N. 5 – 2006 – Note & Rassegne

 

La repressione dei crimina nel diritto romano

 

Cristiana M.A. Rinolfi

Università di Sassari

 

 

 

Tra le opere incentrate sui reati sessuali e sulla procedura relativa segnaliamo: P. Panero Oria, ‘Ius occidendi et ius accusandi’ en la ‘lex Iulia de adulteriis coercendis’, Valencia, Tirant Lo Blanch, 2001; S. Puliatti, ‘Incesti crimina’. Regime giuridico da Augusto a Giustiniano, Milano, Giuffrè, 2001; F. Botta, “Per vim inferre”. Studi su ‘stuprum’ violento e ‘raptus’ nel diritto romano e bizantino [Università degli Studi di Cagliari. Dipartimento di Scienze Giuridiche. Biblioteca di Studi e Ricerche di Diritto romano e di Storia del diritto 6], Cagliari, Edizioni AV, 2004.

 

La Panero Oria prende in esame la lex Iulia de adulteriis coercendis, tra le leges più studiate dalla giurisprudenza classica, la cui peculiare procedura accusatoria servì come schema per altri procedimenti. Sebbene esista un profondo interesse per questa norma si registra l’assenza di specifiche indagini monografiche incentrate sul ius occidendi e sul ius accusandi della lex Iulia. Nel primo capitolo, El delito de adulterio y la ‘lex Iulia de adulteriis coercendis’, si delinea il crimine d’adulterio inteso, fin dall’età antica, come il tradimento commesso da una donna sposata di condizione onorevole. Nel periodo precedente all’emanazione della lex Iulia l’adulterium era perseguibile solo su istanza della familia, attraverso un iudicium domesticum, la cui pratica venne limitata quando cadde in desuetudine l’istituto della conventio in manum. Con la lex Iulia l’adulterio divenne un crimine pubblico, sottoposto alla cognitio extra ordinem. La lex Iulia de adulteriis coercendis, prima legge romana a regolare organicamente i delitti sessuali, s’inquadrava nella politica matrimoniale augustea, mirata a restaurare gli antichi costumi e a recuperare le tradizionali virtù romane. La legge viene variamente denominata dalle fonti giuridiche, probabilmente per la necessità di procedere ad una classificazione sulla base del contenuto. La norma augustea perseguiva come adulterium stricto sensu il tradimento commesso in presenza di iustum matrimonium, sebbene reprimesse anche i casi di infedeltà sorti nelle unioni illegittime. Così solo le donne honestae commettevano tecnicamente adulterio, in quanto sulla base della normativa matrimoniale augustea le feminae probosae e libertinae, per la loro bassa condizione sociale o per i loro costumi riprovevoli, non potevano contrarre giuste nozze. Il capitolo successivo s’incentra su El ‘ius occidendi’ en la ‘lex Iulia de adulteriis’, cioè sulla facoltà concessa dalla norma augustea al padre e al marito dell’adultera di punirla con la morte. Si tratta di un retaggio dell’epoca precedente, quando spettava a queste persone il compito di punire la donna infedele con un’esecuzione privata. La lex Iulia intorno al ius occidendi disponeva un differente trattamento rispetto al padre e al marito, sulla base di diversi fondamenti, in quanto il pater, mosso da amore paterno, si sarebbe diretto verso l’amante della figlia, mentre il marito si sarebbe istintivamente accanito sulla moglie. Il principio del ius occidendi del pater derivava dalla potestas che gli attribuiva il ius vitae ac necis sui figli. Il pater, tanto quello adottivo quanto quello naturale, poteva valersi del ius occidendi, sempre qualora fosse sui iuris ed esercitasse la patria potestas sulla donna; nel caso questa avesse contratto un matrimonio cum manu egli doveva essere stato auctor della conventio; doveva inoltre sorprendere gli adulteri in flagranza nella casa paterna o maritale ed ucciderli nello stesso momento, in quanto se avesse tolto la vita solo ad uno sarebbe stato colpevole di omicidio, salvo dimostrare la propria voluntas occidendi anche nei confronti dell’adultero sopravvissuto. I limiti previsti per l’esercizio del ius occidendi attribuito al marito erano più estesi rispetto a quelli del pater, anche se in tal caso non si può parlare di un vero e proprio ius occidendi, ma solo di impunità. Il marito non poteva uccidere in nessun caso la propria moglie, e possedeva la facoltà di togliere la vita all’adultero, solo quando era di bassa estrazione sociale, in caso di fragranza di adulterio nella casa maritale. Non era necessario che il marito fosse sui iuris, ma si richiedeva che egli avesse il conubium, e non tenesse cattivi costumi. Dopo la scoperta del tradimento il marito per uccidere impunemente l’adultero doveva ripudiare la donna per evitare l’accusa di lenocinio, e notificare entro tre giorni al magistrato l’uccisione dell’adultero. Dalla lex Iulia la materia dell’adulterio si evolvette fino a culminare con l’Editto di Rotari che sancì la morte di entrambi gli adulteri. L’ultimo capitolo, El ‘ius accusandi’ en la ‘lex Iulia de adulteriis’, mostra il particolare regime accusatorio che la legge auguste delineava, prevedendo sia un’accusatio iure extranei, attribuita a qualunque cittadino che fosse stato a conoscenza del reato, sia un’accusa preferenziale attribuita al padre e al marito dell’adultera. L’accusatio iure mariti vel patris rifletteva strettamente il ius occidendi: il marito, sia sui iuris che alienis iuris, poteva esercitare l’accusa solo qualora fosse unito in iustum matrimonium, poiché nel caso fosse stato legato con una relazione iniustam poteva esercitare l’actio iure extranei; il padre della adultera invece doveva essere sui iuris ed avere la potestas sulla donna. L’adultera non poteva essere accusata in costanza di matrimonio, in quanto bisognava procedere alla scioglimento delle nozze, salvo che il marito non fosse stato condannato di lenocinio, o avesse abbandonato l’accusa già iniziata. Anche l’adultero non poteva essere accusato se prima non si fosse sciolto il matrimonio dell’amante, o il marito non fosse stato accusato di lenocinio. Qualora la donna si fosse risposata ed avesse commesso adulterio in un precedente matrimonio non poteva essere accusata costante matrimoni. Per procedere contro di essa si doveva esercitare prima l’accusatio contro l’adultero, e poi il secondo marito doveva ripudiarla per evitare l’accusa di lenocinio, ma i processi dei due adulteri erano indipendenti. Se l’adultero veniva processato prima che la donna contraesse nuove nozze, anche in caso di assoluzione, essa poteva essere accusata. La lex Iulia con il tempo subì una progressiva decadenza per mutamenti di ordine sociale; ad essa seguirono vari interventi legislativi che completarono il suo contenuto, senza modifiche di ordine sostanziale. Fu Costantino, con la costituzione del 326 conservata in CTh. 9.7.2 e con alcune modifiche in C. 9.9.29(30), a mutare il regime accusatorio della legge augustea, in quanto l’accusa privilegiata fu attribuita solo al marito, e l’accusa iure extranei spettò ai parenti prossimi, padre compreso. Inoltre il marito poteva accusare la moglie ex suspicione, anche in costanza di matrimonio, contrariamente all’epoca classica che richiedeva il ripudio. Un’altra costituzione costantiniana del 331, CTh. 3.16.1, si inseriva nella politica matrimoniale dell’imperatore ispirata ai principi del cristianesimo, mirata a tutelare l’integrità familiare. La norma circoscriveva il ripudio unilaterale stabilendo le iustae causae per divorziare unilateralmente, e quindi enunciava le sanzioni, che avevano conseguenze patrimoniali riguardanti la dote, per il ripudio ingiustificato. Questa costituzione in particolare esentava il marito tradito dalla restituzione dalla dote, nel caso la donna si risposasse.

 

Il lavoro di S. Puliatti, dedicato all’incestus, si apre con il capitolo Genesi, terminologia e configurazione dell’incesto, dove si afferma come l’illiceità di questa fattispecie traesse origine da antichi precetti religiosi che prescrivevano l’inviolabilità dei legami di sangue e si inquadravano nell’obbligo di castità per le vestali. Nel periodo arcaico, dunque, l’incestus era «l’evento impuro, religiosamente e moralmente esecrando, la cui essenza consiste nell’antisacralità prima che nell’antigiuridicità». Con il tempo la fattispecie si sottrasse dalla sfera religiosa per divenire un’infrazione giuridica; questo passaggio venne segnato in particolare dalla lex Iulia de adulteriis coercendis. Infatti l’A. afferma come le fonti giurisprudenziali attestino una previsione del crimine nella lex Iulia, sebbene la communis opinio sostenga che l’incesto non rientrasse, in quanto reato autonomo, nella previsione augustea, se non in concorrenza con l’adulterio e lo stupro. A questa disposizione legislativa seguirono altri interventi imperiali in materia che sancirono vari divieti matrimoniali, delineando così il regime giuridico dell’incesto. La giurisprudenza classica considerò l’incestus come un illegittimo rapporto coniugale, in quanto rapporto eterosessuale tra parenti ed affini, e nonostante l’illecito avesse una sua configurazione, non si creò una apposita terminologia tecnica, per manifestare «la criminosità dell’evento», e «denunciare distacco ideologico». I giuristi ponevano l’incesto in relazione ai divieti derivanti dal fas e dai mores e a quelli imposti legibus. Fu Papiniano ad avviare «un nuovo corso», spezzando il rapporto tra l’incesto ed il diritto sacro, e delineando una complessa fattispecie criminale, legata al diritto positivo. Almeno in forma residuale, sebbene prevalesse per l’illecito il distacco tra ius e fas, la bivalenza religiosa e giuridica della fattispecie non si estinse; l’antisacralità e la riprovazione morale permasero fino alle Novelle giustinianee. Tra le questioni dibattute dalla letteratura in materia di incesto si rinviene la dicotomia incestum iure gentium – incestum iure civili, che stava alla base della costruzione dei giuristi classici intorno ai problemi di gravità, di graduazione della responsabilità, e applicazione della pena. In tale sistema si colloca il problema della rilevanza della ignorantia iuris e dell’error come delle discriminanti. Secondo il Puliatti sebbene nel pensiero classico si sostenesse l’inescusabilità dell’ignoranza del diritto, emerse la necessità di superare questo rigido principio per sanare, attraverso alcuni rimedi giuridici, l’incolpevole ignoranza di alcune categorie, quali le donne, considerate affette da infirmitas sexus. Così la donna veniva scusata non in ragione della conoscibilità delle norme, ma rispetto alla gravità del crimine, per cui si consideravano le discriminanti solo per l’incestum iure civili. Segue il secondo capitolo incentrato su La disciplina dell’età classica, dove si afferma un limitato interesse della giurisprudenza classica e tardoclassica per l’incesto, a fronte di una più ampia riflessione per l’adulterio e lo stupro. In materia i giuristi classici rivolsero la propria attenzione limitatamente all’incestum derivante da illecitum matrimonium, ponendo in rilievo le diverse questioni che sorgevano in ambito privatistico e penale. Il diritto classico oltre agli impedimenti matrimoniali derivati dal fas e dai mores, formulò nuove ipotesi, effetto della riflessione dei giuristi e di nuovi interventi normativi. L’incesto occasionale al contrario venne considerato solo come fattispecie complessa in concomitanza con lo stuprum e l’adulterium. L’A. procede quindi alla ricostruzione della riflessione giurisprudenziale classica in materia, operazione difficile a causa di diverse interpolazioni. Per quanto riguarda il II secolo d.C., la sintesi della costruzione sistematica in materia si rinviene in Gai. 1.58-64, che rappresentò la base dogmatica per la giurisprudenza successiva, ed anche per le Istituzioni di Giustiniano. In questo passo l’incestum viene studiato da un punto di vista privatistico, e solo in relazione con l’illecitum matrimonium, per cui si enumerano gli impedimenti matrimoniali sulla base dei gradi di parentela e di affinità. Sotto gli Antonini si ammise in via eccezionale che per rescritto imperiale si potesse derogare i divieti legittimando i matrimoni incestuosi, deroghe che non furono più concesse a partire dal principato di Marco Aurelio e Lucio Vero. Sotto i Severi si ampliarono i limiti dell’incesto integrando il sistema precedente. Tra i giuristi severiani è stato Papiniano a prestare particolare interesse all’incesto, affrontando vari problemi, anche di carattere processuale. Il giurista tuttavia non si rifece ad una sistematica della materia, mentre procede all’analisi delle singole questioni, interessandosi in particolare agli effetti del reato di incesto sullo status dei figli nati da unioni incestuose. La dottrina papinianea influenzò per certi aspetti i suoi contemporanei, ad esempio Ulpiano e Marciano, in merito alla questione della punibilità della donna e l’utilizzo dei tormenta giudiziari. La