibili nei sistemi
autonomistici multilivello”[1].
L'idea di fondo, assunta a dato di base della riflessione comune,
avvalorata da numerosi e recenti studi[2],
anche di carattere monografico[3],
muove dalla presa d'atto del superamento - sancito formalmente con la riforma
del Titolo Quinto della Parte Seconda della Costituzione, ma all'esito di un
dibattito che ha accompagnato il percorso dell'ordinamento post-unitario fin
dalle sue origini (quando fu scartata l'opzione per il modello “della
differenziazione” delle autonomie territoriali, sull'esempio austriaco)[4]
– del modello tradizionale di amministrazione locale che nella uniforme
disciplina delle autonomie territoriali ricercava la garanzia dell'unità
dell'ordinamento e, insieme, dell'eguale trattamento disciplinare degli
amministrati su tutto il territorio nazionale. Un modello in cui
l'uniformità era costruita ed intesa, pertanto, anche quale
articolazione organizzativa dell'uguaglianza: mezzo e tecnica di garanzia di
una uguaglianza formale che, tuttavia, consentiva e mascherava disuguaglianze
sostanziali formidabili[5].
Il modello uniforme di amministrazione locale, oltre ad aver
ricoperto sotto un mantello unitario realtà tradizionalmente ricche di
caratteri differenziali (sociali, economici, storici, culturali, geografici,
dimensionali etc.)[6],
ha mostrato vieppiù la propria inadeguatezza strumentale, più
tardi, soprattutto a fronte e in considerazione della parabola evolutiva che ha
interessato l'idea stessa di uguaglianza giuridica[7],
il cui fuoco si è progressivamente e con sempre maggiore chiarezza
orientato sul suo profilo sostanziale ed inclusivo[8],
attento alla valorizzazione e alla tutela delle differenze[9].
La critica del
modello uniforme – come risulta da numerosi studi[10],
anche risalenti nel tempo[11]
– non è tuttavia vicenda solo recente: essa ha infatti affiancato
l'intero cammino dell'ordinamento unitario, in un dibattito che ha conosciuto
momenti di grande intensità[12] in
occasione delle varie fasi di (tentato o realizzato) riordino territoriale[13]
o di nuova disciplina dell’ordinamento degli enti locali, portando
gradualmente allo scoperto la intrinseca irragionevolezza del tentativo di
racchiudere realtà profondamente diverse entro una griglia di regole
uniformi, anche nei dettagli.
Non si
può dimenticare, peraltro, che l’uniformità organizzativa,
secondo il modello francese, fu all'origine concepita quale «strumento
della centralizzazione e garanzia che tutte le parti dell’amministrazione
si muovano all’unisono», secondo il modello che risale alla
costituzione rivoluzionaria dell’anno VIII che riordinò le
strutture amministrative «secondo i criteri dell’uniformità,
dell’accentramento, della gerarchia»[14].
Se si risale la
storia dell'ordinamento unitario fino alle sue origini è facile
constatare, in effetti, come i principi di unità, uniformità ed
eguaglianza si siano mostrati a tratti talmente connessi da apparire quasi
indistinguibili. Si tratta, tuttavia, di una indistinzione concettuale solo
apparente: mentre unità ed uguaglianza hanno valore finale, infatti,
l'uniformità ha natura strumentale, anche se a lungo si è finito
per tutelare l'uniformità in sé, quasi dimenticando la sua
strumentalità rispetto alla eguaglianza e all'unità[15].
La dottrina ha di
recente approfondito lo studio del nesso di strumentalità esistente tra
principi di uniformità e di uguaglianza, mostrando come il primo sia una
traduzione in termini organizzativi del secondo, ed è
principio riferibile sia alla disciplina sostanziale data da enti autonomi alle
situazioni giuridiche degli individui (uniformità normativa) sia alla disciplina
ordinamentale dei soggetti pubblici dotati di autonomia (uniformità
amministrativa)[16].
Si è
evidenziato, inoltre, come il principio di uniformità sia cosa
ben diversa rispetto al concreto modello in cui esso è stato
tradizionalmente attualizzato (in cui il primo ha trovato una determinata forma
di inveramento positivo): un modello giuridico concreto in cui il concetto di
uniformità tendeva a risolversi in quello di uguaglianza (in una
specifica accezione di quest'ultima), in considerazione del fatto che «la
nozione generale di uniformità, se applicata ai soggetti
dell'ordinamento, appare corrispondere a un modello giuridico di uguaglianza
formale, sostanzialmente riconducibile alla tematica della eguaglianza di
fronte alla legge»[17].
Un modello, questo,
che se aveva una giustificazione “forte“ nell'amministrazione
ottocentesca dello Stato liberale e monoclasse[18],
uno Stato (da poco) unitario (e dunque) da sostenere e rafforzare (evitando
“particolarismi giuridici” e spinte disgregatrici)[19],
ha tuttavia finito per caratterizzare a fondo il sistema, con «molteplici
inconvenienti»[20],
anche dopo l'entrata in vigore della Costituzione repubblicana. La quale, a ben
guardare, non imponeva affatto, anche nella sua formulazione originaria, la
conservazione (né meri aggiornamenti o restauri di facciata) del modello
uniforme, ma fissava abbastanza chiaramente (nella contestuale garanzia della
uguaglianza, anche sostanziale, e del pluralismo autonomistico) alcune solide
premesse e indicazioni per una sua congrua ed efficace rimodulazione[21];
poi in gran parte smentite e diluite, tuttavia, da un lato nel
«regionalismo dell'uniformità» (e nella corrispondente
configurazione della differenziazione regionale in termini di
“specialità” che trova fondamento e limite nei «fatti differenziali»)[22],
dall'altro nella rinnovata fiducia nell'uniforme regime legale degli enti
locali[23].
Una netta rottura
formale dell'uniformità dell'amministrazione locale si registra, come
è noto, con la legge n. 142 del 1990, che, tuttavia, a fianco di norme
che sanciscono le prime autentiche «aperture alla differenziazione»[24]
ne pone anche altre [25]
in cui riaffiora chiaramente il tradizionale «pregiudizio
dell'uniformità»[26].
La
“transizione di modello”, annunciata e preparata dalle riforme
istituzionali della seconda metà degli anni novanta e, in particolare,
dalla positivizzazione del principio di differenziazione
(funzionale) ad opera della legge n. 59 del 1997 (in seguito recepito nel nuovo
art. 118 della Costituzione), è rilevata in dottrina con maggiore
decisione dopo la riforma del Titolo Quinto della Costituzione[27].
Il dato su cui la
dottrina ha maggiormente incentrato la sua attenzione è rappresentato
– oltre all'abbandono della regola del “parallelismo” (tra
funzioni legislative ed amministrative) e alla costituzionalizzazione del
principio di sussidiarietà (verticale, ma anche orizzontale)[28] –
dall'assunzione di base della tendenziale equiordinazione dei diversi enti
territoriali che compongono
Per altro verso
un peso del tutto peculiare è stato riconosciuto alla inedita scissione
tra differenziazione normativa e differenziazione amministrativa,
sulla base della quale si è potuto osservare che mentre «in un
sistema amministrativo unitario, capace di risolvere ogni antinomia sulla base
di un criterio gerarchico», il tema dell’uniformità e della
differenziazione si identifica con quello della «uguaglianza e
ragionevolezza della legge differenziante», in un
«sistema plurale e complesso, che distribuisce su più livelli
territoriali la funzione normativa e amministrativa», il trattamento
giuridico di un cittadino entro l’ordinamento sarà
«differenziato, senza poter essere valutato in termini egalitari,
rispetto a quello riconosciuto ad un altro soggetto, poiché ricadente
entro la sfera di azione di un altro soggetto pubblico dotato di autonomia.
Viene meno il tertium comparationis per un giudizio sulla ragionevolezza
del trattamento differenziato»[30].
Detto in
altri termini: mentre «nella unicità ordinamentale …
l’uguaglianza finisce per coincidere con l’uniformità, in
quanto la legge risponda a una ragionevolezza intrinseca, tale che fenomeni
uguali risulteranno regolati in modo eguale, fenomeni diversi in modo
diverso», dando forma a un modello in cui «la differenziazione
discende dal ragionevole uso della discrezionalità categorizzatrice del
legislatore», invece «l'uguaglianza nella pluralità (dei
soggetti pubblici autonomi, delle fonti di autonomia, degli ordinamenti
giuridici) non è più in grado di rispondere a tale modello.
L’organizzazione dell’ordinamento, riconoscendo sedi autonome di
produzione giuridica, prefigura spazi entro i quali l’uguaglianza come
uniformità non può articolarsi, dal momento che viene meno la
possibilità di confronto tra fenomeni. L’autonomia crea
differenza, disuguaglianza»[31].
Si crea pertanto una tensione tra due poli: il diritto all’autogoverno e
al suo risultato (cioè ad essere diverso), da un lato; il principio di
uguaglianza, dall'altro[32].
Nel nuovo modello
della Repubblica “differenziata” delle autonomie (formula questa
proposta in dottrina per riassumere, dopo la riforma del Titolo Quinto della
Costituzione, l'auspicato slittamento verso un modello di amministrazione della
Repubblica in cui la differenziazione delle autonomie territoriali e attraverso
le autonomie territoriali è non solo ammessa, ma, entro certi limiti,
incoraggiata) la garanzia della uguaglianza è destinata pertanto ad
assumere nuove dimensioni e nuove forme di esplicazione.
Una uguaglianza
che, nel suo modello generale, si ritiene non sia più formale e paritaria,
ma sostanziale e “di base”, nelle “condizioni di vita”
dei cittadini-residenti[33]:
una uguaglianza nei risultati sostanziali e nella soddisfazione dei diritti
fondamentali della persona, pertanto, che non passa più
(necessariamente) per l'uniformità delle amministrazioni, ma fa leva
soprattutto sul ruolo uniformante dei “livelli essenziali delle
prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti
in tutto il territorio nazionale” (L.E.P), la cui determinazione, come
è noto, la Costituzione affida alla legislazione (esclusiva) dello Stato
(art. 117, comma 2, lett. m)[34]
e la cui garanzia si estende e prolunga anche sul piano della disciplina
costituzionale (art. 120) dei poteri sostitutivi dello Stato nei confronti
delle autonomie territoriali[35].
Siffatto
ri-orientamento (positivo e interpretativo) del dato costituzionale riposa, al
fondo, su molteplici e diversi fattori. Basti menzionare la ormai matura e
generale presa d'atto della compiuta trasformazione della amministrazione
pubblica da Potere (fine in qualche modo a se stesso) a Servizio[36];
la riconosciuta centralità dei diritti della persona (e dei doveri di
protezione)[37];
la attenzione crescente riservata al modello (o, se si preferisce, alla
“formula”) della (legalità e della) amministrazione
“di risultato”[38]
(che è poi l'amministrazione tout court)[39]
e alla prospettiva di giustizia sostanziale da essa implicata[40];
la condivisione dottrinaria della esigenza di ricomporre a livello funzionale
quella unitarietà dell'amministrazione che non sussiste (e non si vuole
che sussista) sul piano strutturale, nonché della possibilità di
ricostruire, finalmente, un modello costituzionale di amministrazione della
Repubblica (multipolare e differenziato, ma allo stesso tempo) unitario[41]
nella sua istituzionale missione strumentale rispetto alla cura efficiente e
imparziale dei diritti e degli interessi (non dell'amministrazione, ma) del
pubblico (ossia delle collettività di riferimento)[42]:
un modello idoneo a ricomporre quella distanza tra la solenne
affermazione dell’autonomia (art. 5 Cost.)[43]
e la concreta traduzione minimalista ad essa offerta nel Titolo V (e nella
legislazione attuativa) prima delle recenti riforme[44].
In sintesi: un modello che faccia “combaciare” i diritti ai doveri,
Prima e Seconda parte della Costituzione[45].
E' opportuno
riferire, a fini di chiarezza espositiva, che la categoria della
“differenziazione” è utilizzata, nell'ambito del dibattito
in corso, in modo molto eterogeneo, e comunque con significati più ampi
e comprensivi rispetto alla nozione di stretto diritto positivo affermata, come
criterio di allocazione delle funzioni, dapprima nella legge n.59/1997
(art. 4, comma 3, lett. h, ai sensi del quale, nell’allocazione delle
funzioni il legislatore dovrà differenziare le stesse “in
considerazione delle diverse caratteristiche, anche associative, demografiche,
territoriali e strutturali” degli enti riceventi), poi nell’art.
118, primo comma, della Costituzione (differenziazione
“funzionale”), a fianco dei criteri di sussidiarietà ed
adeguatezza[46].
Pur
lasciando da parte gli usi del termine “differenziazione” in cui
questa assume un senso talmente generale da confondersi da un lato con nozioni
di rilievo sociologico o economico, dall'altro con l'eccezione, la deroga, la
specialità normativa[47],
va detto che la nozione appare oscillare, anche nelle sue accezioni
tecnico-giuridiche più circoscritte e precise[48],
tra una sua caratterizzazione in termini di figura di qualificazione o di
modello esplicativo (un ideal-tipo collocato sul piano conoscitivo) della
realtà giuridica e la sua elevazione al rango di valore o di principio
costituzionale; e, soprattutto, sul piano dei contenuti, essa sembra quasi ricalcare
e doppiare la nozione stessa di autonomia, la sua disciplina, i suoi limiti,
ovvero i risultati del suo svolgimento[49].
Su quest'ultimo punto si dovrà tornare più avanti.
Per il momento
basti ricordare che la nozione di differenziazione accolta dalla più recente
dottrina è utilizzata sia con riferimento alla (non uniforme) disciplina
ordinamentale dei soggetti pubblici
dotati di autonomia sia con riguardo alla (non uniforme) disciplina sostanziale
data dalle autonomie territoriali alle situazioni giuridiche dei
cittadini-residenti sul territorio: nel primo senso si parla di
differenziazione “amministrativa”; nel secondo di differenziazione
“normativa”.
La differenziazione
amministrativa è (carattere della) disciplina in senso proprio delle
autonomie territoriali, di fonte eteronoma (di livello centrale o regionale, o
comunque di un livello di governo più alto rispetto a quello che
è oggetto di differenziazione)[50]
ovvero anche autonoma (c.d. “auto-differenziazione”, il cui
strumento di esplicazione è individuato soprattutto nelle fonti
statutarie)[51],
ed è ulteriormente classificata, in considerazione degli oggetti
specifici in cui la disciplina può appigliarsi, in differenziazione
(amministrativa) organizzativa[52]
(avente ad oggetto strutture e/o relazioni organizzative, ma anche alcuni
profili della organizzazione c.d. “di base” delle funzioni locali)[53]
e differenziazione (amministrativa) funzionale (tra enti
autonomi, pur appartenenti alla medesima categoria, che comporta
un’allocazione differenziata e asimmetrica di competenze)[54].
