MODERNO, POST-MODERNO, QUASI ANTICO: Costituzioni
politiche, costituzioni civili, Ius
gentium
Presidente emerito
della Corte Costituzionale
Presidente
dell’Istituto della Enciclopedia Italiana
Il significato di questi termini, moderno e post-moderno, è
molteplice e tende a stabilire limiti temporali alla vicenda della cultura
occidentale, inevitabilmente legati alla diversità dei temi e problemi
che ci si propone di analizzare: lo Stato, la religione, la filosofia, la
scienza, la mentalità collettiva.
Per un profilo di massima
approssimazione e comprensività si può dire che moderna è
quella parte del tempo che ci appare del tutto fuori
dall’antichità e dal medioevo ed è già nella seconda
metà del Novecento conclusa nei suoi processi evolutivi, postmoderno
è invece il nostro presente, di cui conosciamo l’origine ma di cui
non percepiamo i fini e gli sviluppi futuri. Si usa chiamare in causa la
globalizzazione in atto per indicare uno dei più evidenti contenuti del
postmoderno. La facilità con cui si gioca con terminologie
convenzionali, concetti e realtà consente di cercare precedenti alla
globalizzazione nell’antichità con l’impero romano, nel
medioevo con la cristianizzazione, nel mondo moderno con il Commonwealth
britannico. Ma si possono contestare i modelli di questa diagnosi o trovarne
altri ulteriori.
Per venire ai nostri tempi e
tralasciando la polisemia che moderno e postmoderno svelano nella riflessione
filosofica e nelle esperienze letterarie e artistiche, e in particolare
dell’architettura, è centrale la visione del passaggio tra
civiltà cristiana e postmodernità. Nella modernità la
civiltà occidentale è attraversata dai processi di
secolarizzazione che la privano progressivamente di quelle ispirazioni evangeliche
con cui era stata costruita sin dall’antichità, ma in modo forte
soprattutto nel medioevo. La societas
cristiana si sfalda, i valori evangelici si fanno valori civili. Alla
carità fraterna succede la solidarietà pubblica. Carl Schmitt
enuncia il teorema che la moderna dottrina dello Stato si compone di concetti
teologici secolarizzati. Il legislatore non può volere che il bene,
perché ha preso il posto di Dio e ne ha ereditato i predicati. Certo, la
secolarizzazione demitizza ed emancipa. In diritto penale il crimen lesae maiestatis non è
più uno scontro con la divinità, è soltanto un attentato
contro il Sovrano e lo Stato. La vita non è sottoposta a influenze e
decisioni misteriose che ci vengono dall’aldilà. La conoscenza
della realtà è empirica e razionale. Si allontana l’ombra
dell’ignoto. Si costruisce con la ragione investigante e poi con la
ragione strumentale un mondo illuminato. Le conoscenze sono destinate ad un
progresso costante e coerente e guideranno il progresso della società,
conducendo le generazioni a vivere una vita sempre più libera e felice.
Nella modernità si svolgono le grandi utopie politiche del liberalismo e
del socialismo. Si sono realizzate invenzioni e si sono fatte scoperte che
hanno del tutto mutato la condizione umana rispetto ai molti millenni trascorsi
dall’incivilimento della nostra specie.
L’uomo è andato sulla
luna, invia astronauti nello spazio extraterrestre, sposta il proprio corpo a
velocità superiori più volte a quella del suono, comunica in
tempo reale da qualunque parte del globo. Eppure, egli non vince le cause cui
più è legata la sua umanità, non vince
l’ingiustizia, la disuguaglianza, la guerra. Continua a soffrire il
disamore, l’abbandono, la solitudine. Può alleviare il dolore
fisico, nulla può contro quello morale. Le tecnologie dei trasporti e
delle comunicazioni gli consentono una relazionalità illimitata eppure
così effimera e superficiale da non corrispondere alle domande di senso
ch’egli rivolge alla vita propria e altrui. Qui si giunge alla frontiera
del postmoderno. La globalizzazione rende con concretezza, nelle forme
dell’economia come in quelle dell’organizzazione sociale, che
l’uomo non può fondare le sue sicurezze su orizzonti limitati
della famiglia, del paese d’origine, della patria. Il mondo è una
patria. Ma con quanti popoli, e lingue e tradizioni e sensibilità e
mentalità. Tutto quello che era perimetrato sul territorio dalla
sovranità dello Stato ai diritti individuali, si dilata su tutta la
terra. I diritti fondamentali ci seguono perché siamo esseri viventi
della specie umana, non cittadini di questo o quello Stato.
