Università di Sassari
Tra le opere incentrate sui reati sessuali e sulla procedura relativa
segnaliamo: P. Panero Oria, ‘Ius occidendi et ius accusandi’
en la ‘lex Iulia de adulteriis coercendis’, Valencia, Tirant Lo
Blanch, 2001; S. Puliatti, ‘Incesti crimina’. Regime
giuridico da Augusto a Giustiniano, Milano, Giuffrè, 2001; F. Botta, “Per vim inferre”. Studi su ‘stuprum’ violento
e ‘raptus’ nel diritto romano e bizantino [Università
degli Studi di Cagliari. Dipartimento di Scienze Giuridiche. Biblioteca di
Studi e Ricerche di Diritto romano e di Storia del diritto 6], Cagliari,
Edizioni AV, 2004.
Il lavoro di S. Puliatti,
dedicato all’incestus, si apre
con il capitolo Genesi, terminologia e
configurazione dell’incesto, dove si afferma come
l’illiceità di questa fattispecie traesse origine da antichi
precetti religiosi che prescrivevano l’inviolabilità dei legami di
sangue e si inquadravano nell’obbligo di castità per le vestali.
Nel periodo arcaico, dunque, l’incestus era «l’evento impuro, religiosamente e moralmente
esecrando, la cui essenza consiste nell’antisacralità prima che
nell’antigiuridicità». Con il tempo la fattispecie si sottrasse
dalla sfera religiosa per divenire un’infrazione giuridica; questo
passaggio venne segnato in particolare dalla lex Iulia de adulteriis coercendis. Infatti l’A. afferma come
le fonti giurisprudenziali attestino una previsione del crimine nella lex Iulia, sebbene la communis opinio sostenga che
l’incesto non rientrasse, in quanto reato autonomo, nella previsione
augustea, se non in concorrenza con l’adulterio e lo stupro. A questa
disposizione legislativa seguirono altri interventi imperiali in materia che
sancirono vari divieti matrimoniali, delineando così il regime giuridico
dell’incesto. La giurisprudenza classica considerò l’incestus come un illegittimo rapporto
coniugale, in quanto rapporto eterosessuale tra parenti ed affini, e nonostante
l’illecito avesse una sua configurazione, non si creò una apposita
terminologia tecnica, per manifestare «la criminosità
dell’evento», e «denunciare distacco ideologico». I
giuristi ponevano l’incesto in relazione ai divieti derivanti dal fas e dai mores e a quelli imposti legibus.
Fu Papiniano ad avviare «un nuovo corso», spezzando il rapporto tra
l’incesto ed il diritto sacro, e delineando una complessa fattispecie
criminale, legata al diritto positivo. Almeno in forma residuale, sebbene
prevalesse per l’illecito il distacco tra ius e fas, la bivalenza
religiosa e giuridica della fattispecie non si estinse;
l’antisacralità e la riprovazione morale permasero fino alle
Novelle giustinianee. Tra le questioni dibattute dalla letteratura in materia
di incesto si rinviene la dicotomia incestum
iure gentium – incestum iure civili, che stava alla base della
costruzione dei giuristi classici intorno ai problemi di gravità, di
graduazione della responsabilità, e applicazione della pena. In tale
sistema si colloca il problema della rilevanza della ignorantia iuris e dell’error
come delle discriminanti. Secondo il Puliatti sebbene nel pensiero classico
si sostenesse l’inescusabilità dell’ignoranza del diritto,
emerse la necessità di superare questo rigido principio per sanare,
attraverso alcuni rimedi giuridici, l’incolpevole ignoranza di alcune
categorie, quali le donne, considerate affette da infirmitas sexus. Così la donna veniva scusata non in
ragione della conoscibilità delle norme, ma rispetto alla gravità
del crimine, per cui si consideravano le discriminanti solo per l’incestum iure civili. Segue il secondo
capitolo incentrato su La disciplina
dell’età classica, dove si afferma un limitato interesse della
giurisprudenza classica e tardoclassica per l’incesