ds_gen N. 6 – 2007 – Contributi

 

casavolaMODERNO, POST-MODERNO, QUASI ANTICO: Costituzioni politiche, costituzioni civili, Ius gentium

 

Francesco Paolo Casavola

Presidente emerito della Corte Costituzionale

Presidente dell’Istituto della Enciclopedia Italiana

 

 

 

Il significato di questi termini, moderno e post-moderno, è molteplice e tende a stabilire limiti temporali alla vicenda della cultura occidentale, inevitabilmente legati alla diversità dei temi e problemi che ci si propone di analizzare: lo Stato, la religione, la filosofia, la scienza, la mentalità collettiva.

Per un profilo di massima approssimazione e comprensività si può dire che moderna è quella parte del tempo che ci appare del tutto fuori dall’antichità e dal medioevo ed è già nella seconda metà del Novecento conclusa nei suoi processi evolutivi, postmoderno è invece il nostro presente, di cui conosciamo l’origine ma di cui non percepiamo i fini e gli sviluppi futuri. Si usa chiamare in causa la globalizzazione in atto per indicare uno dei più evidenti contenuti del postmoderno. La facilità con cui si gioca con terminologie convenzionali, concetti e realtà consente di cercare precedenti alla globalizzazione nell’antichità con l’impero romano, nel medioevo con la cristianizzazione, nel mondo moderno con il Commonwealth britannico. Ma si possono contestare i modelli di questa diagnosi o trovarne altri ulteriori.

Per venire ai nostri tempi e tralasciando la polisemia che moderno e postmoderno svelano nella riflessione filosofica e nelle esperienze letterarie e artistiche, e in particolare dell’architettura, è centrale la visione del passaggio tra civiltà cristiana e postmodernità. Nella modernità la civiltà occidentale è attraversata dai processi di secolarizzazione che la privano progressivamente di quelle ispirazioni evangeliche con cui era stata costruita sin dall’antichità, ma in modo forte soprattutto nel medioevo. La societas cristiana si sfalda, i valori evangelici si fanno valori civili. Alla carità fraterna succede la solidarietà pubblica. Carl Schmitt enuncia il teorema che la moderna dottrina dello Stato si compone di concetti teologici secolarizzati. Il legislatore non può volere che il bene, perché ha preso il posto di Dio e ne ha ereditato i predicati. Certo, la secolarizzazione demitizza ed emancipa. In diritto penale il crimen lesae maiestatis non è più uno scontro con la divinità, è soltanto un attentato contro il Sovrano e lo Stato. La vita non è sottoposta a influenze e decisioni misteriose che ci vengono dall’aldilà. La conoscenza della realtà è empirica e razionale. Si allontana l’ombra dell’ignoto. Si costruisce con la ragione investigante e poi con la ragione strumentale un mondo illuminato. Le conoscenze sono destinate ad un progresso costante e coerente e guideranno il progresso della società, conducendo le generazioni a vivere una vita sempre più libera e felice. Nella modernità si svolgono le grandi utopie politiche del liberalismo e del socialismo. Si sono realizzate invenzioni e si sono fatte scoperte che hanno del tutto mutato la condizione umana rispetto ai molti millenni trascorsi dall’incivilimento della nostra specie.

L’uomo è andato sulla luna, invia astronauti nello spazio extraterrestre, sposta il proprio corpo a velocità superiori più volte a quella del suono, comunica in tempo reale da qualunque parte del globo. Eppure, egli non vince le cause cui più è legata la sua umanità, non vince l’ingiustizia, la disuguaglianza, la guerra. Continua a soffrire il disamore, l’abbandono, la solitudine. Può alleviare il dolore fisico, nulla può contro quello morale. Le tecnologie dei trasporti e delle comunicazioni gli consentono una relazionalità illimitata eppure così effimera e superficiale da non corrispondere alle domande di senso ch’egli rivolge alla vita propria e altrui. Qui si giunge alla frontiera del postmoderno. La globalizzazione rende con concretezza, nelle forme dell’economia come in quelle dell’organizzazione sociale, che l’uomo non può fondare le sue sicurezze su orizzonti limitati della famiglia, del paese d’origine, della patria. Il mondo è una patria. Ma con quanti popoli, e lingue e tradizioni e sensibilità e mentalità. Tutto quello che era perimetrato sul territorio dalla sovranità dello Stato ai diritti individuali, si dilata su tutta la terra. I diritti fondamentali ci seguono perché siamo esseri viventi della specie umana, non cittadini di questo o quello Stato.