L’internazionalismo su cui si
fondava qualcuna delle utopie moderne, come quella socialista, dà luogo
ad una sorta di cosmopolitismo sempre a rischio di degradare in una apolidia
priva di ogni tutela.
Ma per rintracciare un percorso ben
disegnato nel passaggio, e nel vasto paesaggio, della modernità,
è utile muovere dalle costituzioni politiche, prodotto delle rivoluzioni
liberali, americana e francese, sul finire del XVIII secolo. Nelle carte
americane si muovono due soggetti, l’uomo e il popolo. La natura fa
nascere gli uomini tutti egualmente liberi e indipendenti e entrando in stato
di società essi portano con sé diritti innati, di cui non possono
per convenzione spogliare la propria posterità. Tali diritti sono il
godimento della vita, della libertà, l’acquisto e il possesso
della proprietà, il perseguire e ottenere felicità e sicurezza.
Di faccia a questa sfera di libertà degli individui, il popolo ha il
potere. Il contenuto del potere è la elezione di un governo che assicuri
felicità e sicurezza agli individui. Se i servitori del popolo non
realizzano questo scopo, la maggioranza della comunità ha un
indubitabile, inalienabile, indefettibile diritto di riformare, mutare o
abolire la costituzione per avere un governo che meglio conduca al bene
pubblico.
Nel decennio 1776-1787, ricorre nelle
carte costituzionali americane questo deuteragonismo di società e Stato,
di individuo e comunità, di popolo e governo. Nella costituzione del New
Hamphire del 1784, l’art. XXXVIII contiene addirittura un canone
pedagogico per tenere in equilibrio libertà individuale e buon governo:
«Un riferimento
frequente ai principî fondamentali della costituzione, e una aderenza
costante alla giustizia, alla moderazione, alla temperanza, all’industria,
alla frugalità e a tutte le virtù sociali, sono
indispensabilmente necessarie per preservare il beneficio della libertà
e di un buon governo; il popolo deve, perciò: avere un particolare
riguardo a tutti questi principî nella scelta dei suoi ufficiali e
rappresentanti, ed esso ha diritto di chiedere dai legislatori e magistrati una
osservanza esatta e costante di quei principî nella formazione ed
esecuzione delle leggi, necessarie per la buona amministrazione del
governo».
Nelle carte francesi, invece, malgrado
l’enfatico titolo della Declaration
des droits de l’homme et du citoyen del 1789, il protagonista
è la legge, espressione della volontà generale.
La legge vieta le azioni nocive alla
società e la libertà consiste nel poter fare tutto ciò che
non nuoce ad altri.
Tra le due rive dell’Atlantico
si avverte una diversa declinazione della libertà. In America prevalgono
le mete concrete della libertà individuale fino alla ricerca della
felicità; in Europa la libertà si fonda sulla massima: «Non
fare agli altri ciò che non vuoi che sia fatto a te»,
com’è scritto nel 2° comma dell’art. 5 della Declarations des droits de l’homme
del 29 maggio 1793.
In Francia sembra prevalere la logica
negativa del divieto. L’art. 8 della Dichiarazione
citata è per questo aspetto esemplare:
«La conservazione
della libertà dipende dalla sottomissione alla legge. Tutto ciò
che non è proibito dalla legge non può essere impedito, e nessuno
può essere costretto a fare ciò che essa non ordina».
E’ evidente che i rivoluzionari
francesi, cioè il Terzo Stato, cioè la Nazione, come dimostrava,
proprio nel 1789, l’Abbé Sieyès[1],
sono in cerca di un nuovo sovrano da porre in luogo del Re e lo trovano nella
legge. L’arbitrio del monarca assoluto è sostituito dalla
volontà generale, che vieta le azioni nocive. All’ombra della
legge, gli individui si ispirano ad una morale del non nocumento e chiamano
questa organizzazione, di legge generale e di morale personale, libertà.
Una uscita dalla logica del divieto
appare nella Costituzione del 5 febbraio anno III (22 agosto 1795) nella quale,
all’art. 3 dei doveri, si legge:
«tutti i doveri
dell’uomo e del cittadino derivano da questi due principî, impressi
dalla natura in tutti i cuori: - Non fate agli altri ciò che non
vorreste che sia fatto a voi stessi; fate costantemente agli altri il bene che
vorreste riceverne».
Questa costituzione costruisce il
modello del buon cittadino su concrete figure sociali. All’art. 4 è
scritto:
«Nessuno è
buon cittadino se non è buon figlio, buon padre, buon fratello, buon
amico, buono sposo».
Qui vediamo operare la logica del
bene, non quella del divieto. La Costituzione si specchia nella società
degli uomini buoni, nella filialità, nella paternità, nella
fratellanza, nell’amicizia, nel coniugio di uomini che in questi ruoli
affettuosi danno e ricevono bene. Mai, nessuna costituzione è scesa con
tanta concretezza nelle viscere di quella politica che Aristotele presentava
come la vita buona degli uomini. A questo punto anche la legge si interiorizza
e anima gli uomini buoni. L’art. 5 ammonisce:
«Nessuno è
uomo perbene, se non è francamente e religiosamente osservante delle
leggi».
Siamo a quell’ubbidienza col
cuore, presentata da Rousseau come fondamento di una religione civile. Ma se
Rousseau tendeva in tal modo a ripristinare la libertà dell’uomo
interiorizzando la legge, per superare l’artificiosità oppressiva
dello Stato, nell’economia generale del costituzionalismo francese, la
legge restava il vero sovrano.
Ne è prova la diversa posizione
della libertà di stampa negli Stati Uniti e in Francia.
Il primo emendamento della
costituzione federale del 1787, approvato nel 1791, vietò al Congresso di
legiferare in materia di stampa. In Francia la questione è ben chiarita
nell’art. 8 della Dichiarazione dei
diritti dei Francesi e dei principî fondamentali della loro costituzione
del 1815:
«La libertà
di stampa è inviolabile. Nessuno scritto può essere sottomesso a
una previa censura. Le leggi determinano quali sono gli abusi della stampa
abbastanza gravi per essere qualificati crimini o delitti. Sono repressi,
secondo i diversi gradi di gravità, con le pene, la cui severità
sarà graduata dal giudizio dei giurati».
Ma a mano a mano che ci si allontana
dalle rivoluzioni liberali le costituzioni si caratterizzano meno per i
cataloghi dei diritti e doveri dell’uomo e del cittadino e più per
l’ordinamento dei poteri dello Stato. Lo stesso carattere pattizio, che
si vuole impresso nelle costituzioni, è più evidente nelle forme
di monarchia, per le quali il sovrano già assoluto giura di osservare il
patto con il popolo, piuttosto che nelle repubbliche, in cui semmai è
riflessa l’ideologia del contratto sociale, che postula il mito del
passaggio dallo stato di natura a quello di società. Nel Novecento la
costituzione bolscevica e quelle sovietiche che le succedono sono un programma
politico, non un bill of rights o una
legge fondamentale. E quanto all’Italia e alla Germania, con il fascismo
e il nazionalsocialismo, l’ordinamento costituzionale è quello
dello Stato totalitario, in cui l’individuo è assorbito e
annientato nella volontà e nei fini del partito unico e dello Stato di
cui il partito si è impossessato e in cui si identifica. In Germania
perfino la legge è assoggettata al Führersprinzip.
Dopo il secondo conflitto mondiale, il
costituzionalismo torna a ripartire dagli individui umani e con più
radicalità che non fosse stata quelle delle costituzioni tardo-settecentesche.
La Dichiarazione
universale dei diritti umani, approvata dalle Nazioni Unite nel
Ecco dov’è la distanza e
la ontologica differenza tra i diritti dell’uomo e del cittadino delle rivoluzioni
settecentesche e i diritti umani della Dichiarazione
novecentesca. Per quelli lo Stato si faceva garante che i cittadini
conservassero i diritti di cui erano titolari nel mitico stato di natura. Qui i
diritti prescindono da nazionalità e cittadinanza così come da
una condizione naturale. Ineriscono agli esseri umani in quanto dotati di
volontà e di coscienza. Nella commissione, presieduta da Eleanor
Roosevelt, che preparava il testo della Dichiarazione
universale si discusse se quella dotazione provenisse da Dio o dalla
natura. Si preferì restare alla constatazione che in quella endiadi di
volontà e coscienza si manifesta la dignità dell’uomo.
La dignità stava diventando il
bene costituzionale supremo.
«La dignità
dell’uomo è intangibile. E’ dovere di ogni potere statale
rispettarla e proteggerla».
Per avere una ragione storica di
quell’incipit della
costituzione tedesca basta pensare alla Germania nazista nella quale la
dignità umana era stata calpestata più che in ogni altro luogo
del mondo. Ma la ispirazione cristiana del preambolo di quella costituzione
può lasciare immaginare il lungo cammino della dignità nella
cultura occidentale a partire dalla orazione De dignitate hominis di Pico della Mirandola, nella quale la
dignità è stabilita da Dio stesso, che creando tutto
l’Universo lascia l’uomo totalmente libero e responsabile. Se il
fondamento dei diritti umani è ora la dignità siamo ben oltre le declarations e i bills of rights dell’inizio dei tempi moderni.
I diritti umani pongono un duplice
ordine di problemi: le garanzie forti per la loro violazione, in termini
giurisdizionali o di sanzioni economiche; le attività di promozione o di
controllo per il loro concreto esercizio. Nell’un caso e nell’altro
si valicano i confini delle frontiere politiche. Ma ciò non significa
tuttavia che lo Stato stia per sparire. E’ l’idea della sovranità
assoluta, che la modernità ha ricevuto dall’età antica e
medievale, traslandola dalla persona del sovrano allo spazio del dominio
territoriale e, in Occidente, dell’insediamento nazionale, che la
post-modernità ha messo in crisi. Lo spazio globale ha imposto a quelle
proprietà esclusive e isolate ch’erano gli Stati di diventare dei
condominî. La metafora è efficace se la si anima, come in una
recente analisi di Sabino Cassese[2],
dei numeri: circa 200 gli Stati, 2000 le organizzazioni internazionali governative,
44 mila quelle non governative. La morfologia di questo organismo non consiste
nei due livelli, globale e statale. Tra Stati e agenzie globali corrono linee
orizzontali, che sempre più frequentemente hanno per destinazione le
società civili interne a ciascuno Stato senza bisogno di ottenere
intermediazione dai poteri statali. Nella organizzazione globale in assenza di
verticalità e di gerarchia non ci sono corpi di regole generali
comparabili con le costituzioni o le codificazioni nazionali. La governance globalizzata, che è
sempre governance per settori di
attività e di risorse e di soggetti in essi implicati, forse non
è legibus soluta, se è
plausibile che una residuale Rule of Law
sia da individuare in garanzie di trasparenza, di obbligo di motivazione, di
riesame giurisdizionale delle decisioni, presenti in ogni corpo di regole di
settore.
Più incerta è la
prospettiva di guadagnare un complesso unitario di principî e di precetti
che somigliando ad una Costituzione possa intelare tutte le frammentazioni
dell’organismo globale. Seguendo ancora le constatazioni di Cassese, una
costituzione globale non potrà mai essere pattizia, nel senso, che
abbiamo descritto, della ideologia moderna del contratto sociale, vale a dire
del factum societatis e del factum subiectionis, che stringono tra
loro i cittadini in alleanza e in obbedienza verso il potere da essi
costituito. Dovrebbe essere una costituzione convenuta tra gli Stati, che
legittimano poteri pubblici globali, i quali peraltro cercheranno per gli atti del
loro esercizio il consenso di parlamenti globali, e dunque in grado indiretto
delle popolazioni locali. Il che apre la questione della democrazia globale e
della sua importazione da Stato a Stato.
