ds_gen N. 6 – 2007 – Contributi

 

Note su uguaglianza e differenza nella disciplina delle autonomie territoriali*

 

Domenico D'Orsogna

Università di Sassari

 

 

Sommario: 1. L'uguaglianza nel modello tradizionale di amministrazione: l'uniformità come articolazione organizzativa dell'uguaglianza (formale)2. Dal pregiudizio dell'uniformità alla “Repubblica differenziata” delle autonomie. – 3. Differenziazione normativa e differenziazione amministrativa. – 4. Differenziazione normativa e “disuguaglianze sostenibili”: il ruolo uniformante dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali. – 5. L’“amministrazione differenziata” quale modello idealtipico. – 6. Differenziazione amministrativa e disciplina delle autonomie (al plurale): buon andamento e differenziazione “dinamica”.

 

 

1. – L'uguaglianza nel modello tradizionale di amministrazione: l'uniformità come articolazione organizzativa dell'uguaglianza (formale)

 

Il tema oggetto delle presenti note si pone in linea di ideale proseguimento e sviluppo della riflessione svoltasi nell'ambito di un recente convegno, dedicato a “Le disuguaglianze sostenibili nei sistemi autonomistici multilivello[1].

L'idea di fondo, assunta a dato di base della riflessione comune, avvalorata da numerosi e recenti studi[2], anche di carattere monografico[3], muove dalla presa d'atto del superamento - sancito formalmente con la riforma del Titolo Quinto della Parte Seconda della Costituzione, ma all'esito di un dibattito che ha accompagnato il percorso dell'ordinamento post-unitario fin dalle sue origini (quando fu scartata l'opzione per il modello “della differenziazione” delle autonomie territoriali, sull'esempio austriaco)[4] – del modello tradizionale di amministrazione locale che nella uniforme disciplina delle autonomie territoriali ricercava la garanzia dell'unità dell'ordinamento e, insieme, dell'eguale trattamento disciplinare degli amministrati su tutto il territorio nazionale. Un modello in cui l'uniformità era costruita ed intesa, pertanto, anche quale articolazione organizzativa dell'uguaglianza: mezzo e tecnica di garanzia di una uguaglianza formale che, tuttavia, consentiva e mascherava disuguaglianze sostanziali formidabili[5].

Il modello uniforme di amministrazione locale, oltre ad aver ricoperto sotto un mantello unitario realtà tradizionalmente ricche di caratteri differenziali (sociali, economici, storici, culturali, geografici, dimensionali etc.)[6], ha mostrato vieppiù la propria inadeguatezza strumentale, più tardi, soprattutto a fronte e in considerazione della parabola evolutiva che ha interessato l'idea stessa di uguaglianza giuridica[7], il cui fuoco si è progressivamente e con sempre maggiore chiarezza orientato sul suo profilo sostanziale ed inclusivo[8], attento alla valorizzazione e alla tutela delle differenze[9].

La critica del modello uniforme – come risulta da numerosi studi[10], anche risalenti nel tempo[11] – non è tuttavia vicenda solo recente: essa ha infatti affiancato l'intero cammino dell'ordinamento unitario, in un dibattito che ha conosciuto momenti di grande intensità[12] in occasione delle varie fasi di (tentato o realizzato) riordino territoriale[13] o di nuova disciplina dell’ordinamento degli enti locali, portando gradualmente allo scoperto la intrinseca irragionevolezza del tentativo di racchiudere realtà profondamente diverse entro una griglia di regole uniformi, anche nei dettagli.

Non si può dimenticare, peraltro, che l’uniformità organizzativa, secondo il modello francese, fu all'origine concepita quale «strumento della centralizzazione e garanzia che tutte le parti dell’amministrazione si muovano all’unisono», secondo il modello che risale alla costituzione rivoluzionaria dell’anno VIII che riordinò le strutture amministrative «secondo i criteri dell’uniformità, dell’accentramento, della gerarchia»[14].

Se si risale la storia dell'ordinamento unitario fino alle sue origini è facile constatare, in effetti, come i principi di unità, uniformità ed eguaglianza si siano mostrati a tratti talmente connessi da apparire quasi indistinguibili. Si tratta, tuttavia, di una indistinzione concettuale solo apparente: mentre unità ed uguaglianza hanno valore finale, infatti, l'uniformità ha natura strumentale, anche se a lungo si è finito per tutelare l'uniformità in sé, quasi dimenticando la sua strumentalità rispetto alla eguaglianza e all'unità[15].

La dottrina ha di recente approfondito lo studio del nesso di strumentalità esistente tra principi di uniformità e di uguaglianza, mostrando come il primo sia una traduzione in termini organizzativi del secondo, ed è principio riferibile sia alla disciplina sostanziale data da enti autonomi alle situazioni giuridiche degli individui (uniformità normativa) sia alla disciplina ordinamentale dei soggetti pubblici dotati di autonomia (uniformità amministrativa)[16].

Si è evidenziato, inoltre, come il principio di uniformità sia cosa ben diversa rispetto al concreto modello in cui esso è stato tradizionalmente attualizzato (in cui il primo ha trovato una determinata forma di inveramento positivo): un modello giuridico concreto in cui il concetto di uniformità tendeva a risolversi in quello di uguaglianza (in una specifica accezione di quest'ultima), in considerazione del fatto che «la nozione generale di uniformità, se applicata ai soggetti dell'ordinamento, appare corrispondere a un modello giuridico di uguaglianza formale, sostanzialmente riconducibile alla tematica della eguaglianza di fronte alla legge»[17].

Un modello, questo, che se aveva una giustificazione “forte“ nell'amministrazione ottocentesca dello Stato liberale e monoclasse[18], uno Stato (da poco) unitario (e dunque) da sostenere e rafforzare (evitando “particolarismi giuridici” e spinte disgregatrici)[19], ha tuttavia finito per caratterizzare a fondo il sistema, con «molteplici inconvenienti»[20], anche dopo l'entrata in vigore della Costituzione repubblicana. La quale, a ben guardare, non imponeva affatto, anche nella sua formulazione originaria, la conservazione (né meri aggiornamenti o restauri di facciata) del modello uniforme, ma fissava abbastanza chiaramente (nella contestuale garanzia della uguaglianza, anche sostanziale, e del pluralismo autonomistico) alcune solide premesse e indicazioni per una sua congrua ed efficace rimodulazione[21]; poi in gran parte smentite e diluite, tuttavia, da un lato nel «regionalismo dell'uniformità» (e nella corrispondente configurazione della differenziazione regionale in termini di “specialità” che trova fondamento e limite nei «fatti differenziali»)[22], dall'altro nella rinnovata fiducia nell'uniforme regime legale degli enti locali[23].

Una netta rottura formale dell'uniformità dell'amministrazione locale si registra, come è noto, con la legge n. 142 del 1990, che, tuttavia, a fianco di norme che sanciscono le prime autentiche «aperture alla differenziazione»[24] ne pone anche altre [25] in cui riaffiora chiaramente il tradizionale «pregiudizio dell'uniformità»[26].

 

2. – Dal pregiudizio dell'uniformità alla “Repubblica differenziata” (delle autonomie)

 

La “transizione di modello”, annunciata e preparata dalle riforme istituzionali della seconda metà degli anni novanta e, in particolare, dalla positivizzazione del principio di differenziazione (funzionale) ad opera della legge n. 59 del 1997 (in seguito recepito nel nuovo art. 118 della Costituzione), è rilevata in dottrina con maggiore decisione dopo la riforma del Titolo Quinto della Costituzione[27].

Il dato su cui la dottrina ha maggiormente incentrato la sua attenzione è rappresentato – oltre all'abbandono della regola del “parallelismo” (tra funzioni legislative ed amministrative) e alla costituzionalizzazione del principio di sussidiarietà (verticale, ma anche orizzontale)[28] – dall'assunzione di base della tendenziale equiordinazione dei diversi enti territoriali che compongono la Repubblica (delle autonomie). In tale prospettiva lo Stato è  considerato semplice elemento della Repubblica (art.114 Cost.), intesa quest’ultima come complesso pluralistico all’interno del quale tutte le sue componenti costitutive sono considerate (tendenzialmente) equiordinate ed autonome[29].

Per altro verso un peso del tutto peculiare è stato riconosciuto alla inedita scissione tra differenziazione normativa e differenziazione amministrativa, sulla base della quale si è potuto osservare che mentre «in un sistema amministrativo unitario, capace di risolvere ogni antinomia sulla base di un criterio gerarchico», il tema dell’uniformità e della differenziazione si identifica con quello della «uguaglianza e ragionevolezza della legge differenziante», in un «sistema plurale e complesso, che distribuisce su più livelli territoriali la funzione normativa e amministrativa», il trattamento giuridico di un cittadino entro l’ordinamento sarà «differenziato, senza poter essere valutato in termini egalitari, rispetto a quello riconosciuto ad un altro soggetto, poiché ricadente entro la sfera di azione di un altro soggetto pubblico dotato di autonomia. Viene meno il tertium comparationis per un giudizio sulla ragionevolezza del trattamento differenziato»[30].

Detto in altri termini: mentre «nella unicità ordinamentale … l’uguaglianza finisce per coincidere con l’uniformità, in quanto la legge risponda a una ragionevolezza intrinseca, tale che fenomeni uguali risulteranno regolati in modo eguale, fenomeni diversi in modo diverso», dando forma a un modello in cui «la differenziazione discende dal ragionevole uso della discrezionalità categorizzatrice del legislatore», invece «l'uguaglianza nella pluralità (dei soggetti pubblici autonomi, delle fonti di autonomia, degli ordinamenti giuridici) non è più in grado di rispondere a tale modello. L’organizzazione dell’ordinamento, riconoscendo sedi autonome di produzione giuridica, prefigura spazi entro i quali l’uguaglianza come uniformità non può articolarsi, dal momento che viene meno la possibilità di confronto tra fenomeni. L’autonomia crea differenza, disuguaglianza»[31]. Si crea pertanto una tensione tra due poli: il diritto all’autogoverno e al suo risultato (cioè ad essere diverso), da un lato; il principio di uguaglianza, dall'altro[32].

Nel nuovo modello della Repubblica “differenziata” delle autonomie (formula questa proposta in dottrina per riassumere, dopo la riforma del Titolo Quinto della Costituzione, l'auspicato slittamento verso un modello di amministrazione della Repubblica in cui la differenziazione delle autonomie territoriali e attraverso le autonomie territoriali è non solo ammessa, ma, entro certi limiti, incoraggiata) la garanzia della uguaglianza è destinata pertanto ad assumere nuove dimensioni e nuove forme di esplicazione.

Una uguaglianza che, nel suo modello generale, si ritiene non sia più formale e paritaria, ma sostanziale e “di base”, nelle “condizioni di vita” dei cittadini-residenti[33]: una uguaglianza nei risultati sostanziali e nella soddisfazione dei diritti fondamentali della persona, pertanto, che non passa più (necessariamente) per l'uniformità delle amministrazioni, ma fa leva soprattutto sul ruolo uniformante dei “livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti in tutto il territorio nazionale” (L.E.P), la cui determinazione, come è noto, la Costituzione affida alla legislazione (esclusiva) dello Stato (art. 117, comma 2, lett. m)[34] e la cui garanzia si estende e prolunga anche sul piano della disciplina costituzionale (art. 120) dei poteri sostitutivi dello Stato nei confronti delle autonomie territoriali[35].

Siffatto ri-orientamento (positivo e interpretativo) del dato costituzionale riposa, al fondo, su molteplici e diversi fattori. Basti menzionare la ormai matura e generale presa d'atto della compiuta trasformazione della amministrazione pubblica da Potere (fine in qualche modo a se stesso) a Servizio[36]; la riconosciuta centralità dei diritti della persona (e dei doveri di protezione)[37]; la attenzione crescente riservata al modello (o, se si preferisce, alla “formula”) della (legalità e della) amministrazione “di risultato”[38] (che è poi l'amministrazione tout court)[39] e alla prospettiva di giustizia sostanziale da essa implicata[40]; la condivisione dottrinaria della esigenza di ricomporre a livello funzionale quella unitarietà dell'amministrazione che non sussiste (e non si vuole che sussista) sul piano strutturale, nonché della possibilità di ricostruire, finalmente, un modello costituzionale di amministrazione della Repubblica (multipolare e differenziato, ma allo stesso tempo) unitario[41] nella sua istituzionale missione strumentale rispetto alla cura efficiente e imparziale dei diritti e degli interessi (non dell'amministrazione, ma) del pubblico (ossia delle collettività di riferimento)[42]: un modello idoneo a ricomporre quella distanza tra la solenne affermazione dell’autonomia (art. 5 Cost.)[43] e la concreta traduzione minimalista ad essa offerta nel Titolo V (e nella legislazione attuativa) prima delle recenti riforme[44]. In sintesi: un modello che faccia “combaciare” i diritti ai doveri, Prima e Seconda parte della Costituzione[45].

 

3. – Differenziazione normativa e differenziazione amministrativa

 

E' opportuno riferire, a fini di chiarezza espositiva, che la categoria della “differenziazione” è utilizzata, nell'ambito del dibattito in corso, in modo molto eterogeneo, e comunque con significati più ampi e comprensivi rispetto alla nozione di stretto diritto positivo affermata, come criterio di allocazione delle funzioni, dapprima nella legge n.59/1997 (art. 4, comma 3, lett. h, ai sensi del quale, nell’allocazione delle funzioni il legislatore dovrà differenziare le stesse “in considerazione delle diverse caratteristiche, anche associative, demografiche, territoriali e strutturali” degli enti riceventi), poi nell’art. 118, primo comma, della Costituzione (differenziazione “funzionale”), a fianco dei criteri di sussidiarietà ed adeguatezza[46].

Pur lasciando da parte gli usi del termine “differenziazione” in cui questa assume un senso talmente generale da confondersi da un lato con nozioni di rilievo sociologico o economico, dall'altro con l'eccezione, la deroga, la specialità normativa[47], va detto che la nozione appare oscillare, anche nelle sue accezioni tecnico-giuridiche più circoscritte e precise[48], tra una sua caratterizzazione in termini di figura di qualificazione o di modello esplicativo (un ideal-tipo collocato sul piano conoscitivo) della realtà giuridica e la sua elevazione al rango di valore o di principio costituzionale; e, soprattutto, sul piano dei contenuti, essa sembra quasi ricalcare e doppiare la nozione stessa di autonomia, la sua disciplina, i suoi limiti, ovvero i risultati del suo svolgimento[49]. Su quest'ultimo punto si dovrà tornare più avanti.

Per il momento basti ricordare che la nozione di differenziazione accolta dalla più recente dottrina è utilizzata sia con riferimento alla (non uniforme) disciplina ordinamentale dei  soggetti pubblici dotati di autonomia sia con riguardo alla (non uniforme) disciplina sostanziale data dalle autonomie territoriali alle situazioni giuridiche dei cittadini-residenti sul territorio: nel primo senso si parla di differenziazione “amministrativa”; nel secondo di differenziazione “normativa”.

La differenziazione amministrativa è (carattere della) disciplina in senso proprio delle autonomie territoriali, di fonte eteronoma (di livello centrale o regionale, o comunque di un livello di governo più alto rispetto a quello che è oggetto di differenziazione)[50] ovvero anche autonoma (c.d. “auto-differenziazione”, il cui strumento di esplicazione è individuato soprattutto nelle fonti statutarie)[51], ed è ulteriormente classificata, in considerazione degli oggetti specifici in cui la disciplina può appigliarsi, in differenziazione (amministrativa) organizzativa[52] (avente ad oggetto strutture e/o relazioni organizzative, ma anche alcuni profili della organizzazione c.d. “di base” delle funzioni locali)[53] e differenziazione (amministrativa) funzionale (tra enti autonomi, pur appartenenti alla medesima categoria, che comporta un’allocazione differenziata e asimmetrica di competenze)[54].

La differenziazione normativa è, invece, risultato dell'esercizio dell'autonomia; è differenziazione nelle (e attraverso le) autonomie territoriali: essa pare confondersi in larga parte con la scelta autonoma, che è suscettibile, in tesi, di creare differenza, disuguaglianza[55].