L’internazionalismo su cui si fondava qualcuna delle utopie moderne, come quella socialista, dà luogo ad una sorta di cosmopolitismo sempre a rischio di degradare in una apolidia priva di ogni tutela.

Ma per rintracciare un percorso ben disegnato nel passaggio, e nel vasto paesaggio, della modernità, è utile muovere dalle costituzioni politiche, prodotto delle rivoluzioni liberali, americana e francese, sul finire del XVIII secolo. Nelle carte americane si muovono due soggetti, l’uomo e il popolo. La natura fa nascere gli uomini tutti egualmente liberi e indipendenti e entrando in stato di società essi portano con sé diritti innati, di cui non possono per convenzione spogliare la propria posterità. Tali diritti sono il godimento della vita, della libertà, l’acquisto e il possesso della proprietà, il perseguire e ottenere felicità e sicurezza. Di faccia a questa sfera di libertà degli individui, il popolo ha il potere. Il contenuto del potere è la elezione di un governo che assicuri felicità e sicurezza agli individui. Se i servitori del popolo non realizzano questo scopo, la maggioranza della comunità ha un indubitabile, inalienabile, indefettibile diritto di riformare, mutare o abolire la costituzione per avere un governo che meglio conduca al bene pubblico.

Nel decennio 1776-1787, ricorre nelle carte costituzionali americane questo deuteragonismo di società e Stato, di individuo e comunità, di popolo e governo. Nella costituzione del New Hamphire del 1784, l’art. XXXVIII contiene addirittura un canone pedagogico per tenere in equilibrio libertà individuale e buon governo:

 

«Un riferimento frequente ai principî fondamentali della costituzione, e una aderenza costante alla giustizia, alla moderazione, alla temperanza, all’industria, alla frugalità e a tutte le virtù sociali, sono indispensabilmente necessarie per preservare il beneficio della libertà e di un buon governo; il popolo deve, perciò: avere un particolare riguardo a tutti questi principî nella scelta dei suoi ufficiali e rappresentanti, ed esso ha diritto di chiedere dai legislatori e magistrati una osservanza esatta e costante di quei principî nella formazione ed esecuzione delle leggi, necessarie per la buona amministrazione del governo».

 

Nelle carte francesi, invece, malgrado l’enfatico titolo della Declaration des droits de l’homme et du citoyen del 1789, il protagonista è la legge, espressione della volontà generale.

La legge vieta le azioni nocive alla società e la libertà consiste nel poter fare tutto ciò che non nuoce ad altri.

Tra le due rive dell’Atlantico si avverte una diversa declinazione della libertà. In America prevalgono le mete concrete della libertà individuale fino alla ricerca della felicità; in Europa la libertà si fonda sulla massima: «Non fare agli altri ciò che non vuoi che sia fatto a te», com’è scritto nel 2° comma dell’art. 5 della Declarations des droits de l’homme del 29 maggio 1793.

In Francia sembra prevalere la logica negativa del divieto. L’art. 8 della Dichiarazione citata è per questo aspetto esemplare:

 

«La conservazione della libertà dipende dalla sottomissione alla legge. Tutto ciò che non è proibito dalla legge non può essere impedito, e nessuno può essere costretto a fare ciò che essa non ordina».

 

E’ evidente che i rivoluzionari francesi, cioè il Terzo Stato, cioè la Nazione, come dimostrava, proprio nel 1789, l’Abbé Sieyès[1], sono in cerca di un nuovo sovrano da porre in luogo del Re e lo trovano nella legge. L’arbitrio del monarca assoluto è sostituito dalla volontà generale, che vieta le azioni nocive. All’ombra della legge, gli individui si ispirano ad una morale del non nocumento e chiamano questa organizzazione, di legge generale e di morale personale, libertà.