La differenziazione
normativa è, invece, risultato dell'esercizio dell'autonomia;
è differenziazione nelle (e attraverso le) autonomie
territoriali: essa pare confondersi in larga parte con la scelta autonoma, che
è suscettibile, in tesi, di creare differenza, disuguaglianza[55].
Il versante della
differenziazione normativa è quello che ha maggiormente catalizzato
l'attenzione del dibattito dottrinario.
E' facile
individuarne la ragione: tale forma di differenziazione pone in modo diretto e palese
dinanzi alla esigenza di valutare «fino a che punto l'aspirazione alla
diversità...sia auspicabile e perseguibile e quando invece rischi di
compromettere i valori su cui si fonda il sistema, divenendone fattore di
instabilità e magari di disgregazione»[56].
Se è vero, infatti, che il rafforzamento (del pluralismo e) delle
autonomie implica una accettazione strutturale della possibilità di un
certo «tasso di disuguaglianza» sul territorio, è vero anche
che esso pone un problema: quello della individuazione del livello di
«disuguaglianza sostenibile»[57].
Attraverso
riflessioni ed interventi[58]
articolati per settori amministrativi particolarmente significativi (i servizi
sociali e la sanità[59],
l'istruzione[60],
la concorrenza e il sostegno alle imprese[61],
l'urbanistica[62]),
ci si è posti alla ricerca degli elementi unificanti sul piano
sostanziale, delle «condizioni di coerenza»[63]
di un sistema che, pur nella differenziazione dei “percorsi”, vuol
continuare ad essere omogeneo e coeso nelle condizioni di vita dei cittadini[64].
Il nucleo duro
della nuova dimensione della uniformità (definita «di base»)[65]
è stato ricercato principalmente nei livelli essenziali delle
prestazioni (art.117, comma 2, lett. m)[66],
in cui la dottrina ravvisa il «nuovo nome dell'eguaglianza» in un
sistema plurale[67].
Attorno ad essi si ritiene possibile ed auspicabile anche la costruzione di una
(ulteriore) nozione di cittadinanza (intesa come “residenza”) che sia il
veicolo dell'eguaglianza sostanziale: il «catalogo delle prestazioni
essenziali, che gli appartenenti all'intera collettività nazionale
possono esigere nei confronti dell'amministrazione, indipendentemente dalle
specifiche cittadinanze regionali o locali»; un insieme di diritti che,
in ossequio all'art.3 della Costituzione, non tollera differenziazioni
territoriali[68].
Oltre al
problema della sostenibilità giuridica (ordinamentale) delle
disuguaglianze[69],
l'analisi si è estesa anche alla questione della sostenibilità
economico-finanziaria delle stesse[70].
I due
profili, inquadrati dalla visuale dei L.E.P., trovano un interessante punto di
congiunzione e possibile sviluppo nella idea secondo cui la
costituzionalizzazione dei L.E.P. pone al riparo gli stessi dai limiti
finanziari: è il contenuto essenziale dei diritti civili e sociali,
incomprimibile, a dover conformare la finanza, non il contrario[71].
Attorno allo
strumento della definizione statale dei L.E.P. si concentrano pertanto le
maggiori aspettative circa un ruolo dello Stato che non sia oppressivo delle
autonomie territoriali[72],
ma che allo stesso tempo sia garante dell'uniformità dei livelli di vita
e della coesione sociale[73]:
si ricerca per tale via un equilibrio tra uniformità e differenziazione
all'interno di un modello che, in nome dell'eguaglianza sostanziale, pur
riconoscendo alle autonomie territoriali la possibilità di
“percorsi” (organizzativi e funzionali) differenziati, dovrebbe
comunque essere in grado di garantire una soglia di uniformità di
risultati sostanziali[74], non
derogabile “al ribasso” dalle autonomie territoriali[75].
Tale impostazione
ha il pregio di riportare opportunamente al centro del sistema, in posizione
fondante e legittimante l'intera architettura degli apparati, i fini ultimi cui
l'amministrazione è al servizio: la garanzia dei diritti della persona, in
una prospettiva di eguaglianza (e di giustizia) sostanziale.
Al fine di porre
alcune premesse utili all'analisi del versante della differenziazione
amministrativa è opportuno tuttavia spostare l'attenzione dal dato che
l'illustrata impostazione assume quale “invariante” (i risultati
sostanziali)[76]
sul dato flessibile della «differenziazione dei percorsi»
(strutturali e funzionali).
E' bene in primo
luogo sottolineare che la prospettiva in esame è orientata in modo
dichiarato da un modello ideal-tipico di differenziazione amministrativa[77],
molto generale, «che postula l’assunzione della irrilevanza della
dimensione organizzativa…nella prospettiva di una uguale tutela dei
diritti, o comunque di una loro adeguata soddisfazione sul territorio»[78].
Un modello – si afferma - in cui la «strutturazione
dei soggetti autonomi, la loro organizzazione, le loro funzioni,
diventano ... delle variabili indipendenti, in una logica di equivalenza
che assume come invariante il risultato, non più
l’uniformità dei percorsi e dei soggetti chiamati a
perseguirlo»[79].
In
sintesi: l’art.3 della Costituzione impone il perseguimento
dell’uguaglianza in concreto, come risultato dell’azione e
dell’organizzazione delle autonomie; lascerebbe però «liberi
gli apparati di organizzarsi come meglio ritengono per il raggiungimento di
tale valore finale», «liberi di esprimersi in forme
organizzative diverse e, sostanzialmente, indifferenti per
l’ordinamento»[80].
E' bene rimarcare
che in tali passi la dottrina si impegna a delineare riassuntivamente i tratti
di un modello ideal-tipico, un modello carico di teoria che, come ogni
ideal-tipo, è tanto più efficace ed utile quale strumento
conoscitivo quanto più sia astratto e puro rispetto alla realtà
problematica da comprendere e spiegare[81].
Il modello in
esame consente in effetti di far risaltare, con grande incisività e
chiarezza – insieme alla esigenza di ricucire l'intera architettura
istituzionale attorno ai fini ultimi cui essa deve tendere - la
necessità di donare flessibilità, dinamismo ed efficacia al sistema
amministrativo, capacità di suo adattamento organizzativo e adeguamento
funzionale rispetto alle domande e ai bisogni, mutevoli e differenziati, del
suo ambiente di riferimento: il sistema sociale.
In tale
prospettiva è opportunamente posta in risalto l'esigenza di dare gioco
effettivo alle autonomie territoriali, liberando le virtualità e le
risorse (per troppo tempo) inespresse del pluralismo, della molteplicità
e della differenza.
Tale
sottolineatura, tuttavia, non va assolutizzata né fraintesa: le idee di
pluralità e differenza, infatti, sono oggetto di particolare
enfatizzazione non (soltanto) nella loro carica decostruttiva, ma (anche) quali
risorse di base di un percorso (complesso, ma necessario) di ricomposizione
unitaria del sistema[82].
La garanzia della
possibilità di percorsi differenziati (funzionali e strumentali) non
significa, infatti, tutela della differenziazione amministrativa in sé,
quale valore finale, ma va analizzata e compresa, oltre che nella sua carica
decostruttiva del tradizionale modello uniforme, anche e soprattutto nella sua
natura limitata di strumento e di piattaforma da cui muovere per una nuova e
diversa riarticolazione razionale dell'adeguatezza funzionale del sistema delle
autonomie territoriali.
Se in passato si
è finito per tutelare l'uniformità in sé, quasi
dimenticando la sua strumentalità rispetto alla unità e alla
eguaglianza, è bene evitare, oggi, l'errore opposto: tutelare la
differenziazione in sé, dimenticando a cosa serve.
I percorsi
funzionali e strutturali possono, pertanto, senz'altro essere differenziati:
sul piano della realtà giuridica concreta, tuttavia, non vi può
essere – a differenza di quanto si legge nella descrizione del modello
ideal-tipico - completa “libertà” né assoluta
“indifferenza” dell'ordinamento rispetto alla disciplina e alla
misura di tali differenziazioni.
Del che la
dottrina si mostra pienamente avvertita, dato che, oltre a riconoscere che il
vincolo uniformante sui risultati (dell’azione dei soggetti
autonomi) è idoneo ad esplicare una incidenza indiretta sul piano
della disciplina dei “percorsi” (funzionali e strutturali),
individua nel diritto oggettivo anche diverse forme di condizionamento delle
autonomie (cd. meccanismi di uniformità) che incidono direttamente sulle
modalità dell'azione ovvero dell'organizzazione dei soggetti
autonomi[83],
giungendo a proporre, su tali basi, una vera e propria tassonomia della (nuova)
uniformità: spessa (di regolazione); sottile (di principio); di base
(dei livelli essenziali)[84].
Basti
rilevare che le amministrazioni pubbliche continuano ad essere chiamate - anche
dopo la riforma del Titolo V della Costituzione - a dover prendere decisioni
discrezionali nell'interesse pubblico. Dato questo già di per sé
sufficiente per prevedere che quanto meno i “percorsi”
(organizzativi e procedimentali) da seguire per prendere decisioni
“soddisfacenti” sono destinati a restare al centro dei problemi
disciplinari dell'amministrazione e del suo diritto.
E' bene
volgere l'attenzione, pertanto, sul versante della differenziazione
amministrativa.
La
prospettiva da cui si intende muovere è quella che guarda alla
differenziazione quale espressione di una generale esigenza organizzativa di flessibilità
ed adeguatezza del sistema amministrativo, considerato quale
unità complessa e dinamica non esistente a priori[85], ma da
perseguire e ricomporre continuamente sul piano relazionale della realtà
giuridica concreta[86].
La
dottrina recente ha adottato in modo proficuo una prospettiva analoga nello
studio del fenomeno della differenziazione nell'ambito dell'ordinamento
giuridico europeo[87],
il quale, come è noto, pur non escludendo la possibilità di
dettare norme comuni ai vari paesi membri dell'Unione, è tuttavia per
sua natura “composito”[88],
e dunque non ha mai avuto tra le sue finalità «un'estesa
armonizzazione delle regole giuridiche, una tendenziale unificazione di tipo
napoleonico»[89].
Flessibilità
e differenziazione sono, infatti, «tratti stabili e distintivi» di
tale ordinamento giuridico, processi dinamici (di rilievo costituzionale)
sempre in atto (l'altro volto del processo di integrazione), che vengono
“gestiti” (mantenuti in un quadro di coerenza) attraverso una gamma
di strumenti, tecniche, istituti riconducibile al principio generale di
equivalenza[90].
La dottrina più recente, pertanto, ha
gradualmente preso le adeguate distanze dall'approccio
tradizionale, basato sulla «contrapposizione tra uniformità e
differenziazione in termini dicotomici e statici»[91],
e si è indirizzata verso un approccio diverso, attento alla dinamica
dei processi di integrazione e differenziazione dell'ordinamento
europeo, dinamica in cui «l'unità è l'obiettivo da perseguire» e
«la differenziazione non si misura rispetto a una unità
preesistente, ma a una unità prefigurata e auspicata, alla quale
continuamente tendere e basata, di volta in volta, su un equilibrio dinamico all'interno
del quale le differenze non vengono cancellate, ma ordinate»[92].
Affinchè
tali rilievi possano mostrarsi pertinenti ed utili anche sul piano dell'analisi
del fenomeno nell'ambito dell'ordinamento interno[93]
è utile sottolineare come essi mostrino a livello concettuale una significativa
convergenza con alcuni dati messi a fuoco in linea generale anche nel campo
degli studi organizzativi, ambito in cui la nozione di differenziazione
è di regola studiata in coppia (non con quella di uniformità, ma)
con quella di integrazione, l'una e l'altra rilevate quali processi dinamici
caratteristici dell'azione organizzativa[94].
Il dato
da cui la teoria generale dell'organizzazione muove, infatti, è
l'assunzione di base della organizzazione quale fenomeno «complesso,
perché intrinsecamente contraddittorio». Essa – si afferma
– «ha una natura duale: è ... “una”, ma
è anche molteplice, fatta di elementi numerosi e diversi, ciascuno con
una propria identità costitutiva originaria. Ciò comporta che al
suo interno si sviluppino dinamiche centripete, tendenti a rispondere alle
esigenze di unitarietà mettendo in campo forze e strumenti volti a
coordinare, controllare, integrare i contributi e le prestazioni dei diversi
elementi in una logica, appunto, unitaria. Ma al tempo stesso, e contraddittoriamente,
quegli stessi elementi esercitano spinte centrifughe, nel tentativo di
affermare la propria identità e di vedere riconosciute le proprie
peculiarità»[95].Queste
forze, contrapposte ma compresenti, – si precisa – configurano
l’organizzazione come «unitas multiplex»[96],
segnata da una contraddizione strutturale, costitutiva, tra l’esigenza di
integrazione e le opposte esigenze di differenziazione dei
singoli elementi costitutivi, che si traducono nella richiesta di spazi di
autonomia.
E' ai
contributi dei teorici dell'organizzazione Lawrence e Lorsch[97]
che si deve il maggiore approfondimento dei concetti di “differenziazione”
e di “‘integrazione”, riferentesi ai due processi
fondamentali su cui si fonda l’azione organizzativa e la costruzione
degli assetti organizzativi; processi che evocano la poc’anzi richiamata
contraddizione di base dell’organizzazione come unitas multiplex,
e che rappresentano una delle fondamentali antinomie in cui essa si
concretizza, che va “gestita” in termini di ricerca di equilibri
dinamici: quanto dell’una (in risposta alle esigenze di
valorizzazione e rispetto della molteplicità, della diversità e
delle autonomie) e quanto dell’altra, per soddisfare l’esigenza
contrapposta di coordinare i contributi diversificati secondo una logica
complessivamente unitaria[98].
In
sintesi: se si guarda all'organizzazione nella sua complessità e nella
sua dinamicità è possibile riscontrare, all'aumentare della
differenziazione, un corrispondente incremento del bisogno di integrazione (o,
se si preferisce, di coordinamento), cui l'organizzazione è chiamata ad
offrire una risposta adeguata[99].
Ovviamente,
mentre gli approcci tradizionali (modernisti)[100]
allo studio dell’organizzazione affidano tale risposta alle strutture di
vertice dell'organizzazione, facendo leva, in definitiva, sulla nozione di
gerarchia; gli approcci c.d. post-modernisti[101],
nell'aderire a un modello che tende a rappresentare le organizzazioni come reti
o networks di attori interdipendenti, fanno invece leva principalmente
sull’auto-organizzazione e sul mantenimento dell'equilibrio tra
differenziazione ed integrazione: con lo svincolare la nozione di integrazione
dalla gerarchia, infatti, essi tentano di tratteggiare un modello idealtipico
di organizzazione in cui l’integrazione e il coordinamento (da operare
principalmente attraverso schemi di comunicazione[102]
e di connessione “laterale” tra le varie componenti
dell'organizzazione)[103]
siano responsabilità di tutti, non soltanto del vertice
dell’organizzazione[104].