 

4. – Differenziazione normativa e disuguaglianze “sostenibili”: il ruolo uniformante dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali

 

Il versante della differenziazione normativa è quello che ha maggiormente catalizzato l'attenzione del dibattito dottrinario.

E' facile individuarne la ragione: tale forma di differenziazione pone in modo diretto e palese dinanzi alla esigenza di valutare «fino a che punto l'aspirazione alla diversità...sia auspicabile e perseguibile e quando invece rischi di compromettere i valori su cui si fonda il sistema, divenendone fattore di instabilità e magari di disgregazione»[56]. Se è vero, infatti, che il rafforzamento (del pluralismo e) delle autonomie implica una accettazione strutturale della possibilità di un certo «tasso di disuguaglianza» sul territorio, è vero anche che esso pone un problema: quello della individuazione del livello di «disuguaglianza sostenibile»[57].

Attraverso riflessioni ed interventi[58] articolati per settori amministrativi particolarmente significativi (i servizi sociali e la sanità[59], l'istruzione[60], la concorrenza e il sostegno alle imprese[61], l'urbanistica[62]), ci si è posti alla ricerca degli elementi unificanti sul piano sostanziale, delle «condizioni di coerenza»[63] di un sistema che, pur nella differenziazione dei “percorsi”, vuol continuare ad essere omogeneo e coeso nelle condizioni di vita dei cittadini[64].

Il nucleo duro della nuova dimensione della uniformità (definita «di base»)[65] è stato ricercato principalmente nei livelli essenziali delle prestazioni (art.117, comma 2, lett. m)[66], in cui la dottrina ravvisa il «nuovo nome dell'eguaglianza» in un sistema plurale[67]. Attorno ad essi si ritiene possibile ed auspicabile anche la costruzione di una (ulteriore) nozione di cittadinanza (intesa come “residenza”) che sia il veicolo dell'eguaglianza sostanziale: il «catalogo delle prestazioni essenziali, che gli appartenenti all'intera collettività nazionale possono esigere nei confronti dell'amministrazione, indipendentemente dalle specifiche cittadinanze regionali o locali»; un insieme di diritti che, in ossequio all'art.3 della Costituzione, non tollera differenziazioni territoriali[68].

Oltre al problema della sostenibilità giuridica (ordinamentale) delle disuguaglianze[69], l'analisi si è estesa anche alla questione della sostenibilità economico-finanziaria delle stesse[70].

I due profili, inquadrati dalla visuale dei L.E.P., trovano un interessante punto di congiunzione e possibile sviluppo nella idea secondo cui la costituzionalizzazione dei L.E.P. pone al riparo gli stessi dai limiti finanziari: è il contenuto essenziale dei diritti civili e sociali, incomprimibile, a dover conformare la finanza, non il contrario[71].

 

5. – La “amministrazione differenziata” quale modello idealtipico

 

Attorno allo strumento della definizione statale dei L.E.P. si concentrano pertanto le maggiori aspettative circa un ruolo dello Stato che non sia oppressivo delle autonomie territoriali[72], ma che allo stesso tempo sia garante dell'uniformità dei livelli di vita e della coesione sociale[73]: si ricerca per tale via un equilibrio tra uniformità e differenziazione all'interno di un modello che, in nome dell'eguaglianza sostanziale, pur riconoscendo alle autonomie territoriali la possibilità di “percorsi” (organizzativi e funzionali) differenziati, dovrebbe comunque essere in grado di garantire una soglia di uniformità di risultati sostanziali[74], non derogabile “al ribasso” dalle autonomie territoriali[75].

Tale impostazione ha il pregio di riportare opportunamente al centro del sistema, in posizione fondante e legittimante l'intera architettura degli apparati, i fini ultimi cui l'amministrazione è al servizio: la garanzia dei diritti della persona, in una prospettiva di eguaglianza (e di giustizia) sostanziale.

Al fine di porre alcune premesse utili all'analisi del versante della differenziazione amministrativa è opportuno tuttavia spostare l'attenzione dal dato che l'illustrata impostazione assume quale “invariante” (i risultati sostanziali)[76] sul dato flessibile della «differenziazione dei percorsi» (strutturali e funzionali).

E' bene in primo luogo sottolineare che la prospettiva in esame è orientata in modo dichiarato da un modello ideal-tipico di differenziazione amministrativa[77], molto generale, «che postula l’assunzione della irrilevanza della dimensione organizzativa…nella prospettiva di una uguale tutela dei diritti, o comunque di una loro adeguata soddisfazione sul territorio»[78]. Un modello – si afferma - in cui la «strutturazione dei soggetti autonomi, la loro organizzazione, le loro funzioni, diventano ... delle variabili indipendenti, in una logica di equivalenza che assume come invariante il risultato, non più l’uniformità dei percorsi e dei soggetti chiamati a perseguirlo»[79].

In sintesi: l’art.3 della Costituzione impone il perseguimento dell’uguaglianza in concreto, come risultato dell’azione e dell’organizzazione delle autonomie; lascerebbe però «liberi gli apparati di organizzarsi come meglio ritengono per il raggiungimento di tale valore finale», «liberi di esprimersi in forme organizzative diverse e, sostanzialmente, indifferenti per l’ordinamento»[80].

E' bene rimarcare che in tali passi la dottrina si impegna a delineare riassuntivamente i tratti di un modello ideal-tipico, un modello carico di teoria che, come ogni ideal-tipo, è tanto più efficace ed utile quale strumento conoscitivo quanto più sia astratto e puro rispetto alla realtà problematica da comprendere e spiegare[81].

Il modello in esame consente in effetti di far risaltare, con grande incisività e chiarezza – insieme alla esigenza di ricucire l'intera architettura istituzionale attorno ai fini ultimi cui essa deve tendere - la necessità di donare flessibilità, dinamismo ed efficacia al sistema amministrativo, capacità di suo adattamento organizzativo e adeguamento funzionale rispetto alle domande e ai bisogni, mutevoli e differenziati, del suo ambiente di riferimento: il sistema sociale.

In tale prospettiva è opportunamente posta in risalto l'esigenza di dare gioco effettivo alle autonomie territoriali, liberando le virtualità e le risorse (per troppo tempo) inespresse del pluralismo, della molteplicità e della differenza.

Tale sottolineatura, tuttavia, non va assolutizzata né fraintesa: le idee di pluralità e differenza, infatti, sono oggetto di particolare enfatizzazione non (soltanto) nella loro carica decostruttiva, ma (anche) quali risorse di base di un percorso (complesso, ma necessario) di ricomposizione unitaria del sistema[82].

La garanzia della possibilità di percorsi differenziati (funzionali e strumentali) non significa, infatti, tutela della differenziazione amministrativa in sé, quale valore finale, ma va analizzata e compresa, oltre che nella sua carica decostruttiva del tradizionale modello uniforme, anche e soprattutto nella sua natura limitata di strumento e di piattaforma da cui muovere per una nuova e diversa riarticolazione razionale dell'adeguatezza funzionale del sistema delle autonomie territoriali.

Se in passato si è finito per tutelare l'uniformità in sé, quasi dimenticando la sua strumentalità rispetto alla unità e alla eguaglianza, è bene evitare, oggi, l'errore opposto: tutelare la differenziazione in sé, dimenticando a cosa serve.

I percorsi funzionali e strutturali possono, pertanto, senz'altro essere differenziati: sul piano della realtà giuridica concreta, tuttavia, non vi può essere – a differenza di quanto si legge nella descrizione del modello ideal-tipico - completa “libertà” né assoluta “indifferenza” dell'ordinamento rispetto alla disciplina e alla misura di tali differenziazioni.

Del che la dottrina si mostra pienamente avvertita, dato che, oltre a riconoscere che il vincolo uniformante sui risultati (dell’azione dei soggetti autonomi) è idoneo ad esplicare una incidenza indiretta sul piano della disciplina dei “percorsi” (funzionali e strutturali), individua nel diritto oggettivo anche diverse forme di condizionamento delle autonomie (cd. meccanismi di uniformità) che incidono direttamente sulle modalità dell'azione ovvero dell'organizzazione dei soggetti autonomi[83], giungendo a proporre, su tali basi, una vera e propria tassonomia della (nuova) uniformità: spessa (di regolazione); sottile (di principio); di base (dei livelli essenziali)[84].

Basti rilevare che le amministrazioni pubbliche continuano ad essere chiamate - anche dopo la riforma del Titolo V della Costituzione - a dover prendere decisioni discrezionali nell'interesse pubblico. Dato questo già di per sé sufficiente per prevedere che quanto meno i “percorsi” (organizzativi e procedimentali) da seguire per prendere decisioni “soddisfacenti” sono destinati a restare al centro dei problemi disciplinari dell'amministrazione e del suo diritto.

E' bene volgere l'attenzione, pertanto, sul versante della differenziazione amministrativa.

 

6. – Differenziazione amministrativa e disciplina delle autonomie (al plurale): buon andamento e differenziazione “dinamica”

 

La prospettiva da cui si intende muovere è quella che guarda alla differenziazione quale espressione di una generale esigenza organizzativa di flessibilità ed adeguatezza del sistema amministrativo, considerato quale unità complessa e dinamica non esistente a priori[85], ma da perseguire e ricomporre continuamente sul piano relazionale della realtà giuridica concreta[86].

La dottrina recente ha adottato in modo proficuo una prospettiva analoga nello studio del fenomeno della differenziazione nell'ambito dell'ordinamento giuridico europeo[87], il quale, come è noto, pur non escludendo la possibilità di dettare norme comuni ai vari paesi membri dell'Unione, è tuttavia per sua natura “composito”[88], e dunque non ha mai avuto tra le sue finalità «un'estesa armonizzazione delle regole giuridiche, una tendenziale unificazione di tipo napoleonico»[89].

Flessibilità e differenziazione sono, infatti, «tratti stabili e distintivi» di tale ordinamento giuridico, processi dinamici (di rilievo costituzionale) sempre in atto (l'altro volto del processo di integrazione), che vengono “gestiti” (mantenuti in un quadro di coerenza) attraverso una gamma di strumenti, tecniche, istituti riconducibile al principio generale di equivalenza[90].

La dottrina più recente, pertanto, ha gradualmente preso le adeguate distanze dall'approccio tradizionale, basato sulla «contrapposizione tra uniformità e differenziazione in termini dicotomici e statici»[91], e si è indirizzata verso un approccio diverso, attento alla dinamica dei processi di integrazione e differenziazione dell'ordinamento europeo, dinamica in cui «l'unità è l'obiettivo da perseguire» e «la differenziazione non si misura rispetto a una unità preesistente, ma a una unità prefigurata e auspicata, alla quale continuamente tendere e basata, di volta in volta, su un equilibrio dinamico all'interno del quale le differenze non vengono cancellate, ma ordinate»[92].

Affinchè tali rilievi possano mostrarsi pertinenti ed utili anche sul piano dell'analisi del fenomeno nell'ambito dell'ordinamento interno[93] è utile sottolineare come essi mostrino a livello concettuale una significativa convergenza con alcuni dati messi a fuoco in linea generale anche nel campo degli studi organizzativi, ambito in cui la nozione di differenziazione è di regola studiata in coppia (non con quella di uniformità, ma) con quella di integrazione, l'una e l'altra rilevate quali processi dinamici caratteristici dell'azione organizzativa[94].

Il dato da cui la teoria generale dell'organizzazione muove, infatti, è l'assunzione di base della organizzazione quale fenomeno «complesso, perché intrinsecamente contraddittorio». Essa – si afferma – «ha una natura duale: è ... “una”, ma è anche molteplice, fatta di elementi numerosi e diversi, ciascuno con una propria identità costitutiva originaria. Ciò comporta che al suo interno si sviluppino dinamiche centripete, tendenti a rispondere alle esigenze di unitarietà mettendo in campo forze e strumenti volti a coordinare, controllare, integrare i contributi e le prestazioni dei diversi elementi in una logica, appunto, unitaria. Ma al tempo stesso, e contraddittoriamente, quegli stessi elementi esercitano spinte centrifughe, nel tentativo di affermare la propria identità e di vedere riconosciute le proprie peculiarità»[95].Queste forze, contrapposte ma compresenti, – si precisa – configurano l’organizzazione come «unitas multiplex»[96], segnata da una contraddizione strutturale, costitutiva, tra l’esigenza di integrazione e le opposte esigenze di differenziazione dei singoli elementi costitutivi, che si traducono nella richiesta di spazi di autonomia.

E' ai contributi dei teorici dell'organizzazione Lawrence e Lorsch[97] che si deve il maggiore approfondimento dei concetti di “differenziazione” e di “‘integrazione”, riferentesi ai due processi fondamentali su cui si fonda l’azione organizzativa e la costruzione degli assetti organizzativi; processi che evocano la poc’anzi richiamata contraddizione di base dell’organizzazione come unitas multiplex, e che rappresentano una delle fondamentali antinomie in cui essa si concretizza, che va “gestita” in termini di ricerca di equilibri dinamici: quanto dell’una (in risposta alle esigenze di valorizzazione e rispetto della molteplicità, della diversità e delle autonomie) e quanto dell’altra, per soddisfare l’esigenza contrapposta di coordinare i contributi diversificati secondo una logica complessivamente unitaria[98].

In sintesi: se si guarda all'organizzazione nella sua complessità e nella sua dinamicità è possibile riscontrare, all'aumentare della differenziazione, un corrispondente incremento del bisogno di integrazione (o, se si preferisce, di coordinamento), cui l'organizzazione è chiamata ad offrire una risposta adeguata[99].

Ovviamente, mentre gli approcci tradizionali (modernisti)[100] allo studio dell’organizzazione affidano tale risposta alle strutture di vertice dell'organizzazione, facendo leva, in definitiva, sulla nozione di gerarchia; gli approcci c.d. post-modernisti[101], nell'aderire a un modello che tende a rappresentare le organizzazioni come reti o networks di attori interdipendenti, fanno invece leva principalmente sull’auto-organizzazione e sul mantenimento dell'equilibrio tra differenziazione ed integrazione: con lo svincolare la nozione di integrazione dalla gerarchia, infatti, essi tentano di tratteggiare un modello idealtipico di organizzazione in cui l’integrazione e il coordinamento (da operare principalmente attraverso schemi di comunicazione[102] e di connessione “laterale” tra le varie componenti dell'organizzazione)[103] siano responsabilità di tutti, non soltanto del vertice dell’organizzazione[104].

Dal campo delle teorie organizzative è possibile trarre alcuni spunti utili anche all'analisi giuridica, tenendo ben presente, ovviamente, che quei fenomeni che in prospettiva organizzativa pura sono rilevati e descritti in termini di integrazione e differenziazione vanno invece (rilevati sul piano della realtà giuridica concreta e) analizzati tecnicamente sul piano della teoria giuridica attraverso le nozioni di coordinamento e di autonomia[105].

Non è superfluo sottolineare come il modello tradizionale di amministrazione, nell'affidarsi alla soluzione del coordinamento gerarchico, comprimeva le autonomie, non lasciando ad esse gioco effettivo: in tale modello, in definitiva, l'uniformità disciplinare delle amministrazioni era nient'altro che un epifenomeno della gerarchia.

E' comprensibile che dinanzi alla disarticolazione del modello tradizionale di amministrazione il giurista venga colpito in prima battuta dal dato formale della rottura della uniformità disciplinare delle autonomie. Dal punto di vista organizzativo, tuttavia, il dato da rimarcare appare la coincidenza tra vera apertura del sistema al processo di differenziazione e riconoscimento (non virtuale, ma) effettivo delle autonomie.

In tale rinnovato contesto organizzativo risultano marginalizzate (anche se non completamente escluse) le soluzioni gerarchiche ai problemi dell'unità e del coordinamento. Diviene pertanto necessario valorizzare – sia sul piano degli istituti positivi sia su quello delle figure teoriche – altre tipologie di soluzioni[106] idonee a contenere la dinamica delle autonomie entro un quadro di condizioni di coerenza[107].