Una uscita dalla logica del divieto appare nella Costituzione del 5 febbraio anno III (22 agosto 1795) nella quale, all’art. 3 dei doveri, si legge:

 

«tutti i doveri dell’uomo e del cittadino derivano da questi due principî, impressi dalla natura in tutti i cuori: - Non fate agli altri ciò che non vorreste che sia fatto a voi stessi; fate costantemente agli altri il bene che vorreste riceverne».

 

Questa costituzione costruisce il modello del buon cittadino su concrete figure sociali. All’art. 4 è scritto:

 

«Nessuno è buon cittadino se non è buon figlio, buon padre, buon fratello, buon amico, buono sposo».

 

Qui vediamo operare la logica del bene, non quella del divieto. La Costituzione si specchia nella società degli uomini buoni, nella filialità, nella paternità, nella fratellanza, nell’amicizia, nel coniugio di uomini che in questi ruoli affettuosi danno e ricevono bene. Mai, nessuna costituzione è scesa con tanta concretezza nelle viscere di quella politica che Aristotele presentava come la vita buona degli uomini. A questo punto anche la legge si interiorizza e anima gli uomini buoni. L’art. 5 ammonisce:

 

«Nessuno è uomo perbene, se non è francamente e religiosamente osservante delle leggi».

 

Siamo a quell’ubbidienza col cuore, presentata da Rousseau come fondamento di una religione civile. Ma se Rousseau tendeva in tal modo a ripristinare la libertà dell’uomo interiorizzando la legge, per superare l’artificiosità oppressiva dello Stato, nell’economia generale del costituzionalismo francese, la legge restava il vero sovrano.

Ne è prova la diversa posizione della libertà di stampa negli Stati Uniti e in Francia.

Il primo emendamento della costituzione federale del 1787, approvato nel 1791, vietò al Congresso di legiferare in materia di stampa. In Francia la questione è ben chiarita nell’art. 8 della Dichiarazione dei diritti dei Francesi e dei principî fondamentali della loro costituzione del 1815:

 

«La libertà di stampa è inviolabile. Nessuno scritto può essere sottomesso a una previa censura. Le leggi determinano quali sono gli abusi della stampa abbastanza gravi per essere qualificati crimini o delitti. Sono repressi, secondo i diversi gradi di gravità, con le pene, la cui severità sarà graduata dal giudizio dei giurati».

 

Ma a mano a mano che ci si allontana dalle rivoluzioni liberali le costituzioni si caratterizzano meno per i cataloghi dei diritti e doveri dell’uomo e del cittadino e più per l’ordinamento dei poteri dello Stato. Lo stesso carattere pattizio, che si vuole impresso nelle costituzioni, è più evidente nelle forme di monarchia, per le quali il sovrano già assoluto giura di osservare il patto con il popolo, piuttosto che nelle repubbliche, in cui semmai è riflessa l’ideologia del contratto sociale, che postula il mito del passaggio dallo stato di natura a quello di società. Nel Novecento la costituzione bolscevica e quelle sovietiche che le succedono sono un programma politico, non un bill of rights o una legge fondamentale. E quanto all’Italia e alla Germania, con il fascismo e il nazionalsocialismo, l’ordinamento costituzionale è quello dello Stato totalitario, in cui l’individuo è assorbito e annientato nella volontà e nei fini del partito unico e dello Stato di cui il partito si è impossessato e in cui si identifica. In Germania perfino la legge è assoggettata al Führersprinzip.

Dopo il secondo conflitto mondiale, il costituzionalismo torna a ripartire dagli individui umani e con più radicalità che non fosse stata quelle delle costituzioni tardo-settecentesche.

La Dichiarazione universale dei diritti umani, approvata dalle Nazioni Unite nel 1948, ha come suo antefatto non una rivoluzione nazionale, quale furono quelle liberali, ma 56 milioni di vittime della guerra che aveva devastato il pianeta, l’ultimo tragico dono dei popoli occidentali a se stessi e al genere umano. La Dichiarazione universale, al di là del catalogo dei diritti, ha uno specifico messaggio. Annunzia la stagione del tramonto della missione dello Stato di massimo ed unico protettore dell’uomo, della sua vita, delle sue libertà, dei suoi diritti. Gli Stati avevano perfino perpetrato genocidi tra i propri cittadini. L’istanza di tutela passava ora alle Nazioni Unite che non sono una alleanza di Stati, ma virtualmente il governo mondiale del genere umano. La Dichiarazione universale è la più radicale contestazione della sovranità dello Stato in ordine alla protezione degli esseri umani.

Ecco dov’è la distanza e la ontologica differenza tra i diritti dell’uomo e del cittadino delle rivoluzioni settecentesche e i diritti umani della Dichiarazione novecentesca. Per quelli lo Stato si faceva garante che i cittadini conservassero i diritti di cui erano titolari nel mitico stato di natura. Qui i diritti prescindono da nazionalità e cittadinanza così come da una condizione naturale. Ineriscono agli esseri umani in quanto dotati di volontà e di coscienza. Nella commissione, presieduta da Eleanor Roosevelt, che preparava il testo della Dichiarazione universale si discusse se quella dotazione provenisse da Dio o dalla natura. Si preferì restare alla constatazione che in quella endiadi di volontà e coscienza si manifesta la dignità dell’uomo.

La dignità stava diventando il bene costituzionale supremo. La Grundgesetz del 1949 si apre con l’art. 1, Absatz 1:

 

«La dignità dell’uomo è intangibile. E’ dovere di ogni potere statale rispettarla e proteggerla».

 

Per avere una ragione storica di quell’incipit della costituzione tedesca basta pensare alla Germania nazista nella quale la dignità umana era stata calpestata più che in ogni altro luogo del mondo. Ma la ispirazione cristiana del preambolo di quella costituzione può lasciare immaginare il lungo cammino della dignità nella cultura occidentale a partire dalla orazione De dignitate hominis di Pico della Mirandola, nella quale la dignità è stabilita da Dio stesso, che creando tutto l’Universo lascia l’uomo totalmente libero e responsabile. Se il fondamento dei diritti umani è ora la dignità siamo ben oltre le declarations e i bills of rights dell’inizio dei tempi moderni. La Carta di Nizza del 2000 proclama i diritti fondamentali dei cittadini europei, che il Trattato costituente per l’Europa, ratificato nel 2004, accoglie in sé come propria parte II. Non per caso i costituzionalisti sottolineano l’anomalia di una costituzione che non nasce dalla sovranità di una Assemblea costituente, ma da un trattato. La logica della costituzione nazionale e della sovranità popolare non è più la fonte adeguata per diritti che trovano origine nella dignità umana e riconoscimento e garanzia in istanze che superano la dimensione della statualità, le Nazioni Unite, la sovranazione Unione Europea.

I diritti umani pongono un duplice ordine di problemi: le garanzie forti per la loro violazione, in termini giurisdizionali o di sanzioni economiche; le attività di promozione o di controllo per il loro concreto esercizio. Nell’un caso e nell’altro si valicano i confini delle frontiere politiche. Ma ciò non significa tuttavia che lo Stato stia per sparire. E’ l’idea della sovranità assoluta, che la modernità ha ricevuto dall’età antica e medievale, traslandola dalla persona del sovrano allo spazio del dominio territoriale e, in Occidente, dell’insediamento nazionale, che la post-modernità ha messo in crisi. Lo spazio globale ha imposto a quelle proprietà esclusive e isolate ch’erano gli Stati di diventare dei condominî. La metafora è efficace se la si anima, come in una recente analisi di Sabino Cassese[2], dei numeri: circa 200 gli Stati, 2000 le organizzazioni internazionali governative, 44 mila quelle non governative. La morfologia di questo organismo non consiste nei due livelli, globale e statale. Tra Stati e agenzie globali corrono linee orizzontali, che sempre più frequentemente hanno per destinazione le società civili interne a ciascuno Stato senza bisogno di ottenere intermediazione dai poteri statali. Nella organizzazione globale in assenza di verticalità e di gerarchia non ci sono corpi di regole generali comparabili con le costituzioni o le codificazioni nazionali. La governance globalizzata, che è sempre governance per settori di attività e di risorse e di soggetti in essi implicati, forse non è legibus soluta, se è plausibile che una residuale Rule of Law sia da individuare in garanzie di trasparenza, di obbligo di motivazione, di riesame giurisdizionale delle decisioni, presenti in ogni corpo di regole di settore.

