N. 5
– 2006 – Tradizione Romana
Università del Piemonte Orientale "A. Avogadro"
Note in tema di sacrorum detestatio
Sommario: 1. La sacrorum detestatio:
interpretazione oggi dominante in dottrina. – 2. Rifiuto
dell’impostazione oggi dominante. – 3. Le altre letture fornite di
questo istituto: sacrorum detestatio e
giuramento. – 4. Detestatio e alienatio sacrorum. – 5. L’interpretazione
risalente al Cuiacio. – 6. Conclusioni. Congettura
sulla originaria funzione dell’istituto.
La sacrorum detestatio viene comunemente
presentata dalla moderna dottrina, che segue un’ipotesi formulata dal
Savigny[1],
come l’abbandono dei sacra familiari,
mediante una rinuncia solenne e pubblica. Essa, verosimilmente tra il periodo
monarchico e protorepubblicano[2],
avrebbe costituito il presupposto necessario[3],
da attuarsi sotto il controllo dei pontefici, per il «transito» ai sacra di un’altra gens[4],
e cioè uno degli elementi caratterizzanti l’adrogatio[5].
In
relazione all’adrogatio,
antichissima[6]
species adoptionis, sono ben note le
informazioni fornite da Gaio[7]
e da Gellio[8],
che procedono a differenziarla da altre tipologie di adozione: tramite l’adrogatio a Roma, e solo a Roma, si
poteva adottare un individuo[9]
sui iuris, mediante un rito solenne
che prevedeva una triplice interrogazione. Il pontefice che presiedeva i comizi
curiati[10],
infatti, chiedeva al pater adrogans
se volesse l’adottando come suo figlio legittimo, all’adottando se
intendesse subire ciò[11], e, infine, al popolo[12],
sulla sua volontà di autorizzare il compimento dell’atto.
Suoi
elementi caratterizzanti erano la solennità del rito, suggellato da un
giuramento – la cui formula fu creata forse dal pontefice massimo Quinto
Mucio[13]
–, e la rigorosa istruttoria preliminare, attraverso la quale valutarne
l’opportunità, soprattutto nel caso in cui fosse parte un
impubere. A tal proposito, va sottolineato che la possibilità per un
impubere di essere arrogato è esclusa espressamente da Gellio, al pari
dell’arrogazione del pupillo da parte del tutore (l’auctoritas del quale, infatti, non
arriva a consentirgli di sottoporre all’altrui potestas una persona libera affidata alla sua protezione)[14].
Venivano
così presi in considerazione importanti aspetti quali la differenza
d’età tra l’adottando e l’adottante, o
l’eventuale incapacità a procreare da parte di quest’ultimo,
il quale, inoltre, non doveva essere mosso al compimento dell’atto dal
desiderio di appropriarsi dei beni dell’adottando: conseguenza
patrimoniale dell’assoggettamento di un pater familias alla potestas di
un altro pater familias, infatti, era
il conseguente assoggettamento di persone e cose[15],
che già si trovavano sotto la potestas
dell’adottando, alla potestas del
pater adrogans, al quale pure si
trasmettevano i crediti, ma non anche i debiti, che invece si estinguevano[16],
facenti capo al soggetto adrogato, realizzandosi così una vera e propria
ipotesi di successione universale inter
vivos[17].
Tutta
questa serie di dati è desumibile dai testi di Gaio e di Gellio presi in
considerazione: è agevole constatare
come in essi manchi il benché minimo accenno al compimento della sacrorum detestatio. Ad essa
invece si fa riferimento in un
altro passo dell’opera gelliana, che conviene subito prendere in
considerazione:
In libro Laelii Felicis ad
Q. Mucium primo scriputm est Labeonem scribere ‘calata’ comitia
esse, quae pro conlegio pontificum habentur aut regis aut flaminum inaugurandorum
causa. Eorum autem alia esse ‘curiata’, alia
‘centuriata’; ‘curiata’ per lictorem curiatum
‘calari’, id est ‘convocari’, ‘centuriata’
per cornicinem.
Isdem comitiis, quae ‘calata’
appellari diximus, et sacrorum detestatio et testamenta fieri solebant. Tria
enim genera testamentorum fuisse accepimus: unum, quod calatis comitiis in
populi contione fieret, alterum in procinctu, cum viri ad proelium faciendum in
aciem vocabantur, tertium per familiae emancipationem, cui aes et libra
adhiberetur.
In
eodem Laelii Felicis libro haec scripta sunt: “Is qui non universum
populum, sed partem aliquam adesse iubet, non ‘comitia’ sed
‘concilium’ edicere debet. Tribuni autem neque advocant patricios
neque ad eos referre ulla de re possunt. Ita ne ‘leges’ quidam
proprie, sed ‘plebisscita’ appellantur, quae tribunis plebis
ferentibus accepta sunt, quibus rogationibus ante patricidi non tenebantur,
donec Q. Hortensius dictator eam legem tulit, ut eo iure, quod plebs statuisset
omnes Quirites tenerentur”. Item in eodem libro hoc scriptum est:
“Cum ex generibus hominum suffragium feratur, ‘curiata’
comitia esse; cum ex censu et aetate, ‘centuriata’; cum ex
regionibus et locis ‘tributa’; centuriata autem comitia intra pomerium
fieri nefas esse, quia exercitum extra urbem imperari oporteat, intra urbem
imperari ius non sit. Propterea centuriata in campo Martio haberi exercitumque
imperari presidii causa solitum, quoniam populus esset in suffragiis ferendis
occupatus”[18].
Tutte le diverse
letture che si sono fornite dell’istituto della sacrorum detestatio non hanno potuto prescindere da questo passo in
cui Gellio attinge dall’opera di Lelio Felice, riportando quei brani che
– salvo fortunosi quanto improbabili ritrovamenti – attualmente si
ritengono essere ciò che di essa ci rimane[19],
e indica, sulla base delle indicazioni di Labeone in essa riportate, le
differenze tra i vari tipi di comitia.
In particolare, si rammenta come i comitia
calata erano quelli tenuti in presenza del collegio dei pontefici per
procedere alla inauguratio del rex sacrorum[20] o dei flamines[21],
precisandosi altresì che i comitia
calata si distinguevano in ‘curiata’
e ‘centuriata’, e che
l’una e l’altra tipologia erano soggette a diverse modalità
di convocazione, provvedendovi per le prime il littore curiato, e per le
seconde il suonatore di corno.
I comitia calata,
inoltre, vengono indicati come le assemblee deputate anche alla realizzazione
della sacrorum detestatio e dei
testamenti (‘Isdem comitiis, quae
‘calata’ appellari diximus, et sacrorum detestatio et testamenta
fieri solebant ’). Subito dopo questa indicazione, nel testo gelliano
si apre una digressione sulle diverse forme di testamento, dove, tra
l’altro, si rammenta che il testamentum
calatis comitiis avveniva ‘in
populi contione’, per poi riprendere a citare testualmente
dall’opera di Lelio Felice, nella parte in cui si pone la differenza tra comitia e concilia, specificandosi che questi ultimi sono quelle assemblee in
cui viene convocata una parte soltanto del popolo. Anche in questo punto si apre
una digressione sull’ incapacità dei tribuni della plebe a
convocare i patrizi, o a riferire loro su qualsiasi questione, e si pone
l’accento sull’originaria inefficacia dei plebisciti nei confronti
dei patrizi, sino al cambiamento introdotto con l’approvazione della lex Hortensia[22].
Il testo del ventisettesimo capitolo procede, poi, con
un’ulteriore citazione testuale da Lelio Felice, nella parte in cui si
continuano ad evidenziare le differenze tra le diverse assemblee comiziali a
seconda della tipologia di voto propria di ciascuna di esse: nei comitia curiata il voto si esprimeva per
classe di persone (ex generibus hominum
suffragium); nei comitia centuriata,
invece, esso si esprimeva in base al censo e all’età; infine, nei comitia tributa la votazione si
esprimeva secondo le tribù distrettuali di appartenenza (ex regionibus et locis). La conclusione
del capitolo continua ad essere affidata alla citazione del medesimo passo di
Lelio Felice, dove si specificano ulteriori peculiarità dei comitia centuriata, e cioè
l’impossibilità della loro convocazione all’interno del
pomerio (poiché l’esercito deve radunarsi fuori della
città, essendo illecita la sua convocazione all’interno
dell’Urbe), e l’individuazione nel Campo Marzio del luogo deputato
ad ospitare tali comizi, e le relative votazioni.
Si sono sottolineate le numerose oscurità[23]
che il ventisettesimo capitolo del quindicesimo libro delle Notti Attiche presenta, ponendosi in
dubbio che tutte le informazioni in esso contenute risalgano, per il tramite di
Lelio Felice, a Labeone. Mette appena conto rilevare, infatti, come nel passo
in esame la difficoltà esegetica consista nel distinguere le stratificazioni
di pensiero (e di scrittura) proprio di Lelio Felice[24]
e dello stesso Gellio. Peraltro, in quanto alla fonte gelliana, e cioè
il commentario di Lelio Felice a Quinto Mucio, si è affermato che
«resta dubbio se l’opera avesse carattere giuridico oppure antiquario
e aneddotico»[25]:
per quanto autorevole, naturalmente, questa affermazione non può andare
oltre il campo delle congetture, visto che, come affermato, il più ampio
passo di Lelio Felice di cui attualmente disponiamo è proprio quello
presentato nel riferito capitolo delle Notti
Attiche, e ben poco si può dire di questo giurista del II secolo.
E’ noto, infatti, come già il Lenel[26]
non poteva far altro che congetturare circa la coincidenza tra il Lelio Felice
da cui attinge Gellio, e il tal Lelio ‘qui in digestis laudatur’: il riferimento è a due
passi della medesima opera di Paolo in cui si cita un Lelio che, in un caso,
avrebbe approvato l’impostazione seguita dallo stesso Paolo, e contraria
a quella di Aticinio, relativamente alla eventualità della restituzione
del legato conseguito dal legatario che avesse poi promosso, per errore e non
temerariamente, la petitio hereditatis[27].
In un altro caso il riferimento è molto più aneddotico, dato che
si parla di un Lelio che avrebbe scritto di aver visto nel Palatino una donna
libera, proveniente da Alessandria per essere presentata all’Imperatore
Adriano, che aveva cinque figli, dei quali quattro sarebbero stati partoriti
contemporaneamente, e il quinto dopo quaranta giorni[28].
Vi è stato addirittura chi ha preso in considerazione l’ipotesi
dell’identificazione di Lelio Felice con Gaio[29]:
ma, pur ricordando che il giurista antoniniano gode di una certa tradizione
nell’essere identificato con qualcun altro[30],
va rilevato come le argomentazioni addotte per identificarlo con Lelio Felice
risultino veramente labili, poco suggestive e in un caso addirittura smentite
dallo stesso dato testuale invocato per supportarle[31].
Sempre al Lenel[32]
risalgono i primi dubbi sulla integrale riferibilità del testo gelliano
all’opera di Lelio Felice. Ed in effetti una lettura anche solo poco
più che superficiale del testo in questione contribuisce a fondare
l’idea che esso sia il prodotto della combinazione tra una testo base di
riferimento e delle aggiunte[33]
ad esso. Credo che a favore di questa impressione depongano anche quelle
digressioni cui s’è fatto cenno in precedenza, l’una sulle
tipologie di testamento e l’altra sui limiti tanto dei poteri dei tribuni
della plebe, quanto della forza dei plebisciti nei confronti dei patrizi. Esse,
infatti, si inseriscono chiaramente in un discorso compiuto, determinandone
delle periodiche interruzioni. Il discorso in questione è quello sulle
tipologie di comitia: tutte e tre le
volte in cui Gellio afferma di citare testualmente dall’opera di Lelio
Felice, infatti, l’incipit è
costantemente riferito a tale argomento, che costituisce ogni volta occasione
per effettuare le digressioni a cui si è più volte fatto cenno.
In virtù di queste considerazioni si potrebbe dunque
affermare che il primo libro del commentario a Quinto Mucio di Lelio Felice
trattasse delle forme comiziali romane, e non dei testamenti, come invece
ritiene il Lenel[34]:
ma a questa congettura si contrappone l’insegnamento in forza del quale
«le esposizioni delle leges,
degli iura compresi nell’ius civile seguirono costantemente uno
schema unico»[35],
pressoché costante. Conseguentemente, i commenti a Quinto Mucio,
strutturati in forma lemmatica, avrebbero seguito l’ordine espositivo
dell’opera commentata, la quale appunto si sarebbe dovuta aprire con la
materia testamentaria.
Pertanto, volendo applicare al passo gelliano preso in esame i
criteri appena enucleati, si dovrà argomentare nel senso che il primo
libro di un’opera di commento a Quinto Mucio, nel parlare delle
differenze tra i tipi di comizi, non poteva che riferirsi alla materia
testamentaria e, trattando del testamentum
calatis comitiis, effettuare digressioni sulle tipologie di assemblee
comiziali. Si dovrà a questo punto convenire che, in forza di
quest’ultima impostazione, tutto il ventisettesimo capitolo del
quindicesimo libro delle Notti Attiche
appare essere il risultato di ribaltamenti continui della fonte di riferimento,
e cioè del primo libro del commento di Lelio Felice a Quinto Mucio.
Infatti, posto che il tema principale del capitolo gelliano
concerne le differenze tra assemblee comiziali romane, è curioso che
Gellio, per trattarne, abbia fatto riferimento a un’opera nella parte in
cui essa non si occuperebbe specificamente di tale argomento, ma di altro, e
cioè di diritto testamentario, o, più in generale, delle
successioni. Peraltro, il tema delle assemblee comiziali consentirebbe a Gellio
di fornire incidentalmente anche informazioni sulle tipologie di testamento
(che paradossalmente è – o meglio: dovrebbe essere – il tema
principale della relativa parte dell’opera da cui attinge), oltre che sui
poteri dei tribuni della plebe e sull’efficacia dei plebisciti.
Si potrebbe osservare che, in fin dei conti, una costruzione di
tal fatta ben si attaglierebbe ad un’opera come quella gelliana, vero
zibaldone di curiosità antiquarie, la cui raccolta e presentazione,
però, non può pretendersi informata a quella sistematicità
che si insegna essere propria di un’opera giuridica.
Sia allora concesso segnalare questa strana e disordinata tendenza
che dovrebbe ascriversi alla tecnica compositiva di Gellio, consistente nello
stravolgere la propria fonte di riferimento. Infatti, ciò che dovrebbe
essere l’argomento principale del primo libro del commento di Lelio
Felice a Quinto Mucio viene, per così dire, «declassato» in
digressione nelle Notti Attiche, e,
viceversa, ciò che verosimilmente nella fonte di riferimento non poteva
essere che una digressione viene «elevato», nel capitolo gelliano,
ad argomento principale[36].
Da
quanto si è detto sinora possono trarsi alcuni punti fermi. Dovrebbero
risultare abbastanza chiari i motivi che conducono a rigettare
l’impostazione oggi dominante che vede nella sacrorum detestatio l’atto, prodromico all’adrogatio, col quale l’adrogando
rinunziava ai propri sacra familiari
prima di entrare nella nuova famiglia. Il significato dell’istituto
inteso come «rinunzia solenne ai riti sacri» viene spiegato facendo
riferimento al passo di Gellio da ultimo preso in esame[37],
dove in realtà non si fa altro che
elencare gli atti che si compivano
nei calata comitia. Come si
è rilevato, Gellio attinge da Lelio Felice, attratto da una citazione
labeoniana contenuta nell’opera di costui, ma si limita ad effettuare
appunto un’elencazione: con l’eccezione di alcune rapide
informazioni sulle tipologie di testamento[38],
infatti, egli non spiega in cosa consistano
o come si svolgano le inaugurationes,
o la sacrorum detestatio, che si
celebravano in quelle forme di comizi.
