N. 5 – 2006 – Tradizione
Romana
Università di Warmia e Masuria
Olsztyn
Sommario:
1. Introduzione.
– 2. Revisione della letteratura e delle fonti.
– 3. L’ambito oggettivo del delitto. –
4. L’ambito soggettivo del delitto. –
5. L’organo giudiziario e la procedura.
– 6. Le
sanzioni. – 7. Conclusione.
Fin dall’inizio della sua esistenza il cristianesimo è una
religione che si caratterizza per l’organizzazione della vita sociale in
base al sistema dei valori evangelici. Tra questi un significato rilevante
assume la virtù della castità, intesa come verginità o
più semplicemente come moderazione delle passioni sessuali[1].
In questa ottica una particolare attenzione è rivolta alla condotta di
vita delle donne dedicate a Dio. Infatti, in base alla diversa funzione
all’interno della società cristiana, esse si possono distinguere
in tre categorie: le vergini, le vedove e le diaconesse. Le vergini rappresentavano simbolicamente lo stato degli uomini
che avrebbero ottenuto la salvezza[2],
poiché nel regno dei cieli non sarebbe stato più possibile
sposarsi. Le vedove nei primi anni del cristianesimo avevano ottenuto una nuova
posizione nella società, corrispondente alla cura
dell’attività caritatevole – coetus viduarum[3]. La terza categoria era costituita dalle
diaconesse: le donne impegnate nell’evangelizzazione e nelle opere
caritatevoli – consortium diaconissarum[4].
Va chiarito però che solamente le vergini e le vedove potevano diventare
diaconesse, perciò è corretto parlare dell’esistenza di uno
stato - ordo – delle vergini e delle vedove all’interno
della struttura del cristianesimo originario[5].
Lo sviluppo del cristianesimo si accompagna anche all’evoluzione
delle istituzioni delle vergini, delle vedove e delle diaconesse verso
compiti sempre più distinti. Così le regolamentazioni riguardanti
queste tre categorie si sono sviluppate prima nella legislazione dei sinodi,
ispirata soprattutto ai Padri della chiesa, solo in un secondo momento anche
nella legislazione statale. Molto spesso è avvenuta la semplice
ricezione della legislazione ecclesiastica nell’ordinamento statale[6].
Una delle materie regolate dagli imperatori romani trattava il fenomeno dei
rapimenti delle donne che svolgevano una funzione particolare nella
società cristiana e proprio questa questione sarà approfondita
nel presente articolo.
Nella letteratura patristica e romanistica è molto difficile trovare
dei lavori dedicati esclusivamente al problema del rapimento delle donne
dedicate a Dio, poiché solo a margine della discussione di altre
questioni si è fatto riferimento a quella casistica. Così, per
esempio, J.-U. Krause[7]
si è occupato del problema del rapimento delle donne dedicate a Dio in
occasione della discussione della situazione giuridica delle vedove nel periodo
dell’Impero Romano. Tra gli altri autori che si sono occupati della
suddetta questione si deve menzionare ancora S. Puliatti[8].
Il delitto di rapimento delle donne era conosciuto già nel periodo
classico del diritto romano, senza però la specificazione dei gruppi
particolari in relazione al loro status
sociale e senza attribuire un rilievo particolare allo scopo del rapimento[9].
Invece nella legislazione della Chiesa per la prima volta troviamo una tutela
giuridica specifica per alcune categorie di donne, le vedove e le vergini: un
chiaro segnale della speciale posizione che rivestono queste due categorie
all’interno della società cristiana originaria. Infatti è
proprio il delitto del rapimento delle vergini e delle vedove a venire
sanzionato originariamente dalla legislazione interna della Chiesa, cioè
dalle norme stabilite dai sinodi.
La prima disciplina con il fine di tutelare le vergini e le vedove la
troviamo nel can. 11[10]
del Sinodo di Ankara del 314 d.C., successivamente nel can. 27 del Sinodo di
Calcedonia del 451 d.C. Il rapimento delle donne fu oggetto anche delle
prescrizioni dei c.d. Sinodi di Gallia[11].
Anche nei lavori dei Padri della Chiesa si trovano molteplici discussioni
riguardanti il rapimento delle donne, per esempio negli scritti di San Basilio
da Cesarea.
La ricezione delle norme dei sinodi nel diritto laico avvenne sotto il
dominio di Costantino Magno, a partire da una costituzione del 1 aprile 320
d.C.[12].
Le costituzioni successive riguardanti questa materia furono emesse sotto il
dominio di Constanzo[13]
e di Valentiniano I[14].
Dette costituzioni sono state poi inserite nel Codice Teodosiano, nel titolo De
raptu virginum vel viduarum.
Nello stesso codice appare anche un nuovo titolo, De raptu vel
matrimonio sanctimonialium virginum vel viduarum, concernente tanto il
rapimento della donna dedicata a Dio, quanto la possibilità di sposarla.
Il segno di una nuova prospettiva rispetto al diritto romano classico, che
arricchisce la casistica sotto il profilo dell’oggetto e del soggetto
dell’atto. Infatti non si parla più del semplice rapimento della
donna, ma si specificano due categorie di donne, le vergini e le vedove dedicate
a Dio, che si vedono in questo modo riconosciuto e istituzionalizzato un
particolare status, diverso da
quello di tutte le altre. Dal punto di vista dell’oggetto
dell’atto non si tratta più solamente del rapimento a scopo
– spesso - di meretricio, ma si prevede anche il fine di sposare la
vergine o la vedova, con o senza la sua volontà.
