ds_gen N. 5 – 2006 – Tradizione Romana

 

arces-piccolaPierfrancesco Arces

Università del Piemonte Orientale "A. Avogadro"

 

Note in tema di sacrorum detestatio

 

Sommario: 1. La sacrorum detestatio: interpretazione oggi dominante in dottrina. – 2. Rifiuto dell’impostazione oggi dominante. – 3. Le altre letture fornite di questo istituto: sacrorum detestatio e giuramento. – 4. Detestatio e alienatio sacrorum. – 5. L’interpretazione risalente al Cuiacio. – 6. Conclusioni. Congettura sulla originaria funzione dell’istituto.

 

 

1. – La sacrorum detestatio: interpretazione oggi dominante in dottrina

 

La sacrorum detestatio viene comunemente presentata dalla moderna dottrina, che segue un’ipotesi formulata dal Savigny[1], come l’abbandono dei sacra familiari, mediante una rinuncia solenne e pubblica. Essa, verosimilmente tra il periodo monarchico e protorepubblicano[2], avrebbe costituito il presupposto necessario[3], da attuarsi sotto il controllo dei pontefici, per il «transito» ai sacra di un’altra gens[4], e cioè uno degli elementi caratterizzanti l’adrogatio[5].

In relazione all’adrogatio, antichissima[6] species adoptionis, sono ben note le informazioni fornite da Gaio[7] e da Gellio[8], che procedono a differenziarla da altre tipologie di adozione: tramite l’adrogatio a Roma, e solo a Roma, si poteva adottare un individuo[9] sui iuris, mediante un rito solenne che prevedeva una triplice interrogazione. Il pontefice che presiedeva i comizi curiati[10], infatti, chiedeva al pater adrogans se volesse l’adottando come suo figlio legittimo, all’adottando se intendesse subire ciò[11], e, infine, al popolo[12], sulla sua volontà di autorizzare il compimento dell’atto.

Suoi elementi caratterizzanti erano la solennità del rito, suggellato da un giuramento – la cui formula fu creata forse dal pontefice massimo Quinto Mucio[13] –, e la rigorosa istruttoria preliminare, attraverso la quale valutarne l’opportunità, soprattutto nel caso in cui fosse parte un impubere. A tal proposito, va sottolineato che la possibilità per un impubere di essere arrogato è esclusa espressamente da Gellio, al pari dell’arrogazione del pupillo da parte del tutore (l’auctoritas del quale, infatti, non arriva a consentirgli di sottoporre all’altrui potestas una persona libera affidata alla sua protezione)[14].

Venivano così presi in considerazione importanti aspetti quali la differenza d’età tra l’adottando e l’adottante, o l’eventuale incapacità a procreare da parte di quest’ultimo, il quale, inoltre, non doveva essere mosso al compimento dell’atto dal desiderio di appropriarsi dei beni dell’adottando: conseguenza patrimoniale dell’assoggettamento di un pater familias alla potestas di un altro pater familias, infatti, era il conseguente assoggettamento di persone e cose[15], che già si trovavano sotto la potestas dell’adottando, alla potestas del pater adrogans, al quale pure si trasmettevano i crediti, ma non anche i debiti, che invece si estinguevano[16], facenti capo al soggetto adrogato, realizzandosi così una vera e propria ipotesi di successione universale inter vivos[17].

Tutta questa serie di dati è desumibile dai testi di Gaio e di Gellio presi in considerazione: è agevole constatare come in essi manchi il benché minimo accenno al compimento della sacrorum detestatio. Ad essa invece si fa riferimento in un  altro passo dell’opera gelliana, che conviene subito prendere in considerazione:

 

In libro Laelii Felicis ad Q. Mucium primo scriputm est Labeonem scribere ‘calata’ comitia esse, quae pro conlegio pontificum habentur aut regis aut flaminum inaugurandorum causa. Eorum autem alia esse ‘curiata’, alia ‘centuriata’; ‘curiata’ per lictorem curiatum ‘calari’, id est ‘convocari’, ‘centuriata’ per cornicinem.

Isdem comitiis, quae ‘calata’ appellari diximus, et sacrorum detestatio et testamenta fieri solebant. Tria enim genera testamentorum fuisse accepimus: unum, quod calatis comitiis in populi contione fieret, alterum in procinctu, cum viri ad proelium faciendum in aciem vocabantur, tertium per familiae emancipationem, cui aes et libra adhiberetur.

In eodem Laelii Felicis libro haec scripta sunt: “Is qui non universum populum, sed partem aliquam adesse iubet, non ‘comitia’ sed ‘concilium’ edicere debet. Tribuni autem neque advocant patricios neque ad eos referre ulla de re possunt. Ita ne ‘leges’ quidam proprie, sed ‘plebisscita’ appellantur, quae tribunis plebis ferentibus accepta sunt, quibus rogationibus ante patricidi non tenebantur, donec Q. Hortensius dictator eam legem tulit, ut eo iure, quod plebs statuisset omnes Quirites tenerentur”. Item in eodem libro hoc scriptum est: “Cum ex generibus hominum suffragium feratur, ‘curiata’ comitia esse; cum ex censu et aetate, ‘centuriata’; cum ex regionibus et locis ‘tributa’; centuriata autem comitia intra pomerium fieri nefas esse, quia exercitum extra urbem imperari oporteat, intra urbem imperari ius non sit. Propterea centuriata in campo Martio haberi exercitumque imperari presidii causa solitum, quoniam populus esset in suffragiis ferendis occupatus”[18].

 

Tutte le diverse letture che si sono fornite dell’istituto della sacrorum detestatio non hanno potuto prescindere da questo passo in cui Gellio attinge dall’opera di Lelio Felice, riportando quei brani che – salvo fortunosi quanto improbabili ritrovamenti – attualmente si ritengono essere ciò che di essa ci rimane[19], e indica, sulla base delle indicazioni di Labeone in essa riportate, le differenze tra i vari tipi di comitia. In particolare, si rammenta come i comitia calata erano quelli tenuti in presenza del collegio dei pontefici per procedere alla inauguratio del rex sacrorum[20] o dei flamines[21], precisandosi altresì che i comitia calata si distinguevano in ‘curiata’ e ‘centuriata’, e che l’una e l’altra tipologia erano soggette a diverse modalità di convocazione, provvedendovi per le prime il littore curiato, e per le seconde il suonatore di corno.

I comitia calata, inoltre, vengono indicati come le assemblee deputate anche alla realizzazione della sacrorum detestatio e dei testamenti (‘Isdem comitiis, quae ‘calata’ appellari diximus, et sacrorum detestatio et testamenta fieri solebant ’). Subito dopo questa indicazione, nel testo gelliano si apre una digressione sulle diverse forme di testamento, dove, tra l’altro, si rammenta che il testamentum calatis comitiis avveniva ‘in populi contione’, per poi riprendere a citare testualmente dall’opera di Lelio Felice, nella parte in cui si pone la differenza tra comitia e concilia, specificandosi che questi ultimi sono quelle assemblee in cui viene convocata una parte soltanto del popolo. Anche in questo punto si apre una digressione sull’ incapacità dei tribuni della plebe a convocare i patrizi, o a riferire loro su qualsiasi questione, e si pone l’accento sull’originaria inefficacia dei plebisciti nei confronti dei patrizi, sino al cambiamento introdotto con l’approvazione della lex Hortensia[22].

Il testo del ventisettesimo capitolo procede, poi, con un’ulteriore citazione testuale da Lelio Felice, nella parte in cui si continuano ad evidenziare le differenze tra le diverse assemblee comiziali a seconda della tipologia di voto propria di ciascuna di esse: nei comitia curiata il voto si esprimeva per classe di persone (ex generibus hominum suffragium); nei comitia centuriata, invece, esso si esprimeva in base al censo e all’età; infine, nei comitia tributa la votazione si esprimeva secondo le tribù distrettuali di appartenenza (ex regionibus et locis). La conclusione del capitolo continua ad essere affidata alla citazione del medesimo passo di Lelio Felice, dove si specificano ulteriori peculiarità dei comitia centuriata, e cioè l’impossibilità della loro convocazione all’interno del pomerio (poiché l’esercito deve radunarsi fuori della città, essendo illecita la sua convocazione all’interno dell’Urbe), e l’individuazione nel Campo Marzio del luogo deputato ad ospitare tali comizi, e le relative votazioni.

Si sono sottolineate le numerose oscurità[23] che il ventisettesimo capitolo del quindicesimo libro delle Notti Attiche presenta, ponendosi in dubbio che tutte le informazioni in esso contenute risalgano, per il tramite di Lelio Felice, a Labeone. Mette appena conto rilevare, infatti, come nel passo in esame la difficoltà esegetica consista nel distinguere le stratificazioni di pensiero (e di scrittura) proprio di Lelio Felice[24] e dello stesso Gellio. Peraltro, in quanto alla fonte gelliana, e cioè il commentario di Lelio Felice a Quinto Mucio, si è affermato che «resta dubbio se l’opera avesse carattere giuridico oppure antiquario e aneddotico»[25]: per quanto autorevole, naturalmente, questa affermazione non può andare oltre il campo delle congetture, visto che, come affermato, il più ampio passo di Lelio Felice di cui attualmente disponiamo è proprio quello presentato nel riferito capitolo delle Notti Attiche, e ben poco si può dire di questo giurista del II secolo.

E’ noto, infatti, come già il Lenel[26] non poteva far altro che congetturare circa la coincidenza tra il Lelio Felice da cui attinge Gellio, e il tal Lelio ‘qui in digestis laudatur’: il riferimento è a due passi della medesima opera di Paolo in cui si cita un Lelio che, in un caso, avrebbe approvato l’impostazione seguita dallo stesso Paolo, e contraria a quella di Aticinio, relativamente alla eventualità della restituzione del legato conseguito dal legatario che avesse poi promosso, per errore e non temerariamente, la petitio hereditatis[27]. In un altro caso il riferimento è molto più aneddotico, dato che si parla di un Lelio che avrebbe scritto di aver visto nel Palatino una donna libera, proveniente da Alessandria per essere presentata all’Imperatore Adriano, che aveva cinque figli, dei quali quattro sarebbero stati partoriti contemporaneamente, e il quinto dopo quaranta giorni[28]. Vi è stato addirittura chi ha preso in considerazione l’ipotesi dell’identificazione di Lelio Felice con Gaio[29]: ma, pur ricordando che il giurista antoniniano gode di una certa tradizione nell’essere identificato con qualcun altro[30], va rilevato come le argomentazioni addotte per identificarlo con Lelio Felice risultino veramente labili, poco suggestive e in un caso addirittura smentite dallo stesso dato testuale invocato per supportarle[31].

Sempre al Lenel[32] risalgono i primi dubbi sulla integrale riferibilità del testo gelliano all’opera di Lelio Felice. Ed in effetti una lettura anche solo poco più che superficiale del testo in questione contribuisce a fondare l’idea che esso sia il prodotto della combinazione tra una testo base di riferimento e delle aggiunte[33] ad esso. Credo che a favore di questa impressione depongano anche quelle digressioni cui s’è fatto cenno in precedenza, l’una sulle tipologie di testamento e l’altra sui limiti tanto dei poteri dei tribuni della plebe, quanto della forza dei plebisciti nei confronti dei patrizi. Esse, infatti, si inseriscono chiaramente in un discorso compiuto, determinandone delle periodiche interruzioni. Il discorso in questione è quello sulle tipologie di comitia: tutte e tre le volte in cui Gellio afferma di citare testualmente dall’opera di Lelio Felice, infatti, l’incipit è costantemente riferito a tale argomento, che costituisce ogni volta occasione per effettuare le digressioni a cui si è più volte fatto cenno.

In virtù di queste considerazioni si potrebbe dunque affermare che il primo libro del commentario a Quinto Mucio di Lelio Felice trattasse delle forme comiziali romane, e non dei testamenti, come invece ritiene il Lenel[34]: ma a questa congettura si contrappone l’insegnamento in forza del quale «le esposizioni delle leges, degli iura compresi nell’ius civile seguirono costantemente uno schema unico»[35], pressoché costante. Conseguentemente, i commenti a Quinto Mucio, strutturati in forma lemmatica, avrebbero seguito l’ordine espositivo dell’opera commentata, la quale appunto si sarebbe dovuta aprire con la materia testamentaria.

Pertanto, volendo applicare al passo gelliano preso in esame i criteri appena enucleati, si dovrà argomentare nel senso che il primo libro di un’opera di commento a Quinto Mucio, nel parlare delle differenze tra i tipi di comizi, non poteva che riferirsi alla materia testamentaria e, trattando del testamentum calatis comitiis, effettuare digressioni sulle tipologie di assemblee comiziali. Si dovrà a questo punto convenire che, in forza di quest’ultima impostazione, tutto il ventisettesimo capitolo del quindicesimo libro delle Notti Attiche appare essere il risultato di ribaltamenti continui della fonte di riferimento, e cioè del primo libro del commento di Lelio Felice a Quinto Mucio.

Infatti, posto che il tema principale del capitolo gelliano concerne le differenze tra assemblee comiziali romane, è curioso che Gellio, per trattarne, abbia fatto riferimento a un’opera nella parte in cui essa non si occuperebbe specificamente di tale argomento, ma di altro, e cioè di diritto testamentario, o, più in generale, delle successioni. Peraltro, il tema delle assemblee comiziali consentirebbe a Gellio di fornire incidentalmente anche informazioni sulle tipologie di testamento (che paradossalmente è – o meglio: dovrebbe essere – il tema principale della relativa parte dell’opera da cui attinge), oltre che sui poteri dei tribuni della plebe e sull’efficacia dei plebisciti.

Si potrebbe osservare che, in fin dei conti, una costruzione di tal fatta ben si attaglierebbe ad un’opera come quella gelliana, vero zibaldone di curiosità antiquarie, la cui raccolta e presentazione, però, non può pretendersi informata a quella sistematicità che si insegna essere propria di un’opera giuridica.

Sia allora concesso segnalare questa strana e disordinata tendenza che dovrebbe ascriversi alla tecnica compositiva di Gellio, consistente nello stravolgere la propria fonte di riferimento. Infatti, ciò che dovrebbe essere l’argomento principale del primo libro del commento di Lelio Felice a Quinto Mucio viene, per così dire, «declassato» in digressione nelle Notti Attiche, e, viceversa, ciò che verosimilmente nella fonte di riferimento non poteva essere che una digressione viene «elevato», nel capitolo gelliano, ad argomento principale[36].

 

2. – Rifiuto dell’impostazione oggi dominante

 

Da quanto si è detto sinora possono trarsi alcuni punti fermi. Dovrebbero risultare abbastanza chiari i motivi che conducono a rigettare l’impostazione oggi dominante che vede nella sacrorum detestatio l’atto, prodromico all’adrogatio, col quale l’adrogando rinunziava ai propri sacra familiari prima di entrare nella nuova famiglia. Il significato dell’istituto inteso come «rinunzia solenne ai riti sacri» viene spiegato facendo riferimento al passo di Gellio da ultimo preso in esame[37], dove in realtà non si fa altro che elencare gli atti che si compivano nei calata comitia. Come si è rilevato, Gellio attinge da Lelio Felice, attratto da una citazione labeoniana contenuta nell’opera di costui, ma si limita ad effettuare appunto un’elencazione: con l’eccezione di alcune rapide informazioni sulle tipologie di testamento[38], infatti, egli non spiega in cosa consistano o come si svolgano le inaugurationes, o la sacrorum detestatio, che si celebravano in quelle forme di comizi.

Salvo rarissime eccezioni[39], però, la dottrina ha pressoché unanimemente ricollegato la sacrorum detestatio allo svolgimento dell’adrogatio[40], che, già perfezionatasi su quello che potremmo chiamare il piano del diritto pubblico con la triplice interrogazione (all’arrogante, all’arrogando e al popolo), avrebbe comunque necessitato di un’ultima formalità «pour consacrer le changement de gens au point de vue du droit sacré»[41]. Con la solenne rinunzia da parte dell’adottato ai culti della famiglia d’origine, la sacrorum detestatio appunto, l’adrogatio si sarebbe completata anche dal punto di vista sacrale. Al silenzio delle fonti in tal senso, si è sempre contrapposto il generale accordo degli studiosi che vedeva in tale dinamica l’applicazione principale della sacrorum detestatio[42], il ricorso alla quale, in verità, è stato poi spiegato con diverse sfumature.