Dal
campo delle teorie organizzative è possibile trarre alcuni spunti utili
anche all'analisi giuridica, tenendo ben presente, ovviamente, che quei
fenomeni che in prospettiva organizzativa pura sono rilevati e descritti in
termini di integrazione e differenziazione vanno invece (rilevati sul piano
della realtà giuridica concreta e) analizzati tecnicamente sul piano
della teoria giuridica attraverso le nozioni di coordinamento e di autonomia[105].
Non
è superfluo sottolineare come il modello tradizionale di
amministrazione, nell'affidarsi alla soluzione del coordinamento gerarchico,
comprimeva le autonomie, non lasciando ad esse gioco effettivo: in tale
modello, in definitiva, l'uniformità disciplinare delle amministrazioni
era nient'altro che un epifenomeno della gerarchia.
E' comprensibile
che dinanzi alla disarticolazione del modello tradizionale di amministrazione
il giurista venga colpito in prima battuta dal dato formale della rottura della
uniformità disciplinare delle autonomie. Dal punto di vista
organizzativo, tuttavia, il dato da rimarcare appare la coincidenza tra vera
apertura del sistema al processo di differenziazione e riconoscimento (non
virtuale, ma) effettivo delle autonomie.
In tale rinnovato
contesto organizzativo risultano marginalizzate (anche se non completamente
escluse) le soluzioni gerarchiche ai problemi dell'unità e del
coordinamento. Diviene pertanto necessario valorizzare – sia sul piano
degli istituti positivi sia su quello delle figure teoriche – altre
tipologie di soluzioni[106]
idonee a contenere la dinamica delle autonomie entro un quadro di condizioni di
coerenza[107].
Il
dibattito in corso in tema di differenziazione amministrativa, pur sensibile, nella sua impostazione di
fondo – come si è evidenziato nel paragrafo che precede – ad
esigenze sistematiche di natura riaggregativa, appare orientato a rilevare in
maniera sfocata il problema del coordinamento delle autonomie o, se si
preferisce, della disciplina delle autonomie “al plurale” e nel
loro insieme.
E' utile
ricordare che la differenziazione amministrativa, nella sua accezione
“organizzativa”, è categoria idonea in astratto a
coprire il largo campo della disciplina di strutture e/o di relazioni
organizzative[108].
In tale
vasto ambito logico e materiale, tuttavia, il dibattito in corso tende ad
operare una significativa riduzione del campo di analisi alla differenziazione
“interna” alle autonomie territoriali: a porre in primo piano
cioè lo studio dell'organizzazione degli uffici, come sistema di
articolazione dei ruoli e dei rapporti tra le partizioni interne della singola
pubblica amministrazione locale (volta per volta presa in considerazione),
lasciando sullo sfondo il tema dei rapporti giuridici inter-istituzionali.
Se la
differenziazione esprime, in linea generale, una esigenza di flessibilizzazione
e di adeguamento della funzionalità del sistema delle autonomie
territoriali, è bene non sottovalutare che la prospettiva appena
indicata - nel rilevare, correttamente, che l'organizzazione amministrativa
segue la “regola” della possibile differenziazione (seppur
attenuata da minimali esigenze di uniformità)[109]
- è idonea a cogliere - in ragione della riduzione preliminare del campo
di osservazione operata – un aspetto parziale (anche se essenziale) del
fenomeno complessivo: quello della flessibilizzazione e dell'adeguamento
funzionale dell'organizzazione di ciascuna delle amministrazioni territoriali,
singolarmente considerata, verso i risultati sostanziali da conseguire. In
altre parole: è in grado di di intercettare e spiegare, in prospettiva
atomistica, il ridotto fenomeno dell'aggiustamento organizzativo delle singole
amministrazioni territoriali verso quei (pochi) risultati che possono da esse
essere curati e soddisfatti in modo “solitario”, prescindendo dalla
collaborazione degli altri livelli di governo e, più in generale, di
altre figure giuridiche soggettive.
Una
riduzione per molti versi analoga e convergente è ravvisabile anche
nello studio del fenomeno della differenziazione dalla visuale
dell'attività amministrativa.
E'
necessario sottolineare, per poter rilevare siffatta convergenza, che la
dottrina (pur contemplando al suo interno un ampio e variegato panorama di
opinioni riguardo all'individuazione sia del grado sia dei fondamenti
costituzionali della regola di uniformità cui si ritiene sia informata
l'attività) è pressochè unanime nel ritenere che
l'attività amministrativa debba rispondere (a differenza della
organizzazione, non alla regola della differenziazione, ma) alla
“regola” della uniformità[110].
E'
questa una conclusione senz'altro condivisibile.
Ciò
che interessa qui porre in rilievo è che, tuttavia, mostrandosi del
tutto in linea con la tradizione, la dottrina prevalente tende tuttora ad
utilizzare una nozione giuridica ristretta e “disaggregata” di
attività amministrativa[111]:
una nozione in cui non appare superata nè sufficientemente
problematizzata, cioè, quella presupposta e tralaticia coincidenza
concettuale ovvero dimensionale della nozione stessa con semplici segmenti o
frammenti (singoli procedimenti, singole materie etc.) dell'attività
amministrativa complessiva. Circostanza, questa, che rende problematico
l'inquadramento in prospettiva funzionale di vicende “complesse” di
produzione giuridica di cui l'esperienza giuridica contemporanea è
sempre più ricca: «processi produttivi complessi»[112]
coinvolgenti una pluralità di procedimenti, poteri, amministrazioni[113]
nel perseguimento di risultati unitari[114].
Se
l'autonomia è concetto relazionale, ed è, nella sua essenza,
disciplina di un rapporto giuridico[115]
(oggi complesso)[116],
tuttavia, pare che la disciplina delle autonomie territoriali, al plurale e nel
loro insieme, sia da ricercarsi e cogliersi anche sul piano
dell'attività amministrativa e delle relazioni organizzative
inter-soggettive: proprio in quei luoghi che, al momento, sono collocati ai margini
della riflessione in tema di differenziazione amministrativa.
Come si
è bene rilevato di recente, infatti, «in una società
complessa e in un’organizzazione dei pubblici poteri …
necessariamente articolata su diversi livelli di governo, non è proponibile
un modello di amministrazione imperniata per ambiti di competenze riservate, e
tendenzialmente separate»[117]:
è questo un modello che stride con il principio del buon andamento
dell’amministrazione[118].
Nel nuovo quadro costituzionale, l’unità del sistema, come anche
l’autonomia, vanno principalmente realizzate «nella creazione di un
sistema integrato, non come una sommatoria di una pluralità di enti, ma
piuttosto di responsabilità attribuite a soggetti diversi
necessariamente partecipi al processo di soddisfazione delle attese dei
cittadini»[119],
secondo una tendenza, pertanto, più che all’attribuzione in via
esclusiva di compiti, alla concorrenza di poteri e all’intreccio di
funzioni, ossia al coinvolgimento di più amministrazioni in procedure
complesse, funzionali al conseguimento di risultati unitari.
Il
problema dell’unità va cioè impostato, «sul piano
istituzionale, in termini di capacità di innesto e coordinamento tra i
diversi segmenti (collaborazione), e di “relais” tra i
diversi segmenti» che compongono il modello globale di organizzazione[120],
attraverso forme di disciplina che riducano la rigida tipizzazione dei
comportamenti e tendano, invece, «alla definizione delle regole di
processo»[121].
Alle regole dell’attività – si è precisato in modo
efficace – si richiede oggi di «costituire le linee
dell’organizzazione dinamica di un’amministrazione complessa»[122].
E'
questo il naturale terreno di elezione, a livello sia positivo sia teorico,
della figura dell'operazione amministrativa.
Nella
sua duplice valenza di fattispecie dell'attività amministrativa,
unitariamente e globalmente rilevante, comprensiva dell'insieme degli atti e
dei comportamenti teleologicamente orientati verso un risultato giuridico
unitario (anche se posti in essere da figure giuridiche soggettive distinte e
raccolti in una pluralità di procedimenti) e, al contempo, di relazione
organizzativa caratteristica dell'amministrazione multipolare e complessa, essa
consente di collocare sul piano adeguato, quello della disciplina formale dei
rapporti giuridici, il problema della ricerca dell'equilibrio dinamico tra
integrazione e differenziazione, coordinamento e autonomia.
L'operazione
amministrativa, quale forma della funzione complessa, risponde a un generale
principio di differenziazione “dinamica” del sistema complessivo
dell'amministrazione della repubblica: un principio che - in via di
specificazione del precetto di razionalità (e doverosa
razionalizzazione) insito nel canone di buon andamento, riferito congiuntamente
alla organizzazione e alla attività – postula una amministrazione
“eguale” e insieme “diversa”. Eguale nel suo carattere
funzionale e di servizio, come anche nella disciplina formale di alcuni tratti
stabili sia dell'attività sia dell'organizzazione, diversa nella sua
forma contingente e flessibile: una amministrazione (soggettivamente e
oggettivamente) complessa, ma necessariamente (costituzionalmente) adeguata
rispetto ai problemi amministrativi da affrontare, ai risultati da conseguire,
ai bisogni da soddisfare.
* Il presente scritto è la rielaborazione della relazione redatta in occasione del convegno “Principi generali del diritto amministrativo e autonomie territoriali” (Copanello, 30 giugno - 1 luglio 2006); è destinato agli Studi in onore di Leopoldo Mazzarolli.
[1] Convegno
di studi di Copanello, organizzato dalle Università di Catanzaro e di
Reggio Calabria nei giorni 1 e 2 luglio 2005, i cui atti sono ora raccolti nel
volume ASTONE F., CALDARERA M., MANGANARO F., ROMANO TASSONE A., SAITTA F. (a
cura di), Le disuguaglianze sostenibili dei sistemi autonomistici
multilivello, Torino, 2006.
[2] Cfr.,
anche per complete indicazioni bibliografiche, la recente opera, in tre volumi,
di CORSO G. e LOPILATO V. (a cura di), Il diritto amministrativo dopo le
riforme costituzionali, Milano, 2006. Per una recente trattazione di
sintesi cfr. invece la voce VESPERINI G., Enti locali, in Dizionario
di diritto pubblico diretto da Sabino Cassese, Vol III, Milano, 2006, 2212
ss. Nello sterminato panorama della più recente produzione dottrinaria
è bene comunque richiamare, per il momento, BERTI G. e DE MARTIN G.C., Il
sistema amministrativo dopo la riforma del titolo V della Costituzione,
Roma, 2002; CAMMELLI M., Amministrazione (e interpreti) davanti al nuovo
Titolo V della Costituzione, in Regioni, 2001, 1273 ss; CASSESE S., L'amministrazione
nel nuovo titolo quinto della Costituzione, in Giornale dir. amm.,
2001, 1193; CHIEFFI L. e CLEMENTE di SAN LUCA, Regioni ed enti locali dopo
[3] ANTONINI
L., Il regionalismo differenziato, Milano, 2000; BUZZACCHI C.,
Uniformità e differenziazione nel sistema delle autonomie, Milano,
2003; CARLONI E., Lo stato differenziato. Contributo allo studio dei
principi di uniformità e differenziazione, Torino, 2004, studio al
quale si farà principale riferimento nel corso della prima parte
dell'esposizione e al quale senz'altro si rinvia anche per complete indicazioni
bibliografiche sull'argomento in esame.
[4] Su tale
modello cfr. ampiamente PERNTHALER P., Lo stato federale differenziato.
Fondamenti teorici, conseguenze pratiche ed ambiti applicativi nella riforma
del sistema federale austriaco, Bologna, 1998. Cfr. altresì SPASIANO
M., L’organizzazione comunale. Paradigmi di efficienza pubblica e
buona amministrazione, Napoli, 1995 , 19 ss., il quale ricorda come
«nell'Italia Unita ... prevalsero le tendenze uniformiste dei poteri
locali» contrariamente a quanto invece accaduto nella esperienza del
Lombardo-Veneto, ove si era affermato un regime di differenziazione dei comuni.
In quel sistema, infatti era stato adottato il sistema austriaco della
classificazione dei comuni in “classi” secondo «gruppi di importanza
e della differenziazione del regime giuridico dei diversi gruppi»:
così GIANNINI M.S., I comuni, a cura di Giannini M.S., Vicenza,
1967, 18. Sul tema cfr. anche ZANOBINI G., L'amministrazione locale in
Italia, Padova, 1932, 153. Come ricorda opportunamente, tra gli altri,
Vandelli «in Italia, pur se i riflessi di altre culture e tradizioni non
sono mancati, in varie fasi, né nella legislazione né nel
dibattito istituzionale, i tratti originari del modello di derivazione francese
hanno dimostrato una grande capacità di permanenza, anche in contesti
storici profondamente mutati» (così VANDELLI L., Il sistema
delle autonomie locali, Bologna, 2005, 21). Anche nell'ambito del dibattito
costituente non mancò infatti l'attenzione verso altri modelli, come quello
del self-government britannico, appoggiato soprattutto da Massimo Severo
Giannini, all'epoca capo di gabinetto del ministro per
[5] Cfr.
ampiamente CARLONI E., Lo stato differenziato, cit., passim. Cfr.
altresì, tra i molti, FALCON G., Modello e transizione nel nuovo
Titolo V della Costituzione, in Regioni, 2001, 1247 ss; BERTI G., Immagini
e suggestioni del principio di uguaglianza, in Scritti in memoria di
Livio Paladin, Napoli, 2004, vol. I, 167 ss.; POGGI A., Differenziazioni
territoriali e cittadinanza sociale, in Scritti in memoria di Livio Paladin,
cit., vol. IV, 1713 ss. GARDINI G., Recensione a Enrico Carloni, Lo
Stato differenziato, Torino,
[6] Per una
ricostruzione ampia ed accurata della evoluzione dei sistemi locali cfr.