Salvo
rarissime eccezioni[39],
però, la dottrina ha pressoché unanimemente ricollegato la sacrorum detestatio allo svolgimento
dell’adrogatio[40],
che, già perfezionatasi su quello che potremmo chiamare il piano del
diritto pubblico con la triplice interrogazione (all’arrogante,
all’arrogando e al popolo), avrebbe comunque necessitato di
un’ultima formalità «pour consacrer le changement de gens au point de vue du droit sacré»[41].
Con la solenne rinunzia da parte dell’adottato ai culti della famiglia
d’origine, la sacrorum detestatio
appunto, l’adrogatio si sarebbe
completata anche dal punto di vista sacrale. Al silenzio delle fonti in tal
senso, si è sempre contrapposto il generale accordo degli studiosi che
vedeva in tale dinamica l’applicazione principale della sacrorum detestatio[42],
il ricorso alla quale, in verità, è stato poi spiegato con
diverse sfumature.
Per
alcuni[43],
infatti, il ricorso a essa sarebbe stato necessario solo in occasione del
«transito» da parte di un patrizio ad una nuova gens, potendosi trasmettere i sacra familiaria e non anche i sacra gentilicia; altri ancora,
rifacendosi ad una nota ipotesi del Mommsen, poi abbandonata dallo stesso
studioso[44],
ne ammettevano l’uso per il solo caso del patrizio che, col
«transito» in una nuova familia,
subisse anche un cambiamento di stato sociale, facendosi adottare da un pater (e divenendo quindi un) plebeo. Va
segnalato, però, come quest’ultima interpretazione non abbia avuto
particolare fortuna, non fosse altro che per l’abbandono da parte dello
stesso Mommsen della sua idea originaria[45].
Giova
a questo punto ribadire come a tanta varietà di sfumature interpretative
connesse all’accostamento tra adrogatio
e sacrorum detestatio, corrisponda in
concreto il silenzio delle fonti, dalle quali anzi si possono trarre argomenti
a favore della diversità e indipendenza dei due istituti: vi è
stato, infatti, chi[46]
ha sostenuto questa posizione in virtù della differente tipologia di
comizi nei quali essi venivano compiuti, stando proprio all’informazione
che è data reperire nel passo di Gellio da ultimo preso in
considerazione[47]:
si è dunque osservato[48]
che la sacrorum detestatio si compiva
nei comitia calata; non invece
l’adrogatio, che dal
diciannovesimo capitolo del quinto libro delle Notti Attiche abbiamo appreso celebrarsi in seno ai comitia curiata. I sostenitori di questa
interpretazione hanno conseguentemente escluso, o comunque presentato in
maniera dubitativa, un eventuale rapporto genus/species tra queste due tipologie
comiziali. Sennonché è proprio dal passo di Gellio contenuto in Noct. Att. 15.27 che si apprende come
anche i comitia curiata sono
riconducibili alla più ampia categoria dei comitia calata. Non è inoltre mancato chi[49]
ha forse confuso i comitia calata in
cui si compiva la sacrorum detestatio
con i comizi con funzioni (anche e soprattutto) «deliberanti» in
cui si compiva l’adrogatio.
Lo
stesso Daverio rileva che
«la adrogatio si compiva con
l’intervento dei comitia curiata,
dice Gellio; la sacrorum detestatio si
svolgeva nei calata comitia, come lo
stesso Gellio riferisce in luogo diverso»[50]:
ora, il «luogo diverso» in cui Gellio riferisce quest’ultima
informazione è il passo contenuto in Noct.
Att. 15.27, dal quale, giova ripeterlo, si apprende che tanto i comitia curiata quanto i comitia centuriata sono riconducibili
alla categoria dei comitia calata,
tra loro però differenziandosi già per la diversa modalità
di convocazione, oltre che per le differenti competenze ad essi riservate.
Dire, in assenza di altre precisazioni, che «la sacrorum detestatio si svolgeva nei calata comitia» può comportare una generica allusione
ai comitia curiata e ai comitia centuriata, ossia a due
tipologie comiziali che lo stesso Autore poco prima[51]
aveva ipotizzato essere radicalmente differenti, tanto da non potersi neppure
porre in rapporto di genere a specie. Risulta evidente come la differenza sia
da individuarsi in un altro elemento, peraltro fornito dalla stessa
testimonianza gelliana, contenuta in Noct.
Att. 15.27, dove, nell’affermare che il testamentum calatis comitiis ‘in populi contione fieret’, attira l’attenzione del
lettore sul momento della contio, in
merito al quale è sempre dalle Noctes
Atticae che possono trarsi informazioni:
Idem Messala in eodem libro de minoribus magistratibus ita
scripsit : ‘Consul ab omnibus magistratibus et comitiatum et
contionem avocare potest. Praetor
et comitiatum et contionem usquequaque avocare potest nisi a consule. Minores
magistratus nusquam nec comitiatum nec contionem avocare possunt. Ea re, qui
eorum primus vocat ad comitiatum, is recte agit, quia bifariam cum populo agi
non potest nec avocare alius alii potest. Set si contionem habere volunt, uti
ne cum populo agant, quamvis multi magistratus simul contionem habere
possunt ’. Ex his verbis Messalae manifestum est aliud esse
‘cum populo agere ’, aliud ‘contionem
habere ’. Nam ‘cum populo agere ’ est rogare quid
populum, quod suffragiis suis aut iubeat aut vetet,
‘contionem ’ autem ‘habere ’ est verba facere
ad populum sine ulla rogatione[52].
Attingendo
da Messala, Gellio, dunque, sostiene che la ‘contio ’ consiste nel ‘verba facere ad populum sine ulla rogatione ’; riguarda
cioè quel momento in cui non si ha il suffragium, posto che, da parte del magistrato che ha convocato i
comizi, non si tratta di altro se non di «parlare» al popolo senza
rivolgergli rogatio alcuna: ma
ciò è impensabile per l’adrogatio,
visto che in tal caso sarebbero mancate proprio quelle rogationes (all’adrogante, all’adrogando e al popolo)
che, come si è visto, ne erano l’elemento qualificante:
conseguentemente, in occasione di un’adrogatio,
e più in generale ogniqualvolta si dovesse passare ad una successiva
votazione, la contio rappresentava
«un’assemblea regolare ma preparatoria»[53],
durante la quale «il popolo era riunito senza distinzioni di gruppi, di
centurie o di tribù»[54]
ed era informato sulle questioni da trattare.
Lo
stesso non può dirsi invece per la sacrorum
detestatio, circa la quale non siamo informati dell’esigenza di
alcuna rogatio e che pertanto avrebbe
potuto tranquillamente celebrarsi, al pari del testamento pubblico, in populi contione.
Risulta
quindi opportuno guardare l’accostamento tra adrogatio e sacrorum
detestatio con quel «sospetto» di cui già parlava il
Daverio, affermando che «nulla autorizza quella ovvia sicurezza»[55],
che troverebbe, a detta di molti, una base argomentativa in un passo di Servio[56],
ove si afferma che ‘consuetudo apud
antiquos fuit, ut qui in familiam vel gentem transiret, prius se abdicaret ab
ea, in qua fuerat, et sic ab alia acciperetur’.
Si
tratta, in verità, di un appiglio abbastanza labile, tanto che si
è prontamente osservato[57]
come il passo, peraltro ritenuto «sradicato dal proprio contesto»[58]
e quindi non probante, parli di una consuetudo,
così da far pensare che il compimento o meno della sacrorum detestatio fosse rimesso al giudizio dei pontefici, i
quali avrebbero potuto permettere che chi entrava a far parte di una nuova
famiglia conservasse i propri culti familiari accanto a quelli di
quest’ultima.
Va poi
tenuto in considerazione l’uso che Servio fa del verbo ‘abdicare’. Nell’utilizzo di
esso, infatti, si è voluto trovare[59]
il riferimento alla sacrorum detestatio
come ineliminabile formalità connessa all’adrogatio, essendosi rinvenuti nel verbo in questione tutti quei
significati di «negazione», «allontanamento da
sé» e «disconoscimento» ritenuti probanti per
ricondurlo alla solenne e preliminare rinunzia ai sacra della famiglia di provenienza, che Servio presenterebbe come
«una consuetudine presso gli antichi».
In
realtà, emerge chiaramente dal passo in questione che Servio non procede
alla benché minima correlazione tra il segno abdicare e i sacra della
famiglia di provenienza. E’ anzi quest’ultima nella sua
globalità ad essere oggetto dell’abdicatio di chi si accingeva ad effettuare il
«transito» (‘prius se
abdicaret ab ea, in qua fuerat’) in una nuova familia o gens. Questa
solenne rinunzia alla familia di
provenienza o alla gens di
appartenenza (e non ai relativi sacra)
può allora intendersi come un’interpretazione (o una spiegazione)
di Servio della rogatio rivolta dal
pontefice al soggetto adrogando sulla sua intenzione di permettere
l’acquisto, in capo al pater
adrogans, della potestas su di
lui e sui soggetti eventualmente a lui sottoposti[60].
Va
inoltre ricordato il passo del de legibus
ciceroniano (2.9.22) che termina affermando il principio di diritto
pontificale, poi ulteriormente discusso e sviluppato in seguito[61],
‘Sacra privata perpetua manento’.
Analogamente al principio ‘perpetua
sint sacra’, anche in questo caso si può affermare di non
essere in presenza di un precetto generico, o immaginato come ideale, e quindi
inesistente: a prescindere dalla sua precisa formulazione la norma –
antichissima, visto che Attico non ha difficolatà a ricondurla alle
leggi di Numa oltre che ai mores[62] – che imponeva la
perpetuità del culto faceva ancora percepire in Cicerone «il peso
giuridico di quel principio nella civitas
romana»[63].
Il
principio della perpetuità del culto – anche di quello privato
–, sulla cui effettività avrebbero dovuto vigilare i pontefici, si
pone in netto contrasto con la ricostruzione della sacrorum detestatio nel senso inteso dalla dottrina dominante. In
particolare, qualora il soggetto adrogato fosse l’ultimo tenuto alla
prosecuzione di un determinato culto, e proprio in funzione della sua
perpetuità, innanzi ai pontefici non se ne sarebbe potuta effettuare (o,
comunque, essi non l’avrebbero permessa) la pubblica abiura. E’
invece più coerente immaginare l’eventuale impostazione contraria,
e cioè un’adrogatio
compiuta per permettere all’adrogante – ultimo obbligato alla
celebrazione di un culto – di
avere un continuatore del culto stesso.
Queste
argomentazioni risultano decisive per ritenere non accettabile l’attuale
interpretazione dominante che intende la sacrorum
detestatio come la pubblica abiura dei propri culti effettuata dal soggetto
adrogando prima di effettuare il «transito» in una nuova familia o gens[64].
Sono
state seguite anche altre vie per fornire un’interpretazione del nostro
istituto.
Una
lettura[65]
collega la sacrorum detestatio col
giuramento prestato davanti ai comitia
calata. In questo senso, Livio risulterebbe particolarmente rilevante:
Iurare cogebant diro quodam carminem, in exsecrationem capitis
familiaeque et stirpis composito, nisi isset in proelium quo imperatores
duxissent, et si aut ipse ex acie fugisset, si quem fugientem vidisse, non
extemplo occidisset.[66]
Quippe in oculis erat omnis ille occulti paratus sacri et armati
sacerdotes et promiscua hominum pecudumque strages et respersae fando
nefandoque sanguine arae et dira exsecratio ac furiale carmen, detestandae
familiae stirpique compositum iis vinculis fugae obstricti stabant, civem magis
quam hostem timentes[67]
Si
tratta dei passi in cui Livio testimonia del giuramento prestato dai Sanniti
prima di muovere battaglia contro i Romani. Il rituale, sicuramente connesso ad
usanze religiose arcaiche, prevedeva l’accompagnamento individuale
all’altare (accompagnamento che sembrava più quello di una vittima
che di un partecipante al sacrificio[68])
di coloro che, innanzi ad esso, avrebbero giurato di mantenere il segreto su
quanto avrebbero visto. Seguiva la terribile formula di giuramento con la quale
si invocavano gravi sciagure su se stessi, sulla propria famiglia e sulla
propria discendenza (attraverso il carmen
in execratione capitis familiaeque et stirpis compositus, del quale non si
conserva il formulario) per il caso in cui il giurante non si fosse recato in
battaglia secondo gli ordini dei comandanti, o l’avesse abbandonata, o
non avesse immediatamente ucciso l’eventuale commilitone sorpreso a
fuggire.
Livio
sottolinea come il rifiuto di giurare da parte di alcuni fu utilizzato come
monito per gli altri, che ebbero modo di vedere i cadaveri martoriati dei primi
ai piedi dell’altare, assieme agli animali sacrificati, così da
andare poi in battaglia, una volta indotti a prestare il giuramento (‘detestatione obstrictis’[69]),
con l’orrida immagine ancora davanti agli occhi, e le inquietanti parole
della formula del giuramento ben impresse nella mente, tanto da temere, in
quanto ad infauste conseguenze, più gli stessi concittadini che i
nemici.
La
procedura è senz’altro cruenta: facendo riferimento ad essa,
accorta dottrina[70]
ha sottolineato come il rituale dei Sanniti sia tecnicamente riconducibile al
compimento dell’exsecratio, e
cioè dell’automaledizione per il caso in cui non si ponga in
essere quanto promesso con la formula di giuramento. Tra gli studiosi che hanno
affrontato ex professo il tema del
giuramento nel mondo romano (e, più in generale,
nell’antichità) è discusso se l’exsecratio possa farsi coincidere col giuramento[71]
o se non debba piuttosto qualificarsi solo come una parte di esso[72],
ancorché molto importante. Quale che sia la posizione da prendersi
relativamente a quest’ultimo aspetto, risulterà chiaro che,
soprattutto per chi identifica il giuramento con l’exsecratio, l’accostamento ulteriore tra giuramento e sacrorum detestatio deriva proprio
dall’identificazione del primo con la exsecratio.
Secondo questa lettura, dunque, l’interpretazione dell’istituto
della sacrorum detestatio presupporrebbe
un’equiparazione semantica tra il segno ‘detestare’ ed il segno ‘exsecrare’, mentre il riferimento ai ‘sacra’ alluderebbe
all’oggetto dell’automaledizione per il caso in cui il giurante non
avesse mantenuto la promessa giurata. In sostanza, non si sarebbe trattato
dell’abbandono dei sacra da
parte dell’adrogando, ma del giuramento (o di un’importante
componente di esso) che, al pari dei Sanniti, il civis avesse compiuto però innanzi ai comizi: il riferimento
a questi ultimi viene ricavato dall’informazione fornita da Gellio nel
passo, già presentato[73],
in cui espressamente si dichiara che i calata
comitia erano il luogo deputato, tra l’altro, ad effettuare anche la sacrorum detestatio. Si può qui
rilevare come nel passo gelliano in questione non si effettui nessun
collegamento o allusione col giuramento, e già questa argomentazione
potrebbe bastare per escludere l’interpretazione appena presentata
dell’istituto di cui ci stiamo occupando.
Va
peraltro segnalato come in dottrina si sia seguita un’altra via per
mettere in relazione il giuramento con la sacrorum
detestatio: risale al Careddu l’ipotesi in forza della quale
quest’ultima costituirebbe in realtà la fondazione dei sacra, «cioè
quell’atto solenne col quale il cittadino romano istituiva i sacrifizii,
le cerimonie e le feste, con cui intendeva che fossero onorati ed avessero
culto perpetuo i trapassati, ossia i Lari della propria famiglia, atto solenne
che doveva compiersi alla presenza del popolo, con l’intervento dei
Pontefici»[74].
Rispetto all’interpretazione oggi dominante, questa ipotesi capovolge
addirittura i termini della questione: non si tratta più di un ripudio,
di un abbandono del culto, ma al contrario di una dichiarazione istitutiva. Pur
parendo caduta nell’indifferenza generale, tale ricostruzione, già
presa comunque in considerazione da Max Kaser[75]
e Pierangelo Catalano[76],
è stata definita addirittura «una geniale ipotesi» da
Fabrizio Daverio[77],
il quale espressamente vi accede, e da Carla Fayer[78].
A
fondamento di essa si è utilizzato il significato tecnico della parola
‘detestatio’ che è
ancora conservato nel Digesto:
‘Detestatum’ est testatione denuntiatum[79];
‘Detestatio’ est denuntiatio facta cum testatione[80];
‘Detestari’ est absenti denuntiare[81]
Da
questi passi si è dedotto che la detestatio
«era una dichiarazione cum
testatione, ossia fatta in presenza di testimoni espressamente
assunti»[82].
La considerazione, poi, che questa solenne dichiarazione in presenza di
testimoni avveniva innanzi ai comizi, porta alla conseguenza che, nella sacrorum detestatio, chiamato a rendere
testimonianza è il popolo. E possiamo aggiungere che la testimonianza
era resa ‘in populi contione’
(esattamente come per il caso del testamentum
calatis comitiis), dovendosi procedere solo ad essa e non anche a
votazione.
Resta
comunque ancora poco chiaro quale fosse l’oggetto di tale testimonianza,
posto che l’area semantica coperta dal segno ‘detestatio’ va ben oltre il significato, sino ad ora preso in
considerazione, di «pubblica dichiarazione in presenza di
testimoni», come sembrerebbero suggerire i riportati frammenti gaiano e
ulpianeo, che comunque testimoniano l’esistenza di una gamma di
significati del segno in questione più antica e più ampia di
quella che, secondo alcuni[83],
a seguito della diffusione del cristianesimo[84],
si stabilizzerà in epoche più recenti, nelle quali si avranno per
acquisiti, per il segno ‘detestatio’,
significati quali «rinunzia» o «abiura», e che
indubbiamente avranno costituito fattore di persuasione (o quantomeno di
suggestione) per quella ricostruzione oggi dominante dell’istituto in
esame.
Una
maggiore attenzione all’area semantica coperta dal segno ‘detestatio’ porta ad associare ad
esso un’ulteriore serie di significati, in particolare quelli di
«maledizione», come può leggersi gli in Orazio: ‘dira detestatio nulla expiatur victima’[85];
ovvero «abominazione», «esecrazione», come nel
già considerato passo di Livio[86],
oltre che in Ovidio: ‘Damnavit
meritumque nihil pater eicit urbe / Hostilique caput prece detestatur euntis’[87],
dove emerge peraltro con una certa chiarezza il senso di «esecrare,
maledire con l’invocazione degli Dei»[88].
In più occasioni il senso è quello di «disprezzo»,
come attestato, tra gli altri, da Valerio Massimo (‘licet Athenae doctrina sua glorientur, uir tamen prudens Fabricii
detestationem quam Epicuri malu<er>it praecepta’[89];
‘uno enim facto et illas in
profundum praecipitauit et omnem nominis sui memoriam inexpiabili detestatione
perfudit’[90]),
da Cesare (‘Catuvolcus, rex
dimidiae partis Eburonum, qui una cum Ambiorige consilium inierat, aetate iam
confectus, cum laborem aut belli aut fugae ferre non posset, omnibus precibus
detestatus Ambiorigem, qui eius consilii auctor fuisset, taxo, cuius magna in
Gallia Germaniaque copia est, se exanimavit’[91]),
e da Seneca (‘inde ille affectus otium suum detestantium querentiumque
nihil
ipsos
habere
quod agant’[92];
‘Familia petit vestiarium
victumque;
tot ventres avidissimorum animalium
tuendi sunt, emenda vestis et custodiendae rapacissimae manus et flentium detestantiumque ministeriis utendum’[93].
Conseguentemente,
il significato di «pubblica dicharazione in presenza di testimoni»,
proposto, per sostenere la sua ipotesi, dal Careddu, anche in forza dei
frammenti gaiano e ulpianeo contenuti nel Digesto, può essere sostituito
senza particolari difficoltà con quello di «pubblica
esecrazione» o «pubblica maledizione in presenza di
testimoni». Si osserverà più avanti come quest’ultima
proposta può forse contribuire a riempire maggiormente di significato il
frammento di Paolo contenuto in D. 50.16.39.2.
Per il
momento osserviamo che l’oggetto di questa «pubblica
esecrazione» è rappresentato dal segno ‘sacrorum’. Esso viene spiegato ricordando che i Romani
utilizzavano il termine ‘sacra’
«per dinotare un insieme di riti, di cerimonie e di sacrifizî che
si celebravano a scopo di culto»[94]:
sono notissime le informazioni in merito fornite da Festo, che in un caso
attinge da Labeone:
Publica sacra quae publico sumptu pro populo fiunt, quaequae pro
montibus pagis curis sacellis at privata quae pro singulis hominibus familiis
gentibus fiunt[95].
Popularia sacra sunt, ut ait Labeo, quae omnes cives faciunt, nec
certiis familiis adtributa sunt: Fornacalia, Parilia, Laralia, porca
praecidania[96].
I sacra, dunque, si distinguevano in publica e privata a seconda che si celebrassero a spese del popolo o si
compissero privatamente[97],
e, pur potendo alcuni culti privati divenire pubblici, si tende ad ammettere
pacificamente «una totale indipendenza del culto gentilizio, e privato in
genere, rispetto a quello pubblico»[98].
La sacrorum detestatio viene
ricondotta[99]
al solo ambito di quest’ ultimo.
Pur
ammettendo il silenzio delle fonti in merito, e conseguentemente procedendo in
via meramente congetturale, il Careddu ritiene possibile che alla sacrorum detestatio, intesa nel senso di
«fondazione dei sacra»,
potesse accompagnarsi un giuramento imprecatorio, la cui funzione sarebbe stata
quella di ulteriormente rafforzare quel «vincolo obbligatorio al cui
adempimento stava garante il popolo e vegliava, nell’interesse del culto,
il collegio dei pontefici»[100]:
istituire e fondare perpetuamente nuovi sacra
familiaria con la solenne procedura necessitante il ricorso alla pubblica
assemblea e alla presidenza pontificale, infatti, avrebbe importato la
conseguenza, per chi avesse proceduto alla loro istituzione, di attendere
regolarmente al relativo culto, sopportandone anche gli oneri economici. Va
infatti tenuto presente che «tali sacra
avevano, come è ormai pacifico, contenuto patrimoniale, e sovente
gravoso»[101].
Il ricorso da parte del civis alla
testimonianza del popolo unitamente al riconoscimento pontificale, pertanto,
viene interpretato come l’unica procedura istitutiva ufficiale di nuovi
culti privati: in merito risulterebbero probanti un passo di Cicerone ed uno di
Livio:
Non solum ad religionem pertinet, sed etiam ad civitatis statum,
ut sine iis qui sacris publice praesint, religioni privatae satisfacere non
possint[102].
An gentilicia sacra ne in bello quidem intermitti, publica sacra
et Romanos deos etiam in pace deseri placet, et pontifices flaminesque
neglegentiores publicarum religionum esse quam privatus in sollemni gentis
fuerit?[103]
Cicerone
sottolinea come spettasse ai pontefici dirigere tutto il culto privato e
pubblico; analoga, e da un angolo visuale che pone l’accento sulla
perpetuità dei culti, tanto pubblici quanto – se riconosciuti dai
pontefici – privati, è la posizione di Livio.
L’ipotesi
del Careddu, pertanto, partendo da questa premessa, ritiene logicamente
ammissibile anche l’«istituzionalizzazione» della procedura
di creazione di nuovi culti: essa, oltre che con la pubblicità garantita
dalla dichiarazione compiuta innanzi all’assemblea del popolo riunito in
funzione testimoniale, sarebbe avvenuta sotto quello stesso controllo
pontificale poi esercitato successivamente anche in relazione al loro
esercizio. Ed anzi, sulla scia dell’insegnamento di Jhering[104],
egli ritiene che proprio il giuramento accedente all’istituzione dei
nuovi culti, con la sua caratteristica componente di sacralità, avrebbe
costituito il trait d’union con
il quale determinare l’estensione del potere dei pontefici agli affari
civili. Eppure questa suggestiva ricostruzione continua a scontrarsi con
l’autorevole obiezione[105]
che sottolinea come fosse in facoltà dei pontefici procedere ad
istituzione di sacra senza la
necessità della presenza dell’assemblea popolare riunita col
compito di rendere testimonianza: non si spiegherebbero pertanto i motivi di
questa diversità procedurale, e del resto nelle fonti non è dato
rinvenire nessun appiglio per procedere ad alcun tipo di giustificazione o
differenziazione. E’ per questi motivi che neanche la ricostruzione
proposta dal Careddu e sviluppata dal Daverio appare decisiva.
Simmetricamente
all’interpretazione da ultima presentata, un’ulteriore lettura[106]
ha posto il nostro istituto in relazione alla sacrorum alienatio di cui si trova notizia in diversi passi
ciceroniani, e addirittura se ne è ipotizzata la coincidenza[107].
‘At dignitatem docere non habet’. Certe, si quasi in
ludo; sed di monendo, si cohortando, si percontando, si comunicando, si
interdum etiam una legendo, audiendo, nescio [cur] cum docendo etiam aliquid
aliquando [si] possis meliores facere, cur nolis? An quibus verbis sacrorum
alienatio fiat docere honestum est[, ut est]: quibus ipsa sacra retineri
defendique possint non honestum est?[108].
Si
tratta di un passo della digressione[109]
in cui nell’Orator Cicerone
discute se convenga o meno ad un uomo di stato trattare questioni retoriche, e dopo
aver risolto affermativamente la questione egli sottolinea la necessità
di dare anche all’insegnamento, se non esercitato ‘quasi in ludo’, la dignità
che gli spetta: insegnare a mantenere e tutelare i sacra è infatti parimenti decoroso che insegnare con quali
parole sia possibile effettuare la rinunzia ad essi. Non c’è
nessun riferimento, dunque, all’istituto della sacrorum detestatio, posto che qui l’alienatio non è intesa nel senso di pubblica abiura, come
invece vuole l’interpretazione che si è vista essere oggi
dominante, ma di eliminazione dell’onere dei sacra (generalmente derivante da un lascito ereditario, ma non
solo).
Quest’aspetto
ritorna con una certa chiarezza in un lungo passo tratto dal de legibus ciceroniano:
Sed iuris consulti sive erroris obiciundi causa, quo plura et
difficiliora scire videantur, sive, quod similius veri est, ignoratione docendi
(nam non solum scire aliquid artis est, sed quaedam ars etiam docendi) saepe,
quod positum est in una cognitione, id in infinitam disperdiuntur, velut in hoc
ipso genere quam magnum illud Scaevolae faciunt, pontifices ambo et eidem iuris
peritissimi! “Saepe” inquit Publii filius, “ex patre audivi
pontificem bonum neminem esse, nisi qui ius civile cognosset”. Totumne? quid
ita? quid enim ad pontificem de iure paretium aut aquarum aut ullo omnino nisi
eo, quod cum religione coniunctum est? id autem quantulum est! de sacris,
credo, de votis, de feriis et de sepulchris, et si quid eius modi est. cur
igitur haec tanta facimus, cum cetera perparva sint, de sacris autem, qui locus
patet latius, haec sit una sententia, ut conservarentur semper et deinceps
familiis prodantur et, ut in lege posui, perpetua
sint sacra?
Exposite haec iura pontificum auctoritate consecuta sunt, ut, ne
morte patris familias sacrorum memoria occideret, iis essente a adiuncta,, ad
quos eiusdem morte pecunia venerit. hoc uno posito, quod est ad cognitionem
disciplinae satis, innumerabilia nascuntur, quibus implentur iuris consultorum
libri. quaeruntur enim, qui astringatur sacris. heredum causa iustissima est;
nulla est enim persona, quae ad vicem eius, qui e vita emigrat, proprius
accedat. deinde, qui morte testamentove eius tantundem capiat, quantum omnes
heredes. id quoque ordine; est enim ad id, quod propositum est, adcommodatum.
tertio loco, si nemo sit heres, is, qui de bonis, quae eius fuerint, cum
moritur, usu ceperit plurimum possedendo. Quarto, qui, si nemo sit, qui ullam
rem ceperit, de creditoribus eius plurimum servet. extrema illa persona est, ut
is, si qui ei, qui mortuus sit, pecuniam debuerit neminique eam solverit,
proinde habeatur, quasi eam pecuniam ceperit.
Haec nos a Scaevola didicimus, non ita descripta ab antiquis. nam
illi quidem his verbis docebant: tribus modis sacris astringi, aut ereditate,
aut si maiorem partem pecuniae capiat, aut, si maior pars pecuniae legata est,
si inde quippiam ceperit.
Sed pontificem sequamur. videtis igitur omnia pendere ex uno
illo, quod pontifices cum pecunia sacra coniungi volunt isdemque ferias et
caerimonias adscribendas putant. atque etiam dant hoc Scaevolae, cum est
partitio, ut, si in testamento deducta
scripta non sit ipsisque minus ceperint, quam omnibus heredibus
relinquatur ne alligentur. in donatione hoc idem secus interpretantur, et, quod
pater familias in eius donatione, qui in ipsius protestate est, adprobavit,
ratum est; quod eo in sciente factum est, si id non adprobat, ratum non est.
His propositis quaestiunculae multae nascuntur, quas quis qui intellegat
non, si ad caput referat, per se ipse facile perspiciat? veluti, si minus quis
cepisset, ne sacris alligaretur, et post de eius heredibus aliquis exegisset
pro sua parte id, quod ab eo, cui ipse heres esset, praetermissum fuisset,
eaque pecunia non minor esset facta cum superiore exactione quam heredibus esse
relicta, qui eam pecuniam exegisset, solum sine coheredibus sacris alligari.
quin etiam cavent, ut, cui plus legatum sit, quam sine religione capere liceat,
is per aes et libram heredes testamenti solvat, propterea quod eo loco res est
ita soluta ereditate, quasi ea pecunia legata non esset.