Più incerta è la prospettiva di guadagnare un complesso unitario di principî e di precetti che somigliando ad una Costituzione possa intelare tutte le frammentazioni dell’organismo globale. Seguendo ancora le constatazioni di Cassese, una costituzione globale non potrà mai essere pattizia, nel senso, che abbiamo descritto, della ideologia moderna del contratto sociale, vale a dire del factum societatis e del factum subiectionis, che stringono tra loro i cittadini in alleanza e in obbedienza verso il potere da essi costituito. Dovrebbe essere una costituzione convenuta tra gli Stati, che legittimano poteri pubblici globali, i quali peraltro cercheranno per gli atti del loro esercizio il consenso di parlamenti globali, e dunque in grado indiretto delle popolazioni locali. Il che apre la questione della democrazia globale e della sua importazione da Stato a Stato.

Questa partita è tuttora, anche nelle costruzioni teoriche, a mosse ed esiti incerti.

Ma c’è un altro aspetto della globalizzazione. I mercati hanno una forza che soverchia quella dei centri di decisione politica, nazionali e internazionali. Le regole delle grandi transazioni commerciali e in genere delle attività economiche non trovano origine nei diritti nazionali, ma in accordi privati, che elaborati in studî di professionisti di riconosciuta competenza tendono a costituire una lex mercatoria universale.

Del pari il cyberspazio ha sollecitato la formazione di una lex electronica o digitalis di valenza universale estranea a fonti giuridiche statali.

Che destino avranno i diritti umani impliciti nel mondo dell’economia e della comunicazione fuori dalle garanzie costituzionali ancora fondate nella giuridicità internazionale e costituzionale?

La costituzionalizzazione della lex mercatoria e della lex digitalis, ma per la biomedicina di una lex salutis, e per altri settori della lex constructionis e della lex sportiva, risponderà all’ethos della dignità umana?

I privati che danno origine a questi corpora non faranno prevalere interessi mercatori, tecnologici, scientifici sulle ragioni dell’uomo, che nell’età moderna volle difendersi finanche dallo Stato, e oggi si trova, senza lo Stato, a doversi difendere dai privati, cioè dai propri simili? Il traguardo delle cosiddette costituzioni civili, come le chiama Gunther Teubner[3], è colmo di incognite, ancora più gravi di quelle cui abbiamo accennato per una costituzione politica globale.

Può perciò essere suggestivo il richiamo al quasi antico. La globalizzazione non è solo un processo storico connesso alla nostra contemporaneità. Con le dovute varianti, il mondo ha conosciuto fasi consimili. L’antichità, che pure connotava le proprie comunità più evolute come piccole città-Stato, poleis e civitates, ebbe consapevolezza di una civiltà giuridica comune a molti popoli. Insegnando ai suoi studenti nel II secolo d.C., Gaio descrive il diritto positivo, vigente presso ogni popolo, come costituito da due componenti, una originaria di quel popolo, ius civile, quasi ius proprium civitatis, quod populus ipse sibi constituit, l’altra detta ius gentium, perché vigente presso tutte le genti, quod vero naturalis ratio inter omnes homines constituit.

Se sgombriamo la mente dall’accezione europea di ius gentium come diritto internazionale, nonché dalle concettualizzazioni giusnaturalistiche della modernità, l’insegnamento gaiano si presenta rivelatore di un ordinamento storico positivo. La volontà di un popolo produce il ius civile, la naturalis ratio il diritto comune a tutto il genere umano. L’ordinamento giuridico di ogni popolo è contesto di ius civile e ius gentium. Una speculazione puramente dottrinale, in cerca forse di legittimazione metastorica per una giuridicità universale, aggiungerà al ius civile e al ius gentium quel ius naturale che la natura ha insegnato a tutti gli animali, quod omnia animalia natura docuit, come attestano le Istituzioni di Giustiniano[4].

La più costruita immaginazione storica del ius gentium, come ordinamento assolutamente originario, la dobbiamo ad Ermogeniano, il iurislator della età dioclezianea, su cui ha di recente richiamato la nostra attenzione Elio Dovere[5]. Il ius gentium ha introdotto le guerre regolari, in luogo evidentemente di scontri ferini, ha distinto le nazioni, ove prima convivevano branchi, ha fondato i regni, cioè lo Stato, ha istituito le proprietà, ha posto confini ai poderi, ha promosso le edificazioni, il commercio, i contratti di compravendita, di locazione  conduzione, le obbligazioni: salve quelle introdotte dal ius civile.