Per alcuni[43], infatti, il ricorso a essa sarebbe stato necessario solo in occasione del «transito» da parte di un patrizio ad una nuova gens, potendosi trasmettere i sacra familiaria e non anche i sacra gentilicia; altri ancora, rifacendosi ad una nota ipotesi del Mommsen, poi abbandonata dallo stesso studioso[44], ne ammettevano l’uso per il solo caso del patrizio che, col «transito» in una nuova familia, subisse anche un cambiamento di stato sociale, facendosi adottare da un pater  (e divenendo quindi un) plebeo. Va segnalato, però, come quest’ultima interpretazione non abbia avuto particolare fortuna, non fosse altro che per l’abbandono da parte dello stesso Mommsen della sua idea originaria[45].

Giova a questo punto ribadire come a tanta varietà di sfumature interpretative connesse all’accostamento tra adrogatio e sacrorum detestatio, corrisponda in concreto il silenzio delle fonti, dalle quali anzi si possono trarre argomenti a favore della diversità e indipendenza dei due istituti: vi è stato, infatti, chi[46] ha sostenuto questa posizione in virtù della differente tipologia di comizi nei quali essi venivano compiuti, stando proprio all’informazione che è data reperire nel passo di Gellio da ultimo preso in considerazione[47]: si è dunque osservato[48] che la sacrorum detestatio si compiva nei comitia calata; non invece l’adrogatio, che dal diciannovesimo capitolo del quinto libro delle Notti Attiche abbiamo appreso celebrarsi in seno ai comitia curiata. I sostenitori di questa interpretazione hanno conseguentemente escluso, o comunque presentato in maniera dubitativa, un eventuale rapporto genus/species tra queste due tipologie comiziali. Sennonché è proprio dal passo di Gellio contenuto in Noct. Att. 15.27 che si apprende come anche i comitia curiata sono riconducibili alla più ampia categoria dei comitia calata. Non è inoltre mancato chi[49] ha forse confuso i comitia calata in cui si compiva la sacrorum detestatio con i comizi con funzioni (anche e soprattutto) «deliberanti» in cui si compiva l’adrogatio.

Lo stesso Daverio rileva che «la adrogatio si compiva con l’intervento dei comitia curiata, dice Gellio; la sacrorum detestatio si svolgeva nei calata comitia, come lo stesso Gellio riferisce in luogo diverso»[50]: ora, il «luogo diverso» in cui Gellio riferisce quest’ultima informazione è il passo contenuto in Noct. Att. 15.27, dal quale, giova ripeterlo, si apprende che tanto i comitia curiata quanto i comitia centuriata sono riconducibili alla categoria dei comitia calata, tra loro però differenziandosi già per la diversa modalità di convocazione, oltre che per le differenti competenze ad essi riservate. Dire, in assenza di altre precisazioni, che «la sacrorum detestatio si svolgeva nei calata comitia» può comportare una generica allusione ai comitia curiata e ai comitia centuriata, ossia a due tipologie comiziali che lo stesso Autore poco prima[51] aveva ipotizzato essere radicalmente differenti, tanto da non potersi neppure porre in rapporto di genere a specie. Risulta evidente come la differenza sia da individuarsi in un altro elemento, peraltro fornito dalla stessa testimonianza gelliana, contenuta in Noct. Att. 15.27, dove, nell’affermare che il testamentum calatis comitiis in populi contione fieret’, attira l’attenzione del lettore sul momento della contio, in merito al quale è sempre dalle Noctes Atticae che possono trarsi informazioni:

 

Idem Messala in eodem libro de minoribus magistratibus ita scripsit : ‘Consul ab omnibus magistratibus et comitiatum et contionem avocare potest. Praetor et comitiatum et contionem usquequaque avocare potest nisi a consule. Minores magistratus nusquam nec comitiatum nec contionem avocare possunt. Ea re, qui eorum primus vocat ad comitiatum, is recte agit, quia bifariam cum populo agi non potest nec avocare alius alii potest. Set si contionem habere volunt, uti ne cum populo agant, quamvis multi magistratus simul contionem habere possunt ’. Ex his verbis Messalae manifestum est aliud esse ‘cum populo agere ’, aliud ‘contionem habere ’. Nam ‘cum populo agere ’ est rogare quid populum, quod suffragiis suis aut iubeat aut vetet, ‘contionem ’ autem ‘habere ’ est verba facere ad populum sine ulla rogatione[52]

 

Attingendo da Messala, Gellio, dunque, sostiene che la ‘contio ’ consiste nel ‘verba facere ad populum sine ulla rogatione ’; riguarda cioè quel momento in cui non si ha il suffragium, posto che, da parte del magistrato che ha convocato i comizi, non si tratta di altro se non di «parlare» al popolo senza rivolgergli rogatio alcuna: ma ciò è impensabile per l’adrogatio, visto che in tal caso sarebbero mancate proprio quelle rogationes (all’adrogante, all’adrogando e al popolo) che, come si è visto, ne erano l’elemento qualificante: conseguentemente, in occasione di un’adrogatio, e più in generale ogniqualvolta si dovesse passare ad una successiva votazione, la contio rappresentava «un’assemblea regolare ma preparatoria»[53], durante la quale «il popolo era riunito senza distinzioni di gruppi, di centurie o di tribù»[54] ed era informato sulle questioni da trattare.

Lo stesso non può dirsi invece per la sacrorum detestatio, circa la quale non siamo informati dell’esigenza di alcuna rogatio e che pertanto avrebbe potuto tranquillamente celebrarsi, al pari del testamento pubblico, in populi contione.

Risulta quindi opportuno guardare l’accostamento tra adrogatio e sacrorum detestatio con quel «sospetto» di cui già parlava il Daverio, affermando che «nulla autorizza quella ovvia sicurezza»[55], che troverebbe, a detta di molti, una base argomentativa in un passo di Servio[56], ove si afferma che ‘consuetudo apud antiquos fuit, ut qui in familiam vel gentem transiret, prius se abdicaret ab ea, in qua fuerat, et sic ab alia acciperetur’.

Si tratta, in verità, di un appiglio abbastanza labile, tanto che si è prontamente osservato[57] come il passo, peraltro ritenuto «sradicato dal proprio contesto»[58] e quindi non probante, parli di una consuetudo, così da far pensare che il compimento o meno della sacrorum detestatio fosse rimesso al giudizio dei pontefici, i quali avrebbero potuto permettere che chi entrava a far parte di una nuova famiglia conservasse i propri culti familiari accanto a quelli di quest’ultima.

Va poi tenuto in considerazione l’uso che Servio fa del verbo ‘abdicare’. Nell’utilizzo di esso, infatti, si è voluto trovare[59] il riferimento alla sacrorum detestatio come ineliminabile formalità connessa all’adrogatio, essendosi rinvenuti nel verbo in questione tutti quei significati di «negazione», «allontanamento da sé» e «disconoscimento» ritenuti probanti per ricondurlo alla solenne e preliminare rinunzia ai sacra della famiglia di provenienza, che Servio presenterebbe come «una consuetudine presso gli antichi».

In realtà, emerge chiaramente dal passo in questione che Servio non procede alla benché minima correlazione tra il segno abdicare e i sacra della famiglia di provenienza. E’ anzi quest’ultima nella sua globalità ad essere oggetto dell’abdicatio di chi si accingeva ad effettuare il «transito» (‘prius se abdicaret ab ea, in qua fuerat’) in una nuova familia o gens. Questa solenne rinunzia alla familia di provenienza o alla gens di appartenenza (e non ai relativi sacra) può allora intendersi come un’interpretazione (o una spiegazione) di Servio della rogatio rivolta dal pontefice al soggetto adrogando sulla sua intenzione di permettere l’acquisto, in capo al pater adrogans, della potestas su di lui e sui soggetti eventualmente a lui sottoposti[60].

Va inoltre ricordato il passo del de legibus ciceroniano (2.9.22) che termina affermando il principio di diritto pontificale, poi ulteriormente discusso e sviluppato in seguito[61], ‘Sacra privata perpetua manento’. Analogamente al principio ‘perpetua sint sacra’, anche in questo caso si può affermare di non essere in presenza di un precetto generico, o immaginato come ideale, e quindi inesistente: a prescindere dalla sua precisa formulazione la norma – antichissima, visto che Attico non ha difficolatà a ricondurla alle leggi di Numa oltre che ai mores[62] – che imponeva la perpetuità del culto faceva ancora percepire in Cicerone «il peso giuridico di quel principio nella civitas romana»[63].

Il principio della perpetuità del culto – anche di quello privato –, sulla cui effettività avrebbero dovuto vigilare i pontefici, si pone in netto contrasto con la ricostruzione della sacrorum detestatio nel senso inteso dalla dottrina dominante. In particolare, qualora il soggetto adrogato fosse l’ultimo tenuto alla prosecuzione di un determinato culto, e proprio in funzione della sua perpetuità, innanzi ai pontefici non se ne sarebbe potuta effettuare (o, comunque, essi non l’avrebbero permessa) la pubblica abiura. E’ invece più coerente immaginare l’eventuale impostazione contraria, e cioè un’adrogatio compiuta per permettere all’adrogante – ultimo obbligato alla celebrazione di un culto –  di avere un continuatore del culto stesso.

Queste argomentazioni risultano decisive per ritenere non accettabile l’attuale interpretazione dominante che intende la sacrorum detestatio come la pubblica abiura dei propri culti effettuata dal soggetto adrogando prima di effettuare il «transito» in una nuova familia o gens[64].

 

3. – Le altre letture fornite di questo istituto: sacrorum detestatio e giuramento

 

Sono state seguite anche altre vie per fornire un’interpretazione del nostro istituto.

Una lettura[65] collega la sacrorum detestatio col giuramento prestato davanti ai comitia calata. In questo senso, Livio risulterebbe particolarmente rilevante:

 

Iurare cogebant diro quodam carminem, in exsecrationem capitis familiaeque et stirpis composito, nisi isset in proelium quo imperatores duxissent, et si aut ipse ex acie fugisset, si quem fugientem vidisse, non extemplo occidisset.[66]

 

Quippe in oculis erat omnis ille occulti paratus sacri et armati sacerdotes et promiscua hominum pecudumque strages et respersae fando nefandoque sanguine arae et dira exsecratio ac furiale carmen, detestandae familiae stirpique compositum iis vinculis fugae obstricti stabant, civem magis quam hostem timentes[67]

 

Si tratta dei passi in cui Livio testimonia del giuramento prestato dai Sanniti prima di muovere battaglia contro i Romani. Il rituale, sicuramente connesso ad usanze religiose arcaiche, prevedeva l’accompagnamento individuale all’altare (accompagnamento che sembrava più quello di una vittima che di un partecipante al sacrificio[68]) di coloro che, innanzi ad esso, avrebbero giurato di mantenere il segreto su quanto avrebbero visto. Seguiva la terribile formula di giuramento con la quale si invocavano gravi sciagure su se stessi, sulla propria famiglia e sulla propria discendenza (attraverso il carmen in execratione capitis familiaeque et stirpis compositus, del quale non si conserva il formulario) per il caso in cui il giurante non si fosse recato in battaglia secondo gli ordini dei comandanti, o l’avesse abbandonata, o non avesse immediatamente ucciso l’eventuale commilitone sorpreso a fuggire.

Livio sottolinea come il rifiuto di giurare da parte di alcuni fu utilizzato come monito per gli altri, che ebbero modo di vedere i cadaveri martoriati dei primi ai piedi dell’altare, assieme agli animali sacrificati, così da andare poi in battaglia, una volta indotti a prestare il giuramento (‘detestatione obstrictis[69]), con l’orrida immagine ancora davanti agli occhi, e le inquietanti parole della formula del giuramento ben impresse nella mente, tanto da temere, in quanto ad infauste conseguenze, più gli stessi concittadini che i nemici.

La procedura è senz’altro cruenta: facendo riferimento ad essa, accorta dottrina[70] ha sottolineato come il rituale dei Sanniti sia tecnicamente riconducibile al compimento dell’exsecratio, e cioè dell’automaledizione per il caso in cui non si ponga in essere quanto promesso con la formula di giuramento. Tra gli studiosi che hanno affrontato ex professo il tema del giuramento nel mondo romano (e, più in generale, nell’antichità) è discusso se l’exsecratio possa farsi coincidere col giuramento[71] o se non debba piuttosto qualificarsi solo come una parte di esso[72], ancorché molto importante. Quale che sia la posizione da prendersi relativamente a quest’ultimo aspetto, risulterà chiaro che, soprattutto per chi identifica il giuramento con l’exsecratio, l’accostamento ulteriore tra giuramento e sacrorum detestatio deriva proprio dall’identificazione del primo con la exsecratio. Secondo questa lettura, dunque, l’interpretazione dell’istituto della sacrorum detestatio presupporrebbe un’equiparazione semantica tra il segno ‘detestare’ ed il segno ‘exsecrare’, mentre il riferimento ai ‘sacra’ alluderebbe all’oggetto dell’automaledizione per il caso in cui il giurante non avesse mantenuto la promessa giurata. In sostanza, non si sarebbe trattato dell’abbandono dei sacra da parte dell’adrogando, ma del giuramento (o di un’importante componente di esso) che, al pari dei Sanniti, il civis avesse compiuto però innanzi ai comizi: il riferimento a questi ultimi viene ricavato dall’informazione fornita da Gellio nel passo, già presentato[73], in cui espressamente si dichiara che i calata comitia erano il luogo deputato, tra l’altro, ad effettuare anche la sacrorum detestatio. Si può qui rilevare come nel passo gelliano in questione non si effettui nessun collegamento o allusione col giuramento, e già questa argomentazione potrebbe bastare per escludere l’interpretazione appena presentata dell’istituto di cui ci stiamo occupando.

Va peraltro segnalato come in dottrina si sia seguita un’altra via per mettere in relazione il giuramento con la sacrorum detestatio: risale al Careddu l’ipotesi in forza della quale quest’ultima costituirebbe in realtà la fondazione dei sacra, «cioè quell’atto solenne col quale il cittadino romano istituiva i sacrifizii, le cerimonie e le feste, con cui intendeva che fossero onorati ed avessero culto perpetuo i trapassati, ossia i Lari della propria famiglia, atto solenne che doveva compiersi alla presenza del popolo, con l’intervento dei Pontefici»[74]. Rispetto all’interpretazione oggi dominante, questa ipotesi capovolge addirittura i termini della questione: non si tratta più di un ripudio, di un abbandono del culto, ma al contrario di una dichiarazione istitutiva. Pur parendo caduta nell’indifferenza generale, tale ricostruzione, già presa comunque in considerazione da Max Kaser[75] e Pierangelo Catalano[76], è stata definita addirittura «una geniale ipotesi» da Fabrizio Daverio[77], il quale espressamente vi accede, e da Carla Fayer[78].

A fondamento di essa si è utilizzato il significato tecnico della parola ‘detestatio’ che è ancora conservato nel Digesto:

 

‘Detestatum’ est testatione denuntiatum[79]; ‘Detestatio’ est denuntiatio facta cum testatione[80]; ‘Detestari’ est absenti denuntiare[81]

 

Da questi passi si è dedotto che la detestatio «era una dichiarazione cum testatione, ossia fatta in presenza di testimoni espressamente assunti»[82]. La considerazione, poi, che questa solenne dichiarazione in presenza di testimoni avveniva innanzi ai comizi, porta alla conseguenza che, nella sacrorum detestatio, chiamato a rendere testimonianza è il popolo. E possiamo aggiungere che la testimonianza era resa ‘in populi contione’ (esattamente come per il caso del testamentum calatis comitiis), dovendosi procedere solo ad essa e non anche a votazione.