Il dibattito in corso in tema di differenziazione amministrativa,  pur sensibile, nella sua impostazione di fondo – come si è evidenziato nel paragrafo che precede – ad esigenze sistematiche di natura riaggregativa, appare orientato a rilevare in maniera sfocata il problema del coordinamento delle autonomie o, se si preferisce, della disciplina delle autonomie “al plurale” e nel loro insieme.

E' utile ricordare che la differenziazione amministrativa, nella sua accezione “organizzativa”, è categoria idonea in astratto a coprire il largo campo della disciplina di strutture e/o di relazioni organizzative[108].

In tale vasto ambito logico e materiale, tuttavia, il dibattito in corso tende ad operare una significativa riduzione del campo di analisi alla differenziazione “interna” alle autonomie territoriali: a porre in primo piano cioè lo studio dell'organizzazione degli uffici, come sistema di articolazione dei ruoli e dei rapporti tra le partizioni interne della singola pubblica amministrazione locale (volta per volta presa in considerazione), lasciando sullo sfondo il tema dei rapporti giuridici inter-istituzionali.

Se la differenziazione esprime, in linea generale, una esigenza di flessibilizzazione e di adeguamento della funzionalità del sistema delle autonomie territoriali, è bene non sottovalutare che la prospettiva appena indicata - nel rilevare, correttamente, che l'organizzazione amministrativa segue la “regola” della possibile differenziazione (seppur attenuata da minimali esigenze di uniformità)[109] - è idonea a cogliere - in ragione della riduzione preliminare del campo di osservazione operata – un aspetto parziale (anche se essenziale) del fenomeno complessivo: quello della flessibilizzazione e dell'adeguamento funzionale dell'organizzazione di ciascuna delle amministrazioni territoriali, singolarmente considerata, verso i risultati sostanziali da conseguire. In altre parole: è in grado di di intercettare e spiegare, in prospettiva atomistica, il ridotto fenomeno dell'aggiustamento organizzativo delle singole amministrazioni territoriali verso quei (pochi) risultati che possono da esse essere curati e soddisfatti in modo “solitario”, prescindendo dalla collaborazione degli altri livelli di governo e, più in generale, di altre figure giuridiche soggettive.

Una riduzione per molti versi analoga e convergente è ravvisabile anche nello studio del fenomeno della differenziazione dalla visuale dell'attività amministrativa.

E' necessario sottolineare, per poter rilevare siffatta convergenza, che la dottrina (pur contemplando al suo interno un ampio e variegato panorama di opinioni riguardo all'individuazione sia del grado sia dei fondamenti costituzionali della regola di uniformità cui si ritiene sia informata l'attività) è pressochè unanime nel ritenere che l'attività amministrativa debba rispondere (a differenza della organizzazione, non alla regola della differenziazione, ma) alla “regola” della uniformità[110].

E' questa una conclusione senz'altro condivisibile.

Ciò che interessa qui porre in rilievo è che, tuttavia, mostrandosi del tutto in linea con la tradizione, la dottrina prevalente tende tuttora ad utilizzare una nozione giuridica ristretta e “disaggregata” di attività amministrativa[111]: una nozione in cui non appare superata nè sufficientemente problematizzata, cioè, quella presupposta e tralaticia coincidenza concettuale ovvero dimensionale della nozione stessa con semplici segmenti o frammenti (singoli procedimenti, singole materie etc.) dell'attività amministrativa complessiva. Circostanza, questa, che rende problematico l'inquadramento in prospettiva funzionale di vicende “complesse” di produzione giuridica di cui l'esperienza giuridica contemporanea è sempre più ricca: «processi produttivi complessi»[112] coinvolgenti una pluralità di procedimenti, poteri, amministrazioni[113] nel perseguimento di risultati unitari[114].

Se l'autonomia è concetto relazionale, ed è, nella sua essenza, disciplina di un rapporto giuridico[115] (oggi complesso)[116], tuttavia, pare che la disciplina delle autonomie territoriali, al plurale e nel loro insieme, sia da ricercarsi e cogliersi anche sul piano dell'attività amministrativa e delle relazioni organizzative inter-soggettive: proprio in quei luoghi che, al momento, sono collocati ai margini della riflessione in tema di differenziazione amministrativa.

Come si è bene rilevato di recente, infatti, «in una società complessa e in un’organizzazione dei pubblici poteri … necessariamente articolata su diversi livelli di governo, non è proponibile un modello di amministrazione imperniata per ambiti di competenze riservate, e tendenzialmente separate»[117]: è questo un modello che stride con il principio del buon andamento dell’amministrazione[118]. Nel nuovo quadro costituzionale, l’unità del sistema, come anche l’autonomia, vanno principalmente realizzate «nella creazione di un sistema integrato, non come una sommatoria di una pluralità di enti, ma piuttosto di responsabilità attribuite a soggetti diversi necessariamente partecipi al processo di soddisfazione delle attese dei cittadini»[119], secondo una tendenza, pertanto, più che all’attribuzione in via esclusiva di compiti, alla concorrenza di poteri e all’intreccio di funzioni, ossia al coinvolgimento di più amministrazioni in procedure complesse, funzionali al conseguimento di risultati unitari.

Il problema dell’unità va cioè impostato, «sul piano istituzionale, in termini di capacità di innesto e coordinamento tra i diversi segmenti (collaborazione), e di “relais” tra i diversi segmenti» che compongono il modello globale di organizzazione[120], attraverso forme di disciplina che riducano la rigida tipizzazione dei comportamenti e tendano, invece, «alla definizione delle regole di processo»[121]. Alle regole dell’attività – si è precisato in modo efficace – si richiede oggi di «costituire le linee dell’organizzazione dinamica di un’amministrazione complessa»[122].

E' questo il naturale terreno di elezione, a livello sia positivo sia teorico, della figura dell'operazione amministrativa.

Nella sua duplice valenza di fattispecie dell'attività amministrativa, unitariamente e globalmente rilevante, comprensiva dell'insieme degli atti e dei comportamenti teleologicamente orientati verso un risultato giuridico unitario (anche se posti in essere da figure giuridiche soggettive distinte e raccolti in una pluralità di procedimenti) e, al contempo, di relazione organizzativa caratteristica dell'amministrazione multipolare e complessa, essa consente di collocare sul piano adeguato, quello della disciplina formale dei rapporti giuridici, il problema della ricerca dell'equilibrio dinamico tra integrazione e differenziazione, coordinamento e autonomia.

L'operazione amministrativa, quale forma della funzione complessa, risponde a un generale principio di differenziazione “dinamica” del sistema complessivo dell'amministrazione della repubblica: un principio che - in via di specificazione del precetto di razionalità (e doverosa razionalizzazione) insito nel canone di buon andamento, riferito congiuntamente alla organizzazione e alla attività – postula una amministrazione “eguale” e insieme “diversa”. Eguale nel suo carattere funzionale e di servizio, come anche nella disciplina formale di alcuni tratti stabili sia dell'attività sia dell'organizzazione, diversa nella sua forma contingente e flessibile: una amministrazione (soggettivamente e oggettivamente) complessa, ma necessariamente (costituzionalmente) adeguata rispetto ai problemi amministrativi da affrontare, ai risultati da conseguire, ai bisogni da soddisfare.

 

 



 

* Il presente scritto è la rielaborazione della relazione redatta in occasione del convegno “Principi generali del diritto amministrativo e autonomie territoriali” (Copanello, 30 giugno - 1 luglio 2006); è destinato agli Studi in onore di Leopoldo Mazzarolli.

 

[1] Convegno di studi di Copanello, organizzato dalle Università di Catanzaro e di Reggio Calabria nei giorni 1 e 2 luglio 2005, i cui atti sono ora raccolti nel volume ASTONE F., CALDARERA M., MANGANARO F., ROMANO TASSONE A., SAITTA F. (a cura di), Le disuguaglianze sostenibili dei sistemi autonomistici multilivello, Torino, 2006.

 

[2] Cfr., anche per complete indicazioni bibliografiche, la recente opera, in tre volumi, di CORSO G. e LOPILATO V. (a cura di), Il diritto amministrativo dopo le riforme costituzionali, Milano, 2006. Per una recente trattazione di sintesi cfr. invece la voce VESPERINI G., Enti locali, in Dizionario di diritto pubblico diretto da Sabino Cassese, Vol III, Milano, 2006, 2212 ss. Nello sterminato panorama della più recente produzione dottrinaria è bene comunque richiamare, per il momento, BERTI G. e DE MARTIN G.C., Il sistema amministrativo dopo la riforma del titolo V della Costituzione, Roma, 2002; CAMMELLI M., Amministrazione (e interpreti) davanti al nuovo Titolo V della Costituzione, in Regioni, 2001, 1273 ss; CASSESE S., L'amministrazione nel nuovo titolo quinto della Costituzione, in Giornale dir. amm., 2001, 1193; CHIEFFI L. e CLEMENTE di SAN LUCA, Regioni ed enti locali dopo la Riforma del titolo V della Costituzione, Torino, 2004; FALCON G., Modello e transizione nel nuovo Titolo V della Costituzione, in Regioni, 2001, 1247 ss.; MERLONI F., Il destino dell'ordinamento degli enti locali (e del relativo testo unico) nel nuovo Titolo V della  Costituzione, in Regioni, 2002; , 413; ID., La ricerca scientifica tra autonomia e indirizzo politico, tra uniformità e differenziazione, in Ist. del federalismo, 2002, 797; ID., L'inutile riforma del TUEL: per una legge generale sulle Autonomie Locali, in CLEMENTE di SAN LUCA G. (a cura di), Nodi problematici e prospettive di riforma del Testo Unico degli Enti Locali, Torino, 2006.

 

[3] ANTONINI L., Il regionalismo differenziato, Milano, 2000; BUZZACCHI C., Uniformità e differenziazione nel sistema delle autonomie, Milano, 2003; CARLONI E., Lo stato differenziato. Contributo allo studio dei principi di uniformità e differenziazione, Torino, 2004, studio al quale si farà principale riferimento nel corso della prima parte dell'esposizione e al quale senz'altro si rinvia anche per complete indicazioni bibliografiche sull'argomento in esame.

 

[4] Su tale modello cfr. ampiamente PERNTHALER P., Lo stato federale differenziato. Fondamenti teorici, conseguenze pratiche ed ambiti applicativi nella riforma del sistema federale austriaco, Bologna, 1998. Cfr. altresì SPASIANO M., L’organizzazione comunale. Paradigmi di efficienza pubblica e buona amministrazione, Napoli, 1995 , 19 ss., il quale ricorda come «nell'Italia Unita ... prevalsero le tendenze uniformiste dei poteri locali» contrariamente a quanto invece accaduto nella esperienza del Lombardo-Veneto, ove si era affermato un regime di differenziazione dei comuni. In quel sistema, infatti era stato adottato il sistema austriaco della classificazione dei comuni in “classi” secondo «gruppi di importanza e della differenziazione del regime giuridico dei diversi gruppi»: così GIANNINI M.S., I comuni, a cura di Giannini M.S., Vicenza, 1967, 18. Sul tema cfr. anche ZANOBINI G., L'amministrazione locale in Italia, Padova, 1932, 153. Come ricorda opportunamente, tra gli altri, Vandelli «in Italia, pur se i riflessi di altre culture e tradizioni non sono mancati, in varie fasi, né nella legislazione né nel dibattito istituzionale, i tratti originari del modello di derivazione francese hanno dimostrato una grande capacità di permanenza, anche in contesti storici profondamente mutati» (così VANDELLI L., Il sistema delle autonomie locali, Bologna, 2005, 21). Anche nell'ambito del dibattito costituente non mancò infatti l'attenzione verso altri modelli, come quello del self-government britannico, appoggiato soprattutto da Massimo Severo Giannini, all'epoca capo di gabinetto del ministro per la Costituente, Pietro Nenni.

 

[5] Cfr. ampiamente CARLONI E., Lo stato differenziato, cit., passim. Cfr. altresì, tra i molti, FALCON G., Modello e transizione nel nuovo Titolo V della Costituzione, in Regioni, 2001, 1247 ss; BERTI G., Immagini e suggestioni del principio di uguaglianza, in Scritti in memoria di Livio Paladin, Napoli, 2004, vol. I, 167 ss.; POGGI A., Differenziazioni territoriali e cittadinanza sociale, in  Scritti in memoria di Livio Paladin, cit., vol. IV, 1713 ss. GARDINI G., Recensione a Enrico Carloni, Lo Stato differenziato, Torino, 2004, in Dir. Pubbl., 2005, 299 ss.

 

[6] Per una ricostruzione ampia ed accurata della evoluzione dei sistemi locali cfr. VANDELLI L., Poteri locali. Le origini nella Francia rivoluzionaria. Le prospettive nell'Europa delle regioni, Bologna, 1990; AIMO P., Stato e poteri locali in Italia. 1848-1995, Roma, 1997; VESPERINI G., I poteri locali, II volumi, Catanzaro – Roma, 1999. Per un esame degli “inconvenienti” del regime uniforme comunale agli inizi del '900 cfr. già BORSI U., Regime uniforme e regime differenziale nell’autarchia locale, in Riv. dir. pubbl. giust. amm., 1927, 7 ss. Ancor prima dell'adozione della legislazione del 1865, MARTINELLI (Sull'ordinamento della pubblica Amministrazione, Firenze, 1863, 82, citato da SPASIANO M., L’organizzazione comunale. Paradigmi di efficienza pubblica e buona amministrazione, Napoli, 1995, 21, in nota 5) ammoniva che non potevano paragonarsi certo tra loro «i municipi di Firenze, di Milano, di Torino, di Napoli e di Palermo con certi Comuni i quali tra uomini e donne, vecchi e fanciulli non contano nemmeno un centinaio di abitanti». Sul modello uniforme cfr. in generale, più di recente, BERTI, Crisi e trasformazione dell’amministrazione locale, RTDP, 1973, 681 ss.; CASSESE, Tendenze dei poteri locali in Italia, in RTDP, 1973, 283 ss.; GIANNINI M.S., Il riassetto dei poteri locali, in RTDP, 1971, 452 ss.; CALANDRA, Storia dell'amministrazione pubblica in Italia, Bologna, 1978, passim; ROTELLI, Costituzione e amministrazione dell'Italia Unita, Bologna, 1981, passim; MARRAMA R.., Gli ordinamenti locali tra uniformità ed autonomia, Dir. soc., 1991, 283; ID., La legge 142/90 tra uniformismo e autonomie, in AA.VV., Profili dell'autonomia nella riforma degli enti locali, Napoli, 1992; STADERINI F., L'autonomia statutaria degli enti locali nel sistema costituzionale e nelle prospettive di riforma, in Nuova Rassegna, 1988, 2006 ss.; SPASIANO M., L’organizzazione comunale, cit., il quale apre opportunamente il proprio lavoro (cfr. Cap. I, 19 ss.) ripercorrendo le origini del “principio uniformista” (e più in generale il più risalente “fenomeno dell'uniformismo”) dell'ordinamento locale. Nella manualistica recente cfr., per tutti, VANDELLI L., Le autonomie territoriali, II, I comuni e le province, Bologna, 1996, 15, nonché ID., Il sistema, cit..