Hoc ego loco multisque aliis quaero a vobis, Scaevolae,
pontifices maximie et homines meo quidem sudicio acutissimi, quid sit quod ad
ius pontificium civile appetatis; civilis enim iuris scientia pontificum quodam
modo tollitis. nam sacra cum pecunia pontificum auctoritate, nulla lege
coniuncta sunt. itaque si vos tantum modo pontifices essetis, pontificalis
maneret auctoritas, sed quod idem iuris civilis estis peritissimi, hac scientia
illam eluditis. placuit P. Scaevolae et Ti. Cornucanio, pontificibus maximis,
itemque ceteris, eos, qui tantundem caperent, quantum omnes heredes, sacris
alligari. habeo ius pontificium; quid huc accessit ex iure civili? partitionis
caput scriptum caute, ut centum nummi deducerentur; inventa est ratio cur
pecunia sacrorum molestia liberaretur. quasi hoc, qui testamentum faciebat,
cavere noluisset, admonet iuris consultus hic quidem ipse Mucius, pontifex
idem, ut minus capiat, quam omnibus heredibus relinquatur; super dicebant
quicquid cepisset, astringi; rursus sacris liberantur. hoc vero nihil ad
pontificium ius et e medio est iure civili, ut per aes et libram heredem
testamenti solvant et eodem loco res sit, quasi pecunia legata non esset, si
is, cui legatum est, stipulatus est id ipsum, quod legatum est, ut ea pecunia
ex stipulatione debeatur, sitque ea non.[110]
Viene
qui presentata e criticata la tendenza dei giuristi i quali, più che
altro per ignoranza di metodo, tendono a effettuare innumerevoli ripartizioni
in seno ad un unico concetto. In particolare, poi, si sottolinea anche la
tendenza dei pontefici a estendere le competenze proprie dello ius pontificium anche ad aspetti del
diritto civile che poco hanno a che vedere con tutto quanto è connesso
all’oggetto specifico di esso, e cioè il culto, il suo esercizio
e, in ultima analisi, la sua perpetuità. Nello specifico, Cicerone
rileva come il problema della perpetuazione del culto, connessa alla distribuzione
dei beni ereditari, era dagli antichi risolta in tre possibili modi, in forza
dei quali l’onere dei sacra era
addossato agli eredi, o a chi avesse percepito la maggior parte del patrimonio
oppure a chi, pur essendo dispersa in legati la maggior parte dei beni, avesse
comunque conseguito qualcosa. Da questa tripartizione è poi derivata
tutta una serie di corollari volti a creare ulteriori regole per individuare
chi sia tenuto alla continuazione del culto: vengono così presi in
considerazione innanzitutto gli eredi, ovvero chi consegua per testamento una
quota pari alla somma di quelle spettanti alla totalità degli eredi. Per
il caso di loro assenza, poi, l’onere viene accollato a chi abbia
comunque conseguito la maggior parte dei beni appartenenti al de cuius al tempo della sua morte,
ovvero, se nessuno sia venuto in possesso di qualcosa, a quello dei creditori
che abbia la disponibilità della maggior parte delle sostanze ereditarie
o, infine, a colui che, essendo debitore del de cuius al tempo della morte di questi, e non avendo liquidato ad
altri il suo debito, si considera come se avesse conseguito quella somma.
Cicerone
considera poi le ulteriori conseguenze a cui si perveniva da tale
regolamentazione, prendendo in esame la situazione di chi avesse conseguito
meno di quanto gli spettasse per legge, al fine di evitare di accollarsi
l’onere del culto, e delle eventuali pretese dell’ erede di costui
in relazione a quanto non conseguito dal proprio dante causa (in questo caso se
costui avesse percepito un’integrazione tale da equiparare la quota del
suo dante causa a quella percepita dagli altri coeredi, egli avrebbe tuttavia
dovuto addossarsi l’onere dei sacra
senza condividerlo con costoro). Viene inoltre rappresentata anche la
situazione contraria, e cioè il caso di chi avesse percepito tramite
legato più di quanto conseguito dagli eredi: anche tale legatario
avrebbe potuto liberarsi dall’onere della continuazione dei sacra mediante liquidazione del relativo
valore agli eredi, quasi come se quel denaro non fosse mai stato legato.
Questa
tendenza dei pontefici a elaborare regole, che in concreto si rivelano escamotage per liberare il patrimonio
dall’onere della continuazione del culto, sembra proprio non essere
apprezzata da Cicerone, il quale altrove è ancora più esplicito,
affermando che gli antichi non approvarono mai la derelizione dei sacra[111].
Come
si è accennato, Cicerone ne individua le cause nell’abitudine dei
pontefici a estendere le proprie competenze, e ad appannare la
specificità delle proprie conoscenze, tanto che si può concordare
con quell’opinione che legge l’atteggiamento dei pontefici,
riportato nella testimonianza ciceroniana, come un’attività
«poco onesta, contraria agli antichi principi: chiaramente, è tutt’altra
cosa, nonostante certi immotivati accostamenti che si sono fatti, dalla sacrorum detestatio»[112].
Ad ulteriore riprova di ciò, va sottolineata l’assenza totale di
riferimenti alla sacrorum detestatio
nel de domo sua di Cicerone,
soprattutto laddove egli ricorre a tutto l’armamentario giuridico per far
invalidare la confisca della sua proprietà effettuata da Clodio,
sostenendo la nullità di tutti gli atti da lui compiuti in
qualità di tribuno della plebe proprio perché per assumere tale
carica egli, patrizio, si era fatto adottare (in realtà: adrogare) da un
pater plebeo[113],
peraltro molto più giovane di lui, al punto che avrebbe potuto essere
suo figlio.
In
forza di queste osservazioni, pertanto, non si ritiene corretto a procedere a
un’equiparazione tra la sacrorum
detestatio e quell’alienatio
a cui fa riferimento Cicerone.
Un’interpretazione,
risalente al Cuiacio ha posto il nostro istituto in relazione al testamento:
Legem 39 putem etiam referendam ad ius Pontificium. Multa iuris
antiqui vestigia sepulta sunt in hoc titulo, et indicabimus inde multa
procedente tempore. Videtur autem haec
lex referenda ad eam partem juris pontificii, quae est de sacris detestandis.
Nam ea explicat quid sit detestari,
quod est vetum Pontificum, et Decemvirorum verbum: detestari, ut Florent.
scriptum est, non attestari, ut in l.
seq. quod Graeci recte δισμαρτόρασθαι interpretantur. Servius Sulpit. JC. scripsit libros de sacris detestandis. Solebant
enim antiqui JC. juris civilis cognitionem conjungere cum jure Pontificio. Idem
Pontifices factitabant, nec erat Jurisconsultus qui Jus Pontificium ignorasset,
nec Pontifex, qui jus civile. Igitur non mirum si de his libros scripserit
Servius Sulpitius. Gellius lib. 6 cap.12 citat. Servium lib. 2 de testamentis. Libri scripti omnes habent, de sacris detestandis, Servius Sulpitius dixerit testamentum dici a mentis contestatione, quae est origo
verbi concinna et scita potius, quam vera, sicut illa mutuum dici, quod de meo fiat tuum, et illa Trebatii,
Sacellum dici a sacra cella cum
sacellum, et testamentum sit verbum simplex, non duplex. Sed ideo libri de sacris detest. et de test. tractarunt,
quod testamenta sequantur sacra, quodque et testamenta, et sacrorum detestatio fieri solerent calatis comitiis, Gellius lib. 15 cap. 27. igitur cum in hac l. 39 Paulus dicat, detestari esse
absenti denuntiare, detestari sacra interpretatur hoc esse absenti denuntiare, testato scilicet et prodere sacra, ut ea
suscipiat, et faciat, vel quod sit haeres defuncit, vel quod ex legato tantam
partem bonorum ceperit, quantam omnes haeredes, vel quod de bonis, quae ejus
fuerunt, cum moreretur, usuceperit plurimum, hic cum bonis debet etiam
suscipere sacra, si velit capere haereditatem, et bona. Et ita
detestari in 12 tabulis accipitur pro
absenti denuntiare cum testatione , l. 238
inf. in §. 1. quae est ex libris
ad 12 tabulas. His autem omnibus personis, id est, haeredibus, et legatariis,
quibus tanta pars bonorum relicta est, quanta haeredibus, et iis, qui
usuceperunt plurimum bonorum defuncti, ut Cicero exposuit 2. de legibus, feriae, et ceremoniae, id
est, sacra familiare, et gentis defunti adscribuntur: adscribuntur dixit, quod hic subsignantur,
et videtur subsignandi verbum, ipsius
juris Pontificii fuisse, simulque civilis pro subscribere, ut haeredibus subsignarentur, id est, subscriberentur
feriae, et ceremoniae, sic veteres loquebantur. Festus in verbo signare. Signare ponebant antiqui pro
scrivere, ut subsignare, et consignare, pro scribere, et
conscribere. Antiquum etiam detestandi verbum pro denuntiatione, quae fiebat
testato; sane antiquum, cum usurpatum sit in 12. tabulis. Ergo hujus legis, in
qua explicatur quid sit subscribere, quid subsignare, su menda est
interpretatio ex jure antiquo, et pene jam obsoleto. In eo autem jure ad quod
retuli hanc legem, docet subsequenter Paulus hic, bona accipi deducto aere alieno, cum dicimus eum alligari sacris,
et detestari sacra, et subsignare, qui partem bonorum jure legati ceperit, vel
usucapionis jure. Bona intelleguntur deducto aere alieno, ut in lege Falcidia,
et in edicto de collatione bonorum, quod exposui in l. 21. sup. Et nominatim proditum est de legato partitionis, quod
alligat sacris, l. 8. §. ult. de leg. 2 ubi dicitur, eum, cui
pars haereditatis legata est, etc. atque ideo non capit eam partem legatarius
sine sacris, et religione, nisi aes alienum ei nominatim injunctum sit: tunc
enim liberabitur sacris. Certo etiam possessori bonorum defuncti subsignantur
sacra, non incerto. Id evidens est: ob id ultimo loco incertum possessorem
definit, quem ignoramus: cum non est, quem sciamus possedere, non est etiam cui
subsignemus sacra, sicut in titulo de rei
vindicatione. Incerta pars est, si ignoretur quota sit. Ad tandem partem
juris Pontificii de sacris detestandis posset referri initium l. 40. ubi eodem
modo, quo in 39. detestatio definitur, denuntiatio facta cum testatione, id
est, μετὰ
μαρτύρων, absenti scilicet[114].
Anche
se si è rilevato[115]
che questo accostamento, rispetto a quello oggi dominante con l’adrogatio, presenta quantomeno il
carattere della discutibilità, e non, come accade nell’altro caso,
dell’arbitrarietà, esso, dopo aver avuto un certo seguito nella
dottrina meno recente[116],
viene oggi generalmente rifiutato.
I
motivi principali sono da ravvisarsi in una lettura del commento di Cuiacio che
lo orienta verso l’individuazione della sacrorum detestatio come di un atto «mediante il quale il
testatore, dopo aver fatto testamento nei comitia
calata addossava all’erede il peso dei sacra»[117].
La sacrorum detestatio, pertanto,
viene qui presentata come atto distinto e parallelo ad una delle più
antiche forme di testamento, volto a concorrere con essa per completare e
perfezionare il fenomeno successorio nella sua interezza: col testamento si
sarebbe provveduto a trasferire i corpora
hereditaria e, più in generale, quelli che, con terminologia
giuridica moderna, possiamo chiamare i rapporti giuridici trasmissibili facenti
capo al testatore; con la sacrorum
detestatio, invece, si sarebbe provveduto a regolamentare il
«passaggio» dell’onere del culto. Questa lettura, che pone in
correlazione sacrorum detestatio e
testamento ha poi senz’altro tratto argomenti anche dalla radicata,
ancorché a mio avviso inaccettabile[118],
impostazione dottrinale che ha identificato l’antico testamento pubblico
con l’adrogatio, procedendo
conseguentemente ad operare un abusivo collegamento con la sacrorum detestatio[119].
E’
sufficiente rimandare al lungo passo tratto dal de legibus, considerato poc’anzi, per rigettare questa
interpretazione, non fosse altro che per la chiara affermazione ciceroniana in
forza della quale si evince il principio per cui «l’obbligo al
culto era indissolubilmente legato alla successione dei beni, indipendentemente
dal fatto se uno lo avesse imposto o meno all’erede»[120].
Abbiamo anzi considerato il sostanziale sfavore con cui l’Arpinte
guardava all’impegno pontificale volto a ricavare regole per ottenere
l’effetto contrario, e cioè liberare l’eredità
dall’onere dei sacra.
Questi
aspetti non sembrano essere tenuti nella debita considerazione da Cuiacio nel
suo commento: se, infatti, è vero che, mentre attendeva ad esso, egli
doveva almeno conoscere, se non proprio avere sotto gli occhi, il de legibus ciceroniano, unitamente agli
scritti di Gellio e Festo, visti gli espressi e numerosi riferimenti da lui
effettuati per presentare una rassegna della casistica in merito alla
regolamentazione della perpetuità dei sacra, purtuttavia, trovandosi a commentare il titolo de verborum significatione del Digesto,
e avendo ben presente che «multa juris antiqui vestigia sepulta sunt in
hoc titulo», la sua attenzione, più che sul fastidio con cui
Cicerone guardava alla tendenza dei pontefici ad ampliare l’ambito delle
proprie competenze al fine di formulare regole per eliminare l’onere dei sacra, è rivolta a tracciare
percorsi semantici idonei a spiegare il significato di termini antichi e
tecnici. ‘Detestatum’ (e
quindi anche ‘detestatio’)
è uno di questi: risale sicuramente alle XII Tavole visto che si fa
menzione di esso nel frammento contenuto in D. 50.16.238, in cui è
riportato un passo tratto dal sesto libro del commento di Gaio alle XII Tavole.
Conseguentemente Cuiacio, nel commentare i frammenti contenuti in D. 50.16.39.2
(Paul., 53 ad ed.) e in D.
50.16.40.pr. (Ulp. 56 ad ed.), dove
Paolo e Ulpiano riportano l’interpretazione dei segni ‘detestari’ e ‘detestatio’, evidentemente
contenuti nell’editto, effettua un pronto rinvio al frammento gaiano.
La
riferibilità all’alta antichità del materiale contenuto nel
titolo in esame, peraltro, lo porta a sottolineare la compresenza, nei temi in
esso inclusi, di ius civile e ius pontificium[121].
Essa non è guardata con lo stesso fastidio di Cicerone, ma è anzi
presentata come un qualcosa di così normale, che non doveva stupire il
fatto che anche dei giuristi si erano cimentati nella composizione di opere di ius pontificium. Tuttavia, non risulta
opportuna esemplificazione di quest’assunto il riferimento
all’opera de sacris detestandis
del giurista Servio Sulpicio: per quel che possiamo sapere essa, infatti, non
trattava del diritto sacro, ma concerneva la materia testamentaria.
Se
questo dato non sembra riferito con piena consapevolezza nel commento di
Cuiacio, esso appare più evidente da una sia pur superficiale
comparazione con la fonte gelliana:
Servius Sulpicius iureconsultus, vir aetatis suae doctissimus, in
libro de sacris detestandis secundo
qua ratione adductus ‘testamentum’ verbum esse duplex scripserit,
non reperio; nam compositum esse dixit a mentis contestatione. Quid igitur
‘calciamentum, quid ‘paludamentum’, quid
‘pavimentum’, quid ‘vestimentum’, quid alia milia per
huiuscemodi formam producta, etiamne ista omnia composita dicemus? Obrepsisse
autem videtur Servio, vel si quis est, qui id prior dixit falsa quidem, sed non
abhorrens neque inconcinna quasi mentis quaedam in hoc vocabolo significatio,
sicut hercle C. quoque Trebatio eadem concinnitas obrepsit. Nam in libro de religionibus secundo:
‘“sacellum” est’ inquit ‘locus parvus deo
sacratus cum ara’. Deinde addit verba haec: ‘“Sacellum”
ex duobus verbis arbitror compositum “sacri” et
“cellae”, quasi “sacra cella”.’ Hoc
quidem scripsit Trebatius; sed quis ignorat ‘sacellum’ et simplex
verbum esse et non ex ‘sacro’ et ‘cella’ copulatum, sed
ex ‘sacro’ deminutum? [122]
E se
Gellio risulta particolarmente notevole per permettere a Cuiacio, nel parlare
delle «commistioni» tra diritto pontificale e diritto civile, di
ricordare comunque l’opera di Servio Sulpicio Rufo e permettergli,
facendo riferimento anche al de
religionibus di Trebazio, di effettuare digressioni sulla derivazione delle
parole – digressioni che chiaramente non dovevano risultare poi tanto
inopportune commentando il titolo de
verborum significatione –, sarà sempre Gellio a rivelarsi
fondamentale per far procedere Cuiacio, e non solo lui, all’accostamento
tra sacrorum detestatio e testamento.