Resta comunque ancora poco chiaro quale fosse l’oggetto di tale testimonianza, posto che l’area semantica coperta dal segno ‘detestatio’ va ben oltre il significato, sino ad ora preso in considerazione, di «pubblica dichiarazione in presenza di testimoni», come sembrerebbero suggerire i riportati frammenti gaiano e ulpianeo, che comunque testimoniano l’esistenza di una gamma di significati del segno in questione più antica e più ampia di quella che, secondo alcuni[83], a seguito della diffusione del cristianesimo[84], si stabilizzerà in epoche più recenti, nelle quali si avranno per acquisiti, per il segno ‘detestatio’, significati quali «rinunzia» o «abiura», e che indubbiamente avranno costituito fattore di persuasione (o quantomeno di suggestione) per quella ricostruzione oggi dominante dell’istituto in esame.

Una maggiore attenzione all’area semantica coperta dal segno ‘detestatio’ porta ad associare ad esso un’ulteriore serie di significati, in particolare quelli di «maledizione», come può leggersi gli in Orazio: ‘dira detestatio nulla expiatur victima[85]; ovvero «abominazione», «esecrazione», come nel già considerato passo di Livio[86], oltre che in Ovidio: ‘Damnavit meritumque nihil pater eicit urbe / Hostilique caput prece detestatur euntis[87], dove emerge peraltro con una certa chiarezza il senso di «esecrare, maledire con l’invocazione degli Dei»[88]. In più occasioni il senso è quello di «disprezzo», come attestato, tra gli altri, da Valerio Massimo (‘licet Athenae doctrina sua glorientur, uir tamen prudens Fabricii detestationem quam Epicuri malu<er>it praecepta[89]; ‘uno enim facto et illas in profundum praecipitauit et omnem nominis sui memoriam inexpiabili detestatione perfudit[90]), da Cesare (‘Catuvolcus, rex dimidiae partis Eburonum, qui una cum Ambiorige consilium inierat, aetate iam confectus, cum laborem aut belli aut fugae ferre non posset, omnibus precibus detestatus Ambiorigem, qui eius consilii auctor fuisset, taxo, cuius magna in Gallia Germaniaque copia est, se exanimavit[91]), e da Seneca (‘inde ille affectus otium suum detestantium querentiumque nihil ipsos habere quod agant[92]; ‘Familia petit vestiarium victumque; tot ventres avidissimorum animalium tuendi sunt, emenda vestis et custodiendae rapacissimae manus et flentium detestantiumque ministeriis utendum[93].

Conseguentemente, il significato di «pubblica dicharazione in presenza di testimoni», proposto, per sostenere la sua ipotesi, dal Careddu, anche in forza dei frammenti gaiano e ulpianeo contenuti nel Digesto, può essere sostituito senza particolari difficoltà con quello di «pubblica esecrazione» o «pubblica maledizione in presenza di testimoni». Si osserverà più avanti come quest’ultima proposta può forse contribuire a riempire maggiormente di significato il frammento di Paolo contenuto in D. 50.16.39.2.

Per il momento osserviamo che l’oggetto di questa «pubblica esecrazione» è rappresentato dal segno ‘sacrorum’. Esso viene spiegato ricordando che i Romani utilizzavano il termine ‘sacra’ «per dinotare un insieme di riti, di cerimonie e di sacrifizî che si celebravano a scopo di culto»[94]: sono notissime le informazioni in merito fornite da Festo, che in un caso attinge da Labeone:

 

Publica sacra quae publico sumptu pro populo fiunt, quaequae pro montibus pagis curis sacellis at privata quae pro singulis hominibus familiis gentibus fiunt[95].

 

Popularia sacra sunt, ut ait Labeo, quae omnes cives faciunt, nec certiis familiis adtributa sunt: Fornacalia, Parilia, Laralia, porca praecidania[96].

 

I sacra, dunque, si distinguevano in publica e privata a seconda che si celebrassero a spese del popolo o si compissero privatamente[97], e, pur potendo alcuni culti privati divenire pubblici, si tende ad ammettere pacificamente «una totale indipendenza del culto gentilizio, e privato in genere, rispetto a quello pubblico»[98]. La sacrorum detestatio viene ricondotta[99] al solo ambito di quest’ ultimo.

Pur ammettendo il silenzio delle fonti in merito, e conseguentemente procedendo in via meramente congetturale, il Careddu ritiene possibile che alla sacrorum detestatio, intesa nel senso di «fondazione dei sacra», potesse accompagnarsi un giuramento imprecatorio, la cui funzione sarebbe stata quella di ulteriormente rafforzare quel «vincolo obbligatorio al cui adempimento stava garante il popolo e vegliava, nell’interesse del culto, il collegio dei pontefici»[100]: istituire e fondare perpetuamente nuovi sacra familiaria con la solenne procedura necessitante il ricorso alla pubblica assemblea e alla presidenza pontificale, infatti, avrebbe importato la conseguenza, per chi avesse proceduto alla loro istituzione, di attendere regolarmente al relativo culto, sopportandone anche gli oneri economici. Va infatti tenuto presente che «tali sacra avevano, come è ormai pacifico, contenuto patrimoniale, e sovente gravoso»[101]. Il ricorso da parte del civis alla testimonianza del popolo unitamente al riconoscimento pontificale, pertanto, viene interpretato come l’unica procedura istitutiva ufficiale di nuovi culti privati: in merito risulterebbero probanti un passo di Cicerone ed uno di Livio:

 

Non solum ad religionem pertinet, sed etiam ad civitatis statum, ut sine iis qui sacris publice praesint, religioni privatae satisfacere non possint[102].

 

An gentilicia sacra ne in bello quidem intermitti, publica sacra et Romanos deos etiam in pace deseri placet, et pontifices flaminesque neglegentiores publicarum religionum esse quam privatus in sollemni gentis fuerit?[103]

 

Cicerone sottolinea come spettasse ai pontefici dirigere tutto il culto privato e pubblico; analoga, e da un angolo visuale che pone l’accento sulla perpetuità dei culti, tanto pubblici quanto – se riconosciuti dai pontefici – privati, è la posizione di Livio.

L’ipotesi del Careddu, pertanto, partendo da questa premessa, ritiene logicamente ammissibile anche l’«istituzionalizzazione» della procedura di creazione di nuovi culti: essa, oltre che con la pubblicità garantita dalla dichiarazione compiuta innanzi all’assemblea del popolo riunito in funzione testimoniale, sarebbe avvenuta sotto quello stesso controllo pontificale poi esercitato successivamente anche in relazione al loro esercizio. Ed anzi, sulla scia dell’insegnamento di Jhering[104], egli ritiene che proprio il giuramento accedente all’istituzione dei nuovi culti, con la sua caratteristica componente di sacralità, avrebbe costituito il trait d’union con il quale determinare l’estensione del potere dei pontefici agli affari civili. Eppure questa suggestiva ricostruzione continua a scontrarsi con l’autorevole obiezione[105] che sottolinea come fosse in facoltà dei pontefici procedere ad istituzione di sacra senza la necessità della presenza dell’assemblea popolare riunita col compito di rendere testimonianza: non si spiegherebbero pertanto i motivi di questa diversità procedurale, e del resto nelle fonti non è dato rinvenire nessun appiglio per procedere ad alcun tipo di giustificazione o differenziazione. E’ per questi motivi che neanche la ricostruzione proposta dal Careddu e sviluppata dal Daverio appare decisiva.

 

4. – Detestatio e alienatio sacrorum

 

Simmetricamente all’interpretazione da ultima presentata, un’ulteriore lettura[106] ha posto il nostro istituto in relazione alla sacrorum alienatio di cui si trova notizia in diversi passi ciceroniani, e addirittura se ne è ipotizzata la coincidenza[107].

 

‘At dignitatem docere non habet’. Certe, si quasi in ludo; sed di monendo, si cohortando, si percontando, si comunicando, si interdum etiam una legendo, audiendo, nescio [cur] cum docendo etiam aliquid aliquando [si] possis meliores facere, cur nolis? An quibus verbis sacrorum alienatio fiat docere honestum est[, ut est]: quibus ipsa sacra retineri defendique possint non honestum est?[108].

 

Si tratta di un passo della digressione[109] in cui nell’Orator Cicerone discute se convenga o meno ad un uomo di stato trattare questioni retoriche, e dopo aver risolto affermativamente la questione egli sottolinea la necessità di dare anche all’insegnamento, se non esercitato ‘quasi in ludo’, la dignità che gli spetta: insegnare a mantenere e tutelare i sacra è infatti parimenti decoroso che insegnare con quali parole sia possibile effettuare la rinunzia ad essi. Non c’è nessun riferimento, dunque, all’istituto della sacrorum detestatio, posto che qui l’alienatio non è intesa nel senso di pubblica abiura, come invece vuole l’interpretazione che si è vista essere oggi dominante, ma di eliminazione dell’onere dei sacra (generalmente derivante da un lascito ereditario, ma non solo).

Quest’aspetto ritorna con una certa chiarezza in un lungo passo tratto dal de legibus ciceroniano:

 

Sed iuris consulti sive erroris obiciundi causa, quo plura et difficiliora scire videantur, sive, quod similius veri est, ignoratione docendi (nam non solum scire aliquid artis est, sed quaedam ars etiam docendi) saepe, quod positum est in una cognitione, id in infinitam disperdiuntur, velut in hoc ipso genere quam magnum illud Scaevolae faciunt, pontifices ambo et eidem iuris peritissimi! “Saepe” inquit Publii filius, “ex patre audivi pontificem bonum neminem esse, nisi qui ius civile cognosset”. Totumne? quid ita? quid enim ad pontificem de iure paretium aut aquarum aut ullo omnino nisi eo, quod cum religione coniunctum est? id autem quantulum est! de sacris, credo, de votis, de feriis et de sepulchris, et si quid eius modi est. cur igitur haec tanta facimus, cum cetera perparva sint, de sacris autem, qui locus patet latius, haec sit una sententia, ut conservarentur semper et deinceps familiis prodantur et, ut in lege posui, perpetua sint sacra?

Exposite haec iura pontificum auctoritate consecuta sunt, ut, ne morte patris familias sacrorum memoria occideret, iis essente a adiuncta,, ad quos eiusdem morte pecunia venerit. hoc uno posito, quod est ad cognitionem disciplinae satis, innumerabilia nascuntur, quibus implentur iuris consultorum libri. quaeruntur enim, qui astringatur sacris. heredum causa iustissima est; nulla est enim persona, quae ad vicem eius, qui e vita emigrat, proprius accedat. deinde, qui morte testamentove eius tantundem capiat, quantum omnes heredes. id quoque ordine; est enim ad id, quod propositum est, adcommodatum. tertio loco, si nemo sit heres, is, qui de bonis, quae eius fuerint, cum moritur, usu ceperit plurimum possedendo. Quarto, qui, si nemo sit, qui ullam rem ceperit, de creditoribus eius plurimum servet. extrema illa persona est, ut is, si qui ei, qui mortuus sit, pecuniam debuerit neminique eam solverit, proinde habeatur, quasi eam pecuniam ceperit.

Haec nos a Scaevola didicimus, non ita descripta ab antiquis. nam illi quidem his verbis docebant: tribus modis sacris astringi, aut ereditate, aut si maiorem partem pecuniae capiat, aut, si maior pars pecuniae legata est, si inde quippiam ceperit.

Sed pontificem sequamur. videtis igitur omnia pendere ex uno illo, quod pontifices cum pecunia sacra coniungi volunt isdemque ferias et caerimonias adscribendas putant. atque etiam dant hoc Scaevolae, cum est partitio, ut, si in testamento deducta  scripta non sit ipsisque minus ceperint, quam omnibus heredibus relinquatur ne alligentur. in donatione hoc idem secus interpretantur, et, quod pater familias in eius donatione, qui in ipsius protestate est, adprobavit, ratum est; quod eo in sciente factum est, si id non adprobat, ratum non est.

His propositis quaestiunculae multae nascuntur, quas quis qui intellegat non, si ad caput referat, per se ipse facile perspiciat? veluti, si minus quis cepisset, ne sacris alligaretur, et post de eius heredibus aliquis exegisset pro sua parte id, quod ab eo, cui ipse heres esset, praetermissum fuisset, eaque pecunia non minor esset facta cum superiore exactione quam heredibus esse relicta, qui eam pecuniam exegisset, solum sine coheredibus sacris alligari. quin etiam cavent, ut, cui plus legatum sit, quam sine religione capere liceat, is per aes et libram heredes testamenti solvat, propterea quod eo loco res est ita soluta ereditate, quasi ea pecunia legata non esset.

Hoc ego loco multisque aliis quaero a vobis, Scaevolae, pontifices maximie et homines meo quidem sudicio acutissimi, quid sit quod ad ius pontificium civile appetatis; civilis enim iuris scientia pontificum quodam modo tollitis. nam sacra cum pecunia pontificum auctoritate, nulla lege coniuncta sunt. itaque si vos tantum modo pontifices essetis, pontificalis maneret auctoritas, sed quod idem iuris civilis estis peritissimi, hac scientia illam eluditis. placuit P. Scaevolae et Ti. Cornucanio, pontificibus maximis, itemque ceteris, eos, qui tantundem caperent, quantum omnes heredes, sacris alligari. habeo ius pontificium; quid huc accessit ex iure civili? partitionis caput scriptum caute, ut centum nummi deducerentur; inventa est ratio cur pecunia sacrorum molestia liberaretur. quasi hoc, qui testamentum faciebat, cavere noluisset, admonet iuris consultus hic quidem ipse Mucius, pontifex idem, ut minus capiat, quam omnibus heredibus relinquatur; super dicebant quicquid cepisset, astringi; rursus sacris liberantur. hoc vero nihil ad pontificium ius et e medio est iure civili, ut per aes et libram heredem testamenti solvant et eodem loco res sit, quasi pecunia legata non esset, si is, cui legatum est, stipulatus est id ipsum, quod legatum est, ut ea pecunia ex stipulatione debeatur, sitque ea non.[110]

 

Viene qui presentata e criticata la tendenza dei giuristi i quali, più che altro per ignoranza di metodo, tendono a effettuare innumerevoli ripartizioni in seno ad un unico concetto. In particolare, poi, si sottolinea anche la tendenza dei pontefici a estendere le competenze proprie dello ius pontificium anche ad aspetti del diritto civile che poco hanno a che vedere con tutto quanto è connesso all’oggetto specifico di esso, e cioè il culto, il suo esercizio e, in ultima analisi, la sua perpetuità. Nello specifico, Cicerone rileva come il problema della perpetuazione del culto, connessa alla distribuzione dei beni ereditari, era dagli antichi risolta in tre possibili modi, in forza dei quali l’onere dei sacra era addossato agli eredi, o a chi avesse percepito la maggior parte del patrimonio oppure a chi, pur essendo dispersa in legati la maggior parte dei beni, avesse comunque conseguito qualcosa. Da questa tripartizione è poi derivata tutta una serie di corollari volti a creare ulteriori regole per individuare chi sia tenuto alla continuazione del culto: vengono così presi in considerazione innanzitutto gli eredi, ovvero chi consegua per testamento una quota pari alla somma di quelle spettanti alla totalità degli eredi. Per il caso di loro assenza, poi, l’onere viene accollato a chi abbia comunque conseguito la maggior parte dei beni appartenenti al de cuius al tempo della sua morte, ovvero, se nessuno sia venuto in possesso di qualcosa, a quello dei creditori che abbia la disponibilità della maggior parte delle sostanze ereditarie o, infine, a colui che, essendo debitore del de cuius al tempo della morte di questi, e non avendo liquidato ad altri il suo debito, si considera come se avesse conseguito quella somma.

Cicerone considera poi le ulteriori conseguenze a cui si perveniva da tale regolamentazione, prendendo in esame la situazione di chi avesse conseguito meno di quanto gli spettasse per legge, al fine di evitare di accollarsi l’onere del culto, e delle eventuali pretese dell’ erede di costui in relazione a quanto non conseguito dal proprio dante causa (in questo caso se costui avesse percepito un’integrazione tale da equiparare la quota del suo dante causa a quella percepita dagli altri coeredi, egli avrebbe tuttavia dovuto addossarsi l’onere dei sacra senza condividerlo con costoro). Viene inoltre rappresentata anche la situazione contraria, e cioè il caso di chi avesse percepito tramite legato più di quanto conseguito dagli eredi: anche tale legatario avrebbe potuto liberarsi dall’onere della continuazione dei sacra mediante liquidazione del relativo valore agli eredi, quasi come se quel denaro non fosse mai stato legato.