tendenza ad allargare i limiti del reato di incesto prevedendo nuovi impedimenti matrimoniali si rinviene anche nella legislazione dei Severi: ad esempio una costituzione del 228 di Alessandro Severo (C. 5.4.4) sancì come crimine le nozze del figlio con la concubina del padre, pur qualificandolo come stuprum. Nel capitolo seguente si illustra La disciplina postclassica. Nelle compilazioni di questo periodo si rinvengono con alcune alterazioni i dettati originali della disciplina precedente. Nel periodo tra l’impero di Diocleziano e Costanzo si registrano due tendenze, l’inasprimento della repressione criminale da un lato, dall’altro l’utilizzo dei condoni, mirati ai numerosi strati della popolazione che non conoscevano il diritto romano, a cui la costituzione di Caracalla aveva esteso la cittadinanza. In materia di incesto le fonti non riportano alcuna disposizione di Costantino, probabilmente perché riteneva idonea la disciplina precedente. Costanzo II ampliò la nozione del reato estendendo gli impedimenti matrimoniali per i parenti e affini in linea collaterale. Appare chiara l’avversione della legislazione postclassica nei confronti dell’incesto, e ciò è dimostrato dall’inasprimento della repressione, dalla criminalizzazione di alcune unioni che erano legittime per il diritto precedente, e, dal 380, dall’esclusione del crimine dalle indulgentiae criminum. In Occidente l’esclusione dell’incesto dalle amnistie si attestò nel 381 con Graziano (CTh. 9.38.6), e con Valentiniano II nel 385 (CTh. 9.38.8), sebbene in tal senso non vi sia un orientamento stabile. Nei secoli IV e V si registrano delle tendenze imperiali moderate, in particolare nella seconda metà del V secolo: se da un lato si estero i divieti matrimoniali, in collegamento con il diffondersi del pensiero cristiano sul matrimonio, dall’altro lato vi fu «un processo di progressivo decremento della repressone strettamente criminale e del ricorso alle pene personali afflittive in bilancio con l’incremento dell’impiego di sanzioni patrimoniali e civili». Il quarto capitolo indaga su L’incesto nel diritto giustinianeo e postgiustinianeo. Nella Compilazione l’assetto della materia venne dato per la maggior parte sulla base delle riflessioni dei giuristi classici, e solo in minima parte ispirandosi alla legislazione imperiale. La sintesi si rinviene in I. 1.10.1-12, che conferma i divieti matrimoniali delineati nel periodo classico, insieme a qualche aggiunta. Vengono rinnovate le pene civili e criminali risalenti all’età classica, in quanto l’imperatore non si adeguò alle tendenze moderate della legislazione postclassica. L’inasprimento della repressione si rinviene nel diritto delle Novelle, dove la materia viene regolata dal 535 al 539, e nel 542. Questa concentrazione cronologica si spiega l’acuirsi in vari luoghi dell’impero della resistenza contro il diritto matrimoniale giustinianeo. Inoltre si devono considerare altre motivazioni, come finalità fiscali, l’intento di ridurre le diversità istituzionali e socio-culturali presenti nell’impero, l’orientamento tipico della normazione novellare di risistemazione settoriale in campo privatistico, il disegno di riforma amministrativa delle zone periferiche. Dopo la Nov. 115.3-4 del 542 l’imperatore non si occupò più della materia, e questo silenzio si può spiegare sia sulla base dell’ipotesi che l’intervento delle disposizioni legislative avrebbe ridotto le unioni endogamiche, sia con la teoria per cui il fenomeno delle nozze incestuose non sarebbe stato considerato pericoloso per le istituzioni romane. La normativa novellare diede nuove basi alla materia, incentrandosi principalmente su 4 finalità: «instaurare un processo di omogeneizzazione della disciplina ai fini della creazione di un regime unitario entro cui dare assetto al quadro generale del reato; integrare entro questo regime e sanare particolarismi abnormi; ridefinire lo stato giuridico dei figli incestuosi; regolare, in maniera diversa che nella legislazione del passato, i diritti degli stessi». Nel 566 Giustino II tornò sulla materia con la Nov. 2, che da un lato appare come legge speciale che prescrive il condono, dall’altro lato ha carattere di legge generale che reprime in modo severo il reato, anche se particolarmente mirata contro la prassi della delazione. L’ultimo capitolo offre i Profili storici dell’incesto, facendo il punto su quanto è emerso dall’esegesi delle fonti analizzate. La linea di tendenza generale che ne appare è di repulsione verso l’incesto che porta in modo progressivo ad una estensione dei divieti matrimoniali, in particolare per il rapporto di adfinitas, il cui divieto fu sancito in antico dal fas, oggetto di disapprovazione morale durante la repubblica, motivo di impedimento per i legami in linea retta durante il periodo classico, e per la linea collaterale nell’età postclassica. Il Puliatti procede poi a delineare la storia del regime delle pene, la ricostruzione delle singole fattispecie del reato, e lo sviluppo della persecuzione della donna che ha commesso incesto, problema su cui la letteratura è difforme, e che trova un parallelo con il regime della persecuzione della donna per altri crimini sessuali.