Questa partita è tuttora, anche
nelle costruzioni teoriche, a mosse ed esiti incerti.
Ma c’è un altro aspetto
della globalizzazione. I mercati hanno una forza che soverchia quella dei
centri di decisione politica, nazionali e internazionali. Le regole delle
grandi transazioni commerciali e in genere delle attività economiche non
trovano origine nei diritti nazionali, ma in accordi privati, che elaborati in
studî di professionisti di riconosciuta competenza tendono a costituire
una lex mercatoria universale.
Del pari il cyberspazio ha sollecitato
la formazione di una lex electronica
o digitalis di valenza universale
estranea a fonti giuridiche statali.
Che destino avranno i diritti umani
impliciti nel mondo dell’economia e della comunicazione fuori dalle
garanzie costituzionali ancora fondate nella giuridicità internazionale
e costituzionale?
La costituzionalizzazione della lex mercatoria e della lex digitalis, ma per la biomedicina di
una lex salutis, e per altri settori
della lex constructionis e della lex sportiva, risponderà
all’ethos della dignità
umana?
I privati che danno origine a questi corpora non faranno prevalere interessi
mercatori, tecnologici, scientifici sulle ragioni dell’uomo, che
nell’età moderna volle difendersi finanche dallo Stato, e oggi si
trova, senza lo Stato, a doversi difendere dai privati, cioè dai propri
simili? Il traguardo delle cosiddette costituzioni civili, come le chiama
Gunther Teubner[3],
è colmo di incognite, ancora più gravi di quelle cui abbiamo
accennato per una costituzione politica globale.
Può perciò essere suggestivo
il richiamo al quasi antico. La globalizzazione non è solo un processo
storico connesso alla nostra contemporaneità. Con le dovute varianti, il
mondo ha conosciuto fasi consimili. L’antichità, che pure
connotava le proprie comunità più evolute come piccole
città-Stato, poleis e civitates, ebbe consapevolezza di una
civiltà giuridica comune a molti popoli. Insegnando ai suoi studenti nel
II secolo d.C., Gaio descrive il diritto positivo, vigente presso ogni popolo,
come costituito da due componenti, una originaria di quel popolo, ius civile, quasi ius proprium civitatis, quod
populus ipse sibi constituit, l’altra detta ius gentium, perché vigente presso tutte le genti, quod vero naturalis ratio inter omnes
homines constituit.
Se sgombriamo la mente
dall’accezione europea di ius
gentium come diritto internazionale, nonché dalle
concettualizzazioni giusnaturalistiche della modernità,
l’insegnamento gaiano si presenta rivelatore di un ordinamento storico
positivo. La volontà di un popolo produce il ius civile, la naturalis
ratio il diritto comune a tutto il genere umano. L’ordinamento
giuridico di ogni popolo è contesto di ius civile e ius gentium.
Una speculazione puramente dottrinale, in cerca forse di legittimazione
metastorica per una giuridicità universale, aggiungerà al ius civile e al ius gentium quel ius naturale
che la natura ha insegnato a tutti gli animali, quod omnia animalia natura docuit, come attestano le Istituzioni di Giustiniano[4].
La più costruita immaginazione
storica del ius gentium, come
ordinamento assolutamente originario, la dobbiamo ad Ermogeniano, il iurislator della età
dioclezianea, su cui ha di recente richiamato la nostra attenzione Elio Dovere[5].
Il ius gentium ha introdotto le
guerre regolari, in luogo evidentemente di scontri ferini, ha distinto le
nazioni, ove prima convivevano branchi, ha fondato i regni, cioè lo
Stato, ha istituito le proprietà, ha posto confini ai poderi, ha
promosso le edificazioni, il commercio, i contratti di compravendita, di
locazione conduzione, le
obbligazioni: salve quelle introdotte dal ius
civile.
L’antico si scopre attraverso
due vie, quella filologica e quella storiografica. La seconda deve saper porre
le domande essenziali. E le domande essenziali sono suggerite dal presente. La globalizzazione
ha qualche coincidenza con l’universalità del ius gentium? La risposta è no. Ma mai risposta negativa ha
aperto, come questa, tanta luce. Il ius
gentium è l’ingresso dell’umanità nella vita
civile. Non è il passaggio mitico dallo stato di natura allo stato di
società così controverso nel pensiero europeo. Lo stato di natura
da Hobbes a Rousseau è l’uomo lupo e il buon selvaggio,
talché non si saprebbe dire se i diritti innati sono salvaguardati dalle
libertà politiche o sono privati della loro originaria illimitata
libertà edenica.
Il ius
gentium è l’uscita dal nomadismo, la terra viene appoderata e
edificata (agris termini positi, aedificia collocata). Il ius gentium è l’uscita
dalla indistinzione zoo-biologica e l’ingresso nelle identità culturali
dei popoli (discretae gentes).
Il ius
gentium è l’avvento dell’ordine politico (introducta bella, regna condita) e del diritto privato (dominia distincta, commercium).
Una tale evoluzione universale
dell’umanità è guidata dalla ratio naturalis, che non è la ragione del creato o del
Creatore (deus sive natura della
tradizione cristiana) pedagoga di omnia
animalia. E’ la comune ragionevolezza che ispira le stesse
istituzioni inter omnes homines,
secondo l’illuminato schema didattico di Gaio. Mentre il diritto della
globalizzazione è una confusa tensione verso forme inedite, il ius gentium è il compiuto quadro
genetico di una comune civiltà giuridica.
Gli istituti di ius gentium che vengono ricevuti negli ordinamenti differenziati
dei vari popoli e Stati appartengono all’area delle relazioni
commerciali. I contratti consensuali iuris
gentium hanno fatto immaginare un ius
gentium ridotto a lex mercatoria
e meravigliare che potesse incontrarsi un diritto di famiglia e delle persone iuris gentium, pater senza potestas,
regime della schiavitù. Nella formula combinatoria-partim suo
proprio, partim communi omnium
hominum iure utuntur - i contratti iuris
gentium sono rappresentabili come delle invarianti, accolte e garantite
nella tutela giurisdizionale del pretore romano, con quella formula dei iudicia bonae fidei, il cui nucleo
– quod inter bonos homines agier
oportet – attribuendo all’onestà dei commercianti
– boni homines – la
giustificazione della sua tutela, ci aiuta a svelare la natura ultima del ius gentium. Prima ancora che un diritto
comune esso è la costituzione materiale di un ordinamento universale dei
boni homines.
E’ come se il buon cittadino
repubblicano della modernità francese abbia avuto
nell’antichità un archetipo nel bonus homo con ben altro contesto di una cittadinanza mondiale.
La globalizzazione, come
s’è visto, tendendo alla governance
mondiale della società-mondo, per una compiuta e razionale
giuridificazione avrebbe bisogno di una sua pur eteroclita
costituzionalizzazione, che superi i termini potenzialmente conflittuali della
duplicità di fonti normative, di poteri pubblici e di poteri e
strapoteri privati. Senza di che, forse i boni
homines evocheranno soltanto un luogo verbale della retorica antica: imago sine re.
[1] Emmanuel
Joseph Sieyès, Qu’est-ce
que le Tiers-Etat?, 1789, ora in Biblioteca Europea, Fondazione Feltrinelli 2003.
[2] Sabino
Cassese, Oltre lo Stato, verso una
costituzione globale?, Editoriale Scientifica 2006, 12; ma v. anche Id., Universalità del diritto, Editoriale Scientifica 2005.
[3] Gunther
Teubner, La cultura del diritto
nell’epoca della globalizzazione. L’emergere delle costituzioni
civili, Armando Editore 2005.