Questa tendenza dei pontefici a elaborare regole, che in concreto si rivelano escamotage per liberare il patrimonio dall’onere della continuazione del culto, sembra proprio non essere apprezzata da Cicerone, il quale altrove è ancora più esplicito, affermando che gli antichi non approvarono mai la derelizione dei sacra[111].

Come si è accennato, Cicerone ne individua le cause nell’abitudine dei pontefici a estendere le proprie competenze, e ad appannare la specificità delle proprie conoscenze, tanto che si può concordare con quell’opinione che legge l’atteggiamento dei pontefici, riportato nella testimonianza ciceroniana, come un’attività «poco onesta, contraria agli antichi principi: chiaramente, è tutt’altra cosa, nonostante certi immotivati accostamenti che si sono fatti, dalla sacrorum detestatio»[112]. Ad ulteriore riprova di ciò, va sottolineata l’assenza totale di riferimenti alla sacrorum detestatio nel de domo sua di Cicerone, soprattutto laddove egli ricorre a tutto l’armamentario giuridico per far invalidare la confisca della sua proprietà effettuata da Clodio, sostenendo la nullità di tutti gli atti da lui compiuti in qualità di tribuno della plebe proprio perché per assumere tale carica egli, patrizio, si era fatto adottare (in realtà: adrogare) da un pater plebeo[113], peraltro molto più giovane di lui, al punto che avrebbe potuto essere suo figlio.

In forza di queste osservazioni, pertanto, non si ritiene corretto a procedere a un’equiparazione tra la sacrorum detestatio e quell’alienatio a cui fa riferimento Cicerone.

 

5. – L’interpretazione risalente al Cuiacio

 

Un’interpretazione, risalente al Cuiacio ha posto il nostro istituto in relazione al testamento:

 

Legem 39 putem etiam referendam ad ius Pontificium. Multa iuris antiqui vestigia sepulta sunt in hoc titulo, et indicabimus inde multa procedente tempore. Videtur autem haec lex referenda ad eam partem juris pontificii, quae est de sacris detestandis. Nam ea explicat quid sit detestari, quod est vetum Pontificum, et Decemvirorum verbum: detestari, ut Florent. scriptum est, non attestari, ut in l. seq. quod Graeci recte δισμαρτόρασθαι interpretantur. Servius Sulpit. JC. scripsit libros de sacris detestandis. Solebant enim antiqui JC. juris civilis cognitionem conjungere cum jure Pontificio. Idem Pontifices factitabant, nec erat Jurisconsultus qui Jus Pontificium ignorasset, nec Pontifex, qui jus civile. Igitur non mirum si de his libros scripserit Servius Sulpitius. Gellius lib. 6 cap.12 citat. Servium lib. 2 de testamentis. Libri scripti omnes habent, de sacris detestandis, Servius Sulpitius dixerit testamentum dici a mentis contestatione, quae est origo verbi concinna et scita potius, quam vera, sicut illa mutuum dici, quod de meo fiat tuum, et illa Trebatii, Sacellum dici a sacra cella cum sacellum, et testamentum sit verbum simplex, non duplex. Sed ideo libri de sacris detest. et de test. tractarunt, quod testamenta sequantur sacra, quodque et testamenta, et sacrorum detestatio fieri solerent calatis comitiis, Gellius lib. 15 cap. 27. igitur cum in hac l. 39 Paulus dicat, detestari esse absenti denuntiare, detestari sacra interpretatur hoc esse absenti denuntiare, testato scilicet et prodere sacra, ut ea suscipiat, et faciat, vel quod sit haeres defuncit, vel quod ex legato tantam partem bonorum ceperit, quantam omnes haeredes, vel quod de bonis, quae ejus fuerunt, cum moreretur, usuceperit plurimum, hic cum bonis debet etiam suscipere sacra, si velit capere haereditatem, et bona. Et ita detestari in 12 tabulis accipitur pro absenti denuntiare cum testatione , l. 238 inf. in §. 1. quae est ex libris ad 12 tabulas. His autem omnibus personis, id est, haeredibus, et legatariis, quibus tanta pars bonorum relicta est, quanta haeredibus, et iis, qui usuceperunt plurimum bonorum defuncti, ut Cicero exposuit 2. de legibus, feriae, et ceremoniae, id est, sacra familiare, et gentis defunti adscribuntur: adscribuntur dixit, quod hic subsignantur, et videtur subsignandi verbum, ipsius juris Pontificii fuisse, simulque civilis pro subscribere, ut haeredibus subsignarentur, id est, subscriberentur feriae, et ceremoniae, sic veteres loquebantur. Festus in verbo signare. Signare ponebant antiqui pro scrivere, ut subsignare, et consignare, pro scribere, et conscribere. Antiquum etiam detestandi  verbum pro denuntiatione, quae fiebat testato; sane antiquum, cum usurpatum sit in 12. tabulis. Ergo hujus legis, in qua explicatur quid sit subscribere, quid subsignare, su menda est interpretatio ex jure antiquo, et pene jam obsoleto. In eo autem jure ad quod retuli hanc legem, docet subsequenter Paulus hic, bona accipi deducto aere alieno, cum dicimus eum alligari sacris, et detestari sacra, et subsignare, qui partem bonorum jure legati ceperit, vel usucapionis jure. Bona intelleguntur deducto aere alieno, ut in lege Falcidia, et in edicto de collatione bonorum, quod exposui in l. 21. sup. Et nominatim proditum est de legato partitionis, quod alligat sacris, l. 8. §. ult. de leg. 2 ubi dicitur, eum, cui pars haereditatis legata est, etc. atque ideo non capit eam partem legatarius sine sacris, et religione, nisi aes alienum ei nominatim injunctum sit: tunc enim liberabitur sacris. Certo etiam possessori bonorum defuncti subsignantur sacra, non incerto. Id evidens est: ob id ultimo loco incertum possessorem definit, quem ignoramus: cum non est, quem sciamus possedere, non est etiam cui subsignemus sacra, sicut in titulo de rei vindicatione. Incerta pars est, si ignoretur quota sit. Ad tandem partem juris Pontificii de sacris detestandis posset referri initium l. 40. ubi eodem modo, quo in 39. detestatio definitur, denuntiatio facta cum testatione, id est, μετὰ μαρτύρων, absenti scilicet[114].

 

Anche se si è rilevato[115] che questo accostamento, rispetto a quello oggi dominante con l’adrogatio, presenta quantomeno il carattere della discutibilità, e non, come accade nell’altro caso, dell’arbitrarietà, esso, dopo aver avuto un certo seguito nella dottrina meno recente[116], viene oggi generalmente rifiutato.

I motivi principali sono da ravvisarsi in una lettura del commento di Cuiacio che lo orienta verso l’individuazione della sacrorum detestatio come di un atto «mediante il quale il testatore, dopo aver fatto testamento nei comitia calata addossava all’erede il peso dei sacra»[117]. La sacrorum detestatio, pertanto, viene qui presentata come atto distinto e parallelo ad una delle più antiche forme di testamento, volto a concorrere con essa per completare e perfezionare il fenomeno successorio nella sua interezza: col testamento si sarebbe provveduto a trasferire i corpora hereditaria e, più in generale, quelli che, con terminologia giuridica moderna, possiamo chiamare i rapporti giuridici trasmissibili facenti capo al testatore; con la sacrorum detestatio, invece, si sarebbe provveduto a regolamentare il «passaggio» dell’onere del culto. Questa lettura, che pone in correlazione sacrorum detestatio e testamento ha poi senz’altro tratto argomenti anche dalla radicata, ancorché a mio avviso inaccettabile[118], impostazione dottrinale che ha identificato l’antico testamento pubblico con l’adrogatio, procedendo conseguentemente ad operare un abusivo collegamento con la sacrorum detestatio[119].

E’ sufficiente rimandare al lungo passo tratto dal de legibus, considerato poc’anzi, per rigettare questa interpretazione, non fosse altro che per la chiara affermazione ciceroniana in forza della quale si evince il principio per cui «l’obbligo al culto era indissolubilmente legato alla successione dei beni, indipendentemente dal fatto se uno lo avesse imposto o meno all’erede»[120]. Abbiamo anzi considerato il sostanziale sfavore con cui l’Arpinte guardava all’impegno pontificale volto a ricavare regole per ottenere l’effetto contrario, e cioè liberare l’eredità dall’onere dei sacra.

Questi aspetti non sembrano essere tenuti nella debita considerazione da Cuiacio nel suo commento: se, infatti, è vero che, mentre attendeva ad esso, egli doveva almeno conoscere, se non proprio avere sotto gli occhi, il de legibus ciceroniano, unitamente agli scritti di Gellio e Festo, visti gli espressi e numerosi riferimenti da lui effettuati per presentare una rassegna della casistica in merito alla regolamentazione della perpetuità dei sacra, purtuttavia, trovandosi a commentare il titolo de verborum significatione del Digesto, e avendo ben presente che «multa juris antiqui vestigia sepulta sunt in hoc titulo», la sua attenzione, più che sul fastidio con cui Cicerone guardava alla tendenza dei pontefici ad ampliare l’ambito delle proprie competenze al fine di formulare regole per eliminare l’onere dei sacra, è rivolta a tracciare percorsi semantici idonei a spiegare il significato di termini antichi e tecnici. ‘Detestatum’ (e quindi anche ‘detestatio’) è uno di questi: risale sicuramente alle XII Tavole visto che si fa menzione di esso nel frammento contenuto in D. 50.16.238, in cui è riportato un passo tratto dal sesto libro del commento di Gaio alle XII Tavole. Conseguentemente Cuiacio, nel commentare i frammenti contenuti in D. 50.16.39.2 (Paul., 53 ad ed.) e in D. 50.16.40.pr. (Ulp. 56 ad ed.), dove Paolo e Ulpiano riportano l’interpretazione dei segni ‘detestari’ e ‘detestatio’, evidentemente contenuti nell’editto, effettua un pronto rinvio al frammento gaiano.

La riferibilità all’alta antichità del materiale contenuto nel titolo in esame, peraltro, lo porta a sottolineare la compresenza, nei temi in esso inclusi, di ius civile e ius pontificium[121]. Essa non è guardata con lo stesso fastidio di Cicerone, ma è anzi presentata come un qualcosa di così normale, che non doveva stupire il fatto che anche dei giuristi si erano cimentati nella composizione di opere di ius pontificium. Tuttavia, non risulta opportuna esemplificazione di quest’assunto il riferimento all’opera de sacris detestandis del giurista Servio Sulpicio: per quel che possiamo sapere essa, infatti, non trattava del diritto sacro, ma concerneva la materia testamentaria.

Se questo dato non sembra riferito con piena consapevolezza nel commento di Cuiacio, esso appare più evidente da una sia pur superficiale comparazione con la fonte gelliana:

 

Servius Sulpicius iureconsultus, vir aetatis suae doctissimus, in libro de sacris detestandis secundo qua ratione adductus ‘testamentum’ verbum esse duplex scripserit, non reperio; nam compositum esse dixit a mentis contestatione. Quid igitur ‘calciamentum, quid ‘paludamentum’, quid ‘pavimentum’, quid ‘vestimentum’, quid alia milia per huiuscemodi formam producta, etiamne ista omnia composita dicemus? Obrepsisse autem videtur Servio, vel si quis est, qui id prior dixit falsa quidem, sed non abhorrens neque inconcinna quasi mentis quaedam in hoc vocabolo significatio, sicut hercle C. quoque Trebatio eadem concinnitas obrepsit. Nam in libro de religionibus secundo: ‘“sacellum” est’ inquit ‘locus parvus deo sacratus cum ara’. Deinde addit verba haec: ‘“Sacellum” ex duobus verbis arbitror compositum “sacri” et “cellae”, quasi “sacra cella”.’  Hoc quidem scripsit Trebatius; sed quis ignorat ‘sacellum’ et simplex verbum esse et non ex ‘sacro’ et ‘cella’ copulatum, sed ex ‘sacro’ deminutum? [122]

 

E se Gellio risulta particolarmente notevole per permettere a Cuiacio, nel parlare delle «commistioni» tra diritto pontificale e diritto civile, di ricordare comunque l’opera di Servio Sulpicio Rufo e permettergli, facendo riferimento anche al de religionibus di Trebazio, di effettuare digressioni sulla derivazione delle parole – digressioni che chiaramente non dovevano risultare poi tanto inopportune commentando il titolo de verborum significatione –, sarà sempre Gellio a rivelarsi fondamentale per far procedere Cuiacio, e non solo lui, all’accostamento tra sacrorum detestatio e testamento.

 

6. – Conclusioni. Congettura sulla originaria funzione dell’istituto

 

Il collegamento con il testamento, dunque, merita forse una maggiore attenzione. Il dato certo che si ricava dall’informazione gelliana è che sacrorum detestatio e testamentum si compivano calatis comitiis. Peraltro, l’assemblea in cui si celebrava il testamentum non coincideva con quella in cui invece si celebrava l’adrogatio[123], per la semplice considerazione in forza della quale quest’ultima prevedeva le più volte ricordate rogationes: in particolare, quella rivolta al popolo necessitava che esso non rimanesse nello stato disordinato della contio; il testamentum, invece, avveniva in populi contione. Il fatto, poi, che nessuna fonte ci informa della necessità, per la sacrorum detestatio, di procedere ad una qualsivoglia forma di suffragium, unitamente all’osservazione per cui Gellio accosta testamentum e sacrorum detestatio, mi porta ad ipotizzare che anche quest’ultima poteva celebrarsi in populi contione, e quindi nella medesima assemblea in cui si celebrava il testamento.

Tanto il testamento quanto la sacrorum detestatio, inoltre, presentano la medesima caratteristica di compiersi pubblicamente in presenza di testimoni: anche la comune radice semantica è chiarissima in questo senso, e al medesimo risultato conduce l’analisi dell’accezione del verbo e del sostantivo relativi, presenti nella Legge delle XII Tavole, e dei quali, come si è evidenziato, ancora resta memoria nel Digesto. Ma se il testamento consiste nella pubblica dichiarazione in presenza di testimoni delle proprie volontà per il periodo successivo alla propria morte, per formulare un’ipotesi su cosa sia la sacrorum detestatio si deve compiere una duplice operazione: da un lato è necessario rammentare quella serie di significati «negativi» («maledizione», «abominazione», «esecrazione», «disprezzo»), che si sono ricondotti al segno ‘detestatio’ sulla base delle fonti presentate, e, col conforto di quei dati testuali, assumere come ipotesi di lavoro che la detestatio consista proprio in una quelle attività negative. Conseguentemente, così individuato il contenuto di tale attività, si dovrà procedere alla delimitazione del suo oggetto, indicato dal segno ‘sacrorum’.

Relativamente a quest’ultimo punto, credo sia emerso con una certa evidenza come l’analisi che generalmente si conduce del segno ‘sacrorum’ porta a legarlo con i sacri culti familiari, chiaramente distinguendoli, in forza di quanto evidenziato in precedenza, da quelli pubblici. Si deve rilevare, inoltre, la tendenza a non approfondire ipotesi che prendessero in considerazione l’altra serie di significati, anch’essi, come nel caso del segno ‘detestatio’, tutti dal contenuto «negativo», riconducibili alla parola ‘sacer[124], che, essendo inizialmente termine tecnico del linguaggio religioso[125], assume poi il significato traslato e generico di «maledetto», «esecrato», «empio», «criminale», «infame», «sbarrato a piede profano», «isolato», «scomunicato come indegno dalla sociale convivenza»: «Sacer esto è dunque “sia bandito”, “sia interdetto”»[126]. Eppure l’utilizzo in tal senso del segno ‘sacer’ non è estraneo alla lingua latina: lo si rinviene, ad esempio, in Plauto[127], in Orazio[128] – che richiama la formula decemvirale, in cui pure il segno in questione era contenuto, e con la quale si sanzionava la malafede del patrono (‘patronus si clienti fraudem fecerit, sacer esto[129]) ­–, in Livio[130], Virgilio[131], in Seneca[132], senza dimenticare poi la sua più antica attestazione epigrafica nei segni ‘sakros esed’, vetusta forma della clausola ‘sacer esto’, presenti sul lapis niger nel Comizio[133].