Il
collegamento con il testamento, dunque, merita forse una maggiore attenzione.
Il dato certo che si ricava dall’informazione gelliana è che sacrorum detestatio e testamentum si compivano calatis comitiis. Peraltro,
l’assemblea in cui si celebrava il testamentum
non coincideva con quella in cui invece si celebrava l’adrogatio[123],
per la semplice considerazione in forza della quale quest’ultima
prevedeva le più volte ricordate rogationes:
in particolare, quella rivolta al popolo necessitava che esso non rimanesse
nello stato disordinato della contio;
il testamentum, invece, avveniva in populi contione. Il fatto, poi, che
nessuna fonte ci informa della necessità, per la sacrorum detestatio, di procedere ad una qualsivoglia forma di suffragium, unitamente
all’osservazione per cui Gellio accosta testamentum e sacrorum
detestatio, mi porta ad ipotizzare che anche quest’ultima poteva
celebrarsi in populi contione, e
quindi nella medesima assemblea in cui si celebrava il testamento.
Tanto il testamento
quanto la sacrorum detestatio,
inoltre, presentano la medesima
caratteristica di compiersi pubblicamente in presenza di testimoni: anche la
comune radice semantica è chiarissima in questo senso, e al medesimo
risultato conduce l’analisi dell’accezione del verbo e del sostantivo
relativi, presenti nella Legge delle XII Tavole, e dei quali, come si è
evidenziato, ancora resta memoria nel Digesto. Ma se il testamento consiste
nella pubblica dichiarazione in presenza di testimoni delle proprie
volontà per il periodo successivo alla propria morte, per formulare
un’ipotesi su cosa sia la sacrorum
detestatio si deve compiere una duplice operazione: da un lato è
necessario rammentare quella serie di significati «negativi»
(«maledizione», «abominazione»,
«esecrazione», «disprezzo»), che si sono ricondotti al
segno ‘detestatio’ sulla
base delle fonti presentate, e, col conforto di quei dati testuali, assumere
come ipotesi di lavoro che la detestatio
consista proprio in una quelle attività negative. Conseguentemente,
così individuato il contenuto di tale attività, si dovrà
procedere alla delimitazione del suo oggetto, indicato dal segno ‘sacrorum’.
Relativamente a quest’ultimo punto, credo sia emerso con
una certa evidenza come l’analisi che generalmente si conduce del segno
‘sacrorum’ porta a
legarlo con i sacri culti familiari, chiaramente distinguendoli, in forza di
quanto evidenziato in precedenza, da quelli pubblici. Si deve rilevare,
inoltre, la tendenza a non approfondire ipotesi che prendessero in
considerazione l’altra serie di significati, anch’essi, come nel
caso del segno ‘detestatio’,
tutti dal contenuto «negativo», riconducibili alla parola ‘sacer’[124],
che, essendo inizialmente termine tecnico del linguaggio religioso[125],
assume poi il significato traslato e generico di «maledetto»,
«esecrato», «empio», «criminale»,
«infame», «sbarrato a piede profano»,
«isolato», «scomunicato come indegno dalla sociale
convivenza»: «Sacer esto è
dunque “sia bandito”, “sia interdetto”»[126].
Eppure l’utilizzo in tal senso del segno ‘sacer’ non è estraneo alla lingua latina: lo si
rinviene, ad esempio, in Plauto[127],
in Orazio[128]
– che richiama la formula decemvirale, in cui pure il segno in questione
era contenuto, e con la quale si sanzionava la malafede del patrono (‘patronus si clienti fraudem fecerit, sacer
esto’[129])
–, in Livio[130],
Virgilio[131],
in Seneca[132],
senza dimenticare poi la sua più antica attestazione epigrafica nei
segni ‘sakros esed’,
vetusta forma della clausola ‘sacer
esto’, presenti sul lapis niger
nel Comizio[133].
Va inoltre segnalato come l’indicazione
dell’ambivalenza del segno ‘sacer’
nella sanzione rappresentata dal ‘sacer
esto’ sia ben presente nelle trattazioni che, anche in tempi recenti,
hanno affrontato il tema[134]:
in letteratura, infatti, non si è mancato di sottolineare questa
interessante ambiguità semantica del segno ‘sacer’ che, anzi, nelle sue formulazioni più antiche,
addirittura riconducibili alle cosiddette leges
regiae[135],
tende spessissimo ad indicare anche persone e cose in senso altamente negativo,
soprattutto in esito alla loro dichiarazione di sacertà[136].
Lo studio delle varie ipotesi ha comportato l’individuazione di alcuni
casi qualificati come colpe inespiabili ed espressamente sanzionati nelle fonti
con la comminazione della sacertà, e di altri solo interpretabili in tal
senso[137].
In particolare, limitatamente al periodo arcaico, si possono ricordare i casi[138]
che prevedevano e punivano la verberatio
parentis[139],
dove il sacer esto è comminato
al puer o alla nurus che avessero fustigato un parens,
comportando la ploratio di costui;
gli atti di abuso della patria potestas (quali
il ripudio ingiustificato della moglie[140],
o la soppressione di infanti minori di tre anni se non storpi o mostruosi[141]),
le offese alla pudicitia[142],
la rimozione dei termini dei campi[143]
(è discusso se possano qualificarsi ipotesi specifiche di questa
previsione la maledizione ‘sakros
esed’ nel cippo del Foro, ossia la maledizione nei confronti di chi
avesse osato violare quel luogo[144],
e la comminazione della sacertà nei confronti di chi avesse osato
rimuovere il corpo dell’uomo colpito e ucciso dal fulmine[145]),
lo spergiuro[146],
e, come si è accennato in precedenza, l’infrazione della fides nel rapporto clientelare. Con
maggiori dubbi[147]
si considera anche l’ipotesi della sepoltura di una donna gravida senza
averne estratto il feto[148].
Sin dalle sue più remote manifestazioni, dunque, la sacratio risulta essere la sanzione
irrogata in capo a colui il quale abbia violato la pax deorum, ossia abbia violato «la situazione di armonia che
deriva dal rispetto dei criteri che garantiscono la conservazione dell’equilibrio
cosmico»[149].
Conseguentemente, soprattutto in epoca arcaica, è sacer colui il quale abbia infranto «basilari regole di
comportamento»[150].
Rimane oggetto di vivace discussione se la sacertà
insorgesse automaticamente in capo all’autore della violazione, o se essa
conseguisse necessariamente all’esito di un’apposita procedura;
inoltre, sempre ricorrendo a terminologia e concetti giuridici moderni, ci si
è interrogati circa la natura di essa, se dichiarativa o addirittura di
accertamento e costitutiva[151]:
ma, a tal proposito, non si può che procedere a formulare congetture,
vista l’alta antichità del tema trattato e l’esiguità
e non esaustività dei dati testuali in nostro possesso. Ciononostante,
la considerazione del periodo (soprattutto di quello predecemvirale) come
proprio di una civiltà che attribuiva un’enorme importanza
all’oralità e alla gestualità rituale[152]
porterebbe a propendere per la necessità, ai fini della produzione di
determinati effetti, di una ritualità precisa, la quale, se non arriva a
richiedere l’organizzazione e la solennità di un processo,
necessita comunque della solenne pronuncia di determinate parole, a cui
ovviamente corrispondono precise conseguenze. A tal proposito, in quanto alla sacertas, si è osservato[153]
che la sua automatica operatività sul piano sacrale non escludeva la
necessità di un’apposita delibera assembleare, costituente il
momento a partire dal quale l’homo
sacer veniva considerato tale da tutta la società[154].
In realtà, nulla esclude che, per determinate ipotesi, più che di
una delibera dell’assemblea del popolo, ci fosse bisogno solo di una
presa d’atto da parte di quest’ultima, la cui funzione, pertanto,
era quella di conferire solennità, assumendo funzione testimoniale, alle
gravi dichiarazioni che innanzi ad essa il civis
avesse compiuto. Forse quest’ultima ipotesi è quella
più verosimile, se solo si rammenta l’osservazione[155]
per cui la serie di casi al verificarsi dei quali era prevista la sacertas per il loro autore è
costituita da un elenco tutt’altro che esaustivo ed omogeneo. Tale
eterogeneità, peraltro, si riflette anche sulle conseguenze per il
colpevole: se, infatti, la morte ne era la principale, tuttavia essa non si
caratterizza per la sua ineluttabilità, apparendo la sacertas «come una sanzione
elastica»[156].
L’istituto
della sacrorum detestatio può
forse leggersi alla luce di quanto si è rilevato sin qui. Si potrebbe,
infatti, escludere il riferimento del segno ‘sacrorum’ ai sacri culti familiari, per effettuarlo, invece,
ai sacri, e cioè agli empi,
agli esecrandi. E l’«esecrazione pubblica degli empi» mi pare
dunque essere l’attività in cui consisteva la sacrorum detestatio.
In
questa maniera si supererebbe l’osservazione di chi[157]
considerando le accezioni negative della sola parola ‘detestatio’, e correlandola ai sacra, ne escludeva la
riferibilità all’istituto in esame, posto che la
«maledizione» o il «disprezzo» dei sacri culti
familiari si sarebbe tradotta in un’inconcepibile ammissione, da parte
dei Romani, di «una sorta di bestemmia contro i loro riti più
preziosi»[158].
In
quanto alla provenienza soggettiva di tale pubblica esecrazione, nel silenzio
delle fonti, le alternative mi sembrerebbero essere due: essa sarebbe provenuta
o dal pontifex che presiedeva il
comizio o dal civis stesso. Nel primo
caso, l’istituto così inteso e ricostruito si caratterizzerebbe
per la sua finalità di pubblica abominazione dell’autore di un
atto lesivo affidata a chi presiedeva il comizio: non abbiamo dati testuali che
in qualche modo fanno riferimento ad un siffatto procedimento verosimilmente
volto a creare una nuova ipotesi, tipica o meno, di sacertà, e pertanto
non siamo in grado di dire se, in epoca arcaica, all’esito di esso ne
sarebbe conseguita l’impossibilità, per colui il quale ne fosse
stato colpito, di partecipare all’assemblea curiata, il che ne avrebbe
comportato l’estromissione dalla comunità stessa, come vorrebbe
l’acuta ricostruzione dell’istituto proposta dal Danz[159].
Per il
caso in cui la pubblica esecrazione fosse effettuata dal civis, invece, si sarebbe realizzata un’ipotesi che
avvalorerebbe di molto la tesi di Zabłocki[160],
il quale interpreta la sacrorum
detestatio come l’archetipo della diseredazione[161].
In questo caso il nostro istituto accederebbe a quelle ipotesi, già
ricordate, di offesa o indebita limitazione della potestas da parte di soggetti ad essa sottoposti, e si
caratterizzerebbe come una «modalità di reazione» concessa
dall’ordinamento arcaico a quel civis
che avesse subìto un affronto ritenuto particolarmente grave da uno
o più soggetti alla sua potestas,
in particolare da quelli appartenenti a quelle categorie che, alla morte di
costui, avrebbero mutato status,
divenendo sui iuris, e sarebbero
state chiamati a succedergli, in forza di quella che sarà poi chiamata
la successione ab intestato: i sui, e più precisamente i figli e
le donne in manu[162].
L’individuazione di questi soggetti col ricorso al plurale (‘sacrorum’) può
verosimilmente interpretarsi come un riferimento alla totalità degli alieni iuris come possibili destinatari
dell’esecrazione stessa. Sul piano patrimoniale, la conseguenza minima
immaginabile nei confronti di costoro sarebbe stata, all’esito della loro
pubblica e solenne esecrazione, l’eliminazione di ogni eventuale
aspettativa successoria.
Questa impostazione contribuirebbe inoltre a dare una lettura
relativamente alla dinamica della successione romana arcaica: essa, in
condizioni per così dire «di normalità», sarebbe
affidata alle regole proprie della successione legittima, salvo che il pater – testatore non modificasse
tale ordine mediante l’esclusione dal consorzio domestico di quei
sottoposti alla sua potestas (e nei
confronti dei quali si sarebbe aperta la successione ereditaria ab intestato nel momento della morte di
lui) che avessero in qualche modo proceduto a turbarla o offenderla,
giustificando e comportando così la pubblica e solenne esecrazione.
Ciò avrebbe necessitato una nuova regolamentazione dell’assetto
successorio e a questo sarebbe (anche)
servito il testamento pubblico che, come si è visto, poteva celebrarsi
nella medesima assemblea della sacrorum
detestatio. L’accostamento di questi due istituti, allora,
sembra giustificarsi così per un motivo funzionale, che
nell’eterogenea mole di informazioni riversata da Cuiacio nel suo
commento pare essersi smarrita, emergendo maggiormente le correlazioni tra
successione testamentaria e problemi di perpetuazione del culto, che abbiamo
visto essere la preoccupazione principale di Cicerone, a cui Cuiacio, come si
è rilevato, deve molto.
L’antico testamento
pubblico, pertanto, può porsi in relazione con la sacrorum detestatio solo
in questo senso di atto conseguente, volto a regolamentare in maniera nuova e diversa
la successione.
Il
fatto che Cicerone non ne faccia cenno può spiegarsi ribadendo
l’osservazione per cui, nei passi presi in esame, la sua preoccupazione
è un’altra: tutti gli sforzi dell’Arpinate, infatti, sono
volti a presentare in maniera non propriamente favorevole la più volte
ricordata tendenza pontificale ad ampliare la propria sfera di competenze per
poter poi elaborare regole che, invece di garantire e sorvegliare la
perpetuità dei sacra, ne
permettevano l’abbandono. Il problema va quindi impostato in altra
maniera, e rapportato con l’epoca arcaica, precedente la legislazione
decemvirale, che vide le celebrazioni, oltre che della sacrorum detestatio, anche delle antiche forme pubbliche di
testamento: tanto dell’una quanto delle altre, lo stesso Cicerone non
poteva che conservarne solo un ricordo. Verosimilmente, infatti, il testamentum calatis comitiis
dev’essere andato scomparendo tra la fine dell’età arcaica e
il primo periodo preclassico, mentre il testamentum
in procinctu in età repubblicana avanzata[163].
La
familiarità che Cicerone dimostra avere col testamento e non con la sacrorum detestatio può allora
spiegarsi nel senso che il primo, ancorché profondamente modificato,
continua a esistere come istituto: lo stesso non può invece dirsi per la
sacrorum detestatio, nel momento in
cui esaurisce il suo ruolo di antecedente funzionale della diseredazione.