 

[7] La letteratura in materia è ovviamente sterminata. Ci si limita pertanto a richiamare, per un inquadramento di carattere generale del concetto, in una prospettiva più ampia di quella strettamente giuridica, il classico lavoro di SEN A.K., La disuguaglianza. Un riesame critico, Bologna,1994 (ed. originale ID., Inequality Reexamined, Oxford, 1992); la raccolta di saggi curata da CARTER I., L'idea di eguaglianza, Milano, 2001 (ove saggi di Bernard Williams, Thomas Nagel, Amartya Sen, Ronald Dworkin, Richard J. Arneson); la voce di DWORKIN R.M., Eguaglianza, in Enc. scienze. sociali, vol. III, Roma, 1993, 478 ss.. Sul concetto di eguaglianza giuridica basti qui richiamare, oltre alle principali voci enciclopediche (di cui si omette la citazione), ESPOSITO C., Eguaglianza e giustizia nell'art.3 della Costituzione, in La Costituzione italiana, Padova, 1954, 30 ss.; PALADIN L., Il principio costituzionale di eguaglianza, Milano, 1965; FINOCCHIARO F., Uguaglianza giuridica e fattore religioso, Milano, 1958, ROSSANO C., L'uguaglianza giuridica nell'ordinamento costituzionale, Napoli, 1996; AA.VV., Corte Costituzionale e principio di eguaglianza, Padova, 2002 (Atti del Convegno in ricordo di Livio Paladin tenuto a Padova il 2 aprile 2001); GHERA F., Il principio di eguaglianza nella costituzione italiana e nel diritto comunitario, Padova, 2003. Tra le trattazioni più recenti di carattere non monografico si segnalano MOSCARINI A., Principio costituzionale di eguaglianza e diritti fondamentali, in NANIA R. e RIDOLA P. (a cura di), I diritti costituzionali, I, Torino, 2001, CERRI A., Significati e valenze del principio di eguaglianza, in Scritti in memoria di Livio Paladin, Napoli, 2004, vol. I, 569 ss.; PACE A., Eguaglianza e libertà, Scritti in memoria di Livio Paladin,, cit., vol. III, 1457 ss. Sull'evoluzione della giurisprudenza costituzionale in tema di eguaglianza cfr. ROSSANO C., L'uguaglianza, cit., 290 ss. e 340 ss.; AGRO' A.S., Contributo allo studio dei limiti della funzione legislativa in base alla giurisprudenza sul principio costituzionale di eguaglianza, in Giur. Cost., 1967, 900 ss.; CERRI S., L'eguaglianza nella giuriprudenza della Corte Costituzionale. Esame analitico ed ipotesi ricostruttive, Milano, 1976, 43 ss.; ZAGREBELSKY G., Corte costituzionale e principio di eguaglianza, in OCCHIOCUPO N. (a cura di), La Corte costituzionale fra norma giuridica e realtà sociale, Bologna, 1978, 103 ss.; SCACCIA G., Gli strumenti della “ragionevolezza” nel giudizio costituzionale, Milano, 2000; CAROLI CASAVOLA H., Giustizia ed eguaglianza nella distribuzione dei benefici pubblici, Milano, 2004. Per una trattazione di sintesi cfr. comunque, da ultimi, ROSSANO C., voce Eguaglianza, in Dizionario di diritto pubblico diretto da Sabino Cassese, Vol. III, Milano, 2006, 2150 ss. e CELOTTO A., Art.3, 1° Co., Cost., in Commentario alla Costituzione a cura di Bifulco R., Celotto A., Olivetti M., vol. I, Torino, 2006, 65 ss.

 

[8] Sul punto cfr. MANGANARO F., Il concetto di cittadinanza alla luce dei livelli essenziali di prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, in ASTONE e altri, Le disuguaglianze, cit., 205 ss.

 

[9] Sul rapporto tra eguaglianza formale (paritaria e valutativa) e sostanziale cfr. ROSSANO C., L'uguaglianza, cit., 138 ss e 238 ss.. Sull'eguaglianza sostanziale, oltre ai lavori già citati nella nota che precede, cfr. GIORGIS A., Art.3, co.2, Cost., in Commentario alla Costituzione a cura di Bifulco R., Celotto A., Olivetti M., vol. I, Torino, 2006, 88 ss.; CARAVITA B., Oltre l'uguaglianza formale. Un'analisi dell'art.3 comma 2 della Costituzione, Padova, 1984; ROSSANO C., Profili dell'eguaglianza sostanziale nella Costituzione italiana e nell'ordinamento comunitario, in Studi in onore di Gianni Ferrara, vol. III, Torino, 2005; D'ALOIA, Eguaglianza sostanziale e diritto diseguale. Contributo allo studio delle azioni positive nella prospettiva costituzionale, Padova, 2002; FERRARA G., Corte costituzionale e principio di eguaglianza, in La Corte, cit., 89 ss.; ZANETTI G., Eguaglianza, in BARBERA A., Le basi filosofiche del costituzionalismo, Roma-Bari, 1997, 61 ss. Cfr. altresì GIANFORMAGGIO L., Eguaglianza formale e sostanziale: il grande equivoco, nota a Corte cost. 12 settembre 1992, n.422, in Foro it., 1996, I, 1961 ss., ove risultano individuate sei accezioni di eguaglianza giuridica:  generalità delle regole, unicità del soggetto giuridico, eguaglianza di fronte alla legge, divieto di discriminazioni, eguaglianza nei diritti fondamentali, pari opportunità di perseguire i progetti di vita e di partecipare all'organizzazione della società. Ha osservato di recente TROPEA G., Brevi note su diritto diseguale (ragionevolmente sostenibile) e azioni positive nell'esperienza italiana, in ASTONE F. ed altri, Le disuguaglianze sostenibili, cit., 171 ss, che al cambiamento dei modelli statuali , fino alla crisi degli stessi, si è accompagnata una vera e propria ri-definizione del principio di uguaglianza (o, se si preferisce, l'affermazione dell'esigenza di «reinventare l'eguaglianza», adeguandola a quelle che sono le nuove disuguaglianze e al problema della limitatezza delle risorse economiche), «attraverso una linea di cammino, non certo lineare, una progressione che dalla uguaglianza come generalità delle regole giunge fino alla pari opportunità di perseguire i progetti di vita e di partecipare all'organizzazione della società», fino al discusso tema del “diritto diseguale” e delle “azioni positive” (sul quale cfr., oltre al lavoro di D'Aloia, cià citato, AINIS M., Cinque regole per le azioni positive, in Quad. cost., 1999, 369).

 

[10] Cfr. gli studi già citati supra, in nota 6.

 

[11] U. BORSI, Regime uniforme e regime differenziale, cit., 7 ss.

 

[12] Ad esempio già quando si trattò di estendere a tutto il territorio nazionale il modello francese e sabaudo dell’uniformità comunale e fino al consolidamento del modello nel periodo giolittiano; poi nella prima fase repubblicana, nelle diverse fasi del decentramento, ovvero in occasione dei tentativi di riordino territoriale e nella ridefinizione dell’ordinamento degli enti locali.

 

[13] Da parte dei critici del modello uniforme fu avanzata a più riprese la proposta di introdurre criteri classificatori diversi (tali da distinguere i comuni in classi, quali i comuni rurali, urbani, ovvero facenti leva sul criterio della popolazione, dell'estensione territoriale, su criteri di tipo economico). Tuttavia questa proposta, versata fin dalla seconda metà dell'ottocento in vari progetti di legge, fu a lungo ritenuta irrealizzabile (cfr. SPASIANO M., L'organizzazione comunale, cit., 19 ss.). Ha osservato di recente Carloni (cfr. CARLONI E., Lo Stato, cit., 103, 104) che, piuttosto che le ( comunque esistenti) difficoltà pratiche, contro l'adozione di tali proposte giocò proprio l'avvertita necessità di non mettere in pericolo l'essenziale ruolo di “strumentalità” dell'uniformità rispetto ai valori di uguaglianza e di unità.

 

[14] CASSESE S., Le basi del diritto amministrativo, Torino, 1989, 15 e 35.

 

[15] CARLONI E. Lo stato, cit., 85 ss.

 

[16] ID., Op. cit., 41.

 

[17] ID., Op. cit., 28. Al recente studio di Carloni si deve l'isolamento della distinzione tra principio e modelli di uniformità. L’uniformità quale principio di organizzazione dell’ordinamento, si osserva, è sempre presente (in atto) nell’ordinamento, ne assicura la tenuta e la coerenza. Tale principio può trovare, ha trovato e trova svariate concretizzazioni: è diversamente attualizzato nello spazio giuridico (in diversi ordinamenti) e nel tempo, in quanto, anche all’interno di un ordinamento dato, esso si evolve, si adegua, si modifica nella sua traduzione operativa. Un principio di uniformità è insito nella stessa nozione di autonomia (come diversa dalla sovranità), e quindi definibile in ragione dei limiti di questa. Così inteso il principio di uniformità è distinto e distinguibile dall’uniformità come modello, che ne è la concreta (storica) traduzione. La disciplina formale dell’organizzazione (attraverso la legislazione primaria e ancor più costituzionale) prefigura un modello determinato di uniformità, che definisce l’assetto che, entro un sistema costituzionale dato, è scelto in ordine alla tensione interna tra il valore dell’uguaglianza e il valore dell’autonomia. Il principio di uniformità sottintende, dunque, in via generale, la limitazione (quanto agli oggetti) ed il condizionamento dell'autonomia.

 

[18] GIANNINI M.S., Il pubblico potere. Stati e amministrazioni pubbliche, Bologna, 1986, in partic. 69 ss.

 

[19] Cfr. BENVENUTI F. e MIGLIO G. (a cura di), L'unificazione amministrativa e i suoi protagonisti (atti del convegno celebrativo del centenario delle leggi amministrative di unificazione), Vicenza, 1969. Va ricordata peraltro l'attenzione che al modello del local government inglese venne sul piano teorico riservata, anche nella fase di “formazione” (o consolidamento, a seconda della posizione che si ritiene di assumere attorno alla dibattuta questione delle “origini”) del diritto amministrativo, da alcuni dei giuristi preorlandiani: sul tema è utile richiamare REBUFFA G., La formazione del diritto amministrativo in Italia. Profili di giuristi preorlandiani, Bologna, 1981.  

 

[20] Così U. BORSI, Regime uniforme e regime differenziale, cit., 7 ss., il quale già rilevava come il regime dell’uniformità, disconoscendo «esigenze di fatto, insopprimibili o per lo meno non soppresse», in ragione di un riordino territoriale non operato al momento dell’unificazione, fosse tale da generare “inconvenienti molteplici”. Dal punto di vista organizzativo, in particolare, il riconoscimento degli stessi compiti tanto ad enti di grandi dimensioni quanto ad enti estremamente piccoli produce l'inconveniente di creare una “media funzionale” insoddisfacente per gli uni e gli altri (in tal senso cfr. GIANNINI M.S., Il riassetto, cit., 452; NIGRO M., Il governo locale, I, Storia e problemi. Lezioni di diritto amministrativo 1978-1979, Roma, 1980, 48)

 

[21] Sulla disciplina costituzionale delle autonomie locali, nel testo del 1948, oltre alle opere già citate supra, cfr. GIANNINI M.S., Autonomia locale e autogoverno, in Corr. amm., 1948, 1057 ss.; ESPOSITO C., Autonomie locali e decentramento amministrativo nell'art.5 della Costituzione, in ID., La Costituzione italiana. Saggi, Padova, 1954; BERTI G., Art.5, in Commentario della Costituzione, a cura di Branca G., Bologna-Roma, 1977, 277; ID., I caratteri dell'amministrazione comunale e provinciale, in Riv. amm., 1959, 59 ss.; BACHELET V., Profili giuridici dell'organizzazione amministrativa, Milano, 1965; ORSI BATTAGLINI A., Le autonomie locali nell'ordinamento regionale, Milano, 1974; PIZZETTI F., Il sistema costituzionale delle autonomie locali, Milano, 1979, PUBUSA A., Sovranità popolare e autonomie nell'ordinamento costituzionale italiano, Milano, 1983; DE MARTIN G.C., L'amministrazione locale nel sistema delle autonomie, Milano, 1984; BENVENUTI F., L'ordinamento repubblicano, ed. riveduta e aggiornata a cura di L. Benvenuti, Padova, 1996; PIRAINO A., Le autonomie locali nel sistema della Repubblica, Torino, 1998.

 

[22] Cfr. diffusamente CARLONI E., Lo Stato, cit., 112 ss., al quale si rinvia anche per complete indicazioni bibliografiche.

 

[23] Cfr. ID., Op. cit., 143 ss.

 

[24] Così ID., Op. cit., 154 ss., con riferimento, in particolare, alla disciplina del rapporto tra potestà statutaria e (vecchio) art 128 della Costituzione; nonché alle previsioni relative alla possibilità assunzione di “funzioni ulteriori” da parte degli enti locali. Sull'impatto della legge n.142 del 1990 sull'ordinamento amministrativo cfr., inoltre, ex multis, SPASIANO M., L'organizzazione, cit.; MARRAMA R. Gli ordinamenti locali, cit.

 

[25] La legge 142/1990, pur sancendo per la prima volta il principio dell’autonomia statutaria (sulla quale piace ricordare il lavoro di MAZZAROLLI L., Fonte-statuto e fonte-regolamento nella legge di riforma delle autonomie locali, in Dir. e soc., 1991, 363 ss. ) per i comuni e le province , contiene poi norme che lo contraddicono laddove, ad esempio, si fissano le competenze dei consigli comunali e provinciali in modo indiscriminato per ogni tipo di comune e di provincia.

 

[26] Così MARRAMA R., Nascita ed evoluzione dello Stato e dell'amministrazione pubblica, in MAZZAROLLI L. e altri (a cura di), Diritto amministrativo, Bologna, 1998, 353 ss., il quale, a proposito dei criteri di accentramento, uniformità, gerarchia, dopo aver ricordato che essi corrispondono pienamente al modello weberiano di amministrazione pubblica, osserva lucidamente che tali profili si sono conservati per un lungo lasso di tempo e sopravvivono anche nella realtà attuale, se non più quali criteri informatori, quantomeno a livello di uno stile o, se si vuole, di un pregiudizio della modellistica organizzativa, a volte riaffiorante persino in contesti che sul piano delle dichiarazioni di principio apertamente li bandiscono. In senso analogo cfr. ampiamente, più in generale, DI GASPARE G., Il potere nel diritto pubblico, Padova, passim; ID., voce Organizzazione amministrativa, in Digesto disc. pubbl., vol. X, Torino, 1995, 513 ss.. Sia consentito rinviare inoltre a D'ORSOGNA D., Contributo allo studio dell'operazione amministrativa, Napoli, 2005, in partic. 256 ss., ove viene messa a problema la tradizionale configurazione delle relazioni organizzative.

 

[27] Cfr. ampiamente CARLONI E., Lo Stato, 191 ss.

 

[28] La bibliografia in tema di sussidiarietà è ormai molto ampia: si rinvia pertanto, anche per complete indicazioni bibliografiche, ai lavori monografici di DE CARLO P., Sussidiarietà e governo economico, Milano, 2002; MOSCARINI A., Competenza e sussidiarietà nel sistema delle fonti, Padova, 2003 e D'ALESSANDRO D., Sussidiarietà, solidarietà e azione amministrativa, Milano, 2004. Per una trattazione di sintesi cfr. CERULLI IRELLI V., Sussidiarietà (dir. amm.), in Enc. giur., Roma, 2004.

 

 

[29] La bibliografia in materia è sterminata. E' impossibile darne conto in questa sede senza incorrere in ingiustificate omissioni. Si rinvia quindi ai tre recenti volumi a cura di CORSO G. e LOPILATO V., Il diritto amministrativo dopo le riforme costituzionali, già citati, non senza omettere di ricordare che la dottrina recente contempla anche una serie di voci critiche attorno alla possibilità di ricavare dalla nuova formulazione dell'art.114 (e più in generale del Titolo V) della Costituzione una netta ed univoca opzione a favore di un modello istituzionale di pluralismo “paritetico” (cfr., ad esempio, RUGGERI A., Teoria e prassi dell'autonomia locale, in Op. ult. cit., vol. I, 313 ss.).

 

[30] Le citazioni sono tratte da CARLONI E., Lo Stato, cit. 33, 34, 35 . In tal senso cfr. anche FALCON G., Modello e transizione nel nuovo Titolo V, cit., 1258, il quale, a proposito della legge regionale, rileva come essa sia «soggetta al principio di uguaglianza solo per ciò che attiene al proprio ambito di efficacia».

 

[31] CARLONI E., Lo Stato, cit., 13.

 

[32] Così GARCIA MORILLO J., Autonomia, asimmetria e principio di eguaglianza: il caso spagnolo, in GAMBINO S. (a cura di), Stati nazionali e poteri locali, Rimini, 1998, 105, richiamato da CARLONI E., Lo stato, cit., 13, in nota.