VANDELLI L., Poteri locali. Le origini nella Francia rivoluzionaria. Le
prospettive nell'Europa delle regioni, Bologna, 1990; AIMO P., Stato e
poteri locali in Italia. 1848-1995, Roma, 1997; VESPERINI G., I poteri
locali, II volumi, Catanzaro – Roma, 1999. Per un esame degli
“inconvenienti” del regime uniforme comunale agli inizi del '900
cfr. già BORSI U., Regime uniforme e regime differenziale
nell’autarchia locale, in Riv. dir. pubbl. giust. amm., 1927,
7 ss. Ancor prima dell'adozione della legislazione del 1865, MARTINELLI (Sull'ordinamento
della pubblica Amministrazione, Firenze, 1863, 82, citato da SPASIANO M., L’organizzazione
comunale. Paradigmi di efficienza pubblica e buona amministrazione, Napoli,
1995,
[7] La
letteratura in materia è ovviamente sterminata. Ci si limita pertanto a
richiamare, per un inquadramento di carattere generale del concetto, in una
prospettiva più ampia di quella strettamente giuridica, il classico
lavoro di SEN A.K., La disuguaglianza. Un riesame critico, Bologna,1994
(ed. originale ID., Inequality Reexamined, Oxford, 1992); la raccolta di
saggi curata da CARTER I., L'idea di eguaglianza, Milano, 2001 (ove
saggi di Bernard Williams, Thomas Nagel, Amartya Sen, Ronald Dworkin, Richard
J. Arneson); la voce di DWORKIN R.M., Eguaglianza, in Enc. scienze.
sociali, vol. III, Roma, 1993, 478 ss.. Sul concetto di eguaglianza
giuridica basti qui richiamare, oltre alle principali voci enciclopediche (di
cui si omette la citazione), ESPOSITO C., Eguaglianza e giustizia nell'art.3
della Costituzione, in La Costituzione italiana, Padova, 1954, 30
ss.; PALADIN L., Il principio costituzionale di eguaglianza, Milano,
1965; FINOCCHIARO F., Uguaglianza giuridica e fattore religioso, Milano,
1958, ROSSANO C., L'uguaglianza giuridica nell'ordinamento costituzionale,
Napoli, 1996; AA.VV., Corte Costituzionale e principio di eguaglianza,
Padova, 2002 (Atti del Convegno in ricordo di Livio Paladin tenuto a Padova il
2 aprile 2001); GHERA F., Il principio di eguaglianza nella costituzione
italiana e nel diritto comunitario, Padova, 2003. Tra le trattazioni
più recenti di carattere non monografico si segnalano MOSCARINI A., Principio
costituzionale di eguaglianza e diritti fondamentali, in NANIA R. e RIDOLA
P. (a cura di), I diritti costituzionali, I, Torino, 2001, CERRI A., Significati
e valenze del principio di eguaglianza, in Scritti in memoria di Livio
Paladin, Napoli, 2004, vol. I, 569 ss.; PACE A., Eguaglianza e
libertà, Scritti in memoria di Livio Paladin,, cit., vol.
III, 1457 ss. Sull'evoluzione della giurisprudenza costituzionale in tema di
eguaglianza cfr. ROSSANO C., L'uguaglianza, cit., 290 ss. e 340 ss.;
AGRO' A.S., Contributo allo studio dei limiti della funzione legislativa in
base alla giurisprudenza sul principio costituzionale di eguaglianza, in
Giur. Cost., 1967, 900 ss.; CERRI S., L'eguaglianza nella giuriprudenza
della Corte Costituzionale. Esame analitico ed ipotesi ricostruttive,
Milano, 1976, 43 ss.; ZAGREBELSKY G., Corte costituzionale e principio di
eguaglianza, in OCCHIOCUPO N. (a cura di), La Corte costituzionale fra
norma giuridica e realtà sociale, Bologna, 1978, 103 ss.; SCACCIA
G., Gli strumenti della “ragionevolezza” nel giudizio
costituzionale, Milano, 2000; CAROLI CASAVOLA H., Giustizia ed
eguaglianza nella distribuzione dei benefici pubblici, Milano, 2004. Per
una trattazione di sintesi cfr. comunque, da ultimi, ROSSANO C., voce Eguaglianza,
in Dizionario di diritto pubblico diretto da Sabino Cassese, Vol. III,
Milano, 2006, 2150 ss. e CELOTTO A., Art.3, 1° Co., Cost., in Commentario
alla Costituzione a cura di Bifulco R., Celotto A., Olivetti M., vol. I,
Torino, 2006, 65 ss.
[8] Sul
punto cfr. MANGANARO F., Il concetto di cittadinanza alla luce dei livelli
essenziali di prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, in ASTONE
e altri, Le disuguaglianze, cit., 205 ss.
[9] Sul
rapporto tra eguaglianza formale (paritaria e valutativa) e sostanziale cfr.
ROSSANO C., L'uguaglianza, cit., 138 ss e 238 ss.. Sull'eguaglianza
sostanziale, oltre ai lavori già citati nella nota che precede, cfr.
GIORGIS A., Art.3, co.2, Cost., in Commentario alla Costituzione
a cura di Bifulco R., Celotto A., Olivetti M., vol. I, Torino, 2006, 88 ss.;
CARAVITA B., Oltre l'uguaglianza formale. Un'analisi dell'art.3 comma 2
della Costituzione, Padova, 1984; ROSSANO C., Profili dell'eguaglianza
sostanziale nella Costituzione italiana e nell'ordinamento comunitario, in Studi
in onore di Gianni Ferrara, vol. III, Torino, 2005; D'ALOIA, Eguaglianza
sostanziale e diritto diseguale. Contributo allo studio delle azioni positive
nella prospettiva costituzionale, Padova, 2002; FERRARA G., Corte
costituzionale e principio di eguaglianza, in La Corte, cit., 89
ss.; ZANETTI G., Eguaglianza, in BARBERA A., Le basi filosofiche del
costituzionalismo, Roma-Bari, 1997, 61 ss. Cfr. altresì
GIANFORMAGGIO L., Eguaglianza formale e sostanziale: il grande equivoco,
nota a Corte cost. 12 settembre 1992, n.422, in Foro it., 1996, I, 1961
ss., ove risultano individuate sei accezioni di eguaglianza giuridica: generalità delle regole, unicità
del soggetto giuridico, eguaglianza di fronte alla legge, divieto di
discriminazioni, eguaglianza nei diritti fondamentali, pari opportunità
di perseguire i progetti di vita e di partecipare all'organizzazione della
società. Ha osservato di recente TROPEA G., Brevi note su diritto
diseguale (ragionevolmente sostenibile) e azioni positive nell'esperienza
italiana, in ASTONE F. ed altri, Le disuguaglianze sostenibili,
cit., 171 ss, che al cambiamento dei modelli statuali , fino alla crisi degli
stessi, si è accompagnata una vera e propria ri-definizione del
principio di uguaglianza (o, se si preferisce, l'affermazione dell'esigenza di
«reinventare l'eguaglianza», adeguandola a quelle che sono le nuove
disuguaglianze e al problema della limitatezza delle risorse economiche),
«attraverso una linea di cammino, non certo lineare, una progressione che
dalla uguaglianza come generalità delle regole giunge fino alla pari
opportunità di perseguire i progetti di vita e di partecipare
all'organizzazione della società», fino al discusso tema del
“diritto diseguale” e delle “azioni positive” (sul
quale cfr., oltre al lavoro di D'Aloia, cià citato, AINIS M., Cinque
regole per le azioni positive, in Quad. cost., 1999, 369).
[12] Ad
esempio già quando si trattò di estendere a tutto il territorio
nazionale il modello francese e sabaudo dell’uniformità comunale e
fino al consolidamento del modello nel periodo giolittiano; poi nella prima
fase repubblicana, nelle diverse fasi del decentramento, ovvero in occasione
dei tentativi di riordino territoriale e nella ridefinizione
dell’ordinamento degli enti locali.
[13] Da parte
dei critici del modello uniforme fu avanzata a più riprese la proposta
di introdurre criteri classificatori diversi (tali da distinguere i comuni in
classi, quali i comuni rurali, urbani, ovvero facenti leva sul criterio della
popolazione, dell'estensione territoriale, su criteri di tipo economico). Tuttavia questa
proposta, versata fin dalla seconda metà dell'ottocento in vari progetti
di legge, fu a lungo ritenuta irrealizzabile (cfr. SPASIANO M., L'organizzazione
comunale, cit., 19 ss.). Ha osservato di recente Carloni (cfr.
CARLONI E., Lo Stato, cit., 103, 104) che, piuttosto che le ( comunque
esistenti) difficoltà pratiche, contro l'adozione di tali proposte
giocò proprio l'avvertita necessità di non mettere in pericolo
l'essenziale ruolo di “strumentalità” dell'uniformità
rispetto ai valori di uguaglianza e di unità.
[17] ID., Op. cit., 28. Al
recente studio di Carloni si deve l'isolamento della distinzione tra principio
e modelli di uniformità. L’uniformità quale
principio di organizzazione dell’ordinamento, si osserva, è sempre
presente (in atto) nell’ordinamento, ne assicura la tenuta e la coerenza.
Tale principio può trovare, ha trovato e trova svariate concretizzazioni:
è diversamente attualizzato nello spazio giuridico (in diversi
ordinamenti) e nel tempo, in quanto, anche all’interno di un ordinamento
dato, esso si evolve, si adegua, si modifica nella sua traduzione operativa. Un
principio di uniformità è insito nella stessa nozione di
autonomia (come diversa dalla sovranità), e quindi definibile in ragione
dei limiti di questa. Così inteso il principio di
uniformità è distinto e distinguibile
dall’uniformità come modello, che ne è la concreta
(storica) traduzione. La disciplina formale dell’organizzazione
(attraverso la legislazione primaria e ancor più costituzionale)
prefigura un modello determinato di uniformità, che definisce
l’assetto che, entro un sistema costituzionale dato, è scelto in
ordine alla tensione interna tra il valore dell’uguaglianza e il valore
dell’autonomia. Il principio di uniformità sottintende, dunque, in
via generale, la limitazione (quanto agli oggetti) ed il condizionamento
dell'autonomia.
[18] GIANNINI
M.S., Il pubblico potere. Stati e amministrazioni pubbliche, Bologna,
[19] Cfr.
BENVENUTI F. e MIGLIO G. (a cura di), L'unificazione amministrativa e i suoi
protagonisti (atti del convegno celebrativo del centenario delle leggi
amministrative di unificazione), Vicenza, 1969. Va ricordata peraltro
l'attenzione che al modello del local government inglese venne sul piano
teorico riservata, anche nella fase di “formazione” (o
consolidamento, a seconda della posizione che si ritiene di assumere attorno
alla dibattuta questione delle “origini”) del diritto
amministrativo, da alcuni dei giuristi preorlandiani: sul tema è utile
richiamare REBUFFA G., La formazione del diritto amministrativo in Italia.
Profili di giuristi preorlandiani, Bologna, 1981.
[20]
Così U. BORSI, Regime uniforme e regime differenziale, cit., 7
ss., il quale già rilevava come il regime dell’uniformità, disconoscendo
«esigenze di fatto, insopprimibili o per lo meno non soppresse», in
ragione di un riordino territoriale non operato al momento
dell’unificazione, fosse tale da generare “inconvenienti
molteplici”. Dal punto di vista organizzativo, in particolare, il
riconoscimento degli stessi compiti tanto ad enti di grandi dimensioni quanto
ad enti estremamente piccoli produce l'inconveniente di creare una “media
funzionale” insoddisfacente per gli uni e gli altri (in tal senso cfr.
GIANNINI M.S., Il riassetto, cit., 452; NIGRO M., Il governo locale,
I, Storia e problemi. Lezioni di diritto amministrativo 1978-1979, Roma,
1980, 48)
[21] Sulla disciplina
costituzionale delle autonomie locali, nel testo del 1948, oltre alle opere
già citate supra, cfr. GIANNINI M.S., Autonomia locale e
autogoverno, in Corr. amm., 1948, 1057 ss.; ESPOSITO C., Autonomie
locali e decentramento amministrativo nell'art.5 della Costituzione, in
ID., La Costituzione italiana. Saggi, Padova, 1954; BERTI G., Art.5,
in Commentario della Costituzione, a cura di Branca G., Bologna-Roma,
1977, 277; ID., I caratteri dell'amministrazione comunale e provinciale,
in Riv. amm., 1959, 59 ss.; BACHELET V., Profili giuridici
dell'organizzazione amministrativa, Milano, 1965; ORSI BATTAGLINI A., Le
autonomie locali nell'ordinamento regionale, Milano, 1974; PIZZETTI F., Il
sistema costituzionale delle autonomie locali, Milano, 1979, PUBUSA A., Sovranità
popolare e autonomie nell'ordinamento costituzionale italiano, Milano,
1983; DE MARTIN G.C., L'amministrazione locale nel sistema delle autonomie,
Milano, 1984; BENVENUTI F., L'ordinamento repubblicano, ed. riveduta e
aggiornata a cura di L. Benvenuti, Padova, 1996; PIRAINO A., Le autonomie
locali nel sistema della Repubblica, Torino, 1998.
[22] Cfr.
diffusamente CARLONI E., Lo Stato, cit., 112 ss., al quale si rinvia
anche per complete indicazioni bibliografiche.
[24] Così
ID., Op. cit., 154 ss., con riferimento, in particolare, alla disciplina
del rapporto tra potestà statutaria e (vecchio) art 128
della Costituzione; nonché alle previsioni relative alla
possibilità assunzione di “funzioni ulteriori” da parte
degli enti locali. Sull'impatto della legge n.142 del 1990 sull'ordinamento
amministrativo cfr., inoltre, ex multis, SPASIANO M., L'organizzazione,
cit.; MARRAMA R. Gli ordinamenti locali, cit.
[25] La legge
142/1990, pur sancendo per la prima volta il principio dell’autonomia
statutaria (sulla quale piace ricordare il lavoro di MAZZAROLLI
L., Fonte-statuto e fonte-regolamento nella legge di riforma delle autonomie
locali, in Dir. e soc., 1991, 363 ss. ) per i comuni e le
province , contiene poi norme che lo contraddicono laddove, ad esempio, si
fissano le competenze dei consigli comunali e provinciali in modo
indiscriminato per ogni tipo di comune e di provincia.
[26] Così
MARRAMA R., Nascita ed evoluzione dello Stato e dell'amministrazione
pubblica, in MAZZAROLLI L. e altri (a cura di), Diritto amministrativo,
Bologna, 1998, 353 ss., il quale, a proposito dei criteri
di accentramento, uniformità, gerarchia, dopo aver ricordato che essi
corrispondono pienamente al modello weberiano di amministrazione pubblica,
osserva lucidamente che tali profili si sono conservati per un lungo lasso di
tempo e sopravvivono anche nella realtà attuale, se non più quali
criteri informatori, quantomeno a livello di uno stile o, se si vuole,
di un pregiudizio della modellistica organizzativa, a volte riaffiorante
persino in contesti che sul piano delle dichiarazioni di principio apertamente
li bandiscono. In senso analogo cfr. ampiamente, più in generale, DI
GASPARE G., Il potere nel diritto pubblico, Padova, passim; ID., voce Organizzazione
amministrativa, in Digesto disc. pubbl., vol. X, Torino, 1995, 513
ss.. Sia consentito rinviare inoltre a D'ORSOGNA D., Contributo allo studio
dell'operazione amministrativa, Napoli,
[28] La
bibliografia in tema di sussidiarietà è ormai molto ampia: si
rinvia pertanto, anche per complete indicazioni bibliografiche, ai lavori monografici
di DE CARLO P., Sussidiarietà e governo economico, Milano, 2002;
MOSCARINI A., Competenza e sussidiarietà nel sistema delle fonti,
Padova, 2003 e D'ALESSANDRO D., Sussidiarietà, solidarietà e
azione amministrativa, Milano, 2004. Per una trattazione di sintesi cfr.