[1] F. Savigny,
Üeber die juristische Behandlung der
sacra privata bei den Römern und über einige damit verwandte
Gegenständte, in «ZGR.», II, 1815-1816, 362 ss., 401 ss.,
e la si ritrova in T. Mommsen, Römisches Staatsrecht, III.1,
(1886), rist. Basel, 1952, trad. fr. –
Le droit public romain –, VI.1,
Paris, 1889, 41 s.; G. Wissowa, Religion und Kultur der Römer2,
München, 1912, 401, nt. 8, 512; C.G. Bergman,
Beiträge zum römischen
Adoptionsrecht, Lund-Leipzig, 1912,
137, nt. 1; M. Kaser, Das altrömische ius. Studien zur
Rechtsvorstellung und Rechtsgeschichte der Römer, Göttingen,
1949, 181, nt. 18, 342, nt. 39, 343, nt. 45; G. Humbert, sv. ‘detestatio sacrorum’, in
«Dictionnaire des antiquités graecques et romaines», (dir. C. Daremberg, E. Saglio), II.1, Paris, 1892, 113; J. Paoli, Le testament ‘calatis comitiis’ et l’adrogation
d’Octave in «Studi E. Betti», III, Milano, 1962, 541 s.;
L. Lange, Römische Alterthümer, I, 132 ss.; G. Dumézil, La religion romaine archaïque. Avec un
appendice sur la religion des etrusques2, Paris, 1973, trad. it
– La religione romana arcaica. Miti leggende realtà della vita
religiosa romana con un’appendice sulla religione degli etruschi
– , Milano, 2001, 528: «Il passaggio da una gens all’altra comportava una detestatio sacrorum, una pubblica rinuncia ai sacra, che si compiva nei comitia
calata», Talamanca, op. cit., 126: G. Franciosi, Famiglia e persone in Roma antica. Dall’età arcaica al
Principato3. Torino, 1995, 61: «La procedura dell’adrogatio, che in antico comportava la
presenza dei comitia curiata (calatis comitiis) presieduti dal pontifex maximus, prevedeva la detestatio sacrorum, cioè la
rinuncia ai propri sacra familiaria (e
gentilicia) che si estinguevano a
seguito di un rituale a noi ignoto».
[4] Come
già rilevava Eineccio. Cfr., infatti, J.G. Heineccii, Antiquitatum
romanarum jurisprudentiam illustrantium Syntagma secundum ordinem Institutionum
Justiniani digestum. In quo multa Juris Romani atque Auctorum Veterum loca
explicantur & illustrantur. Tomus primus. Accedit vita Jo. Gottl. Heineccii
a Jo. Chr. Gottl. Heineccio ejus Filio conscripta. Editio caeteris Italicis.
Longe auctior & castigatior. Neapoli, mdcclxiv,
Prostant Venetiis Apud Jo. Baptistam Pasquali. Superiorum Venia, ac
privilegio, 213: «Pontificum vero auctoritate opus videbatur, non ob
jurisjurandi religionem, quo adrogatio ab omni calumnia & fraude pura
praestaretur, (…) sed quia adoptivi, relictis
sacris familiae, in alterius gentis sacra transitabant». Cfr.,
inoltre, M. Kaser, Römisches Privatrecht17, München, 2003, 380,
dove il compimento della detestatio
sacrorum è presentato in termini di necessaria preliminarietà
all’atto successivo (e contestuale) dell’adrogatio: «Dem Beschluss geht ein Akt voran, mit dem sich
der Anzunehmende vor der Versammlung von seinen bisherigen
Hausheiligtümern löst (detestatio
sacrorum)». M. Careddu, La «sacrorum detestatio» nel
diritto romano, in «Studi C. Fadda», I, Napoli, 1906, 393,
riferisce come la communis opinio della
dottrina ai primi del Novecento parli di essa come di una formalità
sacrale complementare all’adrogatio.
Eppure, ancora in tempi recenti, cfr. J. Zabłocki,
Appunti sulla ‘sacrorum detestatio’, in
«BIDR», XCII-XCIII, 1989-1990, 525 il quale esordisce sottolineando
la poca chiarezza caratterizzante l’istituto che M. Talamanca, Istituzioni di diritto romano, Milano, 1990, 126, ritiene essere
«per noi poco più di un nome».
[5] M. Bretone, Storia del diritto romano11, Roma-Bari, 2006, 110, pur
non facendo espresso riferimento alla sacrorum
detestatio, rileva come l’adrogatio,
assieme al testamentum calatis comitiis,
«non erano irrilevanti sul piano religioso, perché determinavano
il destino dei culti familiari». Inoltre
va ricordata l’ipotesi per cui anche la donna sposata (cum manu) doveva celebrare la detestatio sacrorum, uscendo dal proprio
gruppo familiare in occasione del matrimonio: cfr. E. Cuq, Les Institutions
juridiques des Romains, I, Paris, 1891, 217: «La femme qui se mariait
hors de sa gens devait être
détachée du groupe dont elle faisait partie et rattachée
à la gens de son mari. Il
fallait pour cela une sacrorum detestatio,
comme dans l’adrogation. C’est là ce qui explique la
présence du grand pontife, les paroles solennelles que l’on avait
à pronuncer; c’est aussi pour ce motif qu’il était
question de la confarreatio dans le
commentaires des pontifes»; J. Zlinsky,
«Familia pecuniaque», in «Index», XXVI, 1988, 36 ss. Questa
lettura, che ha portato all’accostamento tra sacrorum detestatio e coëmptio
sacrorum interimendorum causa (cfr. in questo senso O. Karlowa, Römische Rechtsgeschichte, II,
Leipzig, 1901, 98) non ricostruisce comunque l’istituto di cui ci stiamo
occupando in maniera diversa da come viene presentato e interpretato dalla
dottrina oggi dominante in rapporto all’adrogatio, così che anche per essa potrà valere la pars destruens riservata in questo
scritto all’interpretazione oggi dominante della sacrorum detestatio.
[6]
Pressoché pacificamente ritenuta anteriore alle XII Tavole: cfr. in
questo senso C. Fayer, La familia romana. Aspetti giuridici ed antiquari, I, Roma, 1994,
293, nt. 11.
[7] Gai., inst. 1.98-107: ‘Adoptio autem duobus modis fit, aut populi
auctoritate, aut imperio magistratus, veluti praetoris.
Populi auctoritate adoptamus eos qui sui
iuris sunt; quae species adoptionis dicitur adrogatio, quia et is qui adoptat
rogatur, id est interrogatur, an velit eum quem adoptaturus sit iustum sibi
filium esse; et is qui adoptatur rogatur, an id fieri patiatur; et populus
rogatur, an id fieri iubeat. Imperio magistratus adoptamus eos qui in protestate
parentum sunt, sive primum gradum liberorum optineat, qualis est filius et
filia, sive inferiorem, qualis est nepos neptis pronepos proneptis.
Et quidem illa adoptio quae per populum
fit, nusquam nisi Romae fit; at haec etiam in provinciis apud praesides earum
fieri solet.
Item per populum feminae non adoptantur,
nam id magis placuit; apud praetorem vero vel in provinciis apud proconsulem
legatumve etiam feminae solent adoptari.
Item impuberem apud populum adoptari
aliquando prohibitum est, aliquando permissum est nunc ex epistula optimi
imperatoris Antonini, quam scripsit pontificibus, si iusta causa adoptionis
esse videbitur, cum quibusdam condicionibus permissum est. Apud praetorem vero
et in provinciis apud proconsulem legatumve cuiuscumque aetatis personas
adoptare possumus.
Illud utriusque adoptionis comune est,
quod et hi qui generare non possunt, quales sunt spadones, adoptare possunt.
Feminae vero nullo modo adoptare possunt,
quia ne quidem naturales liberos in protestate habent.
Item si quis per populum sive apud
praetorem vel apud praesidem provinciae adoptaverit, potest eundem alii in
adoptionem dare.
Sed et
illa quaestio, an minor natu maiorem natu adoptare possit, utriusque adoptionis
communis est.
Illud
proprium est eius adoptionis quae per populum fit, quod is qui liberos in
protestate habet, si se adrogandum dederit, non solum ipse potestati
adrogatoris subicitur, sed etiam liberi eius in eiusdem fiunt potestate tamquam
nepotes’
[8] Gell., Noct. Att., 5.19.1-13: ‘Cum
in alienam familiam inque liberorum locum extranei sumuntur, aut per praetorem
fit aut per populum. Quod per praetorem fit, ‘adoptatio’ dicitur,
quod per populum, ‘arrogatio’. Adoptantur autem, cum a parente, in
cuius protestate sunt, tertia mancipatione in iure ceduntur atque ab eo, qui
adoptat, apud eum, apud quem legis actio est, vindicantur; adrogantur hi, qui,
cum sui iuris sunt, in alienam sese potestate tradunt eiusque rei ipsi auctores
fiunt. Sed adrogationes non temere nec inexplorate committuntur; nam comitia
arbitris pontificibus praebentur, quae ‘curiata’ appellantur,
aetasque eius, qui adrogare vult, an liberis potius gignundis idonea sit,
bonaque eius, qui adrogatur, ne insidiose adpetita sint, consideratur, iusque
iurandum a Q. Mucio pontifice maximo conceptum dicitur, quod in adrogando
iuraretur. Sed adrogari non potest, nisi iam vesticeps. ‘Adrogatio’
autem dicta, quia genus hoc in alienam familiam transitus per populi rogationem
fit.
Eius
rogationis verba haec sunt: ‘Velitis, iubeatis, uti L. Valerius L. Titio
tam iure legeque filius siet, quam si ex eo patre matreque familias eius natus
esset, utique ei vitae necisque in eum potestas siet, uti patri endo filio est.
Haec ita, uti dixi, ita vos, Quirites, rogo’.
Neque
pupillus autem neque mulier, quae in parentis protestate non est, adrogari
possunt: quondam et cum feminis nulla comitiorum communio est et tutoribus in
pupillos tantam esse auctoritatem potestatemque fas non est, ut caput liberum
fidei suae commissum alienae dictioni subiciant. Libertinos vero ab ingenuis adoptari
quidam iure posse Masurius Sabinus scripsit. Sed id neque permitti dicit neque
permittendum esse umquam putat, ut homines libertini ordinis per adoptiones in
iura ingenuorum invadant’.
[9] Le
donne non possono adrogare sia perché, come dice Gaio nel testo appena
presentato, non hanno in potestà nemmeno i propri figli naturali, sia
perché, come ci ricorda Gellio, nel testo di cui alla nota precedente,
esse non sono ammesse a partecipare a quei comizi al cospetto dei quali si
compiva l’adrogatio stessa:
probabilmente, per questo motivo, si preferì anche evitare che le donne
potessero essere adrogate per mezzo dell’adoptio populi auctoritate. Ma in età classica, e
sicuramente con Diocleziano, essendosi diffusa la meno complessa forma
dell’adrogatio per rescriptum
principis, anche una donna potrà adrogare o essere adrogata: cfr.
CI. 8.47.6 del 293, oltre che l’espressa affermazione in tal senso
contenuta nel passo riportato in Iust. Inst. 1.11.1.
[10] Molto
probabilmente all’uopo appositamente convocati, stando a quanto
può desumersi dal riportato passo di Gellio, quando si sottolinea che le
adrogationes ‘non temere nec inexplorate committuntur’.
[12] Popolo
che in questo caso, volendo utilizzare un’espressione mutuata dalla
terminologia giuridica moderna, era presente in funzione deliberante.
[13] Ancora
una volta è il passo di Gellio già preso in considerazione che ci
permette di formulare questa congettura. Cfr., inoltre, M. D’Orta, Saggio sulla ‘heredis institutio’. Problemi di origine,
Torino, 1996, 125, dove si indica il giuramento dell’arrogante come
«prova della sua lealtà», e ciò per frenare
quell’involuzione dell’istituto per cui «si sceglieva di
arrogare per procurarsi un filius; ma
anche, sovente, per impossessarsi del suo patrimonio».
[14] Cfr. Fayer, op. cit., 298 s., G. Donatuti,
Contributi alla studio
dell’adrogatio impuberis, in «BIDR.»,
LXIV, 1961, 129 ss., dove si
sottolinea come il principio per cui l’adrogante dovesse essere
più anziano dell’adrogando era, ancora al tempo di Gaio, e
nonostante l’affermazione di Gellio, oggetto di discussione, 139 ss.; Franciosi, op. cit., 60 e nt. 38.
[16] Ma, al
fine di evitare facili collusioni, vi furono interventi pretori sin dal I sec.
a.C.; cfr. A. Guarino, Diritto privato romano12, Napoli, 2001, 548, Talamanca, op. cit., 126 s.
[17] Cfr.
M.Marrone, Istituzioni di Diritto Romano2, Palermo, 1994, 243 s.; Talamanca, op. cit., 126 s.
[19] E che
avrebbe dovuto, stando al testo preso in considerazione, comporsi di almeno due
libri: Cfr. Schultz, op. cit., 363 ; A. Schiavone, Ius. L’invenzione del diritto in
Occidente, Torino, 2005, 160 e nt. 22.
[20] E cioè
del sacerdote – un patrizio nato da nozze confarreate – che
soprintendeva ai sacrifici prima spettanti al re; era subordinato al pontefice
massimo, ma superiore a tutti i flamini: cfr. H. J. Rose, sv. ‘Flamini’
in Dizionario, cit., col. 968.
[21] E
cioè dei quindici sacerdoti facenti parte del collegium pontificum, ciascuno dei quali era addetto ad una
divinità. Probabilmente il più importante di essi era il Flamen Dialis, addetto al culto di
Giove: cfr. H. J. Rose, op. et loc. cit. Cfr. inoltre Fest., verb. sign., sv. ‘Ordo sacerdotum’, p.
[22] Fatta
approvare nel 287 o
[25] F. Schulz, Prinzipien des römischen Rechts, München, 1934, trad. it – I principii del diritto romano –, Firenze, 1946, rist. 2005,
363. E. Stolfi, Studi sui «Libri
ad edictum» di Pomponio, II, Contesti
e pensiero, Milano, 2001, 16, nt. 33, dubita che l’opera di Lelio
Felice costituisca un precedente rispetto all’ad Quintum Mucium di Pomponio.
[29] G. Scherillo,
Adnotationes gaiane. 3. Il
nome di Gaio, in «Antologia giuridica romanistica e antiquaria»,
I, 1968, 84 ss. Questa interpretazione veniva già accennata
dall’Autore in Id., Appunti sul testamento in procinctu nel
diritto romano, in «Scritti A. Giuffrè», I, Milano,
1967, ora in Id., Scritti giuridici, II.1, Studi di diritto romano, Milano, 1995,
234 e nt. 7
[30] Cfr. W. Kunkel, Die Römische Juristen. Herkunft und
soziale Stellung, (1967), Köln - Weimar - Wien, rist. 2001,
186 ss.; non si può inoltre dimenticare la «ricostruzione
radicale» proposta da D. Pugsley,
Gaius or Sextus Pomponius, in
«RIDA.», XLI, 1994, 539 s., ora in Justinian’s Digest and the Compilers, Exter, 1995, 89 s., in
forza della quale Gaio e Pomponio sarebbero la stessa persona: ipotesi
giudicata «praticamente inservibile» da E. Stolfi, Studi, cit.,
30, nt. 39.
[31] A tal
proposito si è infatti affermata, da M. L. Astarita, La cultura
nelle «Noctes Atticae», Catania, 1993, 131, la
«coincidenza fra un brano di Lelio Felice in G. (Scilicet: Gellio) e uno tratto dalle Institutiones gaiane», accostando, proprio per evidenziare
visivamente tale ipotizzata coincidenza, il passo contenuto in Gell., Noct. Att. 15.27.4 e quello delle
istituzioni gaiane (inst. 1.3)
ritenuto coincidente. Giova riproporre entrambi i passi presi in
considerazione, ma per sottolineare come non vi sia affatto coincidenza tra di
essi:
(…) ita ne ‘leges’
quidem proprie, sed ‘plebisscita’ appellantur quae tribunis plebis
ferentibus accepta sunt, quibus rogationibus ante patricii non tenebantur,
donec Q. Hortensius dictator legem tulit, ut eo iure, quod plebs statuisset,
omnes Quirites tenetur.
Plebiscitum est, quod plebs iubet atque
constituit (…) unde olim patricii dicebant plebiscitis se non teneri quia
sine auctoritate eorum facta essent; sed postea lex Hortensia lata est, qua
cautum est, ut plebiscita universum populum tenerent.