 

[33] ID., Op. cit., passim. La formula richiamata nel testo riecheggia quella utilizzata nell'art. 72, co. 2, della Costituzione tedesca, che fa riferimento a «la creazione di condizioni di vita equivalenti nel territorio federale». Sull'analogia (e le differenze) fra questa formula e quella di cui all'art.117, comma 2, lett. m) della Costituzione italiana cfr. D'ATENA A., Materie legislative e tipologie delle competenze, in Quad. cost., 2003, 141 ss.

 

[34] Sulle cd. materie trasversali e sui livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali la letteratura è ormai molto ampia. Si rinvia pertanto, anche per ampi riferimenti bibliografici, per il momento, alle trattazioni contenute in CORSO G. e LOPILATO G. (a cura di), Il diritto amministrativo, cit.. In particolare cfr. SCACCIA G., Il riparto delle funzioni legislative fra Stato e regioni, Parte generale, 3 ss.; PINELLI C., Livelli essenziali delle prestazioni, Parte speciale, vol. I, 189 ss..  

 

[35] Sull'argomento cfr., da ultimo, l'accurata ricostruzione di PAJNO S., I poteri sostitutivi nei confronti degli enti territoriali, in CORSO G. e LOPILATO V., Il diritto amministrativo, cit., Parte generale, 383 ss.. Sulla sostituzione amministrativa, in generale, cfr. lo studio di BOMBARDELLI M., La sostituzione amministrativa , Padova, 2004.

 

[36] Le importanti riforme che hanno interessato il sistema istituzionale, soprattutto a partire dagli anni novanta del secolo scorso, sono state preparate a livello teorico da quel processo di “riscoperta” della Carta costituzionale che, dalla seconda metà degli anni sessanta, aveva offerto un diverso inquadramento teorico dell’amministrazione, collocata in posizione di servizio nei confronti della collettività. E' impossibile in questa sede ripercorrere il dibattito imponente che, a partire da quegli anni, si è sviluppato intorno alla tematica dello statuto costituzionale dell’amministrazione, favorendo la rivisitazione di tutti i più importanti istituti del diritto amministrativo, attraverso la individuazione di molte delle soluzioni innovative poi recepite positivamente. E' utile ricordare, tuttavia, come, superata quella compatta adesione alla lettura liberal–democratica della Costituzione, a salvaguardia dell’indipendenza dell’amministrazione medesima (cfr. Sandulli A.M., Governo e amministrazione, in Riv. trim. dir. pubbl., 1966, 754 ss.) e, di conseguenza, indebolita la «capacità esplicativa dei modelli e delle formule tramandate» (così Di Gaspare G., Il potere, cit.) a seguito della dequotazione del «progetto liberale democratico» (Orsi Battaglini A., «L’astratta ed infeconda idea». Disavventure dell’individuo nella cultura giuspubblicistica, in La necessaria discontinuità, Bologna, 1990, 13 ss.) quale referente ideologico largamente condiviso, la dottrina ha ricercato nella Carta costituzionale un nuovo “ancoraggio” positivo da cui attingere le linee guida per l’aggiornamento del diritto amministrativo (così Sorace D., Da passatisti a post-moderni, in La necessaria discontinuità, Bologna, 1990, 199 ss.) e per la revisione di ordini concettuali sistematici in parte superati, in linea con l’insegnamento di chi aveva da tempo chiaramente espresso la deducibilità dello statuto costituzionale dell’amministrazione non solo dalle (poche) norme ad essa espressamente dedicate (da cui non sembra ricavabile un unico modo di essere dell’amministrazione, come acutamente sottolineato già da Nigro M., La pubblica Amministrazione tra Costituzione formale e Costituzione materiale, in Studi in memoria di V. Bachelet, vol. II, Milano, 1987, 385 ss.; sulla parziale indeterminatezza dei dettami costituzionali in tema di amministrazione pubblica cfr., di recente, ROMANO TASSONE A., Legislatore e limite dei principi, in Annuario AIPDA 2005, Milano, 2005, 209 ss.), ma dall’intera disciplina costituzionale dei compiti assegnati allo Stato nonché dai principi fondanti il nostro ordinamento che sono alla base della suddetta disciplina (secondo la fondamentale intuizione di ESPOSITO C., La Costituzione italiana. Saggi, Padova, 1954; più di recente cfr. anche la proposta metodologica di Dogliani M., Indirizzo politico, riflessioni su regole e regolarità nel diritto costituzionale, Napoli, 1985: l’avvio di una ricerca che trascenda dalla Costituzione formale per fondare e affrontare la teoria del diritto e dello Stato come presupposto della Costituzione). Si sono poste così le basi per la rivisitazione del concetto stesso di interesse pubblico, dimensionato ora in un contesto dominato dalla centralità del cittadino rispetto al quale l’amministrazione si trova in posizione di servente subordinazione (cfr. SCOCA F.G., Il coordinamento e la comparazione degli interessi nel procedimento amministrativo, in Studi in onore di G. Abbamonte, Napoli, vol. II, 1999, p. 1261 e ss.).

 

[37] Cfr. ROMANO TASSONE A., Situazioni giuridiche soggettive (Dir. amm.), in Enc. dir., vol. II dell’aggiornamento, Milano 1998, p. 966 e ss.; MANGANARO F. e ROMANO TASSONE A. (a cura di), Persona ed amministrazione, Torino, 2004. Sulla posizione centrale che nel sistema costituzionale è attribuita alla persona umana è d'obbligo richiamare le fondamentali riflessioni di Rescigno P., Persona e comunità, Bologna, 1966; Id., L’abuso del diritto, Bologna, 1996.

 

[38] Cfr. ampiamente POLICE A. – IMMORDINO M. (a cura di), Principio di legalità e amministrazione di risultato, Torino, 2004; SPASIANO M., Funzione amministrativa e legalità di risultato, Torino, 2003. L’impulso a rassodare parte della riflessione scientifica attorno alla formula della «amministrazione per risultati» (coniata negli anni sessanta da Giannini) si deve a Lucio Iannotta, che ha dedicato numerosi appassionati lavori all’argomento: cfr. Iannotta L., Scienza e realtà: l’oggetto della scienza del diritto amministravo tra essere e divenire, in Dir. amm., 1996, 579 ss.; ID., La considerazione del risultato nel giudizio amministrativo: dall’interesse legittimo al buon diritto, in Dir. proc. amm., 1998, 299 e ss.; Id., Previsione e realizzazione del risultato nella Pubblica amministrazione: dagli interessi ai beni, in Dir. amm., 1999, 57 e ss.; ID., Principio di legalità e amministrazione di risultato, in Amministrazione e ordinamenti (Atti del Convegno di Macerata del 21 e 22 maggio 1999), Milano, 2000, 37 ss.; ID., Merito, discrezionalità e risultato nelle decisioni amministrative (l’arte di amministrare), in Dir. proc. amm., 2005, 1. Per alcuni lucidi e sintetici chiarimenti sulla intera tematica cfr. ROMANO TASSONE A., Sulla formula “Amministrazione per risultati”, in Scritti in onore di Elio Casetta, II, Napoli, 2001, 815 ss.; CAMMELLI M., Amministrazione di risultato, in Annuario AIPDA 2002, Milano, 2003, 107.; CORSO G., Amministrazione di risultato, in Annuario AIPDA 2002, 127; PASTORI G., La disciplina generale dell’azione amministrativa, in Annuario AIPDA 2002., 33; CASSESE S., Che vuol dire “amministrazione di risultati”?, in Giornale dir. Amm., 2004, 941. Sia consentito richiamare inoltre il mio lavoro Contributo allo studio, cit., 133 ss., in partic. 181, in cui si osserva che «nello studio della cd. amministrazione di risultato ... l'attenzione è da incentrare, piuttosto che sul risultato, sulla (attività di) amministrazione (funzionale al risultato)».

 

[39] PASTORI G., La disciplina generale dell’azione amministrativa, in Annuario AIPDA., Milano, 2002, 33

 

[40] ZITO A., Il risultato nella teoria dell'azione amministrativa, in Principio di legalità, cit., 94.

 

[41] SCOCA F.G., Condizioni e limiti alla funzione legislativa nella disciplina della pubblica amministrazione, in AA.VV., Aldo M. Sandulli. Attualità del pensiero giuridico del Maestro, Milano, 2004, 173 ss.; ID., Attività amministrativa, in Enc. dir., VI aggiornamento, Milano, 2002, 75 ss.

 

[42] Una «ritrovata idea costituzionale di amministrazione», pertanto, volta a trasformare «su altrettanto rinnovate basi sostanziali il rapporto fra amministrazione e cittadini, partendo dal convincimento che gli scopi, a cui l’amministrazione è ordinata e che essa deve soddisfare, corrispondono prima di tutto ad altrettanti interessi, utilità o beni della vita dei cittadini stessi» (così PASTORI G., La disciplina generale dell’azione amministrativa, cit., 34). La Costituzione ci consegna, dunque, in particolare attraverso il richiamo ai canoni di buon andamento e di imparzialità, una amministrazione che «si pone fra le attività politiche e le attività produttive finale come momento necessario di snodo e di traduzione delle scelte politiche in risultati finali concreti»; amministrazione che, nella molteplicità dei compiti ad essa assegnati, «può esplicarsi mediante forme e strumenti diversi», ma che, in ogni caso, si contraddistingue per la intrinseca «doverosità nei confronti del vincolo di scopo» (ID., Statuto dell’amministrazione e disciplina legislativa, in Annuario AIPDA 2004, Milano, 2005, 11 ss., in part. 16).

 

[43] In tema cfr. da ultimo BIFULCO R., Art.5, in Commentario alla Costituzione a cura di Bifulco R., Celotto A., Olivetti M., vol. I, Torino, 2006, 132 ss.

 

[44] ORSI BATTAGLINI A., Le autonomie, cit., passim; DE MARTIN G.C., L'amministrazione locale, cit., passim; più di recente, per tutti, BERTI G.- DE MARTIN G. (a cura di), Il sistema amministrativo dopo la riforma del Titolo V della Costituzione, Milano, 2002.

 

[45] BERTI G., Sussidiarietà e organizzazione dinamica, in Jus, 2004, 171; ID., La giuridicità pubblica e la riforma del Titolo V, parte I della Costituzione, in Jus, 2002, 147 ss.; SALA G., Sui caratteri dell’amministrazione comunale e provinciale dopo la riforma del Titolo V della Costituzione, in Le Regioni, 2004, 11 ss. Come ha osservato da ultima anche PIOGGIA A., I principi come limite dell'organizzazione degli enti locali, Relazione al convegno di Copanello (30 giugno-1 luglio 2006) su Principi generali del diritto amministrativo e autonomie territoriali, è la Costituzione il «vertice unificante dell'amministrare», la sede in cui «trovano spazio i valori comuni del modo di essere di ciascuna delle componenti della Repubblica, ed è proprio nel combinarsi necessario delle sue due parti che deve essere rintracciata la possibilità di assicurare la convivenza fra una uniformità che non si traduca in compressione dell'autonomia e una differenziazione che non sfoci in diseguaglianza».

 

[46] Sul quale cfr., per tutti, MARRAMA R. e SPASIANO M., Spunti di riflessione intorno al criterio di adeguatezza, in Nuove autonomie, 2000, 261 ss..

 

[47]Su tali accezioni cfr., diffusamente, CARLONI E., Lo Stato, cit., in part. 3-39.

 

[48] Ci si riferisce alla nozione proposta in ID., Op. cit., passim, sulla quale si veda infra, nel testo e in nota.

 

[49] Come rileva anche Carloni, mentre appare agevolmente «enucleabile un autonomo principio di uniformità, ... meno pacifica appare l'individuazione di un autonomo, e opposto, principio di differenziazione che abbia caratteri ed un rilievo proprio rispetto al principio...(oltre che valore) di autonomia ...»: così CARLONI, Lo Stato, cit., 36. L'autore tenta comunque, molto acutamente, di ritagliare alla nozione di differenziazione un autonomo spazio sul piano concettuale. Sembra, tuttavia, che l'autonomia concettuale della differenziazione, nella proposta dell'autore, affiori problematicamente proprio nei casi in cui «non c'è autonomia» (in cui cioè l'autonomia non trova svolgimento concreto), casi in cui il soggetto autonomo è oggetto (e non soggetto) di disciplina differenziante, e laddove il fenomeno (definito di differenziazione “eteronoma”) va in larga parte a confondersi con quelli della difformità e del pluriformismo dei modelli organizzativi (sui quali cfr. NIGRO M., Amministrazione pubblica, in Enc. Giur., II, 1988, 345 ss.; SCOCA F.G., Organizzazione amministrativa, in MAZZAROLLI L. ed altri, Diritto amministrativo, I vol., Bologna, 1998), che Carloni invece mantiene separati (in quanto ritenuti espressivi di inautentica differenziazione) dal fenomeno della differenziazione “in senso proprio”, del quale è possibile parlare in senso pregnante – osserva l'autore – soltanto «laddove interviene la dimensione dell'autonomia»(53). E' opportuno riportare alcuni passi significativi dell'autore: sebbene le nozioni di autonomia e differenziazione – si osserva- «finiscono per sovrapporsi in larga misura, tanto che diviene difficile scinderle ... appare enucleabile un concetto di differenziazione distinto da quello di autonomia» in quanto «gli spazi di sovrapposizione tra le due nozioni non sono completi». Ciò in quanto «differenziazione e autonomia non coincidono necessariamente (come fenomeni), dal momento che può esservi differenziazione senza autonomia: ovvero differenziazione eteronoma dei soggetti dotati di autonomia. Seppure difficilmente enucleabile come principio generale diverso da quello di autonomia, la nozione di differenziazione non si presta...ad essere esaurita nell'autonomia». Operando tale riduzione – si aggiunge – resterebbero fuori della analisi fenomeni tradizionalmente studiati attraverso i canoni della uniformità e della differenziazione, quali quelli (della disciplina, spesso diretta dal centro) della difformità e del pluriformismo dei modelli organizzativi (37). Nel prosieguo della trattazione l'autore così precisa il suo pensiero: «Utilizzato atecnicamente, il termine differenziazione esprime bene il fenomeno generale attraverso il quale le strutture formali cercano di tenere dietro alla complessificazione del sistema sociale, politico ed amministrativo. Usato in senso proprio, diviene però corretto utilizzare il modello della differenziazione/uniformità, solo in relazione ai processi di riconoscimento/negazione di spazi di differenziazione o di modelli e regole eterodifferenziate a soggetti pubblici esponenziali dotati di autonomia, cosicchè la scelta operata non abbia carattere meramente tecnico-organizzativo, ma coinvolga valori (l'unità del sistema, l'autonomia dei corpi sociali, l'uguaglianza degli individui “in ogni parte del regno”)», cosicchè «mentre la difformità può legarsi alla semplice presenza di una pluralità di soggetti e strutture pubbliche (e, quindi, tendenzialmente al decentramento e non all'autonomia), la differenziazione è connessa al fenomeno autonomistico». Tuttavia – conclude l'autore – «I due fenomeni, a ben vedere, si confondono nel momento in cui la modellistica degli apparati organizzativi va differenziandosi (difformandosi) sempre più, tanto che l'amministrazione dello Stato non solo assume forme diverse, ma è andata costituendo strutture dotate di soggettività propria», esse stesse (e non lo più lo Stato), considerate centri di interesse della collettività (48-49).

 

[50] Cfr. ampiamente ID., Op. cit., in part. 53, 54 ove il fenomeno della “differenziazione non autonoma” , definita anche “eterodifferenziazione”, è così illustrato: «un ente, pure autonomo, è oggetto di una disciplina differenziata (in ordine all'organizzazione, alle funzioni assegnate), in virtù di una scelta che è operata dal livello di governo centrale» ovvero «ad un livello territoriale di autonomia superiore a quello dell'ente interessato: in questo caso le scelte operate dal livello territoriale superiore (regionale, ad esempio) determineranno differenziazione del regime giuridico (funzioni, organizzazione, risorse) delle realtà minori».