Va inoltre segnalato come l’indicazione dell’ambivalenza del segno ‘sacer’ nella sanzione rappresentata dal ‘sacer esto’ sia ben presente nelle trattazioni che, anche in tempi recenti, hanno affrontato il tema[134]: in letteratura, infatti, non si è mancato di sottolineare questa interessante ambiguità semantica del segno ‘sacer’ che, anzi, nelle sue formulazioni più antiche, addirittura riconducibili alle cosiddette leges regiae[135], tende spessissimo ad indicare anche persone e cose in senso altamente negativo, soprattutto in esito alla loro dichiarazione di sacertà[136]. Lo studio delle varie ipotesi ha comportato l’individuazione di alcuni casi qualificati come colpe inespiabili ed espressamente sanzionati nelle fonti con la comminazione della sacertà, e di altri solo interpretabili in tal senso[137]. In particolare, limitatamente al periodo arcaico, si possono ricordare i casi[138] che prevedevano e punivano la verberatio parentis[139], dove il sacer esto è comminato al puer o alla nurus che avessero fustigato un parens, comportando la ploratio di costui; gli atti di abuso della patria potestas (quali il ripudio ingiustificato della moglie[140], o la soppressione di infanti minori di tre anni se non storpi o mostruosi[141]), le offese alla pudicitia[142], la rimozione dei termini dei campi[143] (è discusso se possano qualificarsi ipotesi specifiche di questa previsione la maledizione ‘sakros esed’ nel cippo del Foro, ossia la maledizione nei confronti di chi avesse osato violare quel luogo[144], e la comminazione della sacertà nei confronti di chi avesse osato rimuovere il corpo dell’uomo colpito e ucciso dal fulmine[145]), lo spergiuro[146], e, come si è accennato in precedenza, l’infrazione della fides nel rapporto clientelare. Con maggiori dubbi[147] si considera anche l’ipotesi della sepoltura di una donna gravida senza averne estratto il feto[148].

Sin dalle sue più remote manifestazioni, dunque, la sacratio risulta essere la sanzione irrogata in capo a colui il quale abbia violato la pax deorum, ossia abbia violato «la situazione di armonia che deriva dal rispetto dei criteri che garantiscono la conservazione dell’equilibrio cosmico»[149]. Conseguentemente, soprattutto in epoca arcaica, è sacer colui il quale abbia infranto «basilari regole di comportamento»[150].

Rimane oggetto di vivace discussione se la sacertà insorgesse automaticamente in capo all’autore della violazione, o se essa conseguisse necessariamente all’esito di un’apposita procedura; inoltre, sempre ricorrendo a terminologia e concetti giuridici moderni, ci si è interrogati circa la natura di essa, se dichiarativa o addirittura di accertamento e costitutiva[151]: ma, a tal proposito, non si può che procedere a formulare congetture, vista l’alta antichità del tema trattato e l’esiguità e non esaustività dei dati testuali in nostro possesso. Ciononostante, la considerazione del periodo (soprattutto di quello predecemvirale) come proprio di una civiltà che attribuiva un’enorme importanza all’oralità e alla gestualità rituale[152] porterebbe a propendere per la necessità, ai fini della produzione di determinati effetti, di una ritualità precisa, la quale, se non arriva a richiedere l’organizzazione e la solennità di un processo, necessita comunque della solenne pronuncia di determinate parole, a cui ovviamente corrispondono precise conseguenze. A tal proposito, in quanto alla sacertas, si è osservato[153] che la sua automatica operatività sul piano sacrale non escludeva la necessità di un’apposita delibera assembleare, costituente il momento a partire dal quale l’homo sacer veniva considerato tale da tutta la società[154]. In realtà, nulla esclude che, per determinate ipotesi, più che di una delibera dell’assemblea del popolo, ci fosse bisogno solo di una presa d’atto da parte di quest’ultima, la cui funzione, pertanto, era quella di conferire solennità, assumendo funzione testimoniale, alle gravi dichiarazioni che innanzi ad essa il civis avesse compiuto. Forse quest’ultima ipotesi è quella più verosimile, se solo si rammenta l’osservazione[155] per cui la serie di casi al verificarsi dei quali era prevista la sacertas per il loro autore è costituita da un elenco tutt’altro che esaustivo ed omogeneo. Tale eterogeneità, peraltro, si riflette anche sulle conseguenze per il colpevole: se, infatti, la morte ne era la principale, tuttavia essa non si caratterizza per la sua ineluttabilità, apparendo la sacertas «come una sanzione elastica»[156].

L’istituto della sacrorum detestatio può forse leggersi alla luce di quanto si è rilevato sin qui. Si potrebbe, infatti, escludere il riferimento del segno ‘sacrorum’ ai sacri culti familiari, per effettuarlo, invece, ai sacri, e cioè agli empi, agli esecrandi. E l’«esecrazione pubblica degli empi» mi pare dunque essere l’attività in cui consisteva la sacrorum detestatio.

In questa maniera si supererebbe l’osservazione di chi[157] considerando le accezioni negative della sola parola ‘detestatio’, e correlandola ai sacra, ne escludeva la riferibilità all’istituto in esame, posto che la «maledizione» o il «disprezzo» dei sacri culti familiari si sarebbe tradotta in un’inconcepibile ammissione, da parte dei Romani, di «una sorta di bestemmia contro i loro riti più preziosi»[158].

In quanto alla provenienza soggettiva di tale pubblica esecrazione, nel silenzio delle fonti, le alternative mi sembrerebbero essere due: essa sarebbe provenuta o dal pontifex che presiedeva il comizio o dal civis stesso. Nel primo caso, l’istituto così inteso e ricostruito si caratterizzerebbe per la sua finalità di pubblica abominazione dell’autore di un atto lesivo affidata a chi presiedeva il comizio: non abbiamo dati testuali che in qualche modo fanno riferimento ad un siffatto procedimento verosimilmente volto a creare una nuova ipotesi, tipica o meno, di sacertà, e pertanto non siamo in grado di dire se, in epoca arcaica, all’esito di esso ne sarebbe conseguita l’impossibilità, per colui il quale ne fosse stato colpito, di partecipare all’assemblea curiata, il che ne avrebbe comportato l’estromissione dalla comunità stessa, come vorrebbe l’acuta ricostruzione dell’istituto proposta dal Danz[159].

Per il caso in cui la pubblica esecrazione fosse effettuata dal civis, invece, si sarebbe realizzata un’ipotesi che avvalorerebbe di molto la tesi di Zabłocki[160], il quale interpreta la sacrorum detestatio come l’archetipo della diseredazione[161]. In questo caso il nostro istituto accederebbe a quelle ipotesi, già ricordate, di offesa o indebita limitazione della potestas da parte di soggetti ad essa sottoposti, e si caratterizzerebbe come una «modalità di reazione» concessa dall’ordinamento arcaico a quel civis che avesse subìto un affronto ritenuto particolarmente grave da uno o più soggetti alla sua potestas, in particolare da quelli appartenenti a quelle categorie che, alla morte di costui, avrebbero mutato status, divenendo sui iuris, e sarebbero state chiamati a succedergli, in forza di quella che sarà poi chiamata la successione ab intestato: i sui, e più precisamente i figli e le donne in manu[162]. L’individuazione di questi soggetti col ricorso al plurale (‘sacrorum’) può verosimilmente interpretarsi come un riferimento alla totalità degli alieni iuris come possibili destinatari dell’esecrazione stessa. Sul piano patrimoniale, la conseguenza minima immaginabile nei confronti di costoro sarebbe stata, all’esito della loro pubblica e solenne esecrazione, l’eliminazione di ogni eventuale aspettativa successoria.

Questa impostazione contribuirebbe inoltre a dare una lettura relativamente alla dinamica della successione romana arcaica: essa, in condizioni per così dire «di normalità», sarebbe affidata alle regole proprie della successione legittima, salvo che il pater – testatore non modificasse tale ordine mediante l’esclusione dal consorzio domestico di quei sottoposti alla sua potestas (e nei confronti dei quali si sarebbe aperta la successione ereditaria ab intestato nel momento della morte di lui) che avessero in qualche modo proceduto a turbarla o offenderla, giustificando e comportando così la pubblica e solenne esecrazione. Ciò avrebbe necessitato una nuova regolamentazione dell’assetto successorio e a questo sarebbe (anche) servito il testamento pubblico che, come si è visto, poteva celebrarsi nella medesima assemblea della sacrorum detestatio. L’accostamento di questi due istituti, allora, sembra giustificarsi così per un motivo funzionale, che nell’eterogenea mole di informazioni riversata da Cuiacio nel suo commento pare essersi smarrita, emergendo maggiormente le correlazioni tra successione testamentaria e problemi di perpetuazione del culto, che abbiamo visto essere la preoccupazione principale di Cicerone, a cui Cuiacio, come si è rilevato, deve molto.

L’antico testamento pubblico, pertanto, può porsi in relazione con la sacrorum detestatio solo in questo senso di atto conseguente, volto a regolamentare in maniera nuova e diversa la successione.

Il fatto che Cicerone non ne faccia cenno può spiegarsi ribadendo l’osservazione per cui, nei passi presi in esame, la sua preoccupazione è un’altra: tutti gli sforzi dell’Arpinate, infatti, sono volti a presentare in maniera non propriamente favorevole la più volte ricordata tendenza pontificale ad ampliare la propria sfera di competenze per poter poi elaborare regole che, invece di garantire e sorvegliare la perpetuità dei sacra, ne permettevano l’abbandono. Il problema va quindi impostato in altra maniera, e rapportato con l’epoca arcaica, precedente la legislazione decemvirale, che vide le celebrazioni, oltre che della sacrorum detestatio, anche delle antiche forme pubbliche di testamento: tanto dell’una quanto delle altre, lo stesso Cicerone non poteva che conservarne solo un ricordo. Verosimilmente, infatti, il testamentum calatis comitiis dev’essere andato scomparendo tra la fine dell’età arcaica e il primo periodo preclassico, mentre il testamentum in procinctu in età repubblicana avanzata[163].

La familiarità che Cicerone dimostra avere col testamento e non con la sacrorum detestatio può allora spiegarsi nel senso che il primo, ancorché profondamente modificato, continua a esistere come istituto: lo stesso non può invece dirsi per la sacrorum detestatio, nel momento in cui esaurisce il suo ruolo di antecedente funzionale della diseredazione.

 

 



 

[1] F. Savigny, Üeber die juristische Behandlung der sacra privata bei den Römern und über einige damit verwandte Gegenständte, in «ZGR.», II, 1815-1816, 362 ss., 401 ss., e la si ritrova in T. Mommsen, Römisches Staatsrecht, III.1, (1886), rist. Basel, 1952, trad. fr. Le droit public romain –, VI.1, Paris, 1889, 41 s.; G. Wissowa, Religion und Kultur der Römer2, München, 1912, 401, nt. 8, 512; C.G. Bergman, Beiträge zum römischen Adoptionsrecht, Lund-Leipzig, 1912, 137, nt. 1; M. Kaser, Das altrömische ius. Studien zur Rechtsvorstellung und Rechtsgeschichte der Römer, Göttingen, 1949, 181, nt. 18, 342, nt. 39, 343, nt. 45; G. Humbert, sv. detestatio sacrorum’, in «Dictionnaire des antiquités graecques et romaines», (dir. C. Daremberg, E. Saglio), II.1, Paris, 1892, 113; J. Paoli, Le testament ‘calatis comitiis’ et l’adrogation d’Octave in «Studi E. Betti», III, Milano, 1962, 541 s.; L. Lange, Römische Alterthümer, I, 132 ss.; G. Dumézil, La religion romaine archaïque. Avec un appendice sur la religion des etrusques2, Paris, 1973, trad. it – La religione romana arcaica. Miti leggende realtà della vita religiosa romana con un’appendice sulla religione degli etruschi – , Milano, 2001, 528: «Il passaggio da una gens all’altra comportava una detestatio sacrorum, una pubblica rinuncia ai sacra, che si compiva nei comitia calata», Talamanca, op. cit., 126: G. Franciosi, Famiglia e persone in Roma antica. Dall’età arcaica al Principato3. Torino, 1995, 61: «La procedura dell’adrogatio, che in antico comportava la presenza dei comitia curiata (calatis comitiis) presieduti dal pontifex maximus, prevedeva la detestatio sacrorum, cioè la rinuncia ai propri sacra familiaria (e gentilicia) che si estinguevano a seguito di un rituale a noi ignoto».

 

[2] Cfr. F. Daverio, Sacrorum detestatio, in «SDHI.», XLV, 1979, 544.

 

[3] O, comunque, una ineliminabile formalità.

 

[4] Come già rilevava Eineccio. Cfr., infatti, J.G. Heineccii, Antiquitatum romanarum jurisprudentiam illustrantium Syntagma secundum ordinem Institutionum Justiniani digestum. In quo multa Juris Romani atque Auctorum Veterum loca explicantur & illustrantur. Tomus primus. Accedit vita Jo. Gottl. Heineccii a Jo. Chr. Gottl. Heineccio ejus Filio conscripta. Editio caeteris Italicis. Longe auctior & castigatior. Neapoli, mdcclxiv, Prostant Venetiis Apud Jo. Baptistam Pasquali. Superiorum Venia, ac privilegio, 213: «Pontificum vero auctoritate opus videbatur, non ob jurisjurandi religionem, quo adrogatio ab omni calumnia & fraude pura praestaretur, (…) sed quia adoptivi, relictis sacris familiae, in alterius gentis sacra transitabant». Cfr., inoltre, M. Kaser, Römisches Privatrecht17, München, 2003, 380, dove il compimento della detestatio sacrorum è presentato in termini di necessaria preliminarietà all’atto successivo (e contestuale) dell’adrogatio: «Dem Beschluss geht ein Akt voran, mit dem sich der Anzunehmende vor der Versammlung von seinen bisherigen Hausheiligtümern löst (detestatio sacrorum)». M. Careddu, La «sacrorum detestatio» nel diritto romano, in «Studi C. Fadda», I, Napoli, 1906, 393, riferisce come la communis opinio della dottrina ai primi del Novecento parli di essa come di una formalità sacrale complementare all’adrogatio. Eppure, ancora in tempi recenti, cfr. J. Zabłocki, Appunti sulla ‘sacrorum detestatio’, in «BIDR», XCII-XCIII, 1989-1990, 525 il quale esordisce sottolineando la poca chiarezza caratterizzante l’istituto che M. Talamanca, Istituzioni di diritto romano, Milano, 1990, 126, ritiene essere «per noi poco più di un nome».

 

[5] M. Bretone, Storia del diritto romano11, Roma-Bari, 2006, 110, pur non facendo espresso riferimento alla sacrorum detestatio, rileva come l’adrogatio, assieme al testamentum calatis comitiis, «non erano irrilevanti sul piano religioso, perché determinavano il destino dei culti familiari». Inoltre va ricordata l’ipotesi per cui anche la donna sposata (cum manu) doveva celebrare la detestatio sacrorum, uscendo dal proprio gruppo familiare in occasione del matrimonio: cfr. E. Cuq, Les Institutions juridiques des Romains, I, Paris, 1891, 217: «La femme qui se mariait hors de sa gens devait être détachée du groupe dont elle faisait partie et rattachée à la gens de son mari. Il fallait pour cela une sacrorum detestatio, comme dans l’adrogation. C’est là ce qui explique la présence du grand pontife, les paroles solennelles que l’on avait à pronuncer; c’est aussi pour ce motif qu’il était question de la confarreatio dans le commentaires des pontifes»; J. Zlinsky, «Familia pecuniaque», in «Index», XXVI, 1988, 36 ss. Questa lettura, che ha portato all’accostamento tra sacrorum detestatio e coëmptio sacrorum interimendorum causa (cfr. in questo senso O. Karlowa, Römische Rechtsgeschichte, II, Leipzig, 1901, 98) non ricostruisce comunque l’istituto di cui ci stiamo occupando in maniera diversa da come viene presentato e interpretato dalla dottrina oggi dominante in rapporto all’adrogatio, così che anche per essa potrà valere la pars destruens riservata in questo scritto all’interpretazione oggi dominante della sacrorum detestatio.