CERULLI IRELLI V., Sussidiarietà (dir. amm.), in Enc. giur.,
Roma, 2004.
[29] La
bibliografia in materia è sterminata. E' impossibile darne conto in
questa sede senza incorrere in ingiustificate omissioni. Si rinvia quindi ai
tre recenti volumi a cura di CORSO G. e LOPILATO V., Il diritto
amministrativo dopo le riforme costituzionali, già citati, non senza
omettere di ricordare che la dottrina recente contempla anche una serie di voci
critiche attorno alla possibilità di ricavare dalla nuova formulazione
dell'art.114 (e più in generale del Titolo V) della Costituzione una
netta ed univoca opzione a favore di un modello istituzionale di pluralismo
“paritetico” (cfr., ad esempio, RUGGERI A., Teoria e prassi
dell'autonomia locale, in Op. ult. cit., vol. I, 313 ss.).
[30] Le
citazioni sono tratte da CARLONI E., Lo Stato, cit. 33, 34, 35 . In tal
senso cfr. anche FALCON G., Modello e transizione nel nuovo Titolo V,
cit., 1258, il quale, a proposito della legge regionale, rileva come essa sia
«soggetta al principio di uguaglianza solo per ciò che attiene al
proprio ambito di efficacia».
[32]
Così GARCIA MORILLO J., Autonomia, asimmetria e principio di
eguaglianza: il caso spagnolo, in GAMBINO S. (a cura di), Stati
nazionali e poteri locali, Rimini, 1998, 105, richiamato da CARLONI E., Lo
stato, cit.,
[33] ID., Op.
cit., passim. La formula richiamata nel testo riecheggia quella
utilizzata nell'art. 72, co. 2, della Costituzione tedesca, che fa riferimento
a «la creazione di condizioni di vita equivalenti nel territorio
federale». Sull'analogia (e le differenze) fra questa formula e
quella di cui all'art.117, comma 2, lett. m) della Costituzione italiana
cfr. D'ATENA A., Materie legislative e tipologie delle competenze, in Quad.
cost., 2003, 141 ss.
[34] Sulle
cd. materie trasversali e sui livelli essenziali delle prestazioni concernenti
i diritti civili e sociali la letteratura è ormai molto ampia. Si rinvia
pertanto, anche per ampi riferimenti bibliografici, per il momento, alle
trattazioni contenute in CORSO G. e LOPILATO G. (a cura di), Il diritto
amministrativo, cit.. In particolare cfr. SCACCIA G., Il riparto delle
funzioni legislative fra Stato e regioni, Parte generale, 3 ss.; PINELLI
C., Livelli essenziali delle prestazioni, Parte speciale, vol. I, 189
ss..
[35]
Sull'argomento cfr., da ultimo, l'accurata ricostruzione di PAJNO S., I
poteri sostitutivi nei confronti degli enti territoriali, in CORSO G. e
LOPILATO V., Il diritto amministrativo, cit., Parte generale, 383
ss.. Sulla sostituzione amministrativa, in generale, cfr. lo studio di
BOMBARDELLI M., La sostituzione amministrativa , Padova, 2004.
[36] Le
importanti riforme che hanno interessato il sistema istituzionale, soprattutto a
partire dagli anni novanta del secolo scorso, sono state preparate a livello
teorico da quel processo di “riscoperta” della Carta costituzionale
che, dalla seconda metà degli anni sessanta, aveva offerto un diverso
inquadramento teorico dell’amministrazione, collocata in posizione di
servizio nei confronti della collettività. E' impossibile in questa sede
ripercorrere il dibattito imponente che, a partire da quegli anni, si è
sviluppato intorno alla tematica dello statuto costituzionale dell’amministrazione,
favorendo la rivisitazione di tutti i più importanti istituti del
diritto amministrativo, attraverso la individuazione di molte delle soluzioni
innovative poi recepite positivamente. E' utile ricordare, tuttavia, come,
superata quella compatta adesione alla lettura liberal–democratica della
Costituzione, a salvaguardia dell’indipendenza dell’amministrazione
medesima (cfr. Sandulli A.M., Governo e amministrazione, in Riv. trim. dir. pubbl., 1966, 754 ss.)
e, di conseguenza, indebolita la «capacità esplicativa dei modelli
e delle formule tramandate» (così Di Gaspare G., Il potere, cit.) a seguito della dequotazione del «progetto
liberale democratico» (Orsi
Battaglini A., «L’astratta
ed infeconda idea». Disavventure dell’individuo nella cultura
giuspubblicistica, in La necessaria
discontinuità, Bologna, 1990, 13 ss.) quale referente ideologico
largamente condiviso, la dottrina ha ricercato nella Carta costituzionale un
nuovo “ancoraggio” positivo da cui attingere le linee guida per
l’aggiornamento del diritto amministrativo (così Sorace D., Da passatisti a post-moderni, in La necessaria discontinuità, Bologna, 1990, 199 ss.) e per
la revisione di ordini concettuali sistematici in parte superati, in linea con
l’insegnamento di chi aveva da tempo chiaramente espresso la
deducibilità dello statuto costituzionale dell’amministrazione non
solo dalle (poche) norme ad essa espressamente dedicate (da cui non sembra
ricavabile un unico modo di essere dell’amministrazione, come acutamente
sottolineato già da Nigro M.,
La pubblica Amministrazione tra
Costituzione formale e Costituzione materiale, in Studi in memoria di V. Bachelet, vol. II, Milano, 1987, 385 ss.;
sulla parziale indeterminatezza dei dettami costituzionali in tema di
amministrazione pubblica cfr., di recente, ROMANO TASSONE A., Legislatore e limite dei principi, in Annuario AIPDA 2005, Milano, 2005, 209
ss.), ma dall’intera disciplina costituzionale dei compiti assegnati allo
Stato nonché dai principi fondanti il nostro ordinamento che sono alla
base della suddetta disciplina (secondo la fondamentale intuizione di ESPOSITO
C., La Costituzione italiana. Saggi,
Padova, 1954; più di recente cfr. anche la proposta metodologica di Dogliani M., Indirizzo politico, riflessioni su regole e regolarità nel
diritto costituzionale, Napoli, 1985: l’avvio di una ricerca che
trascenda dalla Costituzione formale per fondare e affrontare la teoria del
diritto e dello Stato come presupposto della Costituzione). Si sono poste
così le basi per la rivisitazione del concetto stesso di interesse
pubblico, dimensionato ora in un contesto dominato dalla centralità del
cittadino rispetto al quale l’amministrazione si trova in posizione di
servente subordinazione (cfr. SCOCA F.G., Il
coordinamento e la comparazione degli interessi nel procedimento amministrativo,
in Studi in onore di G. Abbamonte,
Napoli, vol. II, 1999, p. 1261 e ss.).
[37] Cfr.
ROMANO TASSONE A., Situazioni giuridiche
soggettive (Dir. amm.), in Enc. dir.,
vol. II dell’aggiornamento, Milano 1998, p. 966 e ss.; MANGANARO F. e
ROMANO TASSONE A. (a cura di), Persona ed amministrazione, Torino, 2004.
Sulla posizione centrale che nel sistema costituzionale è attribuita
alla persona umana è d'obbligo richiamare le fondamentali riflessioni di
Rescigno P., Persona e comunità, Bologna, 1966; Id., L’abuso del
diritto, Bologna, 1996.
[38] Cfr.
ampiamente POLICE A. – IMMORDINO M. (a cura di), Principio di legalità e amministrazione di risultato,
Torino, 2004; SPASIANO M., Funzione
amministrativa e legalità di risultato, Torino, 2003.
L’impulso a rassodare parte della riflessione scientifica attorno alla
formula della «amministrazione per risultati» (coniata negli anni
sessanta da Giannini) si deve a Lucio Iannotta, che ha dedicato numerosi
appassionati lavori all’argomento: cfr. Iannotta
L., Scienza e realtà:
l’oggetto della scienza del diritto amministravo tra essere e divenire,
in Dir. amm., 1996, 579 ss.; ID., La considerazione del risultato nel giudizio
amministrativo: dall’interesse legittimo al buon diritto, in Dir. proc. amm., 1998, 299 e ss.; Id., Previsione e realizzazione del risultato nella Pubblica
amministrazione: dagli interessi ai beni, in Dir. amm., 1999, 57 e ss.; ID., Principio di legalità e
amministrazione di risultato, in Amministrazione
e ordinamenti (Atti del Convegno di Macerata del 21 e 22 maggio 1999),
Milano, 2000, 37 ss.; ID., Merito,
discrezionalità e risultato nelle decisioni amministrative (l’arte
di amministrare), in Dir. proc. amm., 2005, 1. Per alcuni lucidi e
sintetici chiarimenti sulla intera tematica cfr. ROMANO TASSONE A., Sulla formula “Amministrazione per
risultati”, in Scritti in onore di Elio Casetta, II, Napoli,
2001, 815 ss.; CAMMELLI M., Amministrazione
di risultato, in Annuario AIPDA 2002,
Milano, 2003, 107.; CORSO G., Amministrazione
di risultato, in Annuario AIPDA 2002, 127; PASTORI G., La disciplina generale dell’azione
amministrativa, in Annuario AIPDA 2002., 33; CASSESE S., Che vuol dire “amministrazione di
risultati”?, in Giornale dir. Amm., 2004, 941. Sia consentito
richiamare inoltre il mio lavoro Contributo allo studio, cit., 133 ss.,
in partic.
[39] PASTORI
G., La disciplina generale
dell’azione amministrativa, in Annuario AIPDA., Milano, 2002,
33
[40] ZITO A.,
Il risultato nella teoria dell'azione amministrativa, in Principio di
legalità, cit., 94.
[41] SCOCA F.G., Condizioni e limiti alla
funzione legislativa nella disciplina della pubblica amministrazione, in
AA.VV., Aldo M. Sandulli. Attualità del pensiero giuridico del
Maestro, Milano, 2004, 173 ss.; ID., Attività amministrativa,
in Enc. dir., VI aggiornamento, Milano, 2002, 75 ss.
[42] Una
«ritrovata idea costituzionale di amministrazione», pertanto, volta
a trasformare «su altrettanto rinnovate basi sostanziali il rapporto fra
amministrazione e cittadini, partendo dal convincimento che gli scopi, a cui
l’amministrazione è ordinata e che essa deve soddisfare,
corrispondono prima di tutto ad altrettanti interessi, utilità o beni
della vita dei cittadini stessi» (così PASTORI G., La disciplina generale dell’azione
amministrativa, cit., 34). La
Costituzione ci consegna, dunque, in particolare attraverso il richiamo ai
canoni di buon andamento e di imparzialità, una amministrazione che
«si pone fra le attività politiche e le attività produttive
finale come momento necessario di snodo e di traduzione delle scelte politiche
in risultati finali concreti»; amministrazione che, nella
molteplicità dei compiti ad essa assegnati, «può esplicarsi
mediante forme e strumenti diversi», ma che, in ogni caso, si
contraddistingue per la intrinseca «doverosità nei confronti del
vincolo di scopo» (ID., Statuto dell’amministrazione e
disciplina legislativa, in Annuario AIPDA 2004, Milano, 2005, 11
ss., in part. 16).
[43] In tema
cfr. da ultimo BIFULCO R., Art.5, in Commentario alla Costituzione
a cura di Bifulco R., Celotto A., Olivetti M., vol. I, Torino, 2006, 132 ss.
[44] ORSI
BATTAGLINI A., Le autonomie, cit., passim; DE MARTIN G.C., L'amministrazione
locale, cit., passim; più di recente, per tutti, BERTI
G.- DE MARTIN G. (a cura di), Il sistema
amministrativo dopo la riforma del Titolo V della Costituzione, Milano,
2002.
[45] BERTI
G., Sussidiarietà e organizzazione
dinamica, in Jus, 2004, 171; ID.,
La giuridicità pubblica e la
riforma del Titolo V, parte I della Costituzione, in Jus, 2002, 147 ss.; SALA G., Sui
caratteri dell’amministrazione comunale e provinciale dopo la riforma del
Titolo V della Costituzione, in Le
Regioni, 2004, 11 ss. Come ha osservato da ultima anche PIOGGIA A., I
principi come limite dell'organizzazione degli enti locali, Relazione al
convegno di Copanello (30 giugno-1 luglio 2006) su Principi generali del
diritto amministrativo e autonomie territoriali, è la Costituzione
il «vertice unificante dell'amministrare», la sede in cui
«trovano spazio i valori comuni del modo di essere di ciascuna delle
componenti della Repubblica, ed è proprio nel combinarsi necessario
delle sue due parti che deve essere rintracciata la possibilità di
assicurare la convivenza fra una uniformità che non si traduca in
compressione dell'autonomia e una differenziazione che non sfoci in
diseguaglianza».
[46] Sul
quale cfr., per tutti, MARRAMA R. e SPASIANO M., Spunti di riflessione
intorno al criterio di adeguatezza, in Nuove autonomie, 2000, 261
ss..
[48] Ci si
riferisce alla nozione proposta in ID., Op. cit., passim, sulla quale si
veda infra, nel testo e in nota.
[49] Come
rileva anche Carloni, mentre appare agevolmente «enucleabile un autonomo
principio di uniformità, ... meno pacifica appare l'individuazione di un
autonomo, e opposto, principio di differenziazione che abbia caratteri
ed un rilievo proprio rispetto al principio...(oltre che valore) di autonomia
...»: così CARLONI, Lo Stato, cit.,
[50] Cfr.
ampiamente ID., Op. cit., in part. 53, 54 ove il fenomeno della
“differenziazione non autonoma” , definita anche
“eterodifferenziazione”, è così illustrato: «un
ente, pure autonomo, è oggetto di una disciplina differenziata
(in ordine all'organizzazione, alle funzioni assegnate), in virtù di una
scelta che è operata dal livello di governo centrale» ovvero
«ad un livello territoriale di autonomia superiore a quello dell'ente
interessato: in questo caso le scelte operate dal livello territoriale
superiore (regionale, ad esempio) determineranno differenziazione del regime
giuridico (funzioni, organizzazione, risorse) delle realtà
minori».