Ora,
appare evidentissimo che non è accettabile anche solo sospettare l’eventuale
comune paternità di tali passi, come pure si tende a fare l’Astarita, op. et loc. cit., scrivendo che «hanno in comune la notizia
sulla lex Hortensia. Il fatto che
essa non è espressa con le stesse parole non inficia l’ipotesi
dell’identificazione, poiché ovviamente le due citazioni sono
tratte da due opere diverse»: in forza di analogo ragionamento si
potrebbe, ad esempio, affermare che Mario Rossi e Giulio Bianchi sono la stessa
persona, perché dell’uno si conserva uno scritto che dice:
«Roma è in Italia», mentre dell’altro si conserva un
altro scritto che dice: «Roma è la capitale d’Italia».
Non v’è chi non veda l’incongruità di un ragionamento
che identifica due soggetti solo perché hanno affrontato il medesimo
argomento, peraltro con parole diverse, e, come emergerà in prosieguo di
testo, sicuramente attingendo a fonti diverse. Il testo della Astarita,
peraltro, prosegue modulando in tono lievemente dubitativo la
perentorietà delle sue precedenti affermazioni: «Se poi queste due
opere risalgano allo stesso autore (Lelio Felice – Gaio?) resta comunque
un problema aperto».
Peraltro va sottolineata
la diversa definizione che Gellio, riportando Lelio Felice, dà di
«plebiscito» rispetto a Gaio: se per quest’ultimo, infatti,
il plebiscito è ‘quod plebs
iubet atque consituit’, per Lelio Felice invece, sono plebisciti
‘quae tribunis plebis ferentibus
accepta sunt’ . La differenza non è da poco. Nel caso di Lelio
Felice, infatti, emerge l’idea che autori dei plebisciti siano, di volta
in volta, i magistrati (e cioè i tribuni), i quali ne «portavano a
conoscenza» della plebe il testo, che da questa veniva poi approvato nel concilium. L’efficacia vincolante
(prima nei confronti della sola plebe, e poi, dopo la lex Hortensia, nei confronti sia dei patrizi che dei plebei) del
plebiscito, analogamente a quella della lex,
era conseguentemente frutto della collaborazione del magistrato rogante e
dell’assemblea deliberante. A questa stessa dinamica fa riferimento
Capitone, stando all’informazione che, ancora una volta, ci fornisce
Gellio (Noct. Att. 10.20.2):
Ateius Capito, publici privatique iuris
peritissimus, quid ‘lex’ esset, hisce verbis definivit:
‘Lex’ inquit ‘est generale iussum populi aut plebis rogante
magistratu’.
Anche in questo caso si
rende conto della «collaborazione» tra il legis lator, e cioè il magistrato rogante, il quale
«portava la legge» a conoscenza dell’assemblea popolare, e
l’assemblea stessa che, approvandola, la forniva appunto di
quell’efficacia vincolante che in precedenza non aveva. Per Gaio, invece,
il plebiscito è «ciò che la plebe prescrive e
stabilisce»: in piena rispondenza alla realtà costituzionale della
sua epoca, il giurista antoniniano omette del tutto di rendere conto della
dinamica «collaborativa» tra magistrato e assemblea, e individua
nel solo iussum assembleare il momento genetico rilevante del
plebiscito: in questo senso, cfr. M. Fiorentini,
Ricerche sui culti gentilizi,
Roma, 1988, 330 e nt. 65; G. Valditara, Gai. 3,218 – I. 4.3.15 e l’evoluzione del concetto di legislator,
in «Studi di diritto pubblico romano», Torino, 1999, 104 s.
Considerazioni interessanti emergono anche dall’analisi del rapporto tra lex e consuetudo, e dell’equiparazione della forza della seconda
alla prima, in quanto entrambe accomunate dalla receptio popolare: in questo senso, risulta fondamentale, sia per
la sua dottrina che per un esaustivo quadro delle contrastanti opinioni in
merito, F. Gallo, Produzione del diritto
e sovranità popolare nel pensiero di Giuliano (a proposito di D.
1,3,3,2), in «Iura», XXXVI, 1985 (1988), 71 ss; Id., La sovranità popolare quale fondamento della produzione del
diritto in D. 1, 3, 32: teoria giulianea o manipolazione postclassica?, in
«BIDR.», XCIV-XCV, 1991-1992, 14 s., 35; Id., Interpretazione e
formazione consuetudinaria del diritto. Lezioni di diritto romano. Edizione
completata con la parte relativa alla fase della codificazione, Torino,
1993, 55 ss.
Pur
senza approfondire le complesse tematiche che emergono dal confronto di tali
testi, e limitatamente al problema di cui si occupa questa nota, basti qui
rilevare un dato fondamentale: l’impostazione seguita da Lelio Felice
attinge da una fonte che, rendendo conto di quella «dinamica» di
cui resta traccia in Capitone ma non più in Gaio, è sicuramente
più antica di quella gaiana. Inoltre, vanno ricordate le considerazioni
di D’Orta, op. cit., 158 ss., per cui proprio
l’eclettismo e l’interesse storico e antiquario di Lelio Felice
abbiano giocato a sfavore dell’inclusione del suo commento a Quinto Mucio
nella compilazione giustinianea, in cui si sarebbe invece ampiamente prediletto
(p. 162) la «prospettiva analitica pomponiana, palesemente
‘tecnicista’», (cfr., inoltre, Schiavone, op. cit.,
171 ss.). Tutte queste argomentazioni dovrebbero portare ad escludere
un’identificazione tra Lelio Felice e Gaio.
[33] In
questo senso, il Daverio, op. cit., 530, chiedendosi quanto di
labeoniano vi sia nel passo delle Notti
Attiche che stiamo considerando, sospetta che la parte del testo di Gellio
in cui si riporta quella che ho indicato come una digressione sui diversi tipi
di testamento più che riferibile a Labeone «sembrerebbe una nota
aggiunta: se non da Gellio stesso, da Lelio Felice».
[35] M. Lauria, Ius. Visioni romane e moderne3,
Napoli, 1967, 203, Id., Ius romanum, I.1, Napoli, 1963, 9 ss.,
55 ss.; Scherillo, adnotationes,
cit., 68 ss. dedica la sua attenzione alla possibile influenza esercitata dal
«sistema civilistico» sulle Institutiones
gaiane.
[36]
Tuttavia, a dispetto di questo disordine, che caratterizzerebbe l’opera
nel suo insieme e parrebbe essere ammessa dall’erudito stesso quando
parla dell’abitudine di annotare alla rinfusa tutto ciò che avesse
colpito la sua attenzione (Cfr. Gell. Noct.
Att. Praef.2: ‘Usi autem sumus ordine rerum fortuito, quem
antea in excerpendo feceramus’), si deve notare come Gellio manifesti
comunque attenzione per il dato filologico, laddove lascia intendere
l’autenticità del manoscritto che lui o il suo interlocutore ha la
ventura di visionare: cfr. Gell. Noct.
Att. 2.3.5-6: ‘Sed quoniam
‘aheni’ quoque exemplo usi sumus, venit nobis in memoriam Fidum
Optatum, multi nominis Romae grammaticum, ostendisse mihi librum Aeneidos secundum mirandae
vetustatis emptum in sigillariis viginti aureis, quem ipsius Vergilii
fuisse credebatur. In quo duo isti versus cum ita scripti forent:
vestibulum
ante ipsum primoque in limine Pyrrus
exultat telis et luce coruscus aena,
addita
supra vidimus ‘h’ litteram et ‘haena’ factum. Sic in
illo quoque Vergilii versu in optimis libris
scriptum invenumus:
aut foliis undam trepidi despumat aheni’.
Cfr. inoltre Gell. Noct. Att. 5.4.1, dove, in riferimento agli Annales di Fabio, si parla di ‘bonae
atque sincerae vetustatis libri, quos venditor sine mendis esse
contendebat’; Gell. Noct. Att.
9.14.1, dove allude all’autorevolezza delle antiche opere consultate:
‘veteribus libris inspectis
exploravimus’, e all’antichità e attendibilità di
un manoscritto del Giugurta di
Sallustio (9.14.26): ‘summae fidei
et reverendae vetustatis libro’, o di un esemplare degli Annales di Ennio (18.5.11): ‘librum summae atque reverendae vetustatis’.
Non manca, inoltre, la cura per la
ricerca di lezioni attendibili (cfr. in questo senso cfr. Gell. Noct. Att. 1.7.1-3; 13.21.16-17), oltre
al rammarico, non avendo una copia del libro, di non essere in grado di
riportare le precise parole di Catone (Gell. Noct. Att. 1.23.2: ‘Ea
Catonis verba huic prorsus commentario indidissem, si libri copia fuisset id
temporis, cui haec dictavi’), e, più in generale,
l’attenzione con cui attende alla lettura di Capitone o Varrone: cfr.
Gell. Noct. Att. 2.24.3; 2.25.5;
3.18.5; 14.7.
[37] Cfr.
anche F. Calonghi, Dizionario della
lingua latina 3, I,
Torino, 1965, sv. ‘detestatio’, c. 826 dove
espressamente si fa riferimento al nostro istituto indicandolo, coerentemente a
quanto esposto nel testo, come l’«atto solenne del figlio al
momento della sua arrogazione, cioè della sua adozione in un’altra
famiglia, Gell. 15, 27, 3».
[38] In quella
parte del testo (Noct. Att. 15.27.4),
che ho già indicato apparirmi come una sorta di digressione, infatti,
Gellio sottolinea come il testamentum
calatis comitiis avvenisse in populi
contione, mentre quello in procinctu era
destinato agli uomini chiamati alle armi per combattere, e quello per aes et libram avveniva ‘per familiae emancipationem’.
[39] Cfr.
C. Castello, Il problema evolutivo della «adrogatio», (1967), in
«Scritti scelti di diritto romano. Servi filii nuptiae», Genova,
2002, 322; Daverio, op. cit., 534,
rileva espressamente che «nessuna fonte, infatti, collega adrogatio a sacrorum detestatio: al contrario, molti indizi inducono a ritenere
che i due istituti hanno poco in comune», non fosse altro che per le
differenti tecniche secondo le quali essi si sviluppano.
[40] Fayer, La familia, cit., 295, nt. 16 ricorda come la ricostruzione
presentata nel testo è quella reperibile nella generalità dei
manuali di diritto romano.
[41] Cuq, op.
cit., 236. La necessità di questa dinamica viene anche presentata,
sia pur con tutti i dubbi che ne muovono l’indagine, dal Careddu, op. cit., 393,
[42] Di
tale accordo della dottrina pur nel silenzio delle fonti, e di questa
interpretazione dell’istituto della detestatio
sacrorum parla già Cuq, op. cit., 236: «Aucun texte ne
rattache explicitement la detestatio
sacrorum à l’adrogation; cependant on est d’accord
aujourd’hui pour admettre qu’elle trouvait ici son application
principale».
[43] Cfr.
H. J. Rose, sv. ‘Detestatio sacrorum’, in
«Oxford Classical Dictionary»2, Oxford, 1970, trad. it.
– Dizionario di antichità
classiche di Oxford –, Roma, 1981, col. 644 s. Precedentemente si era
espresso in questo senso anche M. Lemosse,
L’adoption d’Octave et
ses rapports avec les règles traditionnelles du droit civil, in
«Studi E. Albertario», I, Milano, 1953, 387 ss., 487 ss. Cfr.
inoltre Lange, Römische, cit., 133 s.
[44] Op.
cit., 42,
nt. 1: «J’ai précédemment, en restreignant à
tort la sphere des comitia calata aux
comices d’ordre testimonial, limité la detestatio sacrorum à la transitio
ad plebem, pour la quelle nous la retrouverons assurément; mais le
cas principal est celui de l’adrogation».
[53] C. Nicolet,
Le métier de citoyen dans
[58] Zabłocki, op. cit., 528, nt. 9, dove si rileva come in seguito si legga
‘quod hic ostendit; dicit enim
Sinon, iure iam se Troianorum civem esse, quia apud Graecos ostia fuerit, adeo
nec pro nomine, nec pro cive habitus sit’.
[60] In
questo senso, cfr. sempre Daverio,
op. cit., 536 che giunge a
qualificare «abusiva» la «irriflessa e tralaticia citazione
di questo passo».
[61] Cfr.
infatti la parte finale del passo contenuto in Cic., de leg. 2.19.47, che si conclude rimarcando il principio ‘perpetua sint sacra’.
[62] Cic., de leg. 2.9.23: ‘Conclusa quidem est a te, frater, magna lex
sane quam brevi; sed, ut mihi quidem videtur, non
multum discrepat ista constitutio religionum a legibus Numae nostrisque moribus’.
[64] In
dottrina si sono peraltro addotti ulteriori argomenti: cfr. ad esempio Daverio, op. cit., 543, dove si rammenta come il principio
dell’adozione implicava che la successione universale inter vivos dall’adrogato
all’adrogante avveniva tacito iure,
con la conseguenza che i pontefici, per evitare la possibilità che i sacra dell’arrogato si
estinguessero, li avrebbero fatti passare all’arrogante,
«dacché non si dava acquisto di universalità senza i
relativi obblighi». Inoltre si ribadisce l’importanza della
presenza del popolo riunito in pubblica assemblea, alla quale si attribuisce,
oltre che una funzione testimoniale, anche una di controllo in ossequio al
principio per cui, nell’interesse della civitas, il popolo è responsabile di fronte alle
divinità della condotta dei singoli. Conseguentemente, sarebbe stato ben
difficile ipotizzare l’assemblea del popolo, riunita per esercitare anche
le funzioni da ultimo menzionate, pronta ad approvre una pubblica abiura dei
propri culti da parte di un civis,
ancorché adrogando, in tal modo correndo «il pericolo di
compromettere, con l’inosservanza religiosa dei sacra così abiurati, la salute della comunità».
[65] Che si
deve a H.A.A. Danz, Der sacrale Schutz in römischen
Rechtsverkehr, Jena, 1857, 90 ss., le cui posizioni verranno meglio
specificate in un lavoro successivo: cfr., infatti, Id., Das sacramentum
und die lex Papiria, in «ZRG.», VI, 1867, 351 s.
[70] A. Calore,
“Per Iovem
lapidem”. Alle origini del giuramento. Sulla presenza del
‘sacro’ nell’esperienza giuridica romana, Milano, 2000,
65, nt. 45.
[71] F. Klingmüller,
sv. ‘sacramentum’, in
«PWRE.» I, A-2, 1920,
col.1673 s.; E. Westermark, The Origin and development of Moral Ideas,
II,
[72]
Propendendo per quest’ultima ipotesi, e ricostruendo il giuramento come
un atto complesso, Calore, op. cit., 49, nt. 45 rileva come
«La exsecratio, pertanto,
costituisce una parte molto importante ma pur sempre una parte di un tutto,
articolato in più elementi, a volte esplicitati altre volte sottintesi:
la chiamata a testimone della divinità (audire + l’essere divino; obtestor
deum; testor deos; esto testis; testem facio; ecc.); l’affermazione o la promessa giurata; la
richiesta al dio di aiuto e prosperità (…) e, poi,
l’invocazione dell’automaledizione». Va però
sottolineata l’osservazione di R. Fiori,
Homo sacer. Dinamica
politico-costituzionale di una sanzione giuridico-religiosa, Napoli, 1996,
211, n. 147, per cui «In talune fonti il termine exsecratio è utilizzato senz’altro per indicare il
«giuramento»: cfr. Sall. Cat.
22.2; Cic. Sest. 15; Serv.
in Verg. Aen. 2.154 ».
[76] Contributi, cit., 243, nt. 119, il quale
ribadisce come permanga «comunque grande incertezza sul significato di
questo atto».
[82] Careddu, op. cit., 398; in quest’ordine di idee Daverio, op. cit., 544, intende la detestatio come «la dichiarazione recettizia fatta innanzi a
testimoni».