 

[6] Pressoché pacificamente ritenuta anteriore alle XII Tavole: cfr. in questo senso C. Fayer, La familia romana. Aspetti giuridici ed antiquari, I, Roma, 1994, 293, nt. 11.

 

[7] Gai., inst. 1.98-107: ‘Adoptio autem duobus modis fit, aut populi auctoritate, aut imperio magistratus, veluti praetoris.

Populi auctoritate adoptamus eos qui sui iuris sunt; quae species adoptionis dicitur adrogatio, quia et is qui adoptat rogatur, id est interrogatur, an velit eum quem adoptaturus sit iustum sibi filium esse; et is qui adoptatur rogatur, an id fieri patiatur; et populus rogatur, an id fieri iubeat. Imperio magistratus adoptamus eos qui in protestate parentum sunt, sive primum gradum liberorum optineat, qualis est filius et filia, sive inferiorem, qualis est nepos neptis pronepos proneptis.

Et quidem illa adoptio quae per populum fit, nusquam nisi Romae fit; at haec etiam in provinciis apud praesides earum fieri solet.

Item per populum feminae non adoptantur, nam id magis placuit; apud praetorem vero vel in provinciis apud proconsulem legatumve etiam feminae solent adoptari.

Item impuberem apud populum adoptari aliquando prohibitum est, aliquando permissum est nunc ex epistula optimi imperatoris Antonini, quam scripsit pontificibus, si iusta causa adoptionis esse videbitur, cum quibusdam condicionibus permissum est. Apud praetorem vero et in provinciis apud proconsulem legatumve cuiuscumque aetatis personas adoptare possumus.

Illud utriusque adoptionis comune est, quod et hi qui generare non possunt, quales sunt spadones, adoptare possunt.

Feminae vero nullo modo adoptare possunt, quia ne quidem naturales liberos in protestate habent.

Item si quis per populum sive apud praetorem vel apud praesidem provinciae adoptaverit, potest eundem alii in adoptionem dare.

Sed et illa quaestio, an minor natu maiorem natu adoptare possit, utriusque adoptionis communis est.

Illud proprium est eius adoptionis quae per populum fit, quod is qui liberos in protestate habet, si se adrogandum dederit, non solum ipse potestati adrogatoris subicitur, sed etiam liberi eius in eiusdem fiunt potestate tamquam nepotes

 

[8] Gell., Noct. Att., 5.19.1-13: ‘Cum in alienam familiam inque liberorum locum extranei sumuntur, aut per praetorem fit aut per populum. Quod per praetorem fit, ‘adoptatio’ dicitur, quod per populum, ‘arrogatio’. Adoptantur autem, cum a parente, in cuius protestate sunt, tertia mancipatione in iure ceduntur atque ab eo, qui adoptat, apud eum, apud quem legis actio est, vindicantur; adrogantur hi, qui, cum sui iuris sunt, in alienam sese potestate tradunt eiusque rei ipsi auctores fiunt. Sed adrogationes non temere nec inexplorate committuntur; nam comitia arbitris pontificibus praebentur, quae ‘curiata’ appellantur, aetasque eius, qui adrogare vult, an liberis potius gignundis idonea sit, bonaque eius, qui adrogatur, ne insidiose adpetita sint, consideratur, iusque iurandum a Q. Mucio pontifice maximo conceptum dicitur, quod in adrogando iuraretur. Sed adrogari non potest, nisi iam vesticeps. ‘Adrogatio’ autem dicta, quia genus hoc in alienam familiam transitus per populi rogationem fit.

Eius rogationis verba haec sunt: ‘Velitis, iubeatis, uti L. Valerius L. Titio tam iure legeque filius siet, quam si ex eo patre matreque familias eius natus esset, utique ei vitae necisque in eum potestas siet, uti patri endo filio est. Haec ita, uti dixi, ita vos, Quirites, rogo’.

Neque pupillus autem neque mulier, quae in parentis protestate non est, adrogari possunt: quondam et cum feminis nulla comitiorum communio est et tutoribus in pupillos tantam esse auctoritatem potestatemque fas non est, ut caput liberum fidei suae commissum alienae dictioni subiciant. Libertinos vero ab ingenuis adoptari quidam iure posse Masurius Sabinus scripsit. Sed id neque permitti dicit neque permittendum esse umquam putat, ut homines libertini ordinis per adoptiones in iura ingenuorum invadant’.

 

[9] Le donne non possono adrogare sia perché, come dice Gaio nel testo appena presentato, non hanno in potestà nemmeno i propri figli naturali, sia perché, come ci ricorda Gellio, nel testo di cui alla nota precedente, esse non sono ammesse a partecipare a quei comizi al cospetto dei quali si compiva l’adrogatio stessa: probabilmente, per questo motivo, si preferì anche evitare che le donne potessero essere adrogate per mezzo dell’adoptio populi auctoritate. Ma in età classica, e sicuramente con Diocleziano, essendosi diffusa la meno complessa forma dell’adrogatio per rescriptum principis, anche una donna potrà adrogare o essere adrogata: cfr. CI. 8.47.6 del 293, oltre che l’espressa affermazione in tal senso contenuta nel passo riportato in Iust. Inst. 1.11.1.

 

[10] Molto probabilmente all’uopo appositamente convocati, stando a quanto può desumersi dal riportato passo di Gellio, quando si sottolinea che le adrogationesnon temere nec inexplorate committuntur’.

 

[11] Il che avrebbe comportato una capitis deminutio minima.

 

[12] Popolo che in questo caso, volendo utilizzare un’espressione mutuata dalla terminologia giuridica moderna, era presente in funzione deliberante.

 

[13] Ancora una volta è il passo di Gellio già preso in considerazione che ci permette di formulare questa congettura. Cfr., inoltre, M. D’Orta, Saggio sulla ‘heredis institutio’. Problemi di origine, Torino, 1996, 125, dove si indica il giuramento dell’arrogante come «prova della sua lealtà», e ciò per frenare quell’involuzione dell’istituto per cui «si sceglieva di arrogare per procurarsi un filius; ma anche, sovente, per impossessarsi del suo patrimonio».

 

[14] Cfr. Fayer, op. cit., 298 s., G. Donatuti, Contributi alla studio dell’adrogatio impuberis, in «BIDR.», LXIV, 1961, 129 ss., dove si sottolinea come il principio per cui l’adrogante dovesse essere più anziano dell’adrogando era, ancora al tempo di Gaio, e nonostante l’affermazione di Gellio, oggetto di discussione, 139 ss.; Franciosi, op. cit., 60 e nt. 38.

 

[15] Cfr. Gai., inst. 3.83.

 

[16] Ma, al fine di evitare facili collusioni, vi furono interventi pretori sin dal I sec. a.C.; cfr. A. Guarino, Diritto privato romano12, Napoli, 2001, 548, Talamanca, op. cit., 126 s.

 

[17] Cfr. M.Marrone, Istituzioni di Diritto Romano2, Palermo, 1994, 243 s.; Talamanca, op. cit., 126 s.

 

[18] Noct. Att. 15.27.

 

[19] E che avrebbe dovuto, stando al testo preso in considerazione, comporsi di almeno due libri: Cfr. Schultz, op. cit., 363 ; A. Schiavone, Ius. L’invenzione del diritto in Occidente, Torino, 2005, 160 e nt. 22.

 

[20] E cioè del sacerdote – un patrizio nato da nozze confarreate – che soprintendeva ai sacrifici prima spettanti al re; era subordinato al pontefice massimo, ma superiore a tutti i flamini: cfr. H. J. Rose, sv. ‘Flamini’ in Dizionario, cit., col. 968.

 

[21] E cioè dei quindici sacerdoti facenti parte del collegium pontificum, ciascuno dei quali era addetto ad una divinità. Probabilmente il più importante di essi era il Flamen Dialis, addetto al culto di Giove: cfr. H. J. Rose, op. et loc. cit. Cfr. inoltre Fest., verb. sign., sv. ‘Ordo sacerdotum’, p. 198 L.

 

[22] Fatta approvare nel 287 o 286 a. C., alla fine della secessione della plebe, dal dittatore Quinto Ortensio: come è noto, con essa si stabilì che i plebisciti avrebbero avuto efficacia vincolante anche nei confronti dei patrizi: cfr. A. Guarino, Storia del diritto romano11, Napoli, 1996, 275 s.; G. Mancuso, Profilo pubblicistico del diritto romano, I, Catania, 2002, 139 ss.

 

[23] Cfr. ad es. Daverio, op. cit., 530 s.

 

[24] Che riporta, non si sa con quanta precisione, le informazioni tratte da Labeone.

 

[25] F. Schulz, Prinzipien des römischen Rechts, München, 1934,  trad. it – I principii del diritto romano –, Firenze, 1946, rist. 2005, 363. E. Stolfi, Studi sui «Libri ad edictum» di Pomponio, II, Contesti e pensiero, Milano, 2001, 16, nt. 33, dubita che l’opera di Lelio Felice costituisca un precedente rispetto all’ad Quintum Mucium di Pomponio.

 

[26] Palingenesia Iuris Civilis; Leipzig, 1889, rist. Graz 1960, I, c. 557, nt. 1.

 

[27] Cfr. D. 5.3.43 (Paul., 2 ad Plaut).

 

[28] Cfr. D. 5.4.3 (Paul., 17 ad Plaut.).

 

[29] G. Scherillo, Adnotationes gaiane. 3. Il nome di Gaio, in «Antologia giuridica romanistica e antiquaria», I, 1968, 84 ss. Questa interpretazione veniva già accennata dall’Autore in Id., Appunti sul testamento in procinctu nel diritto romano, in «Scritti A. Giuffrè», I, Milano, 1967, ora in Id., Scritti giuridici, II.1, Studi di diritto romano, Milano, 1995, 234 e nt. 7

 

[30] Cfr. W. Kunkel, Die Römische Juristen. Herkunft und soziale Stellung, (1967), Köln - Weimar - Wien, rist. 2001, 186 ss.; non si può inoltre dimenticare la «ricostruzione radicale» proposta da D. Pugsley, Gaius or Sextus Pomponius, in «RIDA.», XLI, 1994, 539 s., ora in Justinian’s Digest and the Compilers, Exter, 1995, 89 s., in forza della quale Gaio e Pomponio sarebbero la stessa persona: ipotesi giudicata «praticamente inservibile» da E. Stolfi, Studi, cit., 30, nt. 39.

 

[31] A tal proposito si è infatti affermata, da M. L. Astarita, La cultura nelle «Noctes Atticae», Catania, 1993, 131, la «coincidenza fra un brano di Lelio Felice in G. (Scilicet: Gellio) e uno tratto dalle Institutiones gaiane», accostando, proprio per evidenziare visivamente tale ipotizzata coincidenza, il passo contenuto in Gell., Noct. Att. 15.27.4 e quello delle istituzioni gaiane (inst. 1.3) ritenuto coincidente. Giova riproporre entrambi i passi presi in considerazione, ma per sottolineare come non vi sia affatto coincidenza tra di essi:

(…) ita ne ‘leges’ quidem proprie, sed ‘plebisscita’ appellantur quae tribunis plebis ferentibus accepta sunt, quibus rogationibus ante patricii non tenebantur, donec Q. Hortensius dictator legem tulit, ut eo iure, quod plebs statuisset, omnes Quirites tenetur.

Plebiscitum est, quod plebs iubet atque constituit (…) unde olim patricii dicebant plebiscitis se non teneri quia sine auctoritate eorum facta essent; sed postea lex Hortensia lata est, qua cautum est, ut plebiscita universum populum tenerent.

Ora, appare evidentissimo che non è accettabile anche solo sospettare l’eventuale comune paternità di tali passi, come pure si tende a fare l’Astarita, op. et loc. cit., scrivendo che «hanno in comune la notizia sulla lex Hortensia. Il fatto che essa non è espressa con le stesse parole non inficia l’ipotesi dell’identificazione, poiché ovviamente le due citazioni sono tratte da due opere diverse»: in forza di analogo ragionamento si potrebbe, ad esempio, affermare che Mario Rossi e Giulio Bianchi sono la stessa persona, perché dell’uno si conserva uno scritto che dice: «Roma è in Italia», mentre dell’altro si conserva un altro scritto che dice: «Roma è la capitale d’Italia». Non v’è chi non veda l’incongruità di un ragionamento che identifica due soggetti solo perché hanno affrontato il medesimo argomento, peraltro con parole diverse, e, come emergerà in prosieguo di testo, sicuramente attingendo a fonti diverse. Il testo della Astarita, peraltro, prosegue modulando in tono lievemente dubitativo la perentorietà delle sue precedenti affermazioni: «Se poi queste due opere risalgano allo stesso autore (Lelio Felice – Gaio?) resta comunque un problema aperto».

Peraltro va sottolineata la diversa definizione che Gellio, riportando Lelio Felice, dà di «plebiscito» rispetto a Gaio: se per quest’ultimo, infatti, il plebiscito è ‘quod plebs iubet atque consituit’, per Lelio Felice invece, sono plebisciti ‘quae tribunis plebis ferentibus accepta sunt’ . La differenza non è da poco. Nel caso di Lelio Felice, infatti, emerge l’idea che autori dei plebisciti siano, di volta in volta, i magistrati (e cioè i tribuni), i quali ne «portavano a conoscenza» della plebe il testo, che da questa veniva poi approvato nel concilium. L’efficacia vincolante (prima nei confronti della sola plebe, e poi, dopo la lex Hortensia, nei confronti sia dei patrizi che dei plebei) del plebiscito, analogamente a quella della lex, era conseguentemente frutto della collaborazione del magistrato rogante e dell’assemblea deliberante. A questa stessa dinamica fa riferimento Capitone, stando all’informazione che, ancora una volta, ci fornisce Gellio (Noct. Att. 10.20.2):

Ateius Capito, publici privatique iuris peritissimus, quid ‘lex’ esset, hisce verbis definivit: ‘Lex’ inquit ‘est generale iussum populi aut plebis rogante magistratu’.

Anche in questo caso si rende conto della «collaborazione» tra il legis lator, e cioè il magistrato rogante, il quale «portava la legge» a conoscenza dell’assemblea popolare, e l’assemblea stessa che, approvandola, la forniva appunto di quell’efficacia vincolante che in precedenza non aveva. Per Gaio, invece, il plebiscito è «ciò che la plebe prescrive e stabilisce»: in piena rispondenza alla realtà costituzionale della sua epoca, il giurista antoniniano omette del tutto di rendere conto della dinamica «collaborativa» tra magistrato e assemblea, e individua nel solo iussum assembleare il  momento genetico rilevante del plebiscito: in questo senso, cfr. M. Fiorentini, Ricerche sui culti gentilizi, Roma, 1988, 330 e nt. 65; G. Valditara, Gai. 3,218 – I. 4.3.15 e l’evoluzione del concetto di legislator, in «Studi di diritto pubblico romano», Torino, 1999, 104 s. Considerazioni interessanti emergono anche dall’analisi del rapporto tra lex e consuetudo, e dell’equiparazione della forza della seconda alla prima, in quanto entrambe accomunate dalla receptio popolare: in questo senso, risulta fondamentale, sia per la sua dottrina che per un esaustivo quadro delle contrastanti opinioni in merito, F. Gallo, Produzione del diritto e sovranità popolare nel pensiero di Giuliano (a proposito di D. 1,3,3,2), in «Iura», XXXVI, 1985 (1988), 71 ss; Id., La sovranità popolare quale fondamento della produzione del diritto in D. 1, 3, 32: teoria giulianea o manipolazione postclassica?, in «BIDR.», XCIV-XCV, 1991-1992, 14 s., 35; Id., Interpretazione e formazione consuetudinaria del diritto. Lezioni di diritto romano. Edizione completata con la parte relativa alla fase della codificazione, Torino, 1993, 55 ss.