 

[51] La «differenziazione amministrativa autonoma ... può incidere sulle modalità di esercizio delle funzioni, sui tratti organizzativi dell'ente esponenziale...L'ente autonomo è...in grado di organizzarsi in relazione ai fini che gli sono assegnati ed, eventualmente, toccando il massimo della differenziazione come autonomia propria di questo grado, di assumere, amministrativamente, nuovi ed ulteriori fini, in virtù di potestà di autoattribuzione delle funzioni “libere”, come conseguenza di una competenza generale. Rientra in questo ambito la differenziazione organizzativa (autonoma), che ne costituisce la più rilevante manifestazione»: così ID., Op. cit., 54, il quale precisa (55) che sebbene a questo livello lo strumento privilegiato di realizzazione della differenziazione sia da individuarsi nella fonte statutaria (sul tema cfr., ex multis, CLARICH M., Statuti per differenziare, in Il Mulino, 2000, 467 ss.) non è affatto da «escludersi ... il rilievo di fonti diverse»: regolamenti, atti amministrativi ed anche fonti non pubblicistiche. Sul tema della possibile estensione delle fonti di organizzazione anche alle fonti privatistiche cfr. PIOGGIA A., La competenza amministrativa. L'organizzazione tra specialità pubblicistica e diritto privato, Torino, 2001

 

[52] MERLONI F., La leale collaborazione nella Repubblica delle autonomie, in Dir. Pubbl. 2000, 836, 837 (in nota) definisce la “differenziazione organizzativa” come «possibilità di differenziare l’organizzazione della funzione». Cfr. diffusamente CARLONI E., Lo Stato, cit., passim

 

[53] Cfr., per tutti, la lucida trattazione di PIOGGIA A., I principi come limite, cit.

 

[54] La differenziazione funzionale tra soggetti autonomi omogenei, vantando una base espressa di diritto positivo, è considerato il «modello puro della differenziazione, assunto come principio e come tale inteso in assenza di aggettivazioni a livello di legislazione e nel dibattito dottrinale» (così CARLONI E., Lo Stato, cit., 63). Come ha peraltro osservato opportunamente, tra gli altri, Cavallo Perin «l'art. 118.1, nella sua enunciazione di principio si pone innanzitutto come affermazione dell'adeguatezza dell'assegnazione delle competenze tra gli enti territoriali, ove la relazione è data dall'adeguatezza delle organizzazioni a divenire destinatari di funzioni e di compiti. La norma costituzionale pare dunque più esattamente volta a sanzionare le inadeguate assegnazioni di competenza, cioè non accompagnate da una ragionevole correlazione tra compiti e strutture, ed in tal senso si pone come criterio selettivo e di censura anche delle scelte del legislatore ...». Così CAVALLO PERIN, in ASTONE ed altri, Le disuguaglianze sostenibili, cit., 130, 131 (in tal senso cfr., ampiamente, SPASIANO e MARRAMA, Spunti, cit.). Tale rilievo è qui utile nella misura in cui invita a non isolare né assolutizzare, nell'ambito dell'art. 118, comma 1, Cost., il rilievo del criterio di differenziazione, ma a relativizzarlo e bilanciarlo con quelli (di sussidiarietà ed adeguatezza) che al primo sono giustapposti. 

 

[55] Anche l'autore cui si deve la classificazione riferita nel testo (CARLONI E., Lo Stato, 36, 37) riconosce che le nozioni di autonomia e differenziazione «finiscono per sovrapporsi in larga misura, tanto che diviene difficile scinderle», in quanto la «differenziazione muove naturalmente dall'autonomia, dal momento che essa è la naturale conseguenza del concreto uso del potere differenziante insito in questa: da questo punto di vista potremmo distinguere tra differenziazione in concreto (la scelta autonoma, quindi diversa) e differenziazione in astratto (il riconoscimento di spazi di autonomia)».

 

[56] Così MOLASCHI V., Le disuguaglianze sostenibili nella sanità, in ASTONE ed altri (a cura di), Le disuguaglianze sostenibili, cit., 4 .

 

[57] ROSSI G. e BENEDETTI A., La competenza legislativa statale esclusiva in materia di livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, in AA.VV., Il nuovo Titolo V della Costituzione. Stato/ Regioni e Diritto del lavoro, supplemento al fascicolo 1 della rivista Il lavoro nelle pubbliche amministrazioni, 22. In tale rinnovato contesto diventa necessario «valutare se e come la differenziazione di tutela dei diritti, nei sistemi autonomistici, sia sostenibile in un ordinamento unitario o, se si preferisce, come un ordinamento può ancora essere unitario nonostante la differenziazione di trattamento giuridico» dei cittadini-residenti (cosi MANGANARO F., Il concetto di cittadinanza alla luce dei livelli essenziali di prestazioni, in ASTONE ed altri (a cura di), Le disuguaglianze sostenibili, cit., 205.

 

[58] Ci si riferisce alla riflessione svoltasi nell'ambito del Convegno di studi di Copanello del 2005, citato in apertura del lavoro.

 

[59] Cfr. MOLASCHI V., Le disuguaglianze sostenibili nella sanità, in Op. ult. cit., 3 ss.

 

[60] RENNA M., Le disuguaglianze sostenibili nel sistema scolastico, in Op. ult. cit. 89 ss.; FRACCHIA F., Istruzione e differenziazione: la centralità dello studente tra solidarietà intergenerazionale e sviluppo della persona, ibidem, 143 ss.; SAITTA F., Autonomia universitaria ed equipollenza (sostanziale) dei titoli di studio: una ...”disuguaglianza sostenibile” o è meglio abolirne il valore legale?, ibidem, 193 ss..

 

[61] DELLA CANANEA G., Le “disuguaglianze sostenibili” nella disciplina della concorrenza e dell'impresa, ibidem, 55 ss.

 

[62] PORTALURI P.L., Le disuguaglianze sostenibili nell'urbanistica, ibidem, 71 ss..

 

[63] Sulla esigenza di riorientare parte degli studi nella direzione di ricercare sul piano dinamico le “condizioni di coerenza” (piuttosto che gli elementi di statica uniformità) del sistema cfr., da tempo, TORCHIA L, Il riordino dell’amministrazione centrale: criteri, condizioni e strumenti, in Diritto pubblico, 1999, p. 689 e ss., la quale ha osservato che, ormai, anche sul piano positivo «… la natura composita dell’universo amministrativo è stata assunta come un dato di fatto e una base di partenza, invece che come una patologia di un ideale - e mai realizzato - ordine primigenio. Le differenze conseguenti da tale natura composita non sono più qualificate come eccezioni o deroghe, ma piuttosto come elementi costitutivi di un sistema che ha sempre meno tratti uniformi e ricostruisce continuamente la propria unitarietà sulla base di equilibri fra elementi e principi non sempre armonizzati o armonizzabili, ma anzi spesso posti in una sorta di tensione istituzionalizzata ... Un sistema non è unitario, infatti, in ragione della similitudine delle sue parti, quasi che fossero mattoni delle stesse dimensioni o della stessa natura, della stessa consistenza dello stesso materiale. Si può, al contrario, avere un sistema unitario anche se le diverse parti hanno natura eterogenea, purché le stesse parti siano in relazione di coerenza tra loro. E’ quindi sulle condizioni di coerenza che deve spingersi l’analisi e la valutazione ed è da esse che discendono gli elementi comuni e i caratteri propri del sistema, ivi compresa la possibilità che esso ammetta un certo grado di ridondanza, ma senza giungere alla confusione» (690). Tale impostazione metodologica è stata coerentemente sviluppata dall'Autrice anche in un recente studio dedicato al fenomeno della differenziazione (e dell'integrazione) nell'ordinamento comunitario, studio che verrà richiamato più avanti, nell'analisi del versante della differenziazione “amministrativa”. 

 

[64] L'ardua sfida che le istituzioni pubbliche contemporanee si trovano a fronteggiare è quella della attuazione delle libertà politiche e sociali per tutti. Il problema da superare è stato definito da Ralph Dahrendorf ( cfr. DAHRENDORF R., Il conflitto sociale nella modernità, Bari, 1989) come il “paradosso Martinez”: Ministro del commercio estero del Nicaragua dopo la rivoluzione del 1976, questi si è trovato di fronte al dilemma tipico di un ordinamento, che aspirava ad essere democratico, del riequilibrio tra entitlements (diritti di accesso alle risorse) e provisions (risorse disponibili). Prima della rivoluzione le vetrine dei negozi erano piene di merci, cui però solo pochi potevano accedere; dopo, tutti teoricamente potevano avere tutto, ma nei negozi non c’era più niente. Esso mostra come nei regimi autoritari sia difficile poter fare domande, ma chi può farle ottiene facilmente risposte; mentre in democrazia è facile fare domande, ma è difficile avere risposte per tutti. Il problema è uscire dal vicolo cieco del dilemma delle provisions senza entitlements, e di quello speculare ma altrettanto e forse più disperante degli entitlements senza provisions; del passaggio frustrante dalla crescita senza redistribuzione alla redistribuzione senza crescita: così ROMEI P., L'organizzazione come trama, Milano, 2000, 308, 309.

 

[65] CARLONI E., Lo Stato, cit., 266 ss.

 

[66] Come ha chiarito la Corte costituzionale, a partire dalla sentenza n. 282/02, la lett. m) dell'art.117, comma 2, Cost. non fa riferimento ad «una “materia” in senso stretto, ma ad una competenza del legislatore idonea ad investire tutte le materie, rispetto alle quali il legislatore stesso deve poter porre le norme necessarie per assicurare a tutti, sull'intero territorio nazionale, il godimento di prestazioni garantite, come contenuto essenziale di tali diritti, senza che la legge regionale possa limitarle o condizionarle». Sulla questione cfr. ampiamente CORSO G. e LOPILATO V. (a cura di), Il diritto amministrativo, cit., opera alla quale si rinvia anche per ulteriori e complete indicazioni bibliografiche e giurisprudenziali. 

 

[67] Così BALBONI E., Livelli essenziali: il nuovo nome dell'eguaglianza? Evoluzione dei diritti sociali, sussidiarietà e società del benessere, in BALBONI E., BARONI B., MATTIONI A., PASTORI G., Il sistema integrato dei servizi sociali. Comemnto alla legge n.328/2000 e ai provvedimenti attuativi dopo la riforma del titolo V della Costituzione, Milano, 2003, 27 ss. Sui livelli essenziali delle prestazioni, oltre alle opere già richiamate supra, cfr., ex multis, BUZZACCHI C., Uniformità e diffrenziazione, cit., in part. 152 ss.; BALDUZZI R., I livelli essenziali nel settore della sanità, in BERTI G. e DE MARTIN G.C., Le garanzie di effettività dei diritti nei sistemi policentrici, Milano, 2003, 247 ss.; MENICHETTI E., Le pratiche terapeutiche tra uniformità e differenziazione, in rivista telematica amministrazioneincammino.luiss.it; PINELLI C., Sui «livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali» (art. 117, co. 2, lett. m, Cost.), in Diritto Pubblico, 2002, 881 ss.; LUCIANI M., I diritti costituzionali tra Stato e Regioni ( a proposito dell'art.117, co.2, lett. m), della Costituzione, in Pol. Dir. , 2002, 283 ss.; PIZZOLATO F., Il minimo vitale. Profili costituzionali e processi attuativi, Milano, 2004; RESCIGNO G.U., Principio di sussidiarietà orizzontale e diritti sociali, in Dir. Pubbl., 2002, 5 ss.; POLICE A., Federalismo “asimmetrico” e dequotazione dell'eguaglianza: le fragili fondamenta della citatdinanza amministrativa, in Dir. dell'econ., 2002, 489 ss,  MASSA PINTO E., Contenuto minimo essenziale dei diritti costituzionali e concezione espansiva della Costituzione, in Dir. Pubbl., 2001 1050 ss., ai quali si rinvia sia  per l'esame della questione (studiata soprattutto con riguardo ai livelli di assistenza sanitaria) - che ha riflessi immediati sulla portata della tutela della uguaglianza (cfr. sinteticamente la recente trattazione di GIORGIS A., Art. 3, co. 2, Cost., in Commentario, cit., in part. 101 ss.) - relativa all'individuazione del significato corretto da assegnare alla formula dei “livelli essenziali” (se da intendersi come “minimi” o “uniformi” o “omogenei”) sia per l'analisi del problema (cui verrà dedicata una breve notazione più avanti, in nota) della possibile estensione della determinazione dei LEP anche alla fissazione di standards strutturali e organizzativi (su cui cfr. Corte cost. n. 120 del 2005). Il problema è richiamato in termini sintetici anche in MOLASCHI V., Le disuguaglianze sostenibili, cit.,; RENNA M., Le disuguaglianze sostenibili nel sistema scolastico, cit.; MANGANARO F., Il concetto di cittadinanza, cit. Sul punto cfr. ora la chiara analisi di PIOGGIA A., I principi come limite, cit.

 

[68] Così MANGANARO F., Il concetto di cittadinanza alla luce dei livelli essenziali di prestazioni, cit., 211, il quale richiama, tra gli altri, i recenti studi di CASTORINA E., Introduzione allo studio della cittadinanza. Profili ricostruttivi di un diritto, Milano 1997; BERTI G., Cittadinanza, cittadinanze e diritti fondamentali, in Riv. Dir. Cost., 1997, 12; MARSHALL T.H., cittadinanza e classe sociale, rist. a cura di S. Mezzadra, Bari, 2002; CIANCIO A., I diritti politici tra cittadinanza e residenza, in Quad. cost., 2002, 56 ss.; RESCIGNO G.U., Cittadinanza: riflessioni sulla parola e la cosa, in Riv. Dir. Cost., 1997, 37. Di Manganaro è bene richiamare anche ID., Partecipazione al procedimento amministrativo e cittadinanza plurale, AA. VV., Procedimento amministrativo e partecipazione. Problemi, prospettive ed esperienze (a cura di A. Crosetti e F. Fracchia), Milano, 2002, 277; ID., Vecchi problemi e nuove prospettive della cittadinanza, in AA. VV., Persona e amministrazione, cit., Torino, 2004, 221 ss.

 

[69] Per alcune utili puntualizzazioni attorno alla formula (definita “volutamente provocatoria”) di “disuguaglianza sostenibile” cfr. CAVALLO PERIN, op. cit., 126, il quale distingue opportunamente tra disuguaglianze giuridicamente irrilevanti, lecite (dunque possibili, praticabili); disuguaglianze giuridicamente rilevanti, ma (in senso negativo, dunque) illecite; disuguaglianze giuridicamente necessarie (le cd. azioni positive), concludendo che le c.d. disuguaglianze sostenibili vanno intese nel senso di “disuguaglianze relative”.

 

[70] MOLASCHI V., Le disuguaglianze sostenibili, cit., RENNA M., Le disuguaglianze sostenibili , cit.,

 

[71] In tal senso MOLASCHI V., Le disuguaglianze sostenibili, cit., 27, 28, la quale argomenta in tal senso da Corte cost. n. 282/2002 che ha accostato la nozione di “livelli essenziali” a quella di “contenuto essenziale” dei diritti, concetto elaborato dalla Corte proprio per porre un limite alla compressione dei diritti sociali (in generale, e di quello alla salute, in particolare), dovuta al carattere “finanziariamente condizionato” degli stessi. Secondo l'autrice «la strumentalità dei “livelli” rispetto alla garanzia del diritto alla salute implica, di per sé, che i “livelli” non possano (e, pertanto, non debbano) essere “minimi”». In altri termini: l'accostamento operato dalla Corte rende sostenibile la tesi secondo cui «la previsione costituzionale in materia di livelli essenziali» costituisce un «vincolo per il legislatore, statale e regionale, non solo sul piano del riparto delle competenze normative, ma anche per ciò che concerne il quid delle prestazioni, che devono concretare il contenuto essenziale del diritto alla salute». Su tale complessa questione cfr. ampiamente BALBONI E., Op. cit.; GIORGIS, Op. ult. cit., in part., 101-103.