[84] Il
segno ‘detestatio’, nel
senso precisato nel testo di «rinunzia» o «abiura»,
è utilizzato così dagli scrittori cristiani: cfr. Tert. test. anim. 3: ‘Satanan denique in omni et aspernatione et
detestatione pronuntias’; Cypr. epist.
30.8: ‘acta poenitentia et professa
suorum detestatione peccatorum’.
[93] Sen. de tranq. an.
8.8. In questo stesso senso possono intendersi i passi riportati in
Sen. de ben. 1.9.2; 2.14.1; 4.16.2;
7.20.4. Cfr. inoltre, conformi, Æ. Forcellini,
Totius latinitatis lexicon, II,
Patavii, mdcccxxxi, sv. ‘detestatio’;
A. Ernout, A. Meillet, Dictionnaire étymologique de la langue latine. Historie des mots,
Paris, 1959, sv. ‘detestatio’;
Calonghi, op. cit., sv. ‘detestatio (detestor)’, col. 826.
[97] Cfr. Fiorentini, Ricerche, cit., 106 ss., 250 ss., 255 ss., 284 s., 288 ss.; G. Franciosi, Clan gentilizio e strutture monogamiche, Napoli, I, 1975, 47 e nt.
42.
[99] Cfr.
per tutti Careddu, op. cit., 404 che rileva testualmente
come il nostro istituto «si riferiva agli atti di culto privato
familiare», che poco prima vengono esemplificativamente indicati nelle
cerimonie, nelle feste e nei sacrifici.
[104]R. von Jhering,
Geist des romischen Rechts auf den verschiedenen
Stufen seiner Entwicklung, Leipzig, 1878, trad. fr. – L’esprit du droit romain dans les
diverses phases de son développement2 –, Paris,
1880, 291 ss.
[107] Cfr. L. Schmitz, sv. ‘Gens’ in «A Dictionary in
Greek and Roman Antiquities»,
[110] Cic., de leg. 2.19.47 – 2.21.53: a
questo punto inizia una lacuna che Turnebo propone di colmare con ‘legata’ ovvero ‘sacris non astricta’: cfr.
Cicero, De legibus,
Cambridge, Massachusetts – London, 1928, rist. 2000, 436, nt. 2.
[111] Cic., pro Mur. 12.27: ‘Sacra interire illi noluerunt. Horum
ingenio, senes ad coëmptiones faciendas interimendorum sacrorum causa reperti
sunt’. Sull’attenzione di
Cicerone nei confronti di libri e commentarii sacerdotali, e sulla sua
competenza nell’accedere ad essi e nel consultarli cfr. F. sini, Documenti sacerdotali di Roma antica, I, Libri e commentarii, Sassari, 1983, 91 ss.
[113] Cfr.
Cic. de dom. 32-38. Cfr. le
osservazioni di F. Sini, Sua cuique civitati religio. Religione e
diritto pubblico in Roma antica, Torino, 2001, 111 ss.; cfr. inoltre Daverio, op. cit., 547, il quale, facendo riferimento all’«ampia
irruenza» che caratterizza il de
domo ciceroniano, rileva proprio come neanche in questo luogo «si fa
il minimo cenno ad alcuna sacrorum
detestatio. Quand’anche fosse ormai in disuso, non v’ha dubbio
che Cicerone avrebbe sfruttato un’allusione ad essa; e se fosse stata
compiuta, ci sarebbe stato riferito da Cicerone o da altri».
[114] Ho
avuto modo di consultare la seguente edizione: J. Cujacii ic. tolosatis, Opera
ad Parisiensem Fabrotianam editionem diligentissime exacta in tomos XIII.
distributa auctiora atque emendatiora, VI, Prati, mdcccxxxviii. In
particolare si tratta del commento ai frammenti contenuti in D.50.16.39-40,
alle col. 1657 ss.
[117] Zabłocki, Appunti, cit., 527. Questa posizione riflette quella già
espressa dal Careddu, op. cit., 403, che non condivide la
più antica opinione «di coloro che ritennero essere la detestatio sacrorum un modo solenne di
disporre intorno alla trasmissione dei sacra
agli eredi, cioè una specie di testamento religioso»: e questa
interpretazione è espressamente ricondotta dal Careddu al Commento di
Cuiacio.
[118] Cfr.
P. Arces, Riflessioni sulla norma «uti legassit» (Tab. V.3),
estratto da «RDR.», IV, 2004, 24, nt. 175, ove peraltro, nel
sostenere incidentalmente la non coincidenza tra adrogatio e testamentum
calatis comitiis, facevo cenno alla detestatio
sacrorum, presentandola, conformemente all’impostazione dominante,
come presupposto necessario dell’adrogatio.
La rivista è anche online, e l’articolo può essere
consultato al seguente link: http://www.ledonline.it/rivistadirittoromano/allegati/dirittoromano04arces.pdf
[121]
E’ appena il caso di ricordare quello che egli scrive: « Solebant
enim antiqui JC. juris civilis cognitionem conjungere cum jure Pontificio. Idem Pontifices factitabant, nec erat Jurisconsultus qui
Jus Pontificium ignorasset, nec Pontifex, qui jus civile».
[122] Gell.,
Noct. Att. 7.12. Cuiacio scrive nel
suo commento che si tratta del dodicesimo capitolo del sesto libro delle Notti Attiche. In realtà il libro
è il settimo: egli doveva avere a disposizione uno di quei manoscritti
in cui tale libro è anteposto al sesto: cfr.
[123] Anche
per questo motivo ho sostenuto in passato l’impossibilità di
identificare adrogatio e testamentum calatis comitiis: cfr. Arces, op. et loc. cit.
[124] Cfr.,
nel senso che verrà precisato nel testo, Forcellini, op. cit.,
IV, sv. ‘sacer’;
Ernout, Meillet, Dictionnaire
étymologique cit., sv. ‘sacer’,
585 s., dove si rileva (in part. 586) la particolare ambiguità del
termine: «La notion de sacer ne
coïncide ps avec celle de «bon» ou de «mauvais»;
c’est une notion à part. Sacer
désigne celui ou ce qui ne peut être touché sans
être souillé, ou sans souiller; de là le double sens de
«sacré» ou «maudit» (à peu près).
Un coupable que l’on consacre aux dieux infernaux est sacer (…), d’où le
sens de «criminel» (auri
sacra fames)» ; Calonghi,
op. cit., sv. ‘sacer’, col 2433. Non si
sottolinea il valore dell’ambivalenza evidenziata nel testo in A. Walde, J.B. Hofmann, Lateinisches
etymologisches Wörterbuch, Heidelberg, 1972, sv. ‘sacer’,
459 s.
[125] Macr., Sat. 3.7.3:
‘Quicquid destinatum est dis,
sacrum vocatur’. Cfr. E. Cantarella,
I supplizi capitali. Origine e funzioni
delle pene di morte in Grecia e a Roma, Milano, 2005, 242; M. Morani, Lat. «sacer» e il rapporto uomo-dio nel lessico religioso
latino, in «Aevum», LV, 1981, 30 ss.
[126] G. Semerano, L’infinito: un equivoco millenario. Le antiche civiltà del
Vicino Oriente e le origini del pensiero greco, Milano, 2004, 253.
[127] Plaut., Bacch. 4.6.14: ‘ego sum
malus, Ego sum sacer, scelestus’; in Plaut., Poen., prol. 90 si
usa anche il superlativo: ‘homo
sacerrimus’.
[129] Tab.
8.21; Serv. in Verg. Aen. 6.609, ma
cfr. anche Dion. Hal. 2.10.3. E’ discusso se la norma sia riconducibile
all’età decemvirale o addirittura all’epoca regia: cfr., in
questo senso, B. Albanese, ‘Sacer esto’, in «BIDR.», xci, 1988, 149; Fiori,
op. cit., 226.
[130] Liv.
3.55.8: ‘Hac lege iuris interpretes
negant quemquam sacrosantum esse, sed eum qui eorum cuiquam nocuerit sacrum
sanciri’.
[133] Cfr. Fugier, op. cit., 109; Bretone, Storia, cit., 87; L. Garofalo, Sulla condizione di ‘homo sacer’ in età arcaica,
(1990), in «Studi sulla sacertà», Padova, 2005, 21; Fiori, op. cit., 208 s.
[134] Cfr.
P. De Francisci, Primordia civitatis, Roma, 1959, 313 ss;
B. Santalucia, Diritto e processo
penale nell’antica Roma2, Milano, 1998. 8 e nt. 13 (ove ulteriore letteratura), 11; G. Crifò, Exilica causa, quae adversus exulem agitur, in «Du
châtiment dans la cité. Supplices corporels et peine de mort dans
le monde antique. Table rotonde organisée par l’École
française de Rome avec le concours du Centre national de la recherche
scientifique. Rome 9-11 novembre 1982», Roma, 1984, 459 ss, 464; Fiori, op. cit., 36 ss, 179 ss.; Albanese,
op.cit., 145 ss.; H. Fugier, Recherches sur l’expression du sacré dans la langue latine,
Paris, 1963, 224 ss., 236 ss.; Garofalo,
op. cit., 13 ss. Interessantissimo
per gli spunti interdisciplinari risulta G. Agamben,
Homo sacer. Il potere sovrano e la
nuda vita, Torino, 2005.
[136]
Pensando all’homo sacer nella
sua particolarissima condizione, Agamben,
op. cit., 88, ne ha parlato come di
«Una figura enigmatica del diritto romano arcaico, che sembra riunire in
sé tratti contraddittori»: a tal proposito, relativamente alla
nota definizione di Festo, secondo cui sarebbe homo sacer ‘is
(…) quem populus iudicavit ob
maleficium’ (Fest., sv. ‘sacer
mons’, p. 423 L.) è stato ricordato da Garofalo, op. cit.,
41, quanto osservato da G. MacCormack, ‘Terminus motus’, in «RIDA.», XXVI, 1979, 249, e
cioè che si tratta del riferimento al caso specifico di colui il quale
abbia violato la sacrosantitas dei tribuni.
[137] Cfr. Crifò, op. cit., 460; Fiorentini, Ricerche, cit., 285 s.; Santalucia, op. cit., 9 s.; Fiori, op. cit., 187 ss.
[138] Cfr.
L’elencazione effettuata da Crifò,
op. et loc. cit., comprendente
l’ipotesi della verberatio parentis,
della violazione del termine, del furto di fruges
aratro quaesitae, gli eccessi nell’esercizio della potestà
maritale le colpe della donna maritata o nubile, la fraus del patrono verso
il cliente, il sacrilegio, la colpa della vestale, lo spergiuro, le ipotesi
previste da varie leges sacratae, perduellio e parricidium, e, infine ipotesi ricostruibili solo dalla sanzione
della sacertas, come
nell’ipotesi che si riscontra in (Paul.)-Fest., verb. sign., sv. ‘aliuta’,
p.
[139] Cfr. Fest., verb.
sign., sv. ‘plorare’,
p.
[142] Cfr.
Le testimonianze contenute in Liv. 3.44.1 e Val. Max. 6.1.13, e il commento che
ne fornisce Fiori, op. cit., 200 ss. Sullo stuprum commesso da Appio Claudio ai
danni di Virginia cfr. inoltre M. Th. Fögen, Römische
Rechtsgeschichten. Über Ursprung und Evolution eines sozialen Systems2,
Göttingen, 2003, trad. it. – Storie
di diritto romano. Origine
ed evoluzione di un sistema sociale –, Bologna, 2005, 53 ss.
[146] Gran.
Flacc. (?) indig. fr. 8 (Huschke, 109): ‘Flaccus scribit, Numam
Pompilium, cum sacra Romanis concederet, voto impetrasse, ut omnes dii falsum
iuramentum vindicarent’. Cfr. Fiori,
op. cit., 182, 209
[148] Si
tratta della testimonianza contenuta nel ventottesimo libro dei digesta di Marcello riportata in D.
11.8.2.
[149] Fiori, op. cit., 291. Cfr. Sini, Sua cuique, cit., 262 ss., dove si parla
(p. 263) di «situazione di amicizia nei rapporti tra uomini e
divinità».
[150] Fiorentini, Ricerche, cit., 285. Tali infrazioni si riferiscono dunque a quei
criteri «cosmici» che Fiori,
op. cit., 231 ss., individua
nella lesione della maiestas, del terminus e della fides: ciò risulta provato sia nelle ipotesi espressamente
previste come comportanti la comminazione del sacer esto, sia in quelle in cui tale conseguenza è solo
ricavabile per interpretazione, ancorché con forti margini di
attendibilità.
[151]
Quest’ultima ipotesi è da escludersi decisamente per Albanese, op. cit., 157: «in nessuno dei casi si coglie alcun indizio
d’un accertamento giudiziario pregiudiziale all’irrogazione della
sanzione della sacertà; e soprattutto è vero, poi, che il regime
attestato per il caso del parens
verberatus (…) induce fortemente (e, a mio avviso, anzi, costringe) a
pensare che, in quel caso, la sacertà veniva in essere ipso facto e senza alcun procedimento
giudiziario (…). Nelle
più antiche sue manifestazioni, la sanzione del sacer esto diveniva operante ed efficace in concreto già
solo per il fatto che un soggetto aveva compiuto un particolare atto
delittuoso, sanzionato in quel singolare modo». In senso contrario, cfr.
Cantarella, op. cit., 242, per la quale «Nata come rito religioso, in
età cittadina essa appare inequivocabilmente come la conseguenza di una
pronunzia giudiziaria». Più complessa la posizione di Garofalo, op. cit., 37 ss., per il quale la sacertas poneva chiunque ne fosse colpito nella poco piacevole
situazione di poter essere ucciso da chiunque. Ucciso non proprio impunemente,
però, visto che in tal caso l’uccisore sarebbe stato comunque
sottoposto a processo con l’accusa di omicidio, e solo la dimostrazione
della sacertas gravante
sull’individuo ucciso ne avrebbe comportato la non punibilità. Lo
studioso, peraltro, si premura anche di non «escludere che l’homo divenuto sacer a causa del delitto perpetrato potesse qualche volta essere
dichiarato tale in sede giudiziaria, attraverso un procedimento definibile,
sulla base di una moderna terminologia, di mero accertamento, idoneo ad
escludere il rischio per il terzo che lo volesse mettere a morte di doversi
discolpare in un giudizio per omicidio. E proprio su questo primitivo regime
della sacertà avrebbe inciso la legge delle XII tavole richiedendo che
l’eventuale uccisione dell’homo
sacer per mano di qualsiasi consociato fosse sempre preceduta da una
decisione del comizio centuriato diretta ad appurare l’effettivo
compimento da parte sua di un atto comportante la sacertà». Del
resto, cfr. Gai., inst. 2.4, per il
quale non si considerava ‘sacer’
ciò che non fosse stato consacrato ‘ex auctoritate populi Romani’.
[161] La cui
origine storica è collocata all’epoca postdecemvirale, e comunque
in relazione all’affermarsi della mancipatio
familiae e del testamentum per aes et
libram: cfr. A. Burdese, sv.
«Diseredazione (diritto romano)»
in «NNDI.», V, Torino, 1960, 1113.
[162]
Soggetti, questi, che, come noto, non avevano titolo a presenziare nel comizio:
indubbiamente sarà poco più che una suggestione, ma, con la
consapevolezza di questa loro assenza dal luogo in cui venivano pubblicamente
esecrati, si spiegherebbe maggiormente anche il frammento paolino contenuto in
D.50.16.39.2 (Paul. 53 ad ed.) in cui
si afferma che ‘‘Detestari’
est absenti denuntiare’.