Pur senza approfondire le complesse tematiche che emergono dal confronto di tali testi, e limitatamente al problema di cui si occupa questa nota, basti qui rilevare un dato fondamentale: l’impostazione seguita da Lelio Felice attinge da una fonte che, rendendo conto di quella «dinamica» di cui resta traccia in Capitone ma non più in Gaio, è sicuramente più antica di quella gaiana. Inoltre, vanno ricordate le considerazioni di D’Orta, op. cit., 158 ss., per cui proprio l’eclettismo e l’interesse storico e antiquario di Lelio Felice abbiano giocato a sfavore dell’inclusione del suo commento a Quinto Mucio nella compilazione giustinianea, in cui si sarebbe invece ampiamente prediletto (p. 162) la «prospettiva analitica pomponiana, palesemente ‘tecnicista’», (cfr., inoltre, Schiavone, op. cit., 171 ss.). Tutte queste argomentazioni dovrebbero portare ad escludere un’identificazione tra Lelio Felice e Gaio.

 

[32] Op. et loc. cit.

 

[33] In questo senso, il Daverio, op. cit., 530, chiedendosi quanto di labeoniano vi sia nel passo delle Notti Attiche che stiamo considerando, sospetta che la parte del testo di Gellio in cui si riporta quella che ho indicato come una digressione sui diversi tipi di testamento più che riferibile a Labeone «sembrerebbe una nota aggiunta: se non da Gellio stesso, da Lelio Felice».

 

[34] Op. et loc. cit., nt. 2

 

[35] M. Lauria, Ius. Visioni romane e moderne3, Napoli, 1967, 203, Id., Ius romanum, I.1, Napoli, 1963, 9 ss., 55 ss.; Scherillo, adnotationes, cit., 68 ss. dedica la sua attenzione alla possibile influenza esercitata dal «sistema civilistico» sulle Institutiones gaiane.

 

[36] Tuttavia, a dispetto di questo disordine, che caratterizzerebbe l’opera nel suo insieme e parrebbe essere ammessa dall’erudito stesso quando parla dell’abitudine di annotare alla rinfusa tutto ciò che avesse colpito la sua attenzione (Cfr. Gell. Noct. Att. Praef.2: ‘Usi autem sumus ordine rerum fortuito, quem antea in excerpendo feceramus’), si deve notare come Gellio manifesti comunque attenzione per il dato filologico, laddove lascia intendere l’autenticità del manoscritto che lui o il suo interlocutore ha la ventura di visionare: cfr. Gell. Noct. Att. 2.3.5-6: ‘Sed quoniam ‘aheni’ quoque exemplo usi sumus, venit nobis in memoriam Fidum Optatum, multi nominis Romae grammaticum, ostendisse mihi librum Aeneidos secundum mirandae vetustatis emptum in sigillariis viginti aureis, quem ipsius Vergilii fuisse credebatur. In quo duo isti versus cum ita scripti forent:

vestibulum ante ipsum primoque in limine Pyrrus

exultat telis et luce coruscus aena,

addita supra vidimus ‘h’ litteram et ‘haena’ factum. Sic in illo quoque Vergilii versu in optimis libris scriptum invenumus:

aut foliis undam trepidi despumat aheni’.

Cfr. inoltre Gell. Noct. Att. 5.4.1, dove, in riferimento agli Annales di Fabio, si parla di ‘bonae atque sincerae vetustatis libri, quos venditor sine mendis esse contendebat’; Gell. Noct. Att. 9.14.1, dove allude all’autorevolezza delle antiche opere consultate: ‘veteribus libris inspectis exploravimus’, e all’antichità e attendibilità di un manoscritto del Giugurta di Sallustio (9.14.26): ‘summae fidei et reverendae vetustatis libro’, o di un esemplare degli Annales di Ennio (18.5.11): ‘librum summae atque reverendae vetustatis’. Non  manca, inoltre, la cura per la ricerca di lezioni attendibili (cfr. in questo senso cfr. Gell. Noct. Att. 1.7.1-3; 13.21.16-17), oltre al rammarico, non avendo una copia del libro, di non essere in grado di riportare le precise parole di Catone (Gell. Noct. Att. 1.23.2: ‘Ea Catonis verba huic prorsus commentario indidissem, si libri copia fuisset id temporis, cui haec dictavi’), e, più in generale, l’attenzione con cui attende alla lettura di Capitone o Varrone: cfr. Gell. Noct. Att. 2.24.3; 2.25.5; 3.18.5; 14.7.

 

[37] Cfr. anche F. Calonghi, Dizionario della lingua latina 3, I, Torino, 1965, sv. ‘detestatio’, c. 826 dove espressamente si fa riferimento al nostro istituto indicandolo, coerentemente a quanto esposto nel testo, come l’«atto solenne del figlio al momento della sua arrogazione, cioè della sua adozione in un’altra famiglia, Gell. 15, 27, 3».

 

[38] In quella parte del testo (Noct. Att. 15.27.4), che ho già indicato apparirmi come una sorta di digressione, infatti, Gellio sottolinea come il testamentum calatis comitiis avvenisse in populi contione, mentre quello in procinctu era destinato agli uomini chiamati alle armi per combattere, e quello per aes et libram avveniva ‘per familiae emancipationem’.

 

[39] Cfr. C. Castello, Il problema evolutivo della «adrogatio», (1967), in «Scritti scelti di diritto romano. Servi filii nuptiae», Genova, 2002, 322; Daverio, op. cit., 534, rileva espressamente che «nessuna fonte, infatti, collega adrogatio a sacrorum detestatio: al contrario, molti indizi inducono a ritenere che i due istituti hanno poco in comune», non fosse altro che per le differenti tecniche secondo le quali essi si sviluppano.

 

[40] Fayer, La familia, cit., 295, nt. 16 ricorda come la ricostruzione presentata nel testo è quella reperibile nella generalità dei manuali di diritto romano.

 

[41] Cuq, op. cit., 236. La necessità di questa dinamica viene anche presentata, sia pur con tutti i dubbi che ne muovono l’indagine, dal Careddu, op. cit., 393,

 

[42] Di tale accordo della dottrina pur nel silenzio delle fonti, e di questa interpretazione dell’istituto della detestatio sacrorum parla già Cuq, op. cit., 236: «Aucun texte ne rattache explicitement la detestatio sacrorum à l’adrogation; cependant on est d’accord aujourd’hui pour admettre qu’elle trouvait ici son application principale».

 

[43] Cfr. H. J. Rose, sv. ‘Detestatio sacrorum’, in «Oxford Classical Dictionary»2, Oxford, 1970, trad. it. – Dizionario di antichità classiche di Oxford –, Roma, 1981, col. 644 s. Precedentemente si era espresso in questo senso anche M. Lemosse, L’adoption d’Octave et ses rapports avec les règles traditionnelles du droit civil, in «Studi E. Albertario», I, Milano, 1953, 387 ss., 487 ss.  Cfr. inoltre Lange, Römische, cit., 133 s.

 

[44] Op. cit., 42, nt. 1: «J’ai précédemment, en restreignant à tort la sphere des comitia calata aux comices d’ordre testimonial, limité la detestatio sacrorum à la transitio ad plebem, pour la quelle nous la retrouverons assurément; mais le cas principal est celui de l’adrogation».

 

[45] Cfr. in questo senso Zabłocki op. cit., 531.

 

[46] P. Catalano, Contributi allo studio del diritto augurale, I, Torino, 1960, 238 s., 243 ss.

 

[47] Noct. Att. 15.27.

 

[48] Catalano, op. cit., 243 ss.

 

[49] J. Bleicken, Oberpontifex und pontifikal Kollegium, in «Hermes», 1957, 352 ss.

 

[50] Op. cit., 535,

 

[51] Cfr. 531.

 

[52] Gell. Noct. Att. 13.16.1-3.

 

[53] C. Nicolet, Le métier de citoyen dans la Rome républicaine2, Paris, 1979, trad. it. – Il mestiere di cittadino nell’antica Roma – Roma, 1980, 326.

 

[54] Nicolet, op. et loc. cit., che fa riferimento a Dio. Cass. 37.27.3.

 

[55] Op.cit., 534.

 

[56] ad Aen., 2.156.

 

[57] Castello, op. cit., 322, nt. 56.

 

[58] Zabłocki, op. cit., 528, nt. 9, dove si rileva come in seguito si legga ‘quod hic ostendit; dicit enim Sinon, iure iam se Troianorum civem esse, quia apud Graecos ostia fuerit, adeo nec pro nomine, nec pro cive habitus sit’.

 

[59] Cfr. la presentazione e critica di tale ipotesi formulata da Daverio, op. cit., 535 s.

 

[60] In questo senso, cfr. sempre Daverio, op. cit., 536 che giunge a qualificare «abusiva» la «irriflessa e tralaticia citazione di questo passo».

 

[61] Cfr. infatti la parte finale del passo contenuto in Cic., de leg. 2.19.47, che si conclude rimarcando il principio ‘perpetua sint sacra’.

 

[62] Cic., de leg. 2.9.23: ‘Conclusa quidem est a te, frater, magna lex sane quam brevi; sed, ut mihi quidem videtur, non multum discrepat ista constitutio religionum a legibus Numae nostrisque moribus’.

 

[63] Daverio, op. cit., 542.

 

[64] In dottrina si sono peraltro addotti ulteriori argomenti: cfr. ad esempio Daverio, op. cit., 543, dove si rammenta come il principio dell’adozione implicava che la successione universale inter vivos dall’adrogato all’adrogante avveniva tacito iure, con la conseguenza che i pontefici, per evitare la possibilità che i sacra dell’arrogato si estinguessero, li avrebbero fatti passare all’arrogante, «dacché non si dava acquisto di universalità senza i relativi obblighi». Inoltre si ribadisce l’importanza della presenza del popolo riunito in pubblica assemblea, alla quale si attribuisce, oltre che una funzione testimoniale, anche una di controllo in ossequio al principio per cui, nell’interesse della civitas, il popolo è responsabile di fronte alle divinità della condotta dei singoli. Conseguentemente, sarebbe stato ben difficile ipotizzare l’assemblea del popolo, riunita per esercitare anche le funzioni da ultimo menzionate, pronta ad approvre una pubblica abiura dei propri culti da parte di un civis, ancorché adrogando, in tal modo correndo «il pericolo di compromettere, con l’inosservanza religiosa dei sacra così abiurati, la salute della comunità».

 

[65] Che si deve a H.A.A. Danz, Der sacrale Schutz in römischen Rechtsverkehr, Jena, 1857, 90 ss., le cui posizioni verranno meglio specificate in un lavoro successivo: cfr., infatti, Id., Das sacramentum und die lex Papiria, in «ZRG.», VI, 1867, 351 s.

 

[66] Liv. 10.38.10.

 

[67] Liv. 10.41.3.

 

[68] Liv. 10.38.9: ‘magis ut victima quam ut sacri particeps’.

 

[69] Liv. 10.38.12.

 

[70] A. Calore, “Per Iovem lapidem”. Alle origini del giuramento. Sulla presenza del ‘sacro’ nell’esperienza giuridica romana, Milano, 2000, 65, nt. 45.

 

[71] F. Klingmüller, sv. ‘sacramentum’, in «PWRE.» I, A-2, 1920, col.1673 s.; E. Westermark, The Origin and development of Moral Ideas, II, London, 1908, 115 s.

 

[72] Propendendo per quest’ultima ipotesi, e ricostruendo il giuramento come un atto complesso, Calore, op. cit., 49, nt. 45 rileva come «La exsecratio, pertanto, costituisce una parte molto importante ma pur sempre una parte di un tutto, articolato in più elementi, a volte esplicitati altre volte sottintesi: la chiamata a testimone della divinità (audire + l’essere divino; obtestor deum; testor deos; esto testis; testem facio; ecc.); l’affermazione o la promessa giurata; la richiesta al dio di aiuto e prosperità (…) e, poi, l’invocazione dell’automaledizione». Va però sottolineata l’osservazione di R. Fiori, Homo sacer. Dinamica politico-costituzionale di una sanzione giuridico-religiosa, Napoli, 1996, 211, n. 147, per cui «In talune fonti il termine exsecratio è utilizzato senz’altro per indicare il «giuramento»: cfr. Sall. Cat. 22.2; Cic. Sest. 15; Serv. in Verg. Aen. 2.154 ».

 

[73] Noct. Att. 15.27.

 

[74] Op. cit., 404 ss.

 

[75] Das Altrömische, cit., 342.

 

[76] Contributi, cit., 243, nt. 119, il quale ribadisce come permanga «comunque grande incertezza sul significato di questo atto».

 

[77] Op. cit., 544.

 

[78] Op. cit., 296, nt. 16.

 

[79] D. 50.16.238.1 (Gai., 1 ad XII Tab.).

 

[80] D. 50.16.40.pr. (Ulp. 50 ad ed.).

 

[81] D. 50.16.39.2 (Paul. 53 ad ed.).

 

[82] Careddu, op. cit., 398; in quest’ordine di idee Daverio, op. cit., 544,  intende la detestatio come «la dichiarazione recettizia fatta innanzi a testimoni».

 

[83] Tra cui Daverio, op. cit., 544.

 

[84] Il segno ‘detestatio’, nel senso precisato nel testo di «rinunzia» o «abiura», è utilizzato così dagli scrittori cristiani: cfr. Tert. test. anim. 3: ‘Satanan denique in omni et aspernatione et detestatione pronuntias’; Cypr. epist. 30.8: ‘acta poenitentia et professa suorum detestatione peccatorum’.

 

[85] Hor. ep. 5.89.

 

[86] Liv. 10.38.11.

 

[87] Ovid. Met. 15.505.

 

[88] Cfr. Daverio, op. cit., 538, nt.14.

 

[89] Val. Max., 4.3.6.

 

[90] Val. Max., 6.4.5.

 

[91] Caes., bell. gall. 6.31.5.

 

[92] Sen. de tranq. an. 2.10

 

[93] Sen. de tranq. an. 8.8. In questo stesso senso possono intendersi i passi riportati in Sen. de ben. 1.9.2; 2.14.1; 4.16.2; 7.20.4. Cfr. inoltre, conformi, Æ. Forcellini, Totius latinitatis lexicon, II, Patavii, mdcccxxxi, sv. detestatio’; A. Ernout, A. Meillet, Dictionnaire étymologique de la langue latine. Historie des mots, Paris, 1959, sv. ‘detestatio’; Calonghi, op. cit., sv. detestatio (detestor)’, col. 826.

 

[94] Careddu, op. cit., 399.

 

[95] Fest., verb. sign., sv. ‘Publica sacra’, p. 284 L.

 

[96] Fest., verb. sign., sv. ‘Popularia sacra’ p. 298 L.

 

[97] Cfr. Fiorentini, Ricerche, cit., 106 ss., 250 ss., 255 ss., 284 s., 288 ss.; G. Franciosi, Clan gentilizio e strutture monogamiche, Napoli, I, 1975, 47 e nt. 42.

 

[98] Fiorentini, op. cit., 284.

 

[99] Cfr. per tutti Careddu, op. cit., 404 che rileva testualmente come il nostro istituto «si riferiva agli atti di culto privato familiare», che poco prima vengono esemplificativamente indicati nelle cerimonie, nelle feste e nei sacrifici.

 

[100] Careddu, op. cit., 406.

 

[101] Daverio, op. cit., 541, nt. 17.

 

[102] De leg. 2.30.

 

[103] Liv. 5.52.4

 

[104]R. von Jhering, Geist des romischen Rechts auf den verschiedenen Stufen seiner Entwicklung, Leipzig, 1878, trad. fr. – L’esprit du droit romain dans les diverses phases de son développement2 –, Paris, 1880, 291 ss.

 

[105] Cfr. Savigny, op. cit., 401, Bergman, op. cit., 171.

 

[106] Savigny, op. cit.,  402.

 

[107] Cfr. L. Schmitz, sv. Gens’ in «A Dictionary in Greek and Roman Antiquities», London, 1875, 568.

 

[108] Cic., Orat. 42.144.

 

[109] Orat. 41.140-43.148.

 

[110] Cic., de leg. 2.19.47 – 2.21.53: a questo punto inizia una lacuna che Turnebo propone di colmare con ‘legata’ ovvero ‘sacris non astricta’: cfr. Cicero, De legibus, Cambridge, Massachusetts – London, 1928, rist. 2000, 436, nt. 2.