 

[72] BUZZACCHI C., Uniformità e differenziazione, cit., 321.

 

[73] GAMBINO S., I diritti sociali e la “riforma federale”, in Quad. cost., 2/2001, 353.

 

[74] In tale prospettiva si ritiene, in sostanza, che, superata la dimensione organizzativa dell’uniformità, i vincoli uniformanti che l’ordinamento seguita a imporre alle autonomie debbano riguardare essenzialmente i risultati dell’azione e dell’organizzazione dei soggetti pubblici. In tale quadro l’uniformità amministrativa non è più considerata essenziale rispetto al fine dell’uniforme godimento dei diritti sul territorio: la prospettiva diventa quella della soddisfazione dei diritti e degli interessi , mentre i percorsi necessari per garantire tali risultati diventano secondari.  Così GARDINI, Recensione a Enrico Carloni, cit., 308 . Sul punto cfr. infra, nel testo.

 

[75] MANGANARO F., Il concetto di cittadinanza, cit.

 

[76] Si afferma espressamente, infatti, che tale «nuovo modello è centrato sul risultato dell'azione dei pubblici poteri prima che sui caratteri e i modelli di questa azione» (CARLONI E., Lo Stato, cit., 267)

 

[77] Carloni, seppure in termini dubitativi, propone la enucleazione di «uno specifico principio di differenziazione (amministrativa)» (cfr. le citazioni già riportate supra). Sembra, tuttavia, che la sua trattazione dimostri in modo convincente, piuttosto, che la differenziazione rappresenta uno dei modi di (nuova e diversa) attuazione del principio di uniformità: si persegue una uniformità di base, quale nuova dimensione della eguaglianza, sostanziale ed inclusiva, attraverso un modello che include un grado necessario di differenziazione della disciplina delle autonomie territoriali: «una Repubblica che fonda sulla differenza dei percorsi il raggiungimento di obiettivi unitari, che persegue, attraverso la differenza, un'uguaglianza che nel suo modello generale ... non è più formale e paritaria, ma sostanziale e di base» (così ID., Op. cit., 194)

 

[78] ID., Op. cit., 38.

 

[79] ID., Op. loc. cit.. Tale fenomeno, si osserva in linea generale, è definibile come una “differenziazione necessaria” per far fronte alla complessità della realtà contemporanea, che è «caratterizzata dal superamento di modelli organizzativi assolutizzati e connotati in senso valoriale, in favore di modelli caratterizzati da un forte relativismo: le strutture formali vengono allora sempre più rapportate agli obiettivi perseguiti, ai vincoli da rispettare, alle funzioni da esercitare, alle risorse (umane, finanziarie, strumentali) a disposizione…». Trasformazione che è descritta dall'autore da un lato quale riflesso della “complessificazione” della realtà amministrativa, dall’altro quale adozione del «modello di riferimento ... delle organizzazioni private, dove la dimensione interna dell’amministrazione-impresa è vista in larga parte come irrilevante per coloro che sono chiamati a relazionarsi con essa».

 

 

[80] Così GARDINI G., Op. cit., 305.

 

[81] Cfr., ex multis, CAMPELLI E., Da un luogo comune. Elementi di metodologia delle scienze sociali, Roma, 2000, in part. 165 ss.

 

[82] Viene in risalto un significativo punto di contatto del percorso disciplinare della recente scienza amministrativistica con alcune delle tendenze di fondo della cultura contemporanea. E' noto, infatti, che, soprattutto a partire dagli anni sessanta del novecento il pensiero filosofico (sia di tradizione continentale sia di impianto analitico) è stato caratterizzato da una crescente attenzione per la idea di “pluralità”, percepita non più (o non solo) come limite o circostanza di crisi, ma come opportunità positiva. Le categorie della differenza e della molteplicità hanno così occupato via via sempre maggiore spazio nell'analisi della contemporaneità (cfr. D'AGOSTINI, Analitici e continentali. Guida alla filosofia degli ultimi trent'anni, Milano, 1997). Si è osservato, anzi, che l'idea di “pluralità” (delle verità, delle prospettive teoriche, degli stili filosofici etc.) rappresenta «un buon punto di partenza tipico del pensiero» degli ultimi decenni, «quando non anche il suo punto d'arrivo» (così ID., Op. ult. cit., 6, 7). Da questo dato comune si sono dipanate sia posizioni “disgregative” sia percorsi in vario modo “riaggregativi”. Secondo le prime (il post-modernismo, il post-strutturalismo) non c'è nessuna urgenza di riunificare i frammenti dispersi della ragione, anzi, non c'è alcuna razionalità unitaria da ricostruire, ma ci si può adattare a una ragione parcellizzata e frammentaria (o forse ci si “deve” adattare, essendo la post-modernità descritta come una “condizione” di anomalia inoltrepassabile). Per uno sguardo di sintesi su tali posizioni cfr. da ultimo A. SARTINI, Figure della differenza. Percorsi della filosofia francese del Novecento, Milano, 2006. Tra queste tesi – che hanno esercitato una crescente influenza anche nel campo degli studi organizzativi è utile qui citare esemplificativamente le tesi cibernetiche di Atlan, che intepreta lo sviluppo dei sistemi come crescita di diversificazione e complessità, non come aumento di coerenza e selezione. I percorsi “riaggregativi”, invece, pur muovendo dal dato di una “frammentazione” dell'esperienza, tentano tuttavia di ridefinire in modo unitario la razionalità contemporanea, di ricomporre in vario modo i frammenti dispersi della ragione moderna. Basti qui richiamare per un verso il pensiero di Habermas, per altro verso l'epistemologia della complessità. Per una ampia e lucida analisi critica di tali movimenti culturali dalla prospettiva del giurista cfr. l'ampia trattazione di LOSANO M.G., Sistema e struttura nel diritto, vol. III, Dal Novecento alla postmodernità, Milano, 2002 .

 

[83] CARLONI E., Lo Stato, cit. passim, il quale precisa che «Il confine tra questi tre tipi di condizionamento non è netto: strumenti volti a condizionare i risultati non mancheranno di avere ricadute sulle modalità di azione, persino sull’organizzazione. Viceversa, determinare l’organizzazione significa prederminare in certa misura le successive modalità di azione, persino i risultati della successiva azione» (così a p.62, in nota 789. A livello positivo il problema si pone in particolare per quei diritti fondamentali (come il diritto alla salute) che, per la loro protezione e realizzazione, richiedono un impegno predeterminato di risorse e impongono di fissare dei vincoli organizzativi, tali da condizionare le scelte degli apparati autonomi. Nel dibattito recente il problema è stato affrontato anche con riguardo ai LEP: ci si è chiesti se la determinazione dei LEP da parte dello Stato possa estendersi alla fissazione di alcune minime prescrizioni di carattere organizzativo strumentali alla garanzia di tali livelli. Secondo RENNA, Le disuguaglianze sostenibili, cit., 100, «tra i LEP si devono annoverare anche taluni requisiti organizzativi del servizio, allorchè questi concorrano, sia pure indirettamente, a definire il contenuto minimo delle prestazioni e dei corrispondenti diritti». In tal senso cfr. anche LUCIANI M., Op. cit., il quale ha osservato che «il riferimento ai livelli essenziali non deve far pensare soltanto alla necessità di determinazione di livelli quantitativi, ma anche alla definizione della “struttura organizzativa” che assicura la garanzia dei diritti”. Ciò comporta che lo Stato stabilisca “almeno i principi fondamentali del “come”». Sul punto cfr. Corte cost. nn. 120 e 279/05.

 

[84] Cfr. CARLONI E., Lo Stato, cit., 233 ss.

 

[85] All’interno di un sistema complesso e multipolare, che include e riconosce centri di riferimento di interessi contrapposti, posti su un piano di tendenziale equiordinazione, l’unità dell’ordinamento «non esiste a priori» ma «è concepibile soltanto quale risultante del confronto dinamico di tali centri, che avviene volta per volta, episodio per episodio senza esiti predeterminati. In tale contesto risultano superate le traduzioni in termini assoluti della vicenda giuridica; questa va colta nella sua (relativa) aleatorietà e nel suo carattere di problematicità» (così, su un piano di teoria generale, ROMANO TASSONE A., Note sul concetto di potere giuridico, in Annali dell'Università di Messina, 1981, 2, 435). Si impone cioè l’esigenza di spiegare in termini di rapporti giuridici e di situazioni giuridiche soggettive la dinamica giuridica e le relazioni tra figure giuridiche soggettive: è questa la prospettiva che permette di perseguire obiettivi di unificazione e integrazione del sistema nei loro effettivi risvolti operativi. Per lo sviluppo di tale impostazione nella prospettiva della operazione amministrativa sia consentito il rinvio al mio lavoro Contributo allo studio, cit. in part. 183 ss.

 

[86] Sulla natura relazionale della “realtà giuridica concreta” cfr., per tutti, SCOCA F.G., Contributo sul tema della fattispecie precettiva, Perugia, 1979, passim, opera in cui è messa a punto a livello di teoria generale una ordinazione triplanare dell'esperienza giuridica complessiva.

 

[87] Ci si riferisce allo studio di TORCHIA L., Il governo delle differenze. Il principio di equivalenza nell'ordinamento europeo, Bologna, 2006

 

[88] DELLA CANANEA G., L'Unione europea. Un ordinamento composito, Bari-Roma, 2003.

 

[89] ID., Le “disuguaglianze sostenibili”, cit., 69.

 

[90] Già dal Trattato di Roma la ampio è lo spazio di esplicazione lasciato alla possibile differenziazione all'interno dell'ordinamento europeo: cfr., ex multis, ZILLER J., Flexibility in the geographical scope of European Union Law, in de Burca D. e Scott J., (a cura di), Constitutional Change in the Eu. From Uniformity to Flexibility? Oxford, Hart Publishing, 2000, 113 ss., citato da TORCHIA L. Il governo, cit., 14, alla quale si rinvia anche per ulteriori indicazioni biblografiche. A partire dal Trattato di Amsterdam, la «“flessibilità” ha perso definitivamente le caratteristiche di una soluzione specifica e contingente» finalizzata al superamento di difficoltà transitorie nel processo di integrazione per assumere «una vera e propria dimensione costituzionale» (ID. , Op. cit., 15).

 

[91] ID., Op. cit., 16

 

[92] Così ID., Op. cit., 178, la quale evidenzia come il pluralismo giuridico sia tratto distintivo e caratteristico dell'ordinamento europeo, in cui le diversità sono riconosciute e mantenute, e in cui l'unità non coincide con l'uniformità, ma si assicura con un insieme di principi e strumenti di governo delle differenze, espressione del principio di equivalenza quale «elemento caratteristico di una unità che non coincide con l'uniformità e che non si articola soltanto secondo un criterio di competenza, ma comporta un nuovo modo di esercizio del potere amministrativo, in una dimensione integrata e plurale»(26).

 

[93] La «trasformazione di sistema » in atto anche nell’ambito del sistema interno è colta in dottrina efficacemente, tra gli altri, da Bombardelli M., La sostituzione, cit., 95 ss., il quale osserva che «l’organizzazione amministrativa non si presenta più come un dato, ma è una costruzione dinamica, flessibile e variabile nella sua dimensione concreta, determinata di volta in volta in base alla necessità di ognuno dei diversi interessi rilevanti di integrarsi ed interagire con gli altri, essendo interdipendente rispetto ad essi per poter curare concretamente l’interesse che gli è affidato. L’organizzazione amministrativa non deriva dunque dalla disarticolazione di un unico centro di riferimento di un interesse pubblico predefinito in una pluralità di figure organizzative ad esso riconducibili, ordinate in senso discendente attraverso la distribuzione dei compiti in origine aggregati nelle complessive attribuzioni di tale centro, ma viene a crearsi attraverso successive e mutevoli integrazioni di centri di riferimento di interessi in origine variamente connessi tra loro (…). Le parti rilevanti del sistema sono quindi differenziate tra loro, ma anche connesse ed interdipendenti ed il loro insieme va considerato non più in una prospettiva riduzionista, in cui l’organizzazione è sempre ricostruibile come un intero con la semplice somma delle sue singole parti, delineando una figura che le contiene tutte. Diversamente, le parti suddette vanno ricomposte nella prospettiva della complessità, in cui la struttura organizzativa d’insieme può essere compresa solo tenendo conto, oltre che delle parti che lo compongono, anche delle mutevoli e dinamiche relazioni attraverso cui si manifesta la loro interdipendenza. L’organizzazione va cioè considerata anche in base alle specifiche relazioni che nel concreto vengono ad instaurarsi fra le sue parti e che danno loro proprietà nuove, dovute al fatto di essere un insieme di elementi interconnessi in modo dinamico, che restano inaccessibili se ci si ferma alle singole componenti o alla loro somma» (così alle pp.105, 107, 108).

 

[94] Sugli sviluppi recenti delle teorie organizzative cfr. BONAZZI G., Come studiare le organizzazioni, Bologna, 2002; MOSCHERA L., Analisi di teorie dell'organizzazione. Logiche e modelli a confronto, Milano, 2000; ROMEI P. L’organizzazione come trama, Padova, 2000; HATCH M.J., Teoria dell’organizzazione, Bologna, 1999, la quale individua nella teoria dell’organizzazione contemporanea la coesistenza e l’integrazione di tre diversi approcci, pur influenzati dalle teorie “classiche”: moderno, simbolico e postmoderno. Con specifico riguardo alle organizzazioni pubbliche cfr. D'AMICO R. (a cura di), L'analisi della pubblica amministrazione. Teorie, concetti e metodi, vol.I, Milano, 2004.

 

[95] Così ROMEI P., L’organizzazione come trama, Padova, 2000, p. 49.

 

[96] Così MORIN E., La méthode. La nature de la nature, Paris, 1977; tr. it. Il metodo. La natura della natura, Milano, 2001.

 

[97] Cfr. LAWRENCE P.R.-LORSCH J.W., Organization and Environment. Managing Differentiation and Integration, Harvard University Press, 1967 (citato da ROMEI, L'organizzazione, cit., 119) i quali prendono le mosse dall’approccio sistemico, che sottolinea la criticità delle relazioni di interdipendenza delle parti componenti l’organizzazione, dell’interscambio con l’ambiente, della molteplicità delle forme con le quali è possibile arrivare a risultati analoghi.

 

[98] Nella dottrina amministrativistica cfr., tra gli altri, SCOCA F.G., La pubblica amministrazione come organizzazione, in MAZZAROLLI L. ed altri, Diritto amministrativo, Bologna, 2005, vo. I, p. 439 e ss., in particolare p. 443, il quale, a proposito del sistema amministrativo nel suo complesso, parla di «unità funzionale e complessità organizzativa»; nonché PASTORI G., Coordinamento e governo di una società complessa, in Amato, G. Marongiu (a cura di), L’amministrazione della società complessa, In ricordo di Vittorio Bachelet, Bologna, 1982, 129, il quale rileva che i termini di «coordinamento ed autonomia sembrano andare di pari passo ed implicarsi vicendevolmente. Benché il termine “coordinamento” indichi di per sé... un risultato, un effetto unitario che si può realizzare attraverso tecniche e modalità diverse, nella visione di una società democratica e pluralistica (…) esso viene ad indicare soprattutto le tecniche che consentono di conseguire finalità comuni senza sopprimere o senza troppo largamente condizionare l’autonomia dei soggetti coinvolti».

 

[99] In altre parole: la differenziazione è studiata in coppia con l'integrazione; l'una e l'altra sono studiate quali processi dinamici caratteristici dell'azione organizzativa; un aumento eccessivo di differenziazione comporta un rischio di anarchia organizzativa: la fine della funzionalità dell'organizzazione per “eccesso di gioco”; un incremento eccessivo di integrazione produce invece il rischio opposto: la fine della funzionalità dell'organizzazione per eccesso di rigidità, ossia per “assenza di gioco”; è esigenza organizzativa, pertanto, la ricerca costante di equilibri dinamici tra integrazione e differenziazione, in modo che l'organizzazione si collochi ad un livello adeguato di complessità, un livello in cui la sua funzionalità “ha gioco”. La metafora del gioco è mutuata da van de KERCHOVE M.- OST F., Il diritto ovvero i paradossi del gioco, Milano, 1995.