 

Il Botta rivolge la propria indagine alla repressione dei reati di stupro violento e di ratto nel diritto romano e bizantino. Lo “Stuprum per vim”, analizzato nel primo capitolo, era un illecito che in età romana e bizantina non ebbe mai autonomia concettuale. In materia si rinviene una contrapposizione tra le fonti, in particolare quelle giurisprudenziali, mai chiarita dalla dottrina. Le testimonianze del III secolo d.C., infatti, oscillano nel collocare l’illecito sotto il regime della lex Iulia de adulteriis et de stupro, oppure sotto la sfera della lex Iulia de vi. In realtà, inizialmente lo stuprum per vim era sussunto sotto il regime della lex Iulia de adulteriis, come variante dell’adulterium/stuprum, per essere poi ricondotto in epoca severiana al dettato della lex de vi extra ordinem, come attestano D. 48.6.3.4 (Marcian. 14 inst.) e D. 48.5.30(29).9 (Ulp. 4 de adult.). Così, le forme morfologicamente incompatibili del crimen adulterii, crimen commune a struttura compartecipativa, e del reato di vis, tipicamente unilaterale, vennero avvicinate nella riflessione del III secolo. La speculazione severiana fu mirata a ricondurre la violenza sessuale in un illecito monosoggettivo, tendenza che quindi spiega la presenza di diverse soluzioni. I giuristi del III secolo consideravano la vis come elemento che escludeva il dolo, per negare la colpevolezza della donna violentata, la cui accusa era comunque ammissibile in quanto compartecipe necessaria del crimen adulterium\stuprum. Inoltre, si procedeva a due differenti giudizi per i due adulteri, e ciò comportò l’assenza di differenze strutturali tra il processo per adulterium\stuprum e quello per vis, poiché le distinte accusationes contro i compartecipi necessari portarono il crimine di adulterium a scomporsi «in due reati ‘processualmente’ unilaterali». I giuristi severiani nel caso di stupro tesero inoltre a disattivare per fini equitativi alcune regole processuali ordinarie della repressione dell’adulterio, per riportarlo al regime della lex de vi, attraverso le deroghe alla praescriptio quinquennii e alla regola della preventiva postulatio lenocinii. Dunque nel III sec. in materia di stupro si passò da una concezione che vedeva la violenza come causa di esclusione di responsabilità alla considerazione dello stesso stupro come elemento costitutivo, per essere perseguito come crimen vis. Nel regime dell’adulterium\stuprum non si dava facoltà alla donna di presentare l’accusatio adulterii, facoltà che le venne assegnata nel 223 d.C. con una costituzione severiana (C. 9.9.7), in quanto la vis divenne un elemento costitutivo del crimine sessuale violento. Nella prassi si mantenne l’accusatio adulterii quale mezzo principale contro la violenza carnale, come emerge da un rescritto di Diocleziano, C. 9.9.20. La tradizione postclassica occidentale assimilò la violenza sessuale all’adulterio, in particolare a partire dal VI secolo (P.S. 2.26.12; Ed. Th. 60), in quanto scomparve come categoria la vis. Ma qui l’adulterio ebbe una nuova accezione rispetto a quella classica, in quanto vi rientrava qualsiasi atto contro la pudicitia, aveva una struttura unilaterale ed era extra ordinem. In età postclassica per altra via, sempre con la stessa finalità di rendere crimine unilaterale lo stuprum\adulterium non consensuale, si condusse l’illecito al regime dell’iniuria extra ordinem. Il secondo capitolo prende in considerazione il “Raptus”, che appare collegato allo stuprum per vim fin dall’età dei Severi. Similitudini che comportarono questioni analoghe, poiché l’illecito fu inserito in diritto classico fra i crimini repressi nell’ambito della lex Iulia de adulteriis; successivamente, nel diritto epiclassico, probabilmente il raptus venne avvicinato alla vis, per poi divenire fattispecie autonoma in età postclassica. Presumibilmente per evitare le conseguenze negative dell’applicazione del regime dell’adulterio, si propose un regime processuale differente, ad esempio Marciano escluse la praescriptio quinquennii in D. 48.6.5.2 (Marcian. 14 inst.), unico frammento classico in materia di ratto. Dal passo emerge una probabile differenziazione concettuale tra i crimini ex lege de adulteriis e raptus, per cui si riportava il ratto al regime della repressione della vis. Il ratto si presentava come crimine unilaterale, dove la vis, elemento primario, consisteva nella sola sottrazione della donna al pater. Nel diritto tardoantico il ratto divenne un crimine autonomo, autonomamente represso, come attesta una costituzione costantiniana (CTh. 9.24.1). Qui si sanziona il solo raptus delle puellae; la donna è ritenuta comunque responsabile perché compartecipe dell’atto, e l’accertamento della sua mancanza di volontà non ne esclude la colpevolezza, ma gradua la sanzione. Per una parte della dottrina Costantino avrebbe ribaltato la precedente posizione severiana per cui la donna non sarebbe stata assoggettata a pena in quanto scusata per vitium levitatis. In realtà, secondo l’A. questa tesi sarebbe inaccettabile poiché nelle testimonianze severiane emerge che la donna non era affetta da vizio di imputabilità, ma in quanto il crimine si concepiva come unilaterale: in caso di dissenso della vittima, si puniva la sola condotta del raptor. Il ricorso alle cause di scusabilità sarà fissato da Giustiniano in alcuni interventi novellari (Nov. 6.6, Nov. 123.43) sulla base di norme postcostantiniane riferite al rapimento di donne votate a Dio, dove si riporta l’illecito ad una struttura compartecipativa per garantire la moralità delle religiose. Nel diritto giustinianeo in materia di raptus si registrano incertezze e contraddizioni derivanti dallo scopo dei compilatori di rendere omogenee le diverse soluzioni prospettate dalle esperienze precedenti; l’unico dato certo è il rifiuto di ricondurre il tema alla sfera dell’iniuria extra ordinem. Nelle Istituzioni imperiali (I. 4.18.4) si condusse sotto la sfera di applicazione della lex Iulia de adulteriis lo stuprum sine vi compiuto nei riguardi di virgines e viduae, mentre per l’adulterio, che ledeva il matrimonio altrui, si prevedeva come possibile la presenza della vis, quale fattore di esclusione della colpevolezza della vittima. Per quanto attiene al ratto, in I. 4.18.8 si fornivano delle indicazioni di indirizzo, riportando il raptus per vim sotto la legge de vi. In questo passo vi è un espresso rinvio al regime di C. 9.13.1, costituzione del 533, che presenta alcune difformità rispetto al manuale imperiale: se nelle Istituzioni il raptus era considerato species del crimen vis, nella costituzione l’illecito è crimen autonomo. La novità è che il raptus veniva represso anche se compiuto nei confronti della donna sposata. Il raptus della nupta si configurava come un duplex crimen, composto da adulterium e rapina, mentre il ratto delle innuptiae era accostato all’omicidio. La vis atteneva alla sola condotta del raptor, e sussisteva in presenza del dissenso dei preposti al controllo della donna, indipendentemente dalla volontà della rapta, la quale anche se consenziente si vedeva attribuito come praemium parte del patrimonio del raptor, considerato come corruttore. L’interpretazione autentica di C. 9.13.1, è contenuta in Nov. 143=150, dove il regime del raptus mulieris diviene generale e quindi esteso anche alle desponsatae. Qui però il raptus delle nuptae non è configurato come un duplex crimen, ma come species dell’adulterio, in quanto il raptus assorbiva il reato contro la pudicizia. Proprio questo concorso di reati ingenerava delle contraddizioni, poiché nel rapimento, crimine assorbente, la volontà della rapta era irrilevante, mentre rilevava nei casi consensuali di stuprum/adulterium, l’illecito assorbito. L’ultimo capitolo, “Kat¦ b…an”. Violenza, consenso e crimini sessuali nell’esperienza giuridica bizantina, è stato dedicato allo studio del regime delle fattispecie in esame fra il VI e il XIII secolo in Oriente. In tale periodo si registra come comune denominatore la tendenza a risolvere le incongruità della Compilazione giustinianea, procedendo alla distinzione concettuale tra adulterium, raptus, stuprum per vim e stuprum sine vi.