[51] La
«differenziazione amministrativa autonoma ... può incidere sulle
modalità di esercizio delle funzioni, sui tratti organizzativi dell'ente
esponenziale...L'ente autonomo è...in grado di organizzarsi in relazione
ai fini che gli sono assegnati ed, eventualmente, toccando il massimo della
differenziazione come autonomia propria di questo grado, di assumere,
amministrativamente, nuovi ed ulteriori fini, in virtù di potestà
di autoattribuzione delle funzioni “libere”, come conseguenza di
una competenza generale. Rientra in questo ambito la differenziazione organizzativa
(autonoma), che ne costituisce la più rilevante manifestazione»:
così ID., Op. cit., 54, il quale precisa (55) che sebbene a
questo livello lo strumento privilegiato di realizzazione della
differenziazione sia da individuarsi nella fonte statutaria (sul tema cfr., ex
multis, CLARICH M., Statuti per differenziare, in Il Mulino,
2000, 467 ss.) non è affatto da «escludersi ... il rilievo di
fonti diverse»: regolamenti, atti amministrativi ed anche fonti non
pubblicistiche. Sul tema della possibile estensione delle fonti di
organizzazione anche alle fonti privatistiche cfr. PIOGGIA A., La competenza
amministrativa. L'organizzazione tra specialità pubblicistica e diritto
privato, Torino, 2001
[52] MERLONI
F., La leale collaborazione nella Repubblica delle autonomie, in Dir.
Pubbl. 2000, 836, 837 (in nota) definisce la “differenziazione
organizzativa” come «possibilità di differenziare
l’organizzazione della funzione». Cfr. diffusamente CARLONI E., Lo
Stato, cit., passim
[54] La
differenziazione funzionale tra soggetti autonomi omogenei, vantando una base
espressa di diritto positivo, è considerato il «modello
puro della differenziazione, assunto come principio e come tale inteso in
assenza di aggettivazioni a livello di legislazione e nel dibattito
dottrinale» (così CARLONI E., Lo Stato, cit., 63). Come ha
peraltro osservato opportunamente, tra gli altri, Cavallo Perin «l'art. 118.1,
nella sua enunciazione di principio si pone innanzitutto come affermazione
dell'adeguatezza dell'assegnazione delle competenze tra gli enti
territoriali, ove la relazione è data dall'adeguatezza delle
organizzazioni a divenire destinatari di funzioni e di compiti. La norma
costituzionale pare dunque più esattamente volta a sanzionare le
inadeguate assegnazioni di competenza, cioè non accompagnate da una
ragionevole correlazione tra compiti e strutture, ed in tal senso si pone come
criterio selettivo e di censura anche delle scelte del legislatore ...».
Così CAVALLO PERIN, in ASTONE ed altri, Le disuguaglianze sostenibili,
cit., 130, 131 (in tal senso cfr., ampiamente, SPASIANO e MARRAMA, Spunti,
cit.). Tale rilievo è qui utile nella misura in cui invita a non isolare
né assolutizzare, nell'ambito dell'art. 118, comma 1, Cost., il rilievo
del criterio di differenziazione, ma a relativizzarlo e bilanciarlo con quelli
(di sussidiarietà ed adeguatezza) che al primo sono giustapposti.
[55] Anche
l'autore cui si deve la classificazione riferita nel testo (CARLONI E., Lo
Stato, 36, 37) riconosce che le nozioni di autonomia e differenziazione
«finiscono per sovrapporsi in larga misura, tanto che diviene difficile
scinderle», in quanto la «differenziazione muove naturalmente
dall'autonomia, dal momento che essa è la naturale conseguenza del concreto
uso del potere differenziante insito in questa: da questo punto di vista
potremmo distinguere tra differenziazione in concreto (la scelta autonoma,
quindi diversa) e differenziazione in astratto (il riconoscimento di spazi di
autonomia)».
[56]
Così MOLASCHI V., Le disuguaglianze sostenibili nella sanità,
in ASTONE ed altri (a cura di), Le disuguaglianze sostenibili, cit., 4 .
[57] ROSSI G.
e BENEDETTI A., La competenza legislativa statale esclusiva in materia di
livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali,
in AA.VV., Il nuovo Titolo V della Costituzione. Stato/ Regioni e Diritto
del lavoro, supplemento al fascicolo 1 della rivista Il lavoro nelle
pubbliche amministrazioni,
[58] Ci si
riferisce alla riflessione svoltasi nell'ambito del Convegno di studi di
Copanello del 2005, citato in apertura del lavoro.
[60] RENNA
M., Le disuguaglianze sostenibili nel sistema scolastico, in Op. ult.
cit. 89 ss.; FRACCHIA F., Istruzione e differenziazione: la
centralità dello studente tra solidarietà intergenerazionale e
sviluppo della persona, ibidem, 143 ss.; SAITTA F., Autonomia
universitaria ed equipollenza (sostanziale) dei titoli di studio: una
...”disuguaglianza sostenibile” o è meglio abolirne il
valore legale?, ibidem, 193 ss..
[61] DELLA
CANANEA G., Le “disuguaglianze sostenibili” nella disciplina
della concorrenza e dell'impresa, ibidem, 55 ss.
[63] Sulla
esigenza di riorientare parte degli studi nella direzione di ricercare sul
piano dinamico le “condizioni di coerenza” (piuttosto che gli
elementi di statica uniformità) del sistema cfr., da tempo, TORCHIA L, Il
riordino dell’amministrazione centrale: criteri, condizioni e strumenti,
in Diritto pubblico, 1999, p. 689 e ss., la quale ha osservato che,
ormai, anche sul piano positivo «… la natura composita
dell’universo amministrativo è stata assunta come un dato di fatto
e una base di partenza, invece che come una patologia di un ideale - e mai
realizzato - ordine primigenio. Le differenze conseguenti da tale natura
composita non sono più qualificate come eccezioni o deroghe, ma
piuttosto come elementi costitutivi di un sistema che ha sempre meno tratti
uniformi e ricostruisce continuamente la propria unitarietà sulla base
di equilibri fra elementi e principi non sempre armonizzati o armonizzabili, ma
anzi spesso posti in una sorta di tensione istituzionalizzata ... Un sistema
non è unitario, infatti, in ragione della similitudine delle sue parti,
quasi che fossero mattoni delle stesse dimensioni o della stessa natura, della
stessa consistenza dello stesso materiale. Si può, al contrario, avere
un sistema unitario anche se le diverse parti hanno natura eterogenea,
purché le stesse parti siano in relazione di coerenza tra loro. E’
quindi sulle condizioni di coerenza che deve spingersi l’analisi e
la valutazione ed è da esse che discendono gli elementi comuni e i
caratteri propri del sistema, ivi compresa la possibilità che esso
ammetta un certo grado di ridondanza, ma senza giungere alla confusione»
(690). Tale impostazione metodologica è stata coerentemente sviluppata
dall'Autrice anche in un recente studio dedicato al fenomeno della
differenziazione (e dell'integrazione) nell'ordinamento comunitario, studio che
verrà richiamato più avanti, nell'analisi del versante della
differenziazione “amministrativa”.
[64] L'ardua sfida
che le istituzioni pubbliche contemporanee si trovano a fronteggiare è
quella della attuazione delle libertà politiche e sociali per tutti. Il
problema da superare è stato definito da Ralph Dahrendorf ( cfr.
DAHRENDORF R., Il conflitto sociale nella modernità, Bari, 1989)
come il “paradosso Martinez”: Ministro del commercio estero del
Nicaragua dopo la rivoluzione del 1976, questi si è trovato di fronte al
dilemma tipico di un ordinamento, che aspirava ad essere democratico, del
riequilibrio tra entitlements (diritti di accesso alle risorse) e provisions
(risorse disponibili). Prima della rivoluzione le vetrine dei negozi erano
piene di merci, cui però solo pochi potevano accedere; dopo, tutti
teoricamente potevano avere tutto, ma nei negozi non c’era più
niente. Esso mostra come nei regimi autoritari sia difficile poter fare
domande, ma chi può farle ottiene facilmente risposte; mentre in
democrazia è facile fare domande, ma è difficile avere risposte
per tutti. Il problema è uscire dal vicolo cieco del dilemma delle provisions
senza entitlements, e di quello speculare ma altrettanto e forse
più disperante degli entitlements senza provisions; del
passaggio frustrante dalla crescita senza redistribuzione alla redistribuzione
senza crescita: così ROMEI P., L'organizzazione come trama,
Milano, 2000, 308, 309.
[66] Come ha
chiarito la Corte costituzionale, a partire dalla sentenza n. 282/02, la lett.
m) dell'art.117, comma 2, Cost. non fa riferimento ad «una
“materia” in senso stretto, ma ad una competenza del legislatore
idonea ad investire tutte le materie, rispetto alle quali il legislatore stesso
deve poter porre le norme necessarie per assicurare a tutti, sull'intero
territorio nazionale, il godimento di prestazioni garantite, come contenuto
essenziale di tali diritti, senza che la legge regionale possa limitarle o
condizionarle». Sulla questione cfr. ampiamente CORSO G. e LOPILATO V. (a
cura di), Il diritto amministrativo, cit., opera alla quale si rinvia
anche per ulteriori e complete indicazioni bibliografiche e
giurisprudenziali.
[67]
Così BALBONI E., Livelli essenziali: il nuovo nome dell'eguaglianza?
Evoluzione dei diritti sociali, sussidiarietà e società del
benessere, in BALBONI E., BARONI B., MATTIONI A., PASTORI G., Il sistema
integrato dei servizi sociali. Comemnto alla legge n.328/2000 e ai
provvedimenti attuativi dopo la riforma del titolo V della Costituzione,
Milano, 2003, 27 ss. Sui livelli essenziali delle prestazioni, oltre alle opere
già richiamate supra, cfr., ex multis, BUZZACCHI C., Uniformità
e diffrenziazione, cit., in part. 152 ss.; BALDUZZI R., I livelli
essenziali nel settore della sanità, in BERTI G. e DE MARTIN G.C.,
Le garanzie di effettività dei diritti nei sistemi policentrici,
Milano, 2003, 247 ss.; MENICHETTI E., Le pratiche terapeutiche tra
uniformità e differenziazione, in rivista telematica amministrazioneincammino.luiss.it;
PINELLI C., Sui «livelli essenziali delle prestazioni concernenti i
diritti civili e sociali» (art. 117, co. 2, lett. m, Cost.), in Diritto
Pubblico, 2002, 881 ss.; LUCIANI
M., I diritti costituzionali tra Stato e Regioni ( a proposito dell'art.117,
co.2, lett. m), della Costituzione, in Pol. Dir. , 2002, 283 ss.;
PIZZOLATO F., Il minimo vitale. Profili costituzionali e processi attuativi,
Milano, 2004; RESCIGNO G.U., Principio di sussidiarietà orizzontale e
diritti sociali, in Dir. Pubbl., 2002, 5 ss.; POLICE A., Federalismo
“asimmetrico” e dequotazione dell'eguaglianza: le fragili
fondamenta della citatdinanza amministrativa, in Dir. dell'econ.,
2002, 489 ss, MASSA PINTO E., Contenuto
minimo essenziale dei diritti costituzionali e concezione espansiva della
Costituzione, in Dir. Pubbl., 2001 1050 ss., ai quali si rinvia
sia per l'esame della questione
(studiata soprattutto con riguardo ai livelli di assistenza sanitaria) - che ha
riflessi immediati sulla portata della tutela della uguaglianza (cfr. sinteticamente
la recente trattazione di GIORGIS A., Art. 3, co. 2, Cost., in Commentario,
cit., in part. 101 ss.) - relativa all'individuazione del significato corretto
da assegnare alla formula dei “livelli essenziali” (se da
intendersi come “minimi” o “uniformi” o
“omogenei”) sia per l'analisi del problema (cui verrà
dedicata una breve notazione più avanti, in nota) della possibile
estensione della determinazione dei LEP anche alla fissazione di standards
strutturali e organizzativi (su cui cfr. Corte cost. n. 120 del 2005). Il
problema è richiamato in termini sintetici anche in MOLASCHI V., Le
disuguaglianze sostenibili, cit.,; RENNA M., Le disuguaglianze
sostenibili nel sistema scolastico, cit.; MANGANARO F., Il concetto di
cittadinanza, cit. Sul punto cfr. ora la chiara analisi di PIOGGIA A., I
principi come limite, cit.
[68]
Così MANGANARO F., Il concetto di cittadinanza alla luce dei livelli
essenziali di prestazioni, cit., 211, il quale richiama, tra gli altri, i
recenti studi di CASTORINA E., Introduzione allo studio della cittadinanza.
Profili ricostruttivi di un diritto, Milano 1997; BERTI G., Cittadinanza,
cittadinanze e diritti fondamentali, in Riv. Dir. Cost., 1997, 12; MARSHALL
T.H., cittadinanza e classe sociale, rist. a cura di S. Mezzadra, Bari,
2002; CIANCIO A., I diritti politici tra cittadinanza e residenza, in Quad.
cost., 2002, 56 ss.; RESCIGNO G.U., Cittadinanza: riflessioni sulla
parola e la cosa, in Riv. Dir. Cost., 1997, 37. Di Manganaro
è bene richiamare anche ID., Partecipazione al procedimento
amministrativo e cittadinanza plurale, AA. VV., Procedimento
amministrativo e partecipazione. Problemi, prospettive ed esperienze (a
cura di A. Crosetti e F. Fracchia), Milano, 2002, 277; ID., Vecchi problemi
e nuove prospettive della cittadinanza, in AA. VV., Persona e
amministrazione, cit., Torino, 2004, 221 ss.
[69] Per
alcune utili puntualizzazioni attorno alla formula (definita “volutamente
provocatoria”) di “disuguaglianza sostenibile” cfr. CAVALLO
PERIN, op. cit., 126, il quale distingue opportunamente tra disuguaglianze
giuridicamente irrilevanti, lecite (dunque possibili, praticabili);
disuguaglianze giuridicamente rilevanti, ma (in senso negativo, dunque)
illecite; disuguaglianze giuridicamente necessarie (le cd. azioni positive),
concludendo che le c.d. disuguaglianze sostenibili vanno intese nel senso di
“disuguaglianze relative”.
[70] MOLASCHI
V., Le disuguaglianze sostenibili, cit., RENNA M., Le disuguaglianze
sostenibili , cit.,
[71] In tal
senso MOLASCHI V., Le disuguaglianze sostenibili, cit., 27, 28, la quale
argomenta in tal senso da Corte cost. n. 282/2002 che ha accostato la nozione
di “livelli essenziali” a quella di “contenuto
essenziale” dei diritti, concetto elaborato dalla Corte proprio per porre
un limite alla compressione dei diritti sociali (in generale, e di quello alla
salute, in particolare), dovuta al carattere “finanziariamente
condizionato” degli stessi. Secondo l'autrice «la
strumentalità dei “livelli” rispetto alla garanzia del
diritto alla salute implica, di per sé, che i “livelli” non
possano (e, pertanto, non debbano) essere “minimi”». In altri
termini: l'accostamento operato dalla Corte rende sostenibile la tesi secondo
cui «la previsione costituzionale in materia di livelli essenziali»
costituisce un «vincolo per il legislatore, statale e regionale, non solo
sul piano del riparto delle competenze normative, ma anche per ciò che
concerne il quid delle prestazioni, che devono concretare il contenuto
essenziale del diritto alla salute». Su tale complessa questione cfr.
ampiamente BALBONI E., Op. cit.; GIORGIS, Op. ult. cit., in part., 101-103.