 

[100] Come ricorda HATCH M.J., Teoria dell’organizzazione, cit., 156 ss., i teorici dell’organizzazione “modernisti” ricorrono a un concetto di differenziazione simile a quello utilizzato in biologia, in cui la differenziazione è il processo attraverso il quale le varie funzioni si distinguono tra loro (come nel caso delle funzioni delle cellule di una pianta o delle funzioni di un embrione) . Essi parlano di differenziazione delle attività di un’organizzazione: via via che la differenziazione procede all’interno dell’organizzazione diventa sempre più difficile per le varie componenti organizzative svolgere le proprie attività specifiche coordinandole al tempo stesso con quelle degli altri membri dell’organizzazione; la difficoltà di comunicazione e coordinamento aumenta con la crescita della differenziazione, spingendo verso l’integrazione. Un modo tipico di gestire le pressioni verso l’integrazione è quello di creare strutture in funzione di integrazione; risposta questa che, però, comporta allo stesso tempo ulteriore differenziazione ed è idonea a supportare, dinanzi all’ulteriore crescita dell’organizzazione, un ulteriore ciclo di differenziazione ed integrazione. La differenziazione delle attività può portare pertanto alla realizzazione degli scopi desiderati, oppure all’anarchia organizzativa. La differenza tra anarchia organizzativa e integrazione -si rileva- sta proprio nella capacità di integrare e coordinare.

 

[101] Nel campo della teoria organizzativa l'approccio post-modernista deriva direttamente dal movimento post-strutturalista della filosofia francese. Tale approccio ritiene che il fenomeno caratteristico delle organizzazioni contemporanee  sia l'abbandono delle gerarchie a favore della creazione di networks o reti di comunicazione, con un conseguente spostamento del baricentro delle strutture organizzative dall’asse verticale all’asse orizzontale. Cfr., tra i molti, BERGQUIST W., L’organizzazione postmoderna, Milano, 1994, il quale osserva espressamente che le principali caratteristiche distintive dell'organizzazione postmoderna sono: l’accento su strutture di complessità e dimensioni piccolo/medie e sull’adozione di strutture flessibili e modalità di cooperazione tra le varie istituzioni in grado di affrontare le turbolenti condizioni organizzative e ambientali (9). Cfr. altresì CLEGG S., Modern organizations: organization studies in the postmodern world, London, Sage, 1990 (citato da HATCH, Teoria dell'organizzazione, cit., 157), studio in cui si sostiene invece che la differenziazione, nelle organizzazioni moderne, sia andata troppo oltre, e che pertanto le organizzazioni contemporanee, in quanto “sovra-differenziate”, dovrebbero “de-differenziarsi”. La de-differenziazione si distingue dalla integrazione nel senso che mentre quest’ultima implica il coordinamento delle attività differenziate, la de-differenziazione significa che l’organizzazione «fa marcia indietro» ed elimina le condizioni stesse della differenziazione che hanno contribuito a creare il bisogno di integrazione. Nella de-differenziazione le organizzazioni diventano sì più integrate, ma non come risultato di un’elaborazione strutturale volta ad ottenere un maggiore coordinamento: in questo caso l’organizzazione è più integrata semplicemente perché richiede meno coordinamento in quanto meno differenziata (ossia meno complessa). L’approccio della de-differenziazione incoraggia l’auto-organizzazione; tenta così di opporsi alla visione modernista della esistenza di uno stretto legame tra integrazione e gerarchia, senza però intaccare i concetti di integrazione e di differenziazione.  Esempi di de-differenziazione potrebbero essere individuati – ai nostri fini - nelle esternalizzazioni e nella sussidiarietà orizzontale.

 

[102] La nozione di comunicazione è ritenuta, anche in tale prospettiva, comunque costitutiva del concetto di organizzazione, in linea con l'insegnamento di  Simon: «…il termine organizzazione si riferisce al complesso schema di comunicazioni e di altre relazioni che viene a stabilirsi in un gruppo»: così Simon H.A., Administrative Behavior, Macmillan, New York, 1947, trad. it. Il comportamento amministrativo, Bologna, 1967, II ed., 14).

 

[103] Di «canali di comunicazione laterale» parla, ad esempio, HATCH M.J., Teoria dell’organizzazione, cit., 160; di «connessioni laterali», invece, SCOTT W.R., Organizations, Rational, Natural and Open Systems, New Jersey, 1981, nella (2ª) edizione italiana, ID., Organizzazioni, New Jersey-Bologna, 1994, 282-283.

 

[104] Per una critica serrata all'utilizzazione del concetto di “auto-organizzazione” (sulla genesi del quale cfr. diffusamente EMERY F.E., La teoria dei sistemi. Presupposti, caratteristiche e sviluppi del pensiero sistemico, Milano, 2006) anche in campo giuridico, con particolare riguardo alle teorie di Luhmann e Teubner, cfr., per tutti, LOSANO M.G., Sistema e struttura nel diritto, vol. III, Dal Novecento alla postmodernità, Milano, 2002. A questa opera si rinvia anche per un approfondito esame critico del concetto di “differenziazione” nella teoria di Luhmann: cfr., in particolare, pp. 310 ss.

 

[105] E' impossibile in questa sede dar conto del percorso teorico di approfondimento che ha interessato, nella seconda metà del novecento, i temi del coordinamento e dell'autonomia, nell'ambito di un dibattito che, pur mettendo a problema le principali nozioni di fondo del diritto amministrativo, ha incontrato notevoli difficoltà - sia in ragione dell'atteggiarsi dei dati di diritto positivo sia a causa dei condizionamenti teorici derivanti da “paradigmi” elaborati nell'orbita del modello organizzativo statocentrico (così DI GASPARE, Il potere, passim) – nel mettere a fuoco la nozione di autonomia quale (disciplina di un) rapporto giuridico, come anche nella costruzione, sempre in termini di rapporti, delle formule organizzatorie (in particolare: le relazioni organizzative di equiordinazione); difficoltà che hanno caratterizzato anche i tentativi, più volte operati, di liberare la funzione dalle “strettoie” del potere e dell'atto (così ALLEGRETTI U., Pubblica amministrazione e ordinamento democratico, in Foro it., 1984, V, 2079, in modo da rendere apprezzabile sul piano giuridico (in modo non disaggregato) l'attività amministrativa in quanto tale. Sull'intera questione sia consentito rinviare al mio lavoro Contributo allo studio, cit., 183 ss.

 

[106] Come ha osservato già MARONGIU G., Il coordinamento come principio politico di organizzazione della complessità sociale, in AMATO G., MARONGIU G. (a cura di), L’amministrazione della società complessa., cit., 141 ss.: «Calato nei modelli concettuali e pratici della vecchia amministrazione il coordinamento come principio e come nozione è francamente incomprensibile; nel nuovo schema di una società complessa, che è amministrata ma che anche si autoamministra, il coordinamento è un principio necessario e il suo stesso concetto perde le sue molte oscurità (…). Se si tiene presente, infatti, che l’attività di coordinamento non è che la risposta a una situazione sociale e organizzativa che vive l’esigenza dell’inseparabilità fra il momento del comune cooperare verso fini unitari e quello della libertà e dell’autonomia di ciascuno degli attori, non potrà più apparire come una insanabile contraddizione concettuale l’incessante farsi e disfarsi, nella sua complessiva figura, di profili di equiordinazione e di profili di sovraordinazione. L’equiordinazione è essenziale al coordinamento non meno della sovraordinazione e viceversa: l’equiordinazione esprime il momento della concertazione, del formarsi della decisione comune, della codeterminazione dei fini(…)», cosicchè, a ben guardare, «le ipotesi più vere di coordinamento si hanno proprio nelle figure organizzative complesse...»(così 145)

 

[107] Cfr. WILLKE H., Ironie des Staates, 1992, 185 (citato da VOßKUHLE A., “Concetti chiave” della riforma del diritto amministrativo nella Repubblica Federale Tedesca. Una ricognizione critica, in Dir. Pubbl. 2000, 747, in nota 186), il quale guarda a tali nuovi contesti organizzativi in termini di «governo decentrato delle condizioni di contesto», formula che sta ad indicare che « un minimo di orientamento o di “visione del mondo” comune deve accompagnarsi alla costituzione di una società complessa e differenziata; ma che però questo contesto comune non può più essere prodotto e fornito da un vertice gerarchico della società».

 

[108] Cfr. supra, par.3.

 

[109] Cfr. diffusamente CARLONI, Lo Stato, cit., passim

 

[110] In tema cfr., tra i primi, OCCHIENA M., La disciplina del procedimento amministrativo e della partecipazione dopo la riforma del titolo v della parte II della Costituzione. Sez I- Il procedimento, in CROSETTI A. E FRACCHIA F., Procedimento amministrativo e partecipazione, problemi, prospettive ed esperienze, Milano, 2002, 167 ss.; SORACE D., Relazione al Convegno dell'AIPDA, cit.. Più di recente cfr. CELOTTO A. e SANDULLI M.A., Legge n.241 del 1990 e competenze regionali: un "nodo di Gordio", in www.giustamm.it,; BERGONZINI G., Legge dello Stato sull'azione amministrativa e potestà legislativa regionale, in Dir. amm. 2006, 23 ss.; ROMANO TASSONE A., Legge n. 241 del 1990 e competenze regionali: osservazioni sulla posizione di A. Celotto-M.A. Sandulli, in www.federalismi.it, il quale ha proposto di individuare la fonte delle limitazioni discendenti dalla legge n.241 del 1990 verso la legislazione regionale nell'art. 117, comma 2, lett. m): «in tale prospettiva ... la legge n.241 va intesa non tanto come legge che impone modelli comportamentali standard, ma quale atto di determinazione, attraverso i comportamenti ivi prescritti, di alcuni fondamentali risultati che il cittadino deve comunque conseguire nel suo rapporto con l'amministrazione: un elenco di risultati che devono essere garantiti al cittadino nel suo rapporto con l'amministrazione-autorità, risultati che, tuttavia, sono raggiungibili anche attraverso moduli comportamentali diversi da quelli contemplati nella legge (...come indicazione indiretta del “livello” che deve essere garantito dalla normazione delle autonomie)».

 

[111] Sull'argomento cfr., per tutti, SCOCA F.G., Attività, cit., passim e

 

[112] RUGGERI A., Teoria e prassi, cit., in part. 344 ss.

 

[113] Cfr. VESPERINI , I poteri locali, cit., passim, dalla cui attenta ricognizione, operata materia per materia, si evince come siano assai rare le ipotesi in cui davvero può ritenersi che il Comune, o la Provincia, abbiano l'effettivo governo di un settore. Molto frequenti sono invece i casi in cui si assiste al concorso dei diversi livelli di governo, locale, regionale e a volte anche statale, nella gestione degli interventi.

 

[114] Ha osservato SALA, 14, che «dopo l’entrata in vigore del nuovo Titolo Quinto ... l’approccio dominante è stato quello di cercare di determinarne l’incidenza nella distribuzione delle funzioni ai diversi livelli di amministrazione». Con riguardo, in particolare, alle «funzioni amministrative, il cui contenuto e il cui modo di esercizio caratterizza l’amministrazione, e quindi il ruolo di Comuni e Province, si è discusso del quantum e del quando delle nuove funzioni che la nuova riforma ha inteso trasferire agli enti locali», in parte trascurando la circostanza che «nel momento in cui si chiede ai poteri pubblici di assicurare standard qualitativi di vita sempre più ambiziosi, che inevitabilmente richiedono l’esercizio coordinato di poteri e, prima ancora, l’utilizzo integrato delle risorse disponibili, la funzione delle istituzioni pubbliche, anche di quelle locali, non può essere intesa, in senso statico, solo come garanzia di un ambito riservato di gestione di interessi ma anche, e probabilmente piuttosto, come ruolo riconosciuto in processi decisionali e operativi che necessariamente coinvolgono altri soggetti» (16). Tale prospettiva di analisi va pertanto coniugata con la ricerca di soluzioni al problema della ripartizione (quanto meno del nucleo duro) delle competenze, che è (e resta) comunque problema essenziale. In tal senso cfr. MERLONI, L'inutile riforma del TUEL. Per una legge generale sulle Autonomie Locali, in Clemente di San Luca (a cura di), Nodi problematici e prospettive di riforma del Testo Unico degli Enti Locali, Torino, 2006, 141 : «se non c'è separazione di competenze chiara (anche se non perfetta), non c'è responsabilità, non c'è possibilità di costruire un sistema di autonomia normativa, non c'è possibilità di costruire un sistema di autonomia finanziaria...Una chiarezza nella ripartizione delle competenze, delle funzioni», sembra, pertanto, «condizione indispensabile», ma «non ... sufficiente, perchè nessuna ripartizione delle competenze sarà mai in grado di risolvere i problemi di un'amministrazione moderna complessa. Comunque, qualunque sia la ripartizione che si fa, si è costretti ad operare, a collaborare con altre amministrazioni titolari di competenze vicine per il raggiungimento di obiettivi comuni...».

 

[115] GIANNINI M.S., Autonomia (saggio sui concetti di autonomia), in RTDP, 1951, 851, ID., Autonomia (teoria generale e diritto pubblico), in Enc. Dir., IV, Milano, 1959, 353; ROMANO S., Autonomia, in ID., Frammenti di un dizionario giuridico, Milano, 1957, 15. Più di recente ROMANO A., Autonomia nel diritto pubblico, in Dig. Disc. Pubbl., II, Torino, 1987, 31 ss. (in part. 32): «l'autonomia ... non è una situazione in sé, ma è una situazione all'interno di un rapporto, di una relazione»; SALA G., Sui caratteri, cit., 17 : il «concetto di autonomia è concetto interrelazionale, rilevando il grado di indipendenza o, in relazione al punto di vista, di dipendenza rispetto ad altro soggetto». CASSESE S. (a cura di), Istituzioni di diritto amministrativo, 2004, 71: «...il principio di autonomia può trovare attuazione solamente tra soggetti posti in posizione di equiordinazione, al fine di regolarne i rapporti, con portata diversa, a seconda della qualificazione che di volta in volta può essergli riconosciuta. Esso, dunque, presuppone l’esistenza di un rapporto, non importa se effettivo o anche solo virtuale, tra soggetti differenti, rapporto che, in qualche misura, si vuole delimitare».

 

[116] SALA G., Sui caratteri, cit., 19.

 

[117] SALA, Sui caratteri, cit., 47.

 

[118] D'ORSOGNA D., Contributo allo studio, cit., passim.

 

[119] SALA, Op. loc. cit.

 

[120] Così CAMMELLI M., I raccordi tra livelli istituzionali, Le istituzioni del federalismo, Regione e Governo Locale, 2001, novembre-dicembre, 1079.

 

[121] Così ID., Amministrazione di risultato, cit., 117. Nello stesso senso cfr. anche ID., Amministratori (e interpreti), cit., 1276; RUGGERI A., “Forme” e “tecniche” dell’unità, tra vecchio e nuovo regionalismo, in ID., “Itinerari” di una ricerca sul sistema delle fonti, VI, 1, Studi dell’anno 2002, Torino, 2003, 397 ss..

 

[122] Così SALA G., Sui caratteri dell’amministrazione comunale e provinciale dopo la riforma del Titolo V della Costituzione, in Le Regioni, 2004, 11 ss., 47-48, il quale parla efficacemente «di una complessa amministrazione, in senso oggettivo, costruita (…) con la disciplina procedimentale dei diversi processi decisionali, dimensionata, nelle sue articolazioni ai diversi livelli territoriali e nell’attribuzione delle relative funzioni, sulla dimensione degli interessi o l’entità delle risorse, finanziarie o tecniche, necessarie»(32). In tal senso cfr. anche BERTI G., Sussidiarietà e organizzazione dinamica, in Jus, n. 2/2004.