 

 

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Intorno alle inflizioni corporali segnaliamo: ‘Carcer’. Prison et privation de liberté dans l’Antiquité classique, a cura di C. Bertrand-Dagenbach, A. Chauvot, M. Matter e J.-M. Salamito, dove si pubblicano gli Actes du colloque de Strasbourg (5 et 6 décembre 1997), Paris, De Boccard, 1999; C. Russo Ruggeri, ‘Quaestiones ex libero homine’. La tortura degli uomini liberi nella repressione criminale romana dell’età repubblicana e del I secolo dell’impero [Pubblicazioni della Facoltà di Giurisprudenza della Università di Messina 208], Milano, Giuffrè, 2002; C. Lovisi, Contribution à l’étude de la peine de mort sous la république romaine (509-149 av. J.-C.), Paris, De Boccard, 1999.

 

L’opera collettanea dedicata al carcer viene introdotta da A. Chauvot, il quale sottolinea come solo in tempi recenti la letteratura abbia rivolto la propria attenzione al tema della prigione a Roma. In questa sede la materia è stata oggetto di interessi incrociati da parte di diverse discipline, in quanto essa appare «un révélateur remarquable des réalités et des conceptions des mondes anciens en général et du monde romain en particulier. Car à Rome la prison est à la fois à l’origine, au centre et partout». La prima parte del libro, Des données juridiques aux aspects concrets, si apre con il contributo di A. Maffi, Emprisonnement pour dettes dans le monde grec, incentrato sull’imprigionamento compiuto da privati in ambito ellenico, e che analizza tanto il caso della prigionia di concittadini, quanto la cattività relativa ai rapporti tra cittadini e stranieri. Segue poi La servitude pour dettes à Rome, di A. Lintott, che riflette sui due differenti tipi di asservimento per debiti testimoniati dalle fonti relative all’età romana arcaica: la servitù conseguente ad una procedura giudiziale e l’asservimento volontario. Fa seguito il contributo di B. Santalucia dedicato a La carcerazione di Nevio: secondo la ricostruzione tradizionale della vicenda il poeta venne arrestato sul finire del III sec. a.C. dai tresviri capitales, e quindi incarcerato, poiché, sull’esempio dei poeti greci, aveva attaccato attraverso le sue opere importanti esponenti politici. In seguito, venne liberato per intercessione dei tribuni della plebe, ma nonostante la sua liberazione la famiglia dei Metelli lo fece esiliare in Africa, dove morì. Tuttavia per l’A. si tratta di una ricostruzione dai numerosi punti oscuri, poiché non si comprende il fondamento legale della carcerazione operata dai tresviri, non è chiaro il ruolo dei tribuni della plebe nella vicenda, né si comprende se vi fosse una relazione tra la carcerazione ed il successivo esilio di Nevio. Il Santalucia sostiene la natura preventiva e provvisoria della carcerazione del poeta, in attesa del giudizio comiziale; fu proprio durante la custodia che i tribuni della plebe, per mezzo della loro intercessio, ne ottennero la scarcerazione. Così Nevio per evitare la condanna abbandonò la città in esilio volontario. L’opera prosegue con A. Lovato, Poena sine provocatione?, il quale prende in considerazione l’espressione ciceroniana (de lege agr. 2.13.33) che denuncia il pericolo dell’instaurazione di un regime in cui la pena venisse comminata senza la facoltà di ricorrere all’istituto della provocatio. La testimonianza sorprende poiché Cicerone parrebbe far riferimento ad una garanzia non presente: la provocatio contro le condanne pronunciate nelle quaestiones. In realtà, l’oratore si riferiva alle misure a cui il magistrato poteva ricorrere sulla base del proprio imperium, e non utilizzava impropriamente il termine poena, inteso invece dai moderni come sanzione ad un crimine prefigurato dalla legge. Infatti, dalle analisi di alcune fonti tra la tarda repubblica ed il primo principato, appare che proprio sul finire dell’età repubblicana i vincula publica erano utilizzati nella repressione criminale come legittimi strumenti di punizione, al di fuori delle quaestiones, rientrando così nell’accezione di poena. Dedicata alla Détention préventive, mise à l’épreuve et démonstration de la preuve (Ier-IIIe siècles ap. J.-C.) è la riflessione di Y. Rivière, che vuole far luce sulle funzioni della carcerazione prolungata testimoniata dalle fonti per l’età classica. In questo periodo appare come l’utilizzo della detenzione preventiva si inserì «dans une logique probatorie», ed emerse progressivamente con la comparsa del processo inquisitorio. Fa seguito Xula: des bois de la prison, di M. Halm-Tisserant, dove si illustrano i vari strumenti di contenzione utilizzati durante la detenzione nelle prigioni greche. I lavori di A. Marcone, La privation de liberté dans l’Égypte gréco-romaine, e di M. Matter, Privation de liberté et lieux de détention en Égypte romaine, indagano sulla detenzione nel territorio egiziano romano, che aveva soprattutto funzione preventiva. Régimen de vida y tratamiento del preso durante los tres primeros siglos del Imperio di P. Pavón analizza vari aspetti dell’incarcerazione nei primi tre secoli dell’impero romano: l’asprezza della prigionia, l’alimentazione, le visite agli incarcerati, le evasioni. La seconda parte dell’opera, Des enjeux politiques et sociaux aux représentations collectives, inizia con il lavoro di J.-U. Krause, Prisons et crimes dans l’Empire romain, teso a conoscere il ruolo del sistema penitenziario romano nella lotta contro la criminalità durante l’impero. Segue poi S. Vilatte, Être privé de liberté dans une île aux époques hellénistique et romaine: aspects individuels et collectifs, réalité, sentiment et imaginaire, il quale riflette sul fenomeno della privazione della libertà personale, importante concetto generale del mondo ellenico, che esprime il legame e l’impedimento come manifestazione cosmica. Les îles de la mer Tyrrhénienne: entre palais et prisons sous les Julio-Claudiens sono l’oggetto del lavoro di X. Lafon, il quale evidenzia i motivi che trasformarono durante l’età giulio-claudia le isole tirreniche da mete di villeggiatura particolarmente ricercate dall’aristocrazia romana, in luoghi dove scontare la pena della relegatio ad insulam. A. Chauvot si incentra su La détention sous Tibère, per analizzare i motivi politici dell’azione dell’imperatore, il quale secondo le fonti letterarie ricorse spesso all’utilizzo preventivo del carcer e dei vincula, nei confronti delle classi élitarie. In seguito, sempre rivolto all’aristocrazia, Tiberio istituì una detenzione di larga durata, i cui limiti temporali non erano definiti, come strumento di terrore contro ogni eventuale opposizione. A Sénèque et l’enfermement è dedicato il contributo di É. Évrard, dove emerge come l’aspetto relativo alla punizione non interessasse il filosofo, in quanto ispirato dalla dottrina stoica considerava la privazione della libertà personale come un’avversità del destino che l’uomo virtuoso doveva sopportare con fermezza. J.-M. Salamito, Sunaicmalwtoi: les «compagnons de captivité» de l’apôtre Paul, si sofferma sulla rappresentazione del carcer in Paolo di Tarso. L’ultima relazione è quella di C. Bertrand-Dagenbach, La prison, lieu d’effroi, che affronta il problema di come i detenuti di alto lignaggio affrontassero l’orrore della prigionia, vista come un attentato alla dignitas. Ma è con Boezio, vissuto sul finire dell’impero romano d’Occidente, con l’instaurarsi di un forte regime tirannico straniero, che la prigione venne sentita come una prova inserita nel disegno divino che permetteva l’inizio di un’ascensione spirituale. Spetta a A. Chauvot trarre le conclusioni e fare un bilancio d’insieme dei dati emersi dai contributi, da cui risulta che la prigione rappresentò una «impensable présence au cœur de la cité, instrument organisé et outil à fonctions diverses, susceptible d’évoluer et de s’adapter, en un mot un objet historique parmi d’autres, à la fois ni plus ni moins banal que d’autres, et en même temps comme un néant brutal aspirant et annulant toute valeur et toute dignité».

 