Sotto la rubrica De raptu vel matrimonio sanctimonialium virginum vel
viduarum si trovano tre costituzioni: la prima emessa il 22 settembre del
354 d.C. da Costanzo[15],
nella quale si parla della severità per punire l’autore del
rapimento della vergine dedicata a Dio; la seconda, emessa il 19 febbraio del
364 d.C. dall’imperatore Gioviano[16],
prevede la pena anche per il tentativo di sposare la donna dedicata a Dio;
nella terza costituzione emessa l’8 marzo del 420 d.C.
dall’imperatore Onorio, si parla delle pene aggiuntive per il rapitore.
Nel Codice giustinianeo troviamo un solo titolo, De raptu virginum seu
viduarum nec non sanctimonialium[17],
nel quale compare il testo di una costituzione dello stesso Giustiniano, emessa
nel 533 d.C. Si tratta di una compilazione di precedenti costituzioni, che
disciplina unitariamente il rapimento sia delle vergini e delle vedove in
generale, sia di quelle in particolare che sono dedicate a Dio – Quae
de sactimonialibus etiam virginibus et viduis locum habere sancimus[18].
Il testo della nuova costituzione, pur riprendendone il contenuto, abroga
la legislazione anteriore:
C. 9.13.1.5 Iust.: Omnibus legis Iuliae capitulis, quae de
raptu virginum vel viduarum seu sanctimonialium sive antiquis legum libris sive
in sacris constitutionibus posita sunt, de cetero abolitis, ut haec tantummodo
lex in hoc capite pro omnibus sufficiat.
L’analisi di questa costituzione nella letteratura romanistica
è opera di R. Bonini[19].
Mentre si prescrive l’abrogazione di tutte le regolamentazioni anteriori
relative al rapimento delle donne, in particolare delle vedove e delle vergini,
è evidente come l’imperatore operi un leggero mutamento delle
stesse, modificandone la terminologia per l’influenza del cristianesimo.
Infatti si menzionano alcune disposizioni normative di Augusto, anch’esse
concernenti il rapimento delle vergini e delle vedove dedicate a Dio - quae de raptu virginum vel viduarum seu
sanctimonialium, mentre in queste leggi non si trattava di
questa materia. Probabilmente le disposizioni che stabilivano il divieto di
sposare la donna dedicata a Dio presentavano delle analogie con quelle,
risalenti al periodo anteriore all’affermazione del cristianesimo,
relative al divieto di sposare le vestali[20].
Il frammento conserva comunque la sua importanza perché esprime il
proposito di Giustiniano di riconoscere efficacia vincolante soltanto alla
nuova disciplina da lui stesso emanata nel 533 d.C.
L’oggetto del delitto consiste nel rapimento delle donne dedicate a
Dio. Già nel diritto romano classico il rapimento della donna
rappresentava un illecito penale, ma nella fattispecie giustinianea si
configura il delitto in forma qualificata, sconosciuta fino a quel momento,
cioè il rapimento delle donne dedicate a Dio, le vergini e le vedove.
Come si è anticipato la prima regolamentazione riguardante il rapimento
delle vergini fu una costituzione di Costantino Magno, mentre risale al periodo
del dominio del figlio Costanzo la previsione riguardante la forma qualificata
del rapimento relativa alle vergini e alle vedove dedicate a Dio[21].
Dalle rubriche del Codice Teodosiano e del Codice giustinianeo sembra che
il rapimento riguardasse esclusivamente le vergini e le vedove, invece dal
frammento di un’altra costituzione giustinianea, inserita in C. 1.3.53(54)pr. sotto il titolo De
episcopis et clericis et orphanotrophis et brephotrophis et xenodochis et
asceteriis et monachis et privilegio eorum et castrensi peculio et de
redimendis captivis et de nuptiis clericorum vetitis seu permissis, si
citano anche le diaconesse: Raptores virginum vel viduarum vel
diaconissarum, quae deo fuerint dedicatae.... Lo status delle vergini
e delle vedove fu istituzionalizzato già nei primi secoli del
cristianesimo, la particolare funzione delle diaconesse invece spettò
solamente alle vergini e alle vedove che si fossero dedicate a Dio, quasi
costituendo un gruppo a sé. Evidentemente i compilatori dei due codici
non ritennero opportuno inserire nelle rubriche dei titoli il richiamo allo status
di diaconessa[22].
La più antica costituzione relativa al rapimento
delle donne dedicate a Dio risale, come si è detto, al 22 settembre del
354 d.C., emessa da Costanzo, figlio di Costantino Magno.
C.Th. 9.25.1= Brev. 9.20.1: IMP. CONSTANTIUS A. AD ORFITUM. Eadem utrumque raptorem severitas feriat nec sit ulla discretio inter
eum, qui pudorem virginum sacrosanctarum et castimoniam viduae labefactare scelerosi
raptus acerbitate detegitur. Nec ullus sibi posteriore
consensu valeat raptae blandiri. DAT XI KAL.
SEPTEMB. CONSTANTIO A. VII ET CONSTANTE C. CONSS.
Nella letteratura romanistica il testo di questa costituzione è
stato analizzato da S. Puliatti[23].
Il frammento tratta del rapimento delle vergini o delle vedove dedicate a Dio
per attentare alla loro purezza, e si esclude espressamente qualsiasi rilevanza
del consenso della rapita, eventualmente prestato dopo il rapimento.
Probabilmente la ratio della scelta
del legislatore risiede nella convinzione che la donna rapita sia sottoposta ad
una pressione psichica tale da indurla ad accettare lo stupro, né si
può dimenticare quale era la sua posizione nell’ambito della
comunità cristiana. Infatti come all’interno del matrimonio essa
era subordinata al marito, così la donna dedicata a Dio che avesse
lasciato lo status di vergine o di
vedova sarebbe stata certamente emarginata dalla società, perciò
si poteva presumere che il rischio di andare incontro ad una simile
penalizzazione escludesse la successiva manifestazione di un genuino consenso
al rapimento[24].
Da qui la soluzione adottata dall’imperatore Costanzo di negare
l’influenza della volontà della donna sulla consumazione del
delitto[25].
Questa soluzione però si prestava anche per risolvere altri casi,
nei quali lo scopo immediato del rapimento sembrava non essere lo stupro.
Infatti appena pochi anni dopo, il 19 febbraio del 364 d.C., un’altra
costituzione, questa volta dell’imperatore Gioviano, torna sulla materia per arricchire la
fattispecie di ulteriori profili di rilevanza.
C.Th. 9.25.2= Brev. 9.20.2: 364 IMP. IOVIANUS A. AD SECUNDUM P(PRAEFECTUM)
P(RAETORI)O. Si quis non dicam
rapere, sed “vel attemptare” matrimonium iungendi causa sacratas
virgines “vel viduas” ausus fuerit, capitali
“sententia” ferietur. DAT. XI KAL. MAR. ANTIOCHIAE IOVIANO A. ET
VARRONIANO CONSS.
Il testo di questa costituzione è stato analizzato da M.A. De
Dominicis[26].
Il legislatore prevede la medesima pena capitale non solo per il delitto di
rapimento della donna dedicata a Dio, ma anche per il solo tentativo di
sposarla, cioè per il rapimento a scopo di matrimonio. A partire da
questo momento il delitto di rapimento della donna dedicata al Dio è
completamente delineato nei suoi tratti distintivi, tanto da trovare una
stabile e specifica collocazione nella successiva legislazione degli
imperatori.
La costituzione di Giustiniano del 533 d.C. riprende la casistica precedente
soltanto per organizzarla in maniera più sistematica.
C. 9.13.1pr. Iust.: Raptores virginum honestarum vel ingenuarum,
sive iam desponsatae fuerint sive non, vel quarumlibet viduarum feminarum,
licet libertinae vel servae alienae sint, pessima criminum peccantes capitis
supplicio plectendos decernimus, et maxime si deo fuerint virgines vel viduae
dedicatae (quod non solum ad iniuriam hominum, sed ad ipsius omnipotentis dei
inreverentiam committitur, maxime cum virginitas vel castitas corrupta restitui
non potest): et merito mortis damnantur supplicio, cum nec ab homicidii crimine
huiusmodi raptores sint vacui.
Il testo della costituzione in esame
è stato oggetto di molti lavori della romanistica[27].
Giustiniano si propone di trattare in maniera unitaria il rapimento delle donne
dedicate a Dio e quello delle altre donne, indipendentemente dallo status sociale di appartenenza.
L’atto viola la verginità e la purezza della donna, senza che
possa essere risarcita in alcun modo dall’autore del reato. Questo
aspetto sembra giustificare anche una maggiore asprezza della pena. Si potrebbe
addirittura affermare che allora già si ponevano le basi per una
efficace tutela giuridica della donne, infatti l’imperatore giunge a
comparare ai fini della pena il rapimento della donna con l’omicidio - cum
nec ab homicidii crimine huiusmodi raptores sint vacui[28],
in quanto l’atto recava offesa non solo all’uomo ma,
soprattutto, a Dio: quod non
solum ad iniuriam hominum, sed ad ipsius omnipotentis dei inreverentiam
committitur[29]. Conseguentemente, come l’omicidio,
anche il rapimento delle donne dedicate a Dio rientrava tra i più
pesanti delitti, per i quali non ci si poteva aspettare nemmeno la grazia
dell’imperatore.
C. 1.4.3.2 Gratianus
Valentinianus Theodosius et Arcadius AAA. Neoterio pp.: Quis enim sacrilego diebus sanctis
indulgeat? quis adultero vel stupri vel incesti reo tempore castitatis
ignoscat? quis non raptorem virginis in summa quiete et gaudio communi
persequatur instantius?
Dalla costituzione citata si ricava che la
grazia, concessa durante il periodo di Pasqua, non poteva essere invocata da
tutti i criminali, in particolare era esclusa per gli autori dei più
gravi delitti, tra i quali il rapimento delle vergini.
Trattando del soggetto del delitto dobbiamo riferirci alla parte attiva,
cioè all’autore del delitto. Costui poteva essere sia un uomo, sia
un’altra donna. Ancora una volta la definizione dettagliata degli autori
che potevano essere accusati del rapimento della donna dedicata a Dio la
troviamo nella costituzione giustinianea del 533 d.C.[30].
C. 9.13.1.1 Iust.: Ne igitur sine vindicta talis crescat insania, sancimus per hanc generalem
constitutionem, ut hi, qui huiusmodi crimen commiserint et qui eis auxilium
tempore invasionis praebuerint, ubi inventi fuerint in ipsa rapina et adhuc
flagrante crimine comprehensi a parentibus virginum vel viduarum vel ingenuarum
vel quarumlibet feminarum aut earum consanguineis aut tutoribus vel curatoribus
vel patronis vel dominis, convicti interficiantur.
Il frammento è riprodotto senza
modifiche anche nel titolo De episcopis et clericis...[31].
Si afferma che le persone perseguibili per il delitto di rapimento delle donne
dedicate a Dio sono non solo chi ha realizzato materialmente l’atto,
cioè l’autore diretto, ma l’accusa colpisce anche le persone
che hanno portato aiuto nel rapimento. Il legislatore cioè non
differenzia la posizione dell’autore da quella del compartecipante, ma ad
entrambi è attribuito lo stesso grado di colpevolezza. Autori del delitto sono dunque considerati anche coloro che hanno prestato
aiuto agli autori diretti, per esempio impegnandosi a custodire la donna
rapita.
Nella costituzione del 533 d.C. sono richiamati anche la procedura
applicata e l’organo giudiziario competente per il delitto del rapimento
della donna dedicata a Dio[32].
C. 1.3.53.2 Iust.: Sin autem post commissum tam detestabile crimen aut potentatu raptor se
defendere aut fuga evadere potuerit, in hac quidem regia urbe tam viri excelsi
praefecti praetorio quam vir gloriosissimus praefectus urbis, in provinciis
autem tam viri eminentissimi praefecti praetorio per Illyricum quam magistri
militum per diversas nostri orbis regiones nec non viri spectabiles praefectus
Aegypti et vicarii et proconsules et nihilo minus viri spectabiles duces et
viri clarissimi rectores provinciarum nec non alii cuiuslibet ordinis iudices,
qui in locis inventi fuerint, simile studium cum magna sollicitudine adhibeant,
ut eos possint comprehendere et comprehensos in tali crimine post legitimas et
iuri cognitas probationes sine fori praescriptione durissimis poenis adficiant
et mortis condemnent supplicio.
Poiché lo stesso passo della
costituzione è riportato anche sotto il titolo De raptu virginum seu
viduarum nec non sanctimonialium[33], si può concludere che gli
stessi organi competenti a perseguire i delitti di rapimento delle donne
dedicate a Dio fossero competenti anche per i rapimenti di tutte le altre
donne.
Gli organi competenti per gli atti consumati
nel territorio della città di Costantinopoli, sede
dell’imperatore, erano il praefectus
pretorio e il praefectus urbis . Si potrebbe pensare
che nel caso di trasferta dell’imperatore oltre i confini di
Costantinopoli la competenza appartenesse al praefectus praetorio, mentre in ambito urbano
l’organo competente fosse soprattutto il praefectus urbis, anche
se non si può escludere una competenza comune ad entrambi gli organi.
In provincia le
competenze giudiziarie erano attribuite agli organi amministrativi periferici
nei rispettivi ambiti, cioè il praefectus praetorio per Illyiricum, il praefectus Aegypti, i presidi
delle diocesi e delle province, i magistri militum e i duces.
Infine tutti i giudici di qualsiasi ordine presenti nel luogo di consumazione
del delitto erano chiamati a reprimere il crimine.
Da una
costituzione di Arcadio e Onorio del 405 d.C. si ricava che poteva partecipare
al procedimento anche il defensor civitatis:
C. 1.55.7: Impp. Arcadius et Honorius AA. Caeciliano pp.
Defensores civitatum oblatos sibi reos
in ipso latrocinio vel congressu violentiae aut perpetrato homicidio stupro vel
raptu vel adulterio deprehensos et actis publicis sibi traditos expresso
crimine cum his, a quibus fuerint accusati, mox sub idonea prosecutione ad
iudicium dirigant. D. prid. k. Ian. Mediolani Stilichone II et
Anthemio conss.i [a. 405]
L’analisi giuridica di questo testo
è opera di V. Mannino[34].
Dal momento che si richiama solamente il rapimento senza nessuna altra
specificazione, nulla sembra impedire di comprendervi anche il rapimento delle
donne dedicate a Dio. Secondo questo provvedimento imperiale il defensor
civitatis, pur restando privo
delle competenze propriamente giurisdizionali, svolgeva la funzione di
pubblico accusatore, prendendo conoscenza della causa e preparando gli atti
pubblici (actis publicis), cioè le prove del reato.
Il procedimento richiedeva
solo di raccogliere le prove per l’accertamento del fatto - post
legitimas et iuri cognitas probationes sine fori praescriptione – e l’emanazione della
sentenza poteva aver luogo anche fuori dal tribunale.
Nel
caso di rapimento di una donna sposata si cumulavano due delitti, perciò
sorgeva la questione del titolo dell’accusa, risolta nella costituzione
di Giustiniano del 533 d.C.
C. 9.13.1.1a Iust.: Quae multo magis contra eos obtinere
sancimus, qui nuptas mulieres ausi sunt rapere, quia duplici crimine tenentur
tam adulterii quam rapinae et oportet acerbius adulterii crimen ex hac
directione puniri.
Nel caso di rapimento di una donna sposata,
contro il rapitore si doveva muovere accusatio adulterii, poiché
si presumeva che lo scopo del rapimento fosse quello di costringere la donna a
compiere atti sessuali, che, in presenza di matrimonio, avrebbero qualificato
l’atto del rapitore come adulterio[35].
In questo caso non era possibile appellarsi
alla sentenza di condanna.
C. 9.13.1.1d Iust.: Quibus et, si appellare voluerint, nullam
damus licentiam secundum antiquae constantinianae legis definitionem.
Giustiniano ribadisce il divieto di appello
contro la condanna dell’autore del rapimento richiamandosi alla
legislazione di Costantino Magno - antiquae constantinianae legis
definitionem[36].
Nella costituzione del 533 d.C.[37]
l’imperatore enuncia anche il principio al quale doveva ispirarsi la
punizione degli autori del rapimento di donne dedicate a Dio.
C. 1.3.53(54)pr. Iust.: Raptores virginum vel viduarum vel diaconissarum, quae deo fuerint
dedicatae, pessima criminum peccantes capitis supplicio plectendos fuisse
decernimus, quod non solum ad iniuriam hominum, sed ad ipsius omnipotentis dei
inreverentiam committitur.
Dal testo risulta che tali rapitori dovevano essere puniti in modo severo,
poiché l’atto non solo violava la dignità umana della donna
rapita, ma, soprattutto, offendeva l’Onnipotente[38].
Che l’atto fosse considerato addirittura sacrilego lo si evince dalla
severità della pena: supplizio capitale e confisca dei beni.
C. 1.3.53(54).5 Iust.: Poenas
autem, quas praediximus, id est mortis et bonorum amissionis, constituimus non
tantum adversus raptores, sed etiam contra eos, qui hos comitati in ipsa
invasione et rapina fuerint. ceteros autem omnes, qui conscii et ministri
huiusmodi criminis reperti et convicti fuerint vel eos susceperint vel
quamcumque opem eis intulerint, sive masculi sive feminae sunt, cuiuscumque
condicionis vel gradus vel dignitatis, poenae tantummodo capitali subicimus, ut
huic poenae omnes subiaceant, sive volentibus sive nolentibus sanctimonialibus
virginibus seu aliis supra dictis mulieribus tale facinus fuerit perpetratum.
D. Xv k. Dec. Constantinopoli dn. Iustiniano pp. A. III cons. [a. 533]
La pena di morte e la confisca dei beni
colpivano non solo l’autore del rapimento ma anche chi l’avesse
aiutato, in quanto, come si chiariva poco prima, il legislatore non
differenziava i colpevoli secondo il grado di partecipazione nel compimento
dell’atto. Tuttavia nel frammento si fa riferimento anche ad
un’altra categoria di persone ugualmente punibili, vale a dire tutti
coloro, che pur non avendo preso parte attiva al compimento dell’atto,
erano comunque coscienti di esso, per aver dato sostegno agli autori. In questi
casi la pena di morte non si accompagnava alla confisca dei beni.
Interessante notare come la pena di morte
dovesse essere applicata senza riguardo alla posizione sociale
dell’autore - cuiuscumque condicionis vel gradus vel dignitatis – o al sesso - sive masculi sive feminae sunt. In
altre parole si rinunciava a rispettare il principio della minore
severità delle pene per gli appartenenti al ceto degli honestiores,
probabilmente in ragione del profilo religioso del fatto che toccava gli assetti
essenziali della società. La severità della pena doveva
così esaltare la sua funzione preventiva, infatti non bisogna
dimenticare che la pena di morte veniva adottata molto spesso dagli imperatori
cristiani.
I beni confiscati agli autori del rapimento passavano in proprietà
dei conventi e delle chiese, a cui appartenevano le donne rapite. Così
afferma la costituzione del 533 d.C.
C. 1.3.53(54).3 Iust.: Bona autem eorum, si hoc commissum fuerit vel in sanctimonialem
virginem, quae in asceterio vel monasterio degit, sive eadem virgo diaconissa
constituta sit sive non, eidem monasterio vel asceterio, ubi consecrata est,
addicentur, ut ex his rebus et ipsa solacium habeat, dum vivit, sufficiens et
res omnes sacrosanctum asceterium seu monasterium pleno habeat dominio.
I beni passavano in proprietà delle
organizzazioni alle quali la donna apparteneva - eidem monasterio vel
asceterio, ubi consecrata est, addicentur, ut ex his rebus et ipsa solacium
habeat, dum vivit, sufficiens -
indipendentemente dalla posizione e dal ruolo che la donna vi svolgeva
abitualmente.
Non tutte le donne
dedicate a Dio però vivevano nelle comunità monacali o nei
monasteri femminili, molto spesso svolgevano la loro attività
direttamente nella società civile. Anche in questi casi Giustiniano non
ha dimenticato disposizioni specifiche.
C. 1.3.53(54).4 Iust.: Sin autem diaconissa cuiuscumque ecclesiae
sit, in nullo autem monasterio vel asceterio constituta est, sed per se degit,
raptoris eius substantia ecclesiae, cuius diaconissa est, adsignetur, ut ex his
facultatibus ipsa quidem usum fructum, dum superest, ab eadem ecclesia
consequatur, ecclesia vero omnem proprietatem et plenam possessionem earundem
rerum nostro habeat beneficio: nemine vel iudice vel alia quacumque persona hoc
audente contemnere.