[74] In tale
prospettiva si ritiene, in sostanza, che, superata la dimensione organizzativa
dell’uniformità, i vincoli uniformanti che l’ordinamento
seguita a imporre alle autonomie debbano riguardare essenzialmente i risultati
dell’azione e dell’organizzazione dei soggetti pubblici. In tale
quadro l’uniformità amministrativa non è più
considerata essenziale rispetto al fine dell’uniforme godimento dei
diritti sul territorio: la prospettiva diventa quella della soddisfazione dei
diritti e degli interessi , mentre i percorsi necessari per garantire
tali risultati diventano secondari. Così GARDINI, Recensione a
Enrico Carloni, cit., 308 . Sul punto cfr. infra, nel testo.
[76] Si
afferma espressamente, infatti, che tale «nuovo modello è centrato
sul risultato dell'azione dei pubblici poteri prima che sui caratteri e i
modelli di questa azione» (CARLONI E., Lo Stato, cit., 267)
[77] Carloni, seppure
in termini dubitativi, propone la enucleazione di «uno specifico principio
di differenziazione (amministrativa)» (cfr. le citazioni già
riportate supra). Sembra, tuttavia, che la sua trattazione dimostri in modo
convincente, piuttosto, che la differenziazione rappresenta uno dei modi di
(nuova e diversa) attuazione del principio di uniformità: si persegue
una uniformità di base, quale nuova dimensione della eguaglianza,
sostanziale ed inclusiva, attraverso un modello che include un grado necessario
di differenziazione della disciplina delle autonomie territoriali: «una
Repubblica che fonda sulla differenza dei percorsi il raggiungimento di
obiettivi unitari, che persegue, attraverso la differenza, un'uguaglianza che
nel suo modello generale ... non è più formale e paritaria, ma
sostanziale e di base» (così ID., Op. cit., 194)
[79] ID., Op. loc. cit.. Tale
fenomeno, si osserva in linea generale, è definibile come una
“differenziazione necessaria” per far fronte alla
complessità della realtà contemporanea, che è
«caratterizzata dal superamento di modelli organizzativi assolutizzati e connotati in
senso valoriale, in favore di modelli caratterizzati da un forte relativismo:
le strutture formali vengono allora sempre più rapportate agli obiettivi
perseguiti, ai vincoli da rispettare, alle funzioni da esercitare, alle risorse
(umane, finanziarie, strumentali) a disposizione…». Trasformazione
che è descritta dall'autore da un lato quale riflesso della
“complessificazione” della realtà amministrativa,
dall’altro quale adozione del «modello di riferimento ... delle
organizzazioni private, dove la dimensione interna
dell’amministrazione-impresa è vista in larga parte come
irrilevante per coloro che sono chiamati a relazionarsi con essa».
[81] Cfr., ex
multis, CAMPELLI E., Da un luogo comune. Elementi di metodologia delle
scienze sociali, Roma,
[82] Viene in
risalto un significativo punto di contatto del percorso disciplinare della
recente scienza amministrativistica con alcune delle tendenze di fondo della
cultura contemporanea. E' noto, infatti, che, soprattutto a partire dagli anni
sessanta del novecento il pensiero filosofico (sia di tradizione continentale
sia di impianto analitico) è stato caratterizzato da una crescente
attenzione per la idea di “pluralità”, percepita non
più (o non solo) come limite o circostanza di crisi, ma come
opportunità positiva. Le categorie della differenza e della
molteplicità hanno così occupato via via sempre maggiore spazio
nell'analisi della contemporaneità (cfr. D'AGOSTINI, Analitici e
continentali. Guida alla filosofia degli ultimi trent'anni, Milano, 1997).
Si è osservato, anzi, che l'idea di “pluralità”
(delle verità, delle prospettive teoriche, degli stili filosofici etc.)
rappresenta «un buon punto di partenza tipico del pensiero» degli
ultimi decenni, «quando non anche il suo punto d'arrivo»
(così ID., Op. ult. cit., 6, 7). Da questo dato comune si sono
dipanate sia posizioni “disgregative” sia percorsi in vario modo
“riaggregativi”. Secondo le prime (il post-modernismo, il post-strutturalismo)
non c'è nessuna urgenza di riunificare i frammenti dispersi della
ragione, anzi, non c'è alcuna razionalità unitaria da
ricostruire, ma ci si può adattare a una ragione parcellizzata e
frammentaria (o forse ci si “deve” adattare, essendo la post-modernità
descritta come una “condizione” di anomalia inoltrepassabile). Per
uno sguardo di sintesi su tali posizioni cfr. da ultimo A. SARTINI, Figure
della differenza. Percorsi della filosofia francese del Novecento, Milano,
2006. Tra queste tesi – che hanno esercitato una crescente influenza
anche nel campo degli studi organizzativi è utile qui citare
esemplificativamente le tesi cibernetiche di Atlan, che intepreta lo sviluppo
dei sistemi come crescita di diversificazione e complessità, non come
aumento di coerenza e selezione. I percorsi “riaggregativi”,
invece, pur muovendo dal dato di una “frammentazione”
dell'esperienza, tentano tuttavia di ridefinire in modo unitario la
razionalità contemporanea, di ricomporre in vario modo i frammenti
dispersi della ragione moderna. Basti qui richiamare per un verso il pensiero
di Habermas, per altro verso l'epistemologia della complessità. Per una
ampia e lucida analisi critica di tali movimenti culturali dalla prospettiva
del giurista cfr. l'ampia trattazione di LOSANO M.G., Sistema e struttura
nel diritto, vol. III, Dal Novecento alla postmodernità, Milano,
2002 .
[83] CARLONI
E., Lo Stato, cit. passim, il quale precisa che «Il confine tra
questi tre tipi di condizionamento non è netto: strumenti volti a
condizionare i risultati non mancheranno di avere ricadute sulle
modalità di azione, persino sull’organizzazione. Viceversa,
determinare l’organizzazione significa prederminare in certa misura le
successive modalità di azione, persino i risultati della successiva
azione» (così a p.62, in nota
[85]
All’interno di un sistema complesso e multipolare, che include e
riconosce centri di riferimento di interessi contrapposti, posti su un piano di
tendenziale equiordinazione, l’unità dell’ordinamento
«non esiste a priori» ma «è concepibile
soltanto quale risultante del confronto dinamico di tali centri, che avviene
volta per volta, episodio per episodio senza esiti predeterminati. In tale
contesto risultano superate le traduzioni in termini assoluti della vicenda
giuridica; questa va colta nella sua (relativa) aleatorietà e nel suo
carattere di problematicità» (così, su un piano di teoria
generale, ROMANO TASSONE A., Note sul concetto di potere giuridico, in Annali
dell'Università di Messina, 1981, 2, 435). Si impone cioè
l’esigenza di spiegare in termini di rapporti giuridici e di situazioni
giuridiche soggettive la dinamica giuridica e le relazioni tra figure
giuridiche soggettive: è questa la prospettiva che permette di
perseguire obiettivi di unificazione e integrazione del sistema nei loro
effettivi risvolti operativi. Per lo sviluppo di tale impostazione nella
prospettiva della operazione amministrativa sia consentito il rinvio al mio
lavoro Contributo allo studio, cit. in part. 183 ss.
[86] Sulla natura
relazionale della “realtà giuridica concreta” cfr., per
tutti, SCOCA F.G., Contributo sul tema della fattispecie precettiva,
Perugia, 1979, passim, opera in cui è messa a punto a livello di teoria
generale una ordinazione triplanare dell'esperienza giuridica complessiva.
[87] Ci si riferisce
allo studio di TORCHIA L., Il governo delle differenze. Il principio di
equivalenza nell'ordinamento europeo, Bologna, 2006
[90]
Già dal Trattato di Roma la ampio è lo spazio di esplicazione
lasciato alla possibile differenziazione all'interno dell'ordinamento europeo:
cfr., ex multis, ZILLER J., Flexibility in the geographical scope of
European Union Law, in de Burca D. e Scott J., (a cura di), Constitutional
Change in the Eu. From Uniformity to Flexibility? Oxford, Hart Publishing,
2000, 113 ss., citato da TORCHIA L. Il governo, cit., 14, alla quale si
rinvia anche per ulteriori indicazioni biblografiche. A partire dal Trattato di
Amsterdam, la «“flessibilità” ha perso definitivamente
le caratteristiche di una soluzione specifica e contingente» finalizzata
al superamento di difficoltà transitorie nel processo di integrazione
per assumere «una vera e propria dimensione costituzionale» (ID. ,
Op. cit., 15).
[92]
Così ID., Op. cit., 178, la quale evidenzia come il pluralismo
giuridico sia tratto distintivo e caratteristico dell'ordinamento europeo, in
cui le diversità sono riconosciute e mantenute, e in cui l'unità
non coincide con l'uniformità, ma si assicura con un insieme di principi
e strumenti di governo delle differenze, espressione del principio di
equivalenza quale «elemento caratteristico di una unità che non
coincide con l'uniformità e che non si articola soltanto secondo un
criterio di competenza, ma comporta un nuovo modo di esercizio del potere
amministrativo, in una dimensione integrata e plurale»(26).
[93] La
«trasformazione di sistema » in atto anche nell’ambito del
sistema interno è colta in dottrina efficacemente, tra gli altri, da Bombardelli M., La sostituzione, cit., 95 ss., il quale osserva che
«l’organizzazione amministrativa non si presenta più come un
dato, ma è una costruzione dinamica, flessibile e variabile nella sua
dimensione concreta, determinata di volta in volta in base alla
necessità di ognuno dei diversi interessi rilevanti di integrarsi ed
interagire con gli altri, essendo interdipendente rispetto ad essi per poter
curare concretamente l’interesse che gli è affidato.
L’organizzazione amministrativa non deriva dunque dalla disarticolazione
di un unico centro di riferimento di un interesse pubblico predefinito in una
pluralità di figure organizzative ad esso riconducibili, ordinate in
senso discendente attraverso la distribuzione dei compiti in origine aggregati
nelle complessive attribuzioni di tale centro, ma viene a crearsi attraverso
successive e mutevoli integrazioni di centri di riferimento di interessi in
origine variamente connessi tra loro (…). Le parti rilevanti del sistema
sono quindi differenziate tra loro, ma anche connesse ed interdipendenti ed il
loro insieme va considerato non più in una prospettiva riduzionista, in
cui l’organizzazione è sempre ricostruibile come un intero con la
semplice somma delle sue singole parti, delineando una figura che le contiene
tutte. Diversamente, le parti suddette vanno ricomposte nella prospettiva della
complessità, in cui la struttura organizzativa d’insieme
può essere compresa solo tenendo conto, oltre che delle parti che lo
compongono, anche delle mutevoli e dinamiche relazioni attraverso cui si
manifesta la loro interdipendenza. L’organizzazione va cioè considerata
anche in base alle specifiche relazioni che nel concreto vengono ad instaurarsi
fra le sue parti e che danno loro proprietà nuove, dovute al fatto di
essere un insieme di elementi interconnessi in modo dinamico, che restano
inaccessibili se ci si ferma alle singole componenti o alla loro somma»
(così alle pp.105, 107, 108).
[94] Sugli
sviluppi recenti delle teorie organizzative cfr. BONAZZI G., Come studiare
le organizzazioni, Bologna, 2002; MOSCHERA L., Analisi di teorie
dell'organizzazione. Logiche e modelli a confronto, Milano, 2000; ROMEI P. L’organizzazione
come trama, Padova, 2000; HATCH M.J., Teoria
dell’organizzazione, Bologna, 1999, la quale individua nella teoria
dell’organizzazione contemporanea la coesistenza e l’integrazione
di tre diversi approcci, pur influenzati dalle teorie “classiche”:
moderno, simbolico e postmoderno. Con specifico riguardo alle organizzazioni
pubbliche cfr. D'AMICO R. (a cura di), L'analisi della pubblica
amministrazione. Teorie, concetti e metodi, vol.I, Milano, 2004.
[96] Così MORIN E., La méthode. La nature de
la nature, Paris, 1977; tr. it. Il metodo. La natura della
natura, Milano, 2001.
[97] Cfr. LAWRENCE
P.R.-LORSCH J.W., Organization and Environment. Managing Differentiation and
Integration, Harvard University Press, 1967 (citato da ROMEI, L'organizzazione,
cit., 119) i quali prendono le mosse dall’approccio sistemico, che
sottolinea la criticità delle relazioni di interdipendenza delle parti
componenti l’organizzazione, dell’interscambio con
l’ambiente, della molteplicità delle forme con le quali è
possibile arrivare a risultati analoghi.
[98] Nella
dottrina amministrativistica cfr., tra gli altri, SCOCA F.G., La pubblica
amministrazione come organizzazione, in MAZZAROLLI L. ed altri, Diritto
amministrativo, Bologna, 2005, vo. I, p. 439 e ss., in particolare p. 443,
il quale, a proposito del sistema amministrativo nel suo complesso, parla di
«unità funzionale e complessità organizzativa»;
nonché PASTORI G., Coordinamento e governo di una società
complessa, in Amato, G. Marongiu
(a cura di), L’amministrazione della società complessa, In
ricordo di Vittorio Bachelet, Bologna, 1982, 129, il quale rileva
che i termini di «coordinamento ed autonomia sembrano andare di pari
passo ed implicarsi vicendevolmente. Benché il termine
“coordinamento” indichi di per sé... un risultato, un
effetto unitario che si può realizzare attraverso tecniche e modalità
diverse, nella visione di una società democratica e pluralistica
(…) esso viene ad indicare soprattutto le tecniche che consentono di
conseguire finalità comuni senza sopprimere o senza troppo largamente
condizionare l’autonomia dei soggetti coinvolti».
[99] In altre
parole: la differenziazione è studiata in coppia con l'integrazione;
l'una e l'altra sono studiate quali processi dinamici caratteristici
dell'azione organizzativa; un aumento eccessivo di differenziazione comporta un
rischio di anarchia organizzativa: la fine della funzionalità
dell'organizzazione per “eccesso di gioco”; un incremento eccessivo
di integrazione produce invece il rischio opposto: la fine della
funzionalità dell'organizzazione per eccesso di rigidità, ossia
per “assenza di gioco”; è esigenza organizzativa, pertanto,
la ricerca costante di equilibri dinamici tra integrazione e differenziazione,
in modo che l'organizzazione si collochi ad un livello adeguato di
complessità, un livello in cui la sua funzionalità “ha
gioco”. La metafora del gioco è mutuata da van de KERCHOVE M.- OST
F., Il diritto ovvero i paradossi del gioco, Milano, 1995.