La ricerca di C. Russo Ruggeri è indirizzata all’utilizzo della tortura nella pratica processuale romana della repubblica e del primo principato. Nell’Introduzione si illustra la communis opinio per cui sino al II secolo d.C. a Roma vigeva il divieto di utilizzo dei tormenta nella repressione criminale verso gli uomini liberi. Secondo l’A., è necessario tuttavia procedere ad una differente proposta interpretativa delle fonti, in quanto da un lato alcune di esse, considerate inattendibili dalla dottrina dominante, testimoniano il ricorso a forme di coercizione corporale fin dall’età regia, dall’altro numerose testimonianze affermano il principio dell’esenzione degli uomini liberi dalla tortura. Attraverso «una lettura per così dire conciliante» non si può escludere che nella realtà giuridica in alcuni casi il ricorso a strumenti coercitivi fosse ammesso, in particolare per la tutela degli interessi fondamentali della civitas. Nel primo capitolo, La tortura giudiziaria degli uomini liberi nell’esperienza processuale dell’età regia e repubblicana, si procede all’analisi delle fonti intorno all’inflizione di tormenta nel periodo che va dal VI al I secolo a.C. Ne emerge come già prima del principato si ricorresse all’impiego processuale dei tormenta, in una vasta gamma di circostanze. La non eccezionalità del ricorso processuale alla tortura viene attestata dal richiamo ai tormenta nella lex Iulia de vi publica, legge che confermò la provocatio, qui intesa come la domanda di devolvere il caso all’organismo competente, per la pena capitale e per la verberatio, e la estese al ricorso magistratuale alla tortura nelle indagini istruttorie, sancendo la violazione con una relativa quaestio. Tuttavia, non si deve ritenere che in epoca repubblicana le torture fossero inflitte incondizionatamente dal magistrato; dalle fonti infatti appare come si facesse ricorso alla coercizione corporale in caso di gravi crimina che ponevano in pericolo la salus populi Romani: si trattava di fattispecie di reato rientranti prima nell’ambito della perduellio, e successivamente nel crimen maiestatis. Il superamento delle garanzie personali costituzionalmente riconosciute per la tutela della sicurezza della res publica era un’idea radicata nella tradizione repubblicana, che venne teorizzata dall’aristocrazia durante i conflitti politici dell’età ciceroniana «per legittimare la richiesta dell’intervento armato dei consoli». Probabilmente, se si accetta quanto tramanda Ammiano Marcellino (rer. gest. 19.12.17), questo principio consuetudinario di assoggettare a tortura giudiziaria nei casi di crimen maiestatis, ebbe un riconoscimento legislativo già nella repubblica, con Silla. Questa norma viene identificata dalla Russo Ruggeri con la lex Cornelia de maiestate, che avrebbe permesso la tortura nei casi di incesto e di lesa maestà. Nel capitolo successivo, La tortura giudiziaria degli uomini liberi nel I secolo dell’impero: una prassi ‘contra legem’?, si sostiene che in materia l’impero confermò una consuetudine ed una legislazione precedente, e quindi si deve rigettare l’interpretazione tradizionale per cui la tortura giudiziaria dei liberi nel I secolo d.C. consisteva in una prassi processuale contra legem, recepita ufficialmente solo nel secolo successivo. Secondo l’A. infatti in via preliminare si deve tener conto della circostanza che al proposito vennero emanate due norme augustee: la lex Iulia maiestatis del 27 a.C., la quale consentiva la coercizione personale nelle indagini relative al crimen maiestatis, che poneva a rischio la civitas, probabilmente recependo la legislazione sillana in materia; la lex Iulia de vi publica, che sanzionava il ricorso alla tortura sul cittadino che avesse interposto la provocatio. La seconda circostanza da prendere in considerazione è l’affermazione della cognitio extra ordinem presso i tribunali imperiali e senatori di cui si ha notizia già con Augusto, e che venne istituzionalizzata da Tiberio. Il nuovo sistema di repressione criminale si basava sulla discrezionalità degli organi giudicanti, e coinvolgeva i processi per delitti politici, o per reati comuni che colpivano l’opinione pubblica. La terza evenienza da apprezzare consiste nel processo di trasformazione del reato di lesa maestà durante il principato, che si venne configurando come un crimine contro il princeps e si ampliò, soprattutto ad opera dei tribunali imperiali, in quanto vennero incluse «nuove e più effimere fattispecie». Si passa quindi ad esaminare le fonti del I secolo dell’impero che testimoniano la tortura degli uomini liberi durante il periodo che va da Augusto a Domiziano. Dall’analisi esegetica risulta l’utilizzo dei tormenta per l’incesto e per il crimen maiestatis, un uso che non appare specifico per i soli organi delle cognitiones, ma anche per i magistrati muniti di giurisdizione penale, come i comandanti militari ed i governatori provinciali. Sulla base di tali evenienze emerge come nel primo secolo dell’impero la tortura sarebbe stata una prassi legittimata formalmente dalle leggi augustee, sebbene si registrino condotte degenerative che comportavano un utilizzo strumentale dei mezzi processuali fortemente criticato dalla storiografia antica.

 