Dal momento che la donna che svolgeva
attività di diaconessa per una chiesa, indifferentemente dallo status di vergine o di vedova, cedeva la
proprietà del suo patrimonio alla chiesa di appartenenza, trattenendone
per sé soltanto l’usufrutto, era naturale che anche i beni
confiscati all’autore del rapimento fossero assegnati a quella stessa
chiesa.
Evidentemente l’imperatore aveva
ragioni per temere che, appena entrate in vigore, queste disposizioni
sollevassero delle perplessità, probabilmente motivate dalla assenza di
una prassi giudiziaria consolidata. Per questo nell’ultimo periodo del
frammento citato si aggiunge una ammonizione rivolta a tutti coloro chiamati ad
applicare il provvedimento imperiale - nemine vel iudice vel alia quacumque
persona hoc audente contemnere.
La recezione delle norme cristiane nell’ordinamento giuridico laico
di Roma ha trovato un terreno favorevole nelle questioni morali legate ai
tradizionali atti criminali. Già nel periodo classico del diritto romano
si punivano i rapimenti delle donne sposate per proteggere valori come la
fedeltà coniugale. Infatti beneficiavano di questa tutela soprattutto le
donne libere, rapite molto spesso a scopo di matrimonio. Si trattava evidentemente
di misure discendenti dai mores maiorum, accolti poi nella legislatura di Augusto.
Successivamente l’insegnamento cristiano
riconoscendo un valore particolare alla vita solitaria delle donne, vergini e
vedove, apprezzava particolarmente quelle donne che dedicassero tutta la vita
alla affermazione dei valori cristiani, vivendo nei monasteri oppure nella
comunità dei fedeli, le chiese. Il rapimento di tali donne veniva allora
severamente represso con la pena di morte e la confisca dei beni, che colpivano
tanto l’autore diretto, quanto tutti coloro che lo avessero aiutato in
qualsiasi modo, essendo sufficiente anche soltanto la semplice coscienza
dell’atto.
La protezione delle vergini e delle vedove dedicate a Dio mirava a tutelare
innanzitutto i valori cristiani come la verginità e moderazione
sessuale, ma rappresentava solo un esempio della difesa delle donne dalle
offese alla loro libertà e dignità. Infatti in una costituzione
di Giustiniano del 533 d.C. troviamo una disciplina giuridica che menziona
tanto le donne dedicate a Dio quanto tutte le altre, schiave incluse,
ciò significa che la qualificazione dell’atto era indifferente
rispetto allo status giuridico e sociale della rapita.
Si può dunque dire che nel presente articolo si sia rintracciato lo
spirito della legislazione giustiniana, che sembra aver dato una risposta alle
esigenze di tutela delle donne nei confronti delle aggressioni degli uomini
dediti ai crimini sessuali. Da
questo punto di vista la legislazione giustinianea, pur ispirata al rispetto
delle virtù femminili cristiane, si prestava ad essere utilizzata anche
per l’affermazione dei valori della donna in generale.
Alcune norme morali cristiane recepite dagli imperatori romani
nell’ordinamento laico a partire dal IV sec. d.C. concernono il valore
del matrimonio e la dignità della donna. In particolare il cristianesimo
promuove la verginità e la moderazione sessuale, così i reati
contro queste virtù, come il rapimento delle donne dedicate a Dio, sono
severamente puniti. La punizione del rapimento della donna libera era
conosciuta già nel diritto romano classico, in ossequio ai mores maiorum ed alle leggi di Augusto.
La previsione del reato di rapimento delle donne dedicate a Dio compare per
la prima volta in una costituzione di Costantino del 320 d.C., ma la
fattispecie di reato si perfeziona a partire da una costituzione di Giustiniano
del 533 d.C.
La pena prevista per l’autore del reato era la pena capitale, con la
confisca del patrimonio. Insieme all’autore materiale venivano condannati
anche coloro che lo avessero aiutato nel compimento dell’atto,
nonché quanti avessero avuto anche la sola consapevolezza del reato.
Organi giudiziari competenti a giudicare i colpevoli erano, a Costantinopoli,
il praefectus praetorio e il praefectus urbis, in provincia i
presidi, così anche i magistrati militari come magistri militum e
duces. Dal 405 d.C. partecipava al procedimento penale anche il defensor
civitatis.
Il processo si limitava solo alla raccolta
delle prove e la sentenza poteva essere emanata anche senza il rito ordinario.
Non era ammesso per questo reato l’appello.
[1]
La verginità e la moderazione sessuale erano valori riconosciuti
già nel periodo precedente all’affermazione del cristianesimo, vd.
T. Spagnuolo Vigorita, Casta
domus. Un seminario sulla legislazione matrimoniale augustea, Napoli 1998.
Con il cristianesimo a questi valori si attribuì un altro, nuovo,
significato, vd. A.L. Ballini, Il
valore giuridico della celebrazione nuziale cristiana dal primo secolo
all’età giustinianea, Milano 1939, 5 ss.
[2] Mt. 19.12: Sunt enim eunuchi, qui de matris utero sic nati sunt; et
sunt eunuchi, qui facti ab hominibus; et qui se ipsos castraverunt propter
regnum caelorum. Qui potest capere, capiat.
Sul tema vd. Słownik Teologii Biblijnej, pod red. X. Leon-Dufour,
tł. Polskie K. Romaniuk, Poznań 1982, 258. L’attività
principale svolta dalle vergini era rappresentata dalle preghiere e dalla
dedizione totale a Dio. Conseguentemente esse si vincolavano alla
castità per tutta la vita.
[3]
Nel giudaismo rappresentato dal Vecchio Testamento, come anche in altre
culture, lo status di vedova appare particolarmente funesto. Nel periodo
degli Apostoli, invece, si configura l’istituzione della vedova, alla
quale potevano appartenere le donne che avessero avuto un solo marito – univira
e avessero compiuto 60 anni. Sul tema vd. Słownik..., 1024, e anche
Wprowadzenie w myśl i wyzwanie ksiąg biblijnych, t. 9, Dzieje
Apostolskie. Listy św. Pawła, pod red. J. Frankowskiego, Warszawa
1997, 192. Nella legislazione postcostantiniana la divisione tra vedove e
diaconesse lentamente sparisce. Sul punto vd. R.
Bruno Siola, “Viduae” e “coetus viduarum”
nella chiesa primitiva e nella normazione dei primi imperatori cristiani,
in Atti dell’Accademia Romanistica Costantina, VIII Convegno
Internazionale, Perugia 1990, 368 n.
[4]
La posizione giuridica delle diaconesse nella Chiesa delle origini alimentava e
alimenta tutt’ora numerose controversie tra gli studiosi. Alcuni
ritengono che le donne erano consacrate per il primo livello del sacerdozio,
come W.M. Plöchl, Storia
di diritto canonico, I, Milano 1963, 64. Tuttavia tale interpretazione
è poco attendibile, poiché alla luce della Storia Apostolica, diaconi e diaconesse erano chiamati per svolgere le attività
benefiche e l’evangelizzazione. Niente dunque indica che costoro avessero
avuto prima una qualche consacrazione. Con il tempo soltanto i diaconi, gli uomini, avrebbero
ricevuto la consacrazione. Vd. Wprowadzenie..., 59 n.; J. Gaudemet, L’Eglise dans
l’Empire romain (IV-V siècles), Paris 1958, 122; P.G. Caron, Lo “status” delle
diaconesse nella legislazione Giustinianea, in Atti dell’Accademia
Romanistica Costantina, VIII Convegno Internazionale, Perugia 1990, 512 ss.
[5]
Vedi G. Barone Adesi, Monachesimo
ortodosso d’Oriente e diritto romano nel Tardo Antico, Milano 1990,
272 ss.
[6]
Sulla ricezione delle disposizioni sinodali nella legislazione imperiale vd. A. Barzanò, Il cristianesimo nelle
leggi di Roma Antica, Torino 1996, 62 ss.
[7] J-U. Krause, Witwen und
Waisen im römischen Reich I, Verwitwung und Wiederverheiratung, Stuttgart
1994, 183 ss.
[8]
S. Puliatti, La dicotomia
“vir-mulier” e la disciplina del ratto nelle fonti legislative tardo-imperiali,
in SDHI 61 (1995), 471 ss.
[9]
Sulle regolamentazioni giuridiche riguardanti il rapimento delle donne vd. B. Sitek, De raptu mulieris,
Lublin 2005.
[10]
Le disposizioni del Sinodo di Ankara furono adottate sicuramente sotto
l’influenza del vescovo di quella città, Basilio, autore di O
dziewictwie, poi attribuito erroneamente a Basilio Grande. Vd. B. Altaner, A. Stuiber, Patrologia.
Życie, pisma i nauka Ojców Kościoła, trad.
polacca di P. Pachciarek, Warszawa 1990, 394. Così
anche J. Evans Grubbs, Law and
Family in Late Antiquity. The Emperor Constantine’s Marriage Legislation,
Oxford 1999, 189 ss.
[11] Sinodo Arausicanum del 441 d.C. (can. 26); Sinodo Arelatense del
442-506 d.C. (can. 21); Sinodo Aurelianense del 511 d.C. (can. 2) e del 538
d.C. (can. 19); Sinodo Turonense del 567 d.C. (can. 21); Sinodo Prisinense del
556/73 d.C. (can. 5). Questo elenco segue la proposta fatta da J-U. Krause, op. cit., 183,
n. 148.
[12]
C.Th. 9.24.1. Sulla ricezione delle disposizioni dei sinodi nell’ordine
giuridico laico nel IV secolo d.C. vd. G. Barone
Adesi, op. cit., 118 n.
[13]
C.Th. 9.24.2.
[14]
C.Th. 9.24.3.
[15]
C.Th. 9.25.1.
[16]
C.Th. 9.25.2.
[17]
C. 9.13.
[19] R. Bonini, Ricerche di diritto
giustinianeo, Milano 1990, 115.
[20]
Vedi R. Düll, Privatrechtprobleme
im Bereich der virgo Vestalis, in ZSS 70 (1953), 380 ss.; F. Guizzi, Aspetti giuridici del
sacerdozio romano. Il sacerdozio di Vesta, Napoli 1968, 100 ss.; J. Misztal-Konecka, Status prawny westalek w starożytnym
Rzymie, in Prawo-Administracja-Kościół, 2-3 (2000),
101-123; M. Krawczyk, Pozycja
prawna i status społeczny westalski, in “Honeste
vivere”..., Księga Bojarskiego, Toruń 2001, 75-88.