 

[111] Cic., pro Mur. 12.27: ‘Sacra interire illi noluerunt. Horum ingenio, senes ad coëmptiones faciendas interimendorum sacrorum causa reperti sunt’. Sull’attenzione di Cicerone nei confronti di libri e commentarii sacerdotali, e sulla sua competenza nell’accedere ad essi e nel consultarli cfr. F. sini, Documenti sacerdotali di Roma antica, I, Libri e commentarii, Sassari, 1983, 91 ss.

 

[112] Daverio, op. cit. 546. Cfr., inoltre, Schulz, op. cit.,  22 s.

 

[113] Cfr. Cic. de dom. 32-38. Cfr. le osservazioni di F. Sini, Sua cuique civitati religio. Religione e diritto pubblico in Roma antica, Torino, 2001, 111 ss.; cfr. inoltre Daverio, op. cit., 547, il quale, facendo riferimento all’«ampia irruenza» che caratterizza il de domo ciceroniano, rileva proprio come neanche in questo luogo «si fa il minimo cenno ad alcuna sacrorum detestatio. Quand’anche fosse ormai in disuso, non v’ha dubbio che Cicerone avrebbe sfruttato un’allusione ad essa; e se fosse stata compiuta, ci sarebbe stato riferito da Cicerone o da altri».

 

[114] Ho avuto modo di consultare la seguente edizione: J. Cujacii ic. tolosatis, Opera ad Parisiensem Fabrotianam editionem diligentissime exacta in tomos XIII. distributa auctiora atque emendatiora, VI, Prati, mdcccxxxviii. In particolare si tratta del commento ai frammenti contenuti in D.50.16.39-40, alle col. 1657 ss.

 

[115] Daverio, op. cit., 546, nt. 25.

 

[116] Cfr. B. Kübler, sv. ‘sacrorum detestatio’, in «PWRE.», I A.2, Stuttgart, 1920, col. 1682.

 

[117] Zabłocki, Appunti, cit., 527. Questa posizione riflette quella già espressa dal Careddu, op. cit., 403, che non condivide la più antica opinione «di coloro che ritennero essere la detestatio sacrorum un modo solenne di disporre intorno alla trasmissione dei sacra agli eredi, cioè una specie di testamento religioso»: e questa interpretazione è espressamente ricondotta dal Careddu al Commento di Cuiacio.

 

[118] Cfr. P. Arces, Riflessioni sulla norma «uti legassit» (Tab. V.3), estratto da «RDR.», IV, 2004, 24, nt. 175, ove peraltro, nel sostenere incidentalmente la non coincidenza tra adrogatio e testamentum calatis comitiis, facevo cenno alla detestatio sacrorum, presentandola, conformemente all’impostazione dominante, come presupposto necessario dell’adrogatio. La rivista è anche online, e l’articolo può essere consultato al seguente link: http://www.ledonline.it/rivistadirittoromano/allegati/dirittoromano04arces.pdf

 

[119] In questo senso cfr. anche Daverio, op. cit., 535, nt. 11.

 

[120] Zabłocki, Appunti, cit., 527.

 

[121] E’ appena il caso di ricordare quello che egli scrive: « Solebant enim antiqui JC. juris civilis cognitionem conjungere cum jure Pontificio. Idem Pontifices factitabant, nec erat Jurisconsultus qui Jus Pontificium ignorasset, nec Pontifex, qui jus civile».

 

[122] Gell., Noct. Att. 7.12. Cuiacio scrive nel suo commento che si tratta del dodicesimo capitolo del sesto libro delle Notti Attiche. In realtà il libro è il settimo: egli doveva avere a disposizione uno di quei manoscritti in cui tale libro è anteposto al sesto: cfr. la segnalazione contenuta in Aulo Gellio, Notti Attiche3, I,  Milano, 1997, (cur. C. M. Calcante e L. Rusca), 455.

 

[123] Anche per questo motivo ho sostenuto in passato l’impossibilità di identificare adrogatio e testamentum calatis comitiis: cfr. Arces, op. et loc. cit.

 

[124] Cfr., nel senso che verrà precisato nel testo, Forcellini, op. cit., IV, sv. sacer’; Ernout, Meillet, Dictionnaire étymologique cit., sv. ‘sacer’, 585 s., dove si rileva (in part. 586) la particolare ambiguità del termine: «La notion de sacer ne coïncide ps avec celle de «bon» ou de «mauvais»; c’est une notion à part. Sacer désigne celui ou ce qui ne peut être touché sans être souillé, ou sans souiller; de là le double sens de «sacré» ou «maudit» (à peu près). Un coupable que l’on consacre aux dieux infernaux est sacer (…), d’où le sens de «criminel» (auri sacra fames)» ; Calonghi, op. cit., sv. sacer’, col 2433. Non si sottolinea il valore dell’ambivalenza evidenziata nel testo in A. Walde, J.B. Hofmann, Lateinisches etymologisches Wörterbuch, Heidelberg, 1972, sv. sacer’, 459 s. 

 

[125] Macr., Sat. 3.7.3: ‘Quicquid destinatum est dis, sacrum vocatur’. Cfr. E. Cantarella, I supplizi capitali. Origine e funzioni delle pene di morte in Grecia e a Roma, Milano, 2005, 242; M. Morani, Lat. «sacer» e il rapporto uomo-dio nel lessico religioso latino, in «Aevum», LV, 1981, 30 ss.

 

[126] G. Semerano, L’infinito: un equivoco millenario. Le antiche civiltà del Vicino Oriente e le origini del pensiero greco, Milano, 2004, 253.

 

[127] Plaut., Bacch. 4.6.14: ‘ego sum malus, Ego sum sacer, scelestus’; in Plaut., Poen., prol. 90 si usa anche il superlativo: ‘homo sacerrimus’.

 

[128] Hor. Sat. 2.3.181 ‘is intestabilis et sacer esto’.

 

[129] Tab. 8.21; Serv. in Verg. Aen. 6.609, ma cfr. anche Dion. Hal. 2.10.3. E’ discusso se la norma sia riconducibile all’età decemvirale o addirittura all’epoca regia: cfr., in questo senso, B. Albanese, ‘Sacer esto’, in «BIDR.», xci, 1988, 149; Fiori, op. cit., 226.

 

[130] Liv. 3.55.8: ‘Hac lege iuris interpretes negant quemquam sacrosantum esse, sed eum qui eorum cuiquam nocuerit sacrum sanciri’.

 

[131] Verg., Aen. 3.56-7: ‘auri sacra fames’.

 

[132] Sen.,  Ep. 95.33: ‘homo, sacra res homini’.

 

[133] Cfr. Fugier, op. cit., 109; Bretone, Storia, cit., 87; L. Garofalo, Sulla condizione di ‘homo sacer’ in età arcaica, (1990), in «Studi sulla sacertà», Padova, 2005, 21; Fiori, op. cit., 208 s.

 

[134] Cfr. P. De Francisci, Primordia civitatis, Roma, 1959, 313 ss; B. Santalucia, Diritto e processo penale nell’antica Roma2, Milano, 1998. 8 e nt. 13 (ove ulteriore letteratura), 11; G. Crifò, Exilica causa, quae adversus exulem agitur, in «Du châtiment dans la cité. Supplices corporels et peine de mort dans le monde antique. Table rotonde organisée par l’École française de Rome avec le concours du Centre national de la recherche scientifique. Rome 9-11 novembre 1982», Roma, 1984, 459 ss, 464; Fiori, op. cit., 36 ss, 179 ss.; Albanese, op.cit., 145 ss.; H. Fugier, Recherches sur l’expression du sacré dans la langue latine, Paris, 1963, 224 ss., 236 ss.; Garofalo, op. cit., 13 ss. Interessantissimo per gli spunti interdisciplinari risulta G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Torino, 2005.

 

[135] Cfr., tra gli altri, Albanese, op. cit., 148 ss.

 

[136] Pensando all’homo sacer nella sua particolarissima condizione, Agamben, op. cit., 88, ne ha parlato come di «Una figura enigmatica del diritto romano arcaico, che sembra riunire in sé tratti contraddittori»: a tal proposito, relativamente alla nota definizione di Festo, secondo cui sarebbe homo saceris (…) quem populus iudicavit ob maleficium’ (Fest., sv. ‘sacer mons’, p. 423 L.) è stato ricordato da Garofalo, op. cit., 41, quanto osservato da G. MacCormack, Terminus motus’, in «RIDA.», XXVI, 1979, 249, e cioè che si tratta del riferimento al caso specifico di colui il quale abbia violato la sacrosantitas dei tribuni.

 

[137] Cfr. Crifò, op. cit., 460; Fiorentini, Ricerche, cit., 285 s.; Santalucia, op. cit., 9 s.; Fiori, op. cit., 187 ss.

 

[138] Cfr. L’elencazione effettuata da Crifò, op. et loc. cit., comprendente l’ipotesi della verberatio parentis, della violazione del termine, del furto di fruges aratro quaesitae, gli eccessi nell’esercizio della potestà maritale le colpe della donna maritata o nubile, la fraus  del patrono verso il cliente, il sacrilegio, la colpa della vestale, lo spergiuro, le ipotesi previste da varie leges sacratae, perduellio e parricidium, e, infine ipotesi ricostruibili solo dalla sanzione della sacertas, come nell’ipotesi che si riscontra in (Paul.)-Fest., verb. sign., sv. ‘aliuta’, p. 5 L.: ‘aliuta antiqui dicebant pro aliter (…) hinc est illud in legibus Numae Pompilii: “si quisquam aliuta faxit, ipsos Iovi sacer esto” ’: in questo caso si conosce la sanzione, ma non anche l’illecito. E’ evidente che si tratta di un elenco quanto mai eterogeneo ancorché, per ammissione stessa dell’Autore, non esauriente e, paradossalmente, anche troppo ampio, giacché la comminazione della sacertas è testimoniata solo nelle ipotesi della verberatio, della violazione del termine, della frode nel rapporto clientelare, delle leges sacratae, mentre nelle altre è «solo supposta, con ragioni più o meno buone».

 

[139] Cfr. Fest., verb. sign., sv. ‘plorare’, p. 260 L.: ‘Plorare, flere [inclamare] nunc significat, et cum praepositione inplorare, id est invocare: et apud antiquos plane inclamare. in regis Romuli et Tatii legibus: “si nurus…, <nurus> sacra divis parentum estod”. in Servii Tullii haec est: “si parentem puer verberit asto olle plorassit paren<s>, puer divis parentum sacer esto”. id est <in>clamarit dix<erit diem>’.

 

[140] Plut., Rom. 22.

 

[141] Dion. Hal. 2.15.2.

 

[142] Cfr. Le testimonianze contenute in Liv. 3.44.1 e Val. Max. 6.1.13, e il commento che ne fornisce Fiori, op. cit., 200 ss. Sullo stuprum commesso da Appio Claudio ai danni di Virginia cfr. inoltre M. Th. Fögen, Römische Rechtsgeschichten. Über Ursprung und Evolution eines sozialen Systems2, Göttingen, 2003, trad. it. – Storie di diritto romano. Origine ed evoluzione di un sistema sociale –, Bologna, 2005, 53 ss.

 

[143] Paul.-Fest. verb. sign. sv. ‘Termino’, p. 505 L.; Dion. Hal. 2.74.3.

 

[144] Cfr. anche Cantarella, I supplizi, cit., 236 s.

 

[145] Cfr. Fiori, op. cit., 208 s., 229 ss.

 

[146] Gran. Flacc. (?) indig. fr. 8 (Huschke, 109): ‘Flaccus scribit, Numam Pompilium, cum sacra Romanis concederet, voto impetrasse, ut omnes dii falsum iuramentum vindicarent’. Cfr. Fiori, op. cit., 182, 209

 

[147] Cfr. Santalucia, op. cit., 10 e nt. 18.

 

[148] Si tratta della testimonianza contenuta nel ventottesimo libro dei digesta di Marcello riportata in D. 11.8.2.

 

[149] Fiori, op. cit., 291. Cfr. Sini, Sua cuique, cit., 262 ss., dove si parla (p. 263) di «situazione di amicizia nei  rapporti tra uomini e divinità».

 

[150] Fiorentini, Ricerche, cit., 285. Tali infrazioni si riferiscono dunque a quei criteri «cosmici» che Fiori, op. cit., 231 ss., individua nella lesione della maiestas, del terminus e della fides: ciò risulta provato sia nelle ipotesi espressamente previste come comportanti la comminazione del sacer esto, sia in quelle in cui tale conseguenza è solo ricavabile per interpretazione, ancorché con forti margini di attendibilità.

 

[151] Quest’ultima ipotesi è da escludersi decisamente per Albanese, op. cit., 157: «in nessuno dei casi si coglie alcun indizio d’un accertamento giudiziario pregiudiziale all’irrogazione della sanzione della sacertà; e soprattutto è vero, poi, che il regime attestato per il caso del parens verberatus (…) induce fortemente (e, a mio avviso, anzi, costringe) a pensare che, in quel caso, la sacertà veniva in essere ipso facto e senza alcun procedimento giudiziario (…). Nelle più antiche sue manifestazioni, la sanzione del sacer esto diveniva operante ed efficace in concreto già solo per il fatto che un soggetto aveva compiuto un particolare atto delittuoso, sanzionato in quel singolare modo». In senso contrario, cfr. Cantarella, op. cit., 242, per la quale «Nata come rito religioso, in età cittadina essa appare inequivocabilmente come la conseguenza di una pronunzia giudiziaria». Più complessa la posizione di Garofalo, op. cit., 37 ss., per il quale la sacertas poneva chiunque ne fosse colpito nella poco piacevole situazione di poter essere ucciso da chiunque. Ucciso non proprio impunemente, però, visto che in tal caso l’uccisore sarebbe stato comunque sottoposto a processo con l’accusa di omicidio, e solo la dimostrazione della sacertas gravante sull’individuo ucciso ne avrebbe comportato la non punibilità. Lo studioso, peraltro, si premura anche di non «escludere che l’homo divenuto sacer a causa del delitto perpetrato potesse qualche volta essere dichiarato tale in sede giudiziaria, attraverso un procedimento definibile, sulla base di una moderna terminologia, di mero accertamento, idoneo ad escludere il rischio per il terzo che lo volesse mettere a morte di doversi discolpare in un giudizio per omicidio. E proprio su questo primitivo regime della sacertà avrebbe inciso la legge delle XII tavole richiedendo che l’eventuale uccisione dell’homo sacer per mano di qualsiasi consociato fosse sempre preceduta da una decisione del comizio centuriato diretta ad appurare l’effettivo compimento da parte sua di un atto comportante la sacertà». Del resto, cfr. Gai., inst. 2.4, per il quale non si considerava ‘sacer’ ciò che non fosse stato consacrato ‘ex auctoritate populi Romani’.

 

[152] Cfr. Bretone, Storia, cit., 74 s., 198 ss.

 

[153] In questo senso cfr. Zabłocki, op. cit., 540 ss.

 

[154] E quindi di fatto escluso da essa.

 

[155] Formulata da Crifò, op. cit., 460.

 

[156] Crifò, op. et loc. ult. cit.

 

[157] Daverio, op. cit., 539 nt. 14.

 

[158] Daverio, op. et loc. ult. cit.

 

[159] Der sacrale Schutz, cit., 70 ss.

 

[160] Op. cit., 537 ss.

 

[161] La cui origine storica è collocata all’epoca postdecemvirale, e comunque in relazione all’affermarsi della mancipatio familiae e del testamentum per aes et libram: cfr. A. Burdese, sv. «Diseredazione (diritto romano)» in «NNDI.», V, Torino, 1960, 1113.

 

[162] Soggetti, questi, che, come noto, non avevano titolo a presenziare nel comizio: indubbiamente sarà poco più che una suggestione, ma, con la consapevolezza di questa loro assenza dal luogo in cui venivano pubblicamente esecrati, si spiegherebbe maggiormente anche il frammento paolino contenuto in D.50.16.39.2 (Paul. 53 ad ed.) in cui si afferma che ‘‘Detestari’ est absenti denuntiare’.

 

[163] In questo senso, cfr. Marrone, Istituzioni, cit., 644 ed ivi nt. 2; P. Voci, Diritto ereditario romano, I2, Milano, 1967, 14 s.