[100] Come
ricorda HATCH M.J., Teoria
dell’organizzazione, cit., 156 ss., i teorici
dell’organizzazione “modernisti” ricorrono a un concetto di
differenziazione simile a quello utilizzato in biologia, in cui la
differenziazione è il processo attraverso il quale le varie funzioni si
distinguono tra loro (come nel caso delle funzioni delle cellule di una pianta
o delle funzioni di un embrione) . Essi parlano di differenziazione delle
attività di un’organizzazione: via via che la differenziazione
procede all’interno dell’organizzazione diventa sempre più
difficile per le varie componenti organizzative svolgere le proprie
attività specifiche coordinandole al tempo stesso con quelle degli altri
membri dell’organizzazione; la difficoltà di comunicazione e
coordinamento aumenta con la crescita della differenziazione, spingendo verso
l’integrazione. Un modo tipico di gestire le pressioni verso
l’integrazione è quello di creare strutture in funzione di
integrazione; risposta questa che, però, comporta allo stesso tempo
ulteriore differenziazione ed è idonea a supportare, dinanzi
all’ulteriore crescita dell’organizzazione, un ulteriore ciclo di
differenziazione ed integrazione. La differenziazione delle attività
può portare pertanto alla realizzazione degli scopi desiderati, oppure
all’anarchia organizzativa. La differenza tra anarchia organizzativa e
integrazione -si rileva- sta proprio nella capacità di integrare e
coordinare.
[101] Nel
campo della teoria organizzativa l'approccio post-modernista deriva
direttamente dal movimento post-strutturalista della filosofia francese. Tale
approccio ritiene che il fenomeno caratteristico delle organizzazioni
contemporanee sia l'abbandono delle
gerarchie a favore della creazione di networks o reti di comunicazione,
con un conseguente spostamento del baricentro delle strutture organizzative
dall’asse verticale all’asse orizzontale. Cfr., tra i molti,
BERGQUIST W., L’organizzazione
postmoderna, Milano, 1994, il quale osserva espressamente che le principali
caratteristiche distintive dell'organizzazione postmoderna sono:
l’accento su strutture di complessità e dimensioni piccolo/medie e
sull’adozione di strutture flessibili e modalità di cooperazione
tra le varie istituzioni in grado di affrontare le turbolenti condizioni
organizzative e ambientali (9). Cfr. altresì CLEGG S., Modern
organizations: organization studies in the postmodern world, London, Sage,
1990 (citato da HATCH, Teoria dell'organizzazione, cit., 157), studio in
cui si sostiene invece che la differenziazione, nelle organizzazioni moderne,
sia andata troppo oltre, e che pertanto le organizzazioni contemporanee, in
quanto “sovra-differenziate”, dovrebbero “de-differenziarsi”.
La de-differenziazione si distingue dalla integrazione nel senso che mentre
quest’ultima implica il coordinamento delle attività
differenziate, la de-differenziazione significa che l’organizzazione
«fa marcia indietro» ed elimina le condizioni stesse della
differenziazione che hanno contribuito a creare il bisogno di integrazione.
Nella de-differenziazione le organizzazioni diventano sì più
integrate, ma non come risultato di un’elaborazione strutturale volta ad
ottenere un maggiore coordinamento: in questo caso l’organizzazione è
più integrata semplicemente perché richiede meno coordinamento in
quanto meno differenziata (ossia meno complessa). L’approccio della
de-differenziazione incoraggia l’auto-organizzazione; tenta così
di opporsi alla visione modernista della esistenza di uno stretto legame tra
integrazione e gerarchia, senza però intaccare i concetti di
integrazione e di differenziazione.
Esempi di de-differenziazione potrebbero essere individuati – ai
nostri fini - nelle esternalizzazioni e nella sussidiarietà orizzontale.
[102] La
nozione di comunicazione è ritenuta, anche in tale prospettiva, comunque
costitutiva del concetto di organizzazione, in linea con l'insegnamento di Simon: «…il termine
organizzazione si riferisce al complesso schema
di comunicazioni e di altre relazioni che viene a stabilirsi in un
gruppo»: così Simon H.A.,
Administrative Behavior, Macmillan,
New York, 1947, trad. it. Il
comportamento amministrativo, Bologna, 1967, II ed., 14).
[103] Di «canali di comunicazione
laterale» parla, ad esempio, HATCH M.J., Teoria dell’organizzazione, cit., 160; di «connessioni laterali», invece, SCOTT
W.R., Organizations, Rational, Natural
and Open Systems, New Jersey, 1981, nella (2ª) edizione italiana, ID., Organizzazioni, New Jersey-Bologna, 1994, 282-283.
[104] Per una
critica serrata all'utilizzazione del concetto di
“auto-organizzazione” (sulla genesi del quale cfr. diffusamente
EMERY F.E., La teoria dei sistemi. Presupposti, caratteristiche e sviluppi
del pensiero sistemico, Milano, 2006) anche in campo giuridico, con
particolare riguardo alle teorie di Luhmann e Teubner, cfr., per tutti, LOSANO
M.G., Sistema e struttura nel diritto, vol. III, Dal Novecento alla
postmodernità, Milano,
[105] E'
impossibile in questa sede dar conto del percorso teorico di approfondimento
che ha interessato, nella seconda metà del novecento, i temi del
coordinamento e dell'autonomia, nell'ambito di un dibattito che, pur mettendo a
problema le principali nozioni di fondo del diritto amministrativo, ha
incontrato notevoli difficoltà - sia in ragione dell'atteggiarsi dei
dati di diritto positivo sia a causa dei condizionamenti teorici derivanti da
“paradigmi” elaborati nell'orbita del modello organizzativo
statocentrico (così DI GASPARE, Il potere, passim) – nel
mettere a fuoco la nozione di autonomia quale (disciplina di un) rapporto
giuridico, come anche nella costruzione, sempre in termini di rapporti, delle
formule organizzatorie (in particolare: le relazioni organizzative di
equiordinazione); difficoltà che hanno caratterizzato anche i tentativi,
più volte operati, di liberare la funzione dalle “strettoie”
del potere e dell'atto (così ALLEGRETTI U., Pubblica amministrazione e ordinamento democratico, in Foro it., 1984, V,
[106] Come ha
osservato già MARONGIU G., Il
coordinamento come principio politico di organizzazione della
complessità sociale, in AMATO
G., MARONGIU G. (a cura di), L’amministrazione
della società complessa., cit., 141 ss.: «Calato nei modelli
concettuali e pratici della vecchia amministrazione il coordinamento come
principio e come nozione è francamente incomprensibile; nel nuovo schema
di una società complessa, che è amministrata ma che anche si
autoamministra, il coordinamento è un principio necessario e il suo
stesso concetto perde le sue molte oscurità (…). Se si tiene
presente, infatti, che l’attività di coordinamento non è
che la risposta a una situazione sociale e organizzativa che vive
l’esigenza dell’inseparabilità fra il momento del comune
cooperare verso fini unitari e quello della libertà e
dell’autonomia di ciascuno degli attori, non potrà più
apparire come una insanabile contraddizione concettuale l’incessante
farsi e disfarsi, nella sua complessiva figura, di profili di equiordinazione e
di profili di sovraordinazione. L’equiordinazione è essenziale al
coordinamento non meno della sovraordinazione e viceversa:
l’equiordinazione esprime il momento della concertazione, del formarsi
della decisione comune, della codeterminazione dei fini(…)»,
cosicchè, a ben guardare, «le ipotesi più vere di
coordinamento si hanno proprio nelle figure organizzative
complesse...»(così 145)
[107] Cfr.
WILLKE H., Ironie des Staates, 1992, 185 (citato da VOßKUHLE A., “Concetti
chiave” della riforma del diritto amministrativo nella Repubblica
Federale Tedesca. Una ricognizione critica, in Dir. Pubbl. 2000,
[110] In tema
cfr., tra i primi, OCCHIENA M., La disciplina del procedimento
amministrativo e della partecipazione dopo la riforma del titolo v della parte
II della Costituzione. Sez I- Il procedimento, in CROSETTI A. E FRACCHIA
F., Procedimento amministrativo e partecipazione, problemi, prospettive ed
esperienze, Milano, 2002, 167 ss.; SORACE D., Relazione al Convegno
dell'AIPDA, cit.. Più di recente cfr. CELOTTO A. e SANDULLI M.A., Legge
n.241 del 1990 e competenze regionali: un "nodo di Gordio", in www.giustamm.it,; BERGONZINI
G., Legge dello Stato sull'azione amministrativa e potestà
legislativa regionale, in Dir. amm. 2006, 23 ss.; ROMANO TASSONE A.,
Legge n. 241 del 1990 e competenze regionali: osservazioni sulla posizione di
A. Celotto-M.A. Sandulli, in www.federalismi.it, il quale ha proposto di
individuare la fonte delle limitazioni discendenti dalla legge n.241 del 1990
verso la legislazione regionale nell'art. 117, comma 2, lett. m): «in
tale prospettiva ... la legge n.241 va intesa non tanto come legge che impone
modelli comportamentali standard, ma quale atto di determinazione,
attraverso i comportamenti ivi prescritti, di alcuni fondamentali risultati che
il cittadino deve comunque conseguire nel suo rapporto con l'amministrazione:
un elenco di risultati che devono essere garantiti al cittadino nel suo
rapporto con l'amministrazione-autorità, risultati che, tuttavia, sono
raggiungibili anche attraverso moduli comportamentali diversi da quelli
contemplati nella legge (...come indicazione indiretta del “livello”
che deve essere garantito dalla normazione delle autonomie)».
[113] Cfr.
VESPERINI , I poteri locali, cit., passim, dalla cui attenta
ricognizione, operata materia per materia, si evince come siano assai rare le
ipotesi in cui davvero può ritenersi che il Comune, o
[114] Ha
osservato SALA, 14, che «dopo l’entrata in vigore del nuovo Titolo
Quinto ... l’approccio dominante è stato quello di cercare di
determinarne l’incidenza nella distribuzione delle funzioni ai diversi
livelli di amministrazione». Con riguardo, in particolare, alle
«funzioni amministrative, il cui contenuto e il cui modo di esercizio
caratterizza l’amministrazione, e quindi il ruolo di Comuni e Province,
si è discusso del quantum e del quando delle nuove funzioni che
la nuova riforma ha inteso trasferire agli enti locali», in parte
trascurando la circostanza che «nel momento in cui si chiede ai poteri
pubblici di assicurare standard qualitativi di vita sempre più
ambiziosi, che inevitabilmente richiedono l’esercizio coordinato di
poteri e, prima ancora, l’utilizzo integrato delle risorse disponibili,
la funzione delle istituzioni pubbliche, anche di quelle locali, non può
essere intesa, in senso statico, solo come garanzia di un ambito riservato di
gestione di interessi ma anche, e probabilmente piuttosto, come ruolo
riconosciuto in processi decisionali e operativi che necessariamente
coinvolgono altri soggetti» (16). Tale prospettiva di analisi va pertanto
coniugata con la ricerca di soluzioni al problema della ripartizione (quanto
meno del nucleo duro) delle competenze, che è (e resta) comunque
problema essenziale. In tal senso cfr. MERLONI, L'inutile riforma del TUEL.
Per una legge generale sulle Autonomie Locali, in Clemente di San Luca (a
cura di), Nodi problematici e prospettive di riforma del Testo Unico degli
Enti Locali, Torino, 2006, 141 : «se non c'è separazione di
competenze chiara (anche se non perfetta), non c'è
responsabilità, non c'è possibilità di costruire un
sistema di autonomia normativa, non c'è possibilità di costruire
un sistema di autonomia finanziaria...Una chiarezza nella ripartizione delle
competenze, delle funzioni», sembra, pertanto, «condizione
indispensabile», ma «non ... sufficiente, perchè nessuna
ripartizione delle competenze sarà mai in grado di risolvere i problemi
di un'amministrazione moderna complessa. Comunque, qualunque sia la
ripartizione che si fa, si è costretti ad operare, a collaborare con
altre amministrazioni titolari di competenze vicine per il raggiungimento di
obiettivi comuni...».
[115] GIANNINI
M.S., Autonomia (saggio sui concetti di autonomia), in RTDP, 1951, 851,
ID., Autonomia (teoria generale e diritto pubblico), in Enc. Dir., IV,
Milano, 1959, 353; ROMANO S., Autonomia, in ID., Frammenti di un
dizionario giuridico, Milano, 1957, 15. Più di recente ROMANO A., Autonomia
nel diritto pubblico, in Dig. Disc. Pubbl., II, Torino, 1987, 31 ss. (in
part. 32): «l'autonomia ... non è una situazione in sé, ma
è una situazione all'interno di un rapporto, di una relazione»;
SALA G., Sui caratteri, cit., 17 : il «concetto di
autonomia è concetto interrelazionale, rilevando il grado di
indipendenza o, in relazione al punto di vista, di dipendenza rispetto ad altro
soggetto». CASSESE S. (a cura
di), Istituzioni di diritto
amministrativo, 2004, 71: «...il principio di autonomia può
trovare attuazione solamente tra soggetti posti in posizione di
equiordinazione, al fine di regolarne i rapporti, con portata diversa, a
seconda della qualificazione che di volta in volta può essergli
riconosciuta. Esso, dunque, presuppone l’esistenza di un rapporto, non
importa se effettivo o anche solo virtuale, tra soggetti differenti, rapporto
che, in qualche misura, si vuole delimitare».
[120]
Così CAMMELLI M., I raccordi tra
livelli istituzionali, Le istituzioni
del federalismo, Regione e Governo Locale, 2001, novembre-dicembre, 1079.
[121]
Così ID., Amministrazione di
risultato, cit., 117. Nello stesso senso cfr. anche ID., Amministratori (e interpreti), cit.,
1276; RUGGERI A., “Forme” e
“tecniche” dell’unità, tra vecchio e nuovo
regionalismo, in ID., “Itinerari”
di una ricerca sul sistema delle fonti, VI, 1, Studi dell’anno 2002,
Torino, 2003, 397 ss..
[122]
Così SALA G., Sui caratteri
dell’amministrazione comunale e provinciale dopo la riforma del Titolo V
della Costituzione, in Le Regioni,
2004, 11 ss., 47-48, il quale parla efficacemente «di una complessa
amministrazione, in senso oggettivo, costruita (…) con la disciplina
procedimentale dei diversi processi decisionali, dimensionata, nelle sue
articolazioni ai diversi livelli territoriali e nell’attribuzione delle
relative funzioni, sulla dimensione degli interessi o l’entità
delle risorse, finanziarie o tecniche, necessarie»(32). In tal senso cfr.
anche BERTI G., Sussidiarietà e
organizzazione dinamica, in Jus,
n. 2/2004.