L’indagine di C. Lovisi è rivolta alla pena di morte e alla procedura relativa, dalla nascita della repubblica fino al 149 a.C., anno dell’istituzione della prima quaestio perpetua, che instaurerà un nuovo sistema penale. La prima parte dell’opera, De la peine privée à la peine publique, mostra come con l’avvento della repubblica si limitò progressivamente la funzione vendicativa della pena, propria dell’età precedente. Il primo capitolo, La justice des ‘privati’: ‘sacer esto’, analizza l’antico istituto della sacratio capitis, il primo mezzo per circoscrivere la vendetta privata, in quanto faceva ricadere la responsabilità esclusivamente sull’autore del delitto. Infatti, l’uomo dichiarato sacer veniva separato dalla comunità civica, votato alle divinità, e poteva essere ucciso impunemente da chiunque. La sacertà venne per primo sancita dalle leggi regie, e sebbene si consideri che queste norme furono redatte dopo le XII Tavole, esse richiamavano antichi principi dell’età arcaica. Successivamente, questo istituto, a cui le disposizioni legislative fecero sporadicamente ricorso, si rinviene in alcune disposizioni delle XII Tavole (ad esempio tab. 8.21 per il patrono infedele, tab. 8.12-13 per furto notturno e a mano armata), e nelle leggi Valerie Orazie del 449 a.C. Inizialmente la sacratio capitis era conseguenza automatica della commissione del delitto, per cui si procedeva direttamente all’esecuzione privata; in seguito, prima del decemvirato legislativo, sorse la necessità di un giudizio preliminare, in mancanza del quale la sacertà si riduceva ad una mera maledizione. La trasformazione della sacratio capitis a semplice anatema come conseguenza dell’esigenza di un giudizio si può rinvenire nel caso del patrono infedele, il quale, sebbene diventasse sacer, non poteva esser sottoposto ad una condanna preventiva poiché il cliente non era legittimato a procedere in tal senso contro di lui. Le XII Tavole regolarono due forme di giudizio preliminare, la prima, di tipo rudimentale, era pronunciata dalla stessa vittima alla presenza di terzi, come nel caso del ladro notturno. La seconda tipologia di giudizio preventivo per la dichiarazione di sacertà, consistente in un procedimento svolto dinnanzi al magistrato coadiuvato da esperti, viene analizzata nel capitolo secondo, La juridiction du magistrat supérieur. Secondo l’A. nel V secolo a.C. non esisteva una rilevante differenza tra i delitti privati e i crimini capitali, in quanto tutti erano collegati all’esercizio della vendetta privata che la civitas regolava attraverso la medesima procedura generale: la legis actio per sacramentum. Quindi nel primo periodo repubblicano le procedure civili e criminali apparivano profondamente unite. Nella procedura della legis actio per sacramentum per crimini di diritto comune puniti con la morte ed altre fattispecie assimilate il giudizio si svolgeva dinnanzi al console, che portava il titolo di iudex, il quale sulla base di un’inchiesta condotta dai questori pronunciava la sentenza di sacertà. Il verdetto dichiarava il sacramentum iniustum, e attribuiva la facoltà di vendicarsi al privato, probabilmente l’attore vittorioso, un parente della vittima. Per quanto attiene ai delicta privati si seguiva la stessa procedura, con l’unica differenza che la sentenza di sacramentum iniustum veniva tenuta in sospeso, per cui si procedeva all’esecuzione capitale privata qualora si accertasse che il colpevole, a seconda dei casi, non avesse proceduto alla composizione pecuniaria, oppure non avesse subito il taglione, e per i delitti meno gravi non venisse riscattato. Fu proprio nella procedura civile che, in seguito ad un processo di laicizzazione, il magistrato venne sostituito da un iudex privatus nel compito di emanare la sentenza. Infatti la sacratio capitis scomparì dal procedimento civile, e il sacramentum, che la Lovisi intende come dichiarazione di sacertà, divenne una semplice ammenda procedurale, andando a designare l’aes che i contendenti depositavano presso i pontefici. Nel III sec. a.C. la città si sostituì al privato nell’esercizio della vendetta, poiché la morte venne considerata un danno per l’intera cittadinanza. In tale periodo vi furono diverse trasformazioni nel campo della repressione criminale, quale la creazione dei triumviri capitales, ausiliari del magistrato giusdicente, istituiti nel 290 a.C. con funzioni inquirenti ed istruttorie, poteri di polizia e di sorveglianza sulle esecuzioni capitali pubbliche, che proprio nel III secolo si implementarono di nuove modalità, come lo strangolamento in carcere, la crocifissione, e la poena cullei. Si deve registrare inoltre, tra i mutamenti avvenuti, che il pretore assunse i poteri consolari nella conduzione della procedura per sacramentum, giudizio soppiantato completamente dalla quaestio all’inizio del I secolo a.C.