L’antico si scopre attraverso due vie, quella filologica e quella storiografica. La seconda deve saper porre le domande essenziali. E le domande essenziali sono suggerite dal presente. La globalizzazione ha qualche coincidenza con l’universalità del ius gentium? La risposta è no. Ma mai risposta negativa ha aperto, come questa, tanta luce. Il ius gentium è l’ingresso dell’umanità nella vita civile. Non è il passaggio mitico dallo stato di natura allo stato di società così controverso nel pensiero europeo. Lo stato di natura da Hobbes a Rousseau è l’uomo lupo e il buon selvaggio, talché non si saprebbe dire se i diritti innati sono salvaguardati dalle libertà politiche o sono privati della loro originaria illimitata libertà edenica.

Il ius gentium è l’uscita dal nomadismo, la terra viene appoderata e edificata (agris termini positi, aedificia collocata). Il ius gentium è l’uscita dalla indistinzione zoo-biologica e l’ingresso nelle identità culturali dei popoli (discretae gentes).

Il ius gentium è l’avvento dell’ordine politico (introducta bella, regna condita) e del diritto privato (dominia distincta, commercium).

Una tale evoluzione universale dell’umanità è guidata dalla ratio naturalis, che non è la ragione del creato o del Creatore (deus sive natura della tradizione cristiana) pedagoga di omnia animalia. E’ la comune ragionevolezza che ispira le stesse istituzioni inter omnes homines, secondo l’illuminato schema didattico di Gaio. Mentre il diritto della globalizzazione è una confusa tensione verso forme inedite, il ius gentium è il compiuto quadro genetico di una comune civiltà giuridica.

Gli istituti di ius gentium che vengono ricevuti negli ordinamenti differenziati dei vari popoli e Stati appartengono all’area delle relazioni commerciali. I contratti consensuali iuris gentium hanno fatto immaginare un ius gentium ridotto a lex mercatoria e meravigliare che potesse incontrarsi un diritto di famiglia e delle persone iuris gentium, pater senza potestas, regime della schiavitù. Nella formula combinatoria-partim suo proprio, partim communi omnium hominum iure utuntur - i contratti iuris gentium sono rappresentabili come delle invarianti, accolte e garantite nella tutela giurisdizionale del pretore romano, con quella formula dei iudicia bonae fidei, il cui nucleo – quod inter bonos homines agier oportet – attribuendo all’onestà dei commercianti – boni homines – la giustificazione della sua tutela, ci aiuta a svelare la natura ultima del ius gentium. Prima ancora che un diritto comune esso è la costituzione materiale di un ordinamento universale dei boni homines.

E’ come se il buon cittadino repubblicano della modernità francese abbia avuto nell’antichità un archetipo nel bonus homo con ben altro contesto di una cittadinanza mondiale.

La globalizzazione, come s’è visto, tendendo alla governance mondiale della società-mondo, per una compiuta e razionale giuridificazione avrebbe bisogno di una sua pur eteroclita costituzionalizzazione, che superi i termini potenzialmente conflittuali della duplicità di fonti normative, di poteri pubblici e di poteri e strapoteri privati. Senza di che, forse i boni homines evocheranno soltanto un luogo verbale della retorica antica: imago sine re.

 

 



 

[1] Emmanuel Joseph Sieyès, Qu’est-ce que le Tiers-Etat?, 1789, ora in Biblioteca Europea, Fondazione Feltrinelli 2003.

 

[2] Sabino Cassese, Oltre lo Stato, verso una costituzione globale?, Editoriale Scientifica 2006, 12; ma v. anche Id., Universalità del diritto, Editoriale Scientifica 2005.

 

[3] Gunther Teubner, La cultura del diritto nell’epoca della globalizzazione. L’emergere delle costituzioni civili, Armando Editore 2005.

 

[4] I, II, p. 2.

 

[5] Elio Dovere, De iure. L’esordio delle epitomi di Ermogeniano, Jovene Editore 2005.