[21]
Si tratta della costituzione del 1 aprile 320 d.C. (C.Th. 9.24.1), riguardante
però soltanto il rapimento delle vergini. Più tardi sarebbe stato
previsto anche il rapimento delle vedove, vd. J.
Umiński, Historia Kościoła, I, Chrześcijańska
starożytność i wieki średnie, Opole 1949, 127 ss.
[22]
Sulle diaconesse nel periodo del cristianesimo antico vd. P.G. Caron, op. cit., 509
e l’ulteriore letteratura ivi citata.
[23] Op.
cit., 471 ss.
[24]
Vedi J.-U. Krause, op. cit.,
184. Nel caso delle vedove va ricordato un altro aspetto, quello
dell’avversione del cristianesimo antico per le seconde nozze. Sul
secondo matrimonio delle vedove vd. H.
Kupiszewski, Powtórne małżeństwo w
konstytucjach cesarzy rzymskich w IV i V wieku, in Analecta Cracoviensia
7 (1975), 349-366; M. Humbert, Le
remariage à Rome. Étude d’histoire juridique et social,
Milano 1972. Sul secondo matrimonio delle vedove nel periodo romano classico
vd. P. Niczyporuk, Żałoba
i powtórne małżeństwo wdowy w prawie rzymskim,
Białystok 2002, 65 ss.
[25]
Si deve considerare che la tutela giuridica delle vergini e delle vedove non
rappresentava una eccezione, poiché nella legislazione giustinianea
anche altre donne erano tutelate dai rapitori. Vd. C. 9.13.1.1e Iust.: Et si quidem
ancillae vel libertinae sint quae rapinam passae sunt, raptores tantummodo supra
dicta poena plectentur, substantiis eorum nullam deminutionem passuris.
Secondo questa costituzione del 533 d.C. lo status giuridico e sociale della donna non
aveva influenza sulla dimensione e sul tipo di pena irrogata al rapitore,
perché la tutela si estendeva non solo alle donne
nate libere ma anche alle schiave e alle liberte.
[26] M.A. De Dominicis, Riflessi di
costituzioni imperiali del basso impero nelle opere della giurisprudenza
postclassica, 1955, 65. Vd. anche Puliatti,
op. cit., 471 ss.
[27] Vd.
R. Bonini, Ricerche di diritto
giustinianeo, Milano 1968, 55 ss.; L.
Desanti, Giustiniano e il ratto, in Ann. Univ. Ferrara. Dip.
Sc. Giur. N.S. 1, 1987, 187 ss.; V.
Giuffrè, La “repressione criminale”
nell’esperienza romana, Napoli 1993, 53 ss.
[28]
Nel caso di rapimento della donna sposata si cumulavano due delitti, quello di
rapimento e quello di adulterio. Vd. C. 9.13.1.1a.
[29]
Così anche C.
1.3.53(54)pr.
[30]
Per l’analisi del testo vd. R.
Bonini, op. cit., 115 ss.
[31] C. 1.3.53.1 Iust.: Qui itaque huiusmodi
crimen commiserint et qui eis auxilium tempore invasionis praebuerint, ubi
inventi fuerint in ipsa rapina et adhuc flagrante crimine comprehensi a
parentibus sanctimonialium virginum vel viduarum vel diaconissarum aut earum
consanguineis vel tutoribus seu curatoribus, convicti interficiantur.
[32]
Questo frammento della costituzione di Giustiniano finora non è stato
oggetto di analisi giuridica da parte della letteratura romanistica.
[33] C. 9.13.1.1c Iust.: Sin autem post
commissum tam detestabile crimen aut potentatu raptor se defendere aut fuga
evadere potuerit, in hac quidem regia urbe tam viri excelsi praefecti praetorio
quam vir gloriosissimus praefectus urbis, in provinciis autem tam viri
eminentissimi praefecti praetorio per Illyricum et Africam quam magistri
militum per diversas nostri orbis regiones nec non viri spectabiles praefectus
Aegypti vel comes Orientis et vicarii et proconsules et nihilo minus omnes viri
spectabiles duces et viri clarissimi rectores provinciarum nec non alii
cuiuslibet ordinis iudices, qui in locis inventi fuerint, simile studium cum
magna sollicitudine adhibeant, ut eos possint comprehendere et comprehensos in
tali crimine post legitimas et iuri cognitas probationes sine fori praescriptione
durissimis poenis adficiant et mortis condemnent supplicio.
[34] V. Mannino, Ricerche sul
“Defensor Civitatis”, Univ. Roma – Pubbl. Ist. Dir. Rom.
e Dir. dell’Oriente Mediterraneo 62, Milano 1984, 162 ss.
[35]
Rapitore era considerato anche chi avesse rapito la propria fidanzata, vd. C. 9.13.1.1b Iust.: Quibus
connumerabimus etiam eum, qui saltem sponsam suam per vim rapere ausus fuerit.
[36]
Probabilmente Giustiniano intendeva riferirsi alla costituzione di Costantino
Magno del 1 aprile 320 d.C., riportata in C.Th. 9.24.1. Vd. R. Bonini, op. cit., 116 ss.
[37]
Vd. R. Bonini, op. cit.,
116 ss.