Nella seconda parte dell’opera, Du châtiment à la peine, si mostra come nella prima età consolare esistessero due differenti tipi di repressione criminale che erano il riflesso dell’antitesi politica tra patriziato e plebe. La parte patrizia si avvaleva dello strumento della coercizione capitale, mentre quella plebea creò un tribunale popolare per perduellio che traeva il suo fondamento dall’inviolabilità dei tribuni della plebe. La coercitio magistratuale, potere discrezionale incluso nell’imperium, viene analizzato nel capitolo La coercition capitale et ses limites: intercession tribunicienne et ‘provocatio ad populum’. Durante l’età repubblicana, la coercizione capitale si attuava attraverso l’antico metodo della decapitazione per mezzo dell’ascia, strumento che simboleggiava la sovranità del magistrato superiore. Nei primi secoli della repubblica il ricorso alla coercitio capitale militiae viene attestato chiaramente dalle fonti, mentre per quanto riguarda la coercizione domi non si rinviene la stessa nitidezza delle testimonianze. Infatti, alcune di esse sostengono l’istituzione della provocatio ad populum fin dal 509 a.C., mentre secondo l’A. in realtà l’istituto venne sancito legalmente solo nel 300. Fino a tale data si utilizzarono due strumenti come mezzo di ricorso del cittadino contro l’arbitraria coercitio del magistrato, l’intercessio tribunizia e la quiritatio, mezzo di tipo informale, in cui la vittima della coercitio richiedeva l’assistenza dei cittadini, suscitando una sedizione della massa infuriata. La provocatio per l’A. rappresentava una innovazione reale, frutto delle mutazioni accorse tra la fine del IV e l’inizio del III secolo in campo criminale: le pene private vennero sostituite da quelle pubbliche; i tribuni della plebe non rappresentarono più una forza di opposizione; si riconobbe la sovranità popolare. La legge Valeria del 300 istitutiva della provocatio tuttavia non proibì qualunque messa a morte dei cittadini, ma abolì unicamente la decapitazione con l’ascia adversus provocationem a Roma. Con l’azione consolare l’applicazione della legge Valeria venne ridotta solo a casi eccezionali, in quanto i magistrati che non volevano vedere le proprie decisioni invalidate dai comizi evitavano di ingaggiare azioni sottomesse all’appello, facendo ricorso a castighi esenti da provocatio quali la vendita e l’imprigionamento. Al contrario il meccanismo della provocatio venne utilizzato in due situazioni non previste dalla legge Valeria: contro le ammende inflitte dal pontefice massimo ad altri sacerdoti che volevano sottrarsi ai loro doveri religiosi, e in opposizione alla flagellazione a morte pronunciata dai duumviri perduellionis. La procedura svolta nei tribunali rivoluzionari plebei per i crimini politici viene studiata nel capitolo successivo, Le tribunal du peuple. Fu proprio in tali istituzioni rivoluzionarie, dove la plebe si esprimeva attraverso acclamazioni, che si diede vita alla prima esperienza di giurisdizione popolare offrendole «sa première expression balbutiante». Secondo la Lovisi il processo capitale di perduellio sorse come tipico mezzo rivoluzionario plebeo, mentre non appare arcaica la perduellio promossa dai duumviri, a cui si riferiscono sporadicamente le fonti. Quando con le XII Tavole si individuò il comitiatus maximus come unica assemblea popolare competente per i crimini capitali politici, nella perduellio tribunizia all’originaria sentenza pronunciata dal magistrato plebeo si sostituì l’atto d’accusa del tribuno che chiamava a statuire i comizi centuriati. Dopo la sua integrazione nella costituzione al servizio della civitas, il tribuno della plebe utilizzò la perduellio, esente da provocatio, per affari di natura politica, a causa dell’astensione dei magistrati con imperium all’esercizio della coercitio sottoposta a provocatio. La giurisdizione dei comizi centuriati fu competente soprattutto per i crimini politici, ed anche per pochi reati di diritto comune non previsti espressamente dalla legge, la cui procedura era diretta dai questori. Secondo la tradizione nel 459-458 si svolse il primo processo comiziale per un reato di diritto comune, e solo nel II secolo a.C. si affermò pienamente la sovranità popolare per i crimini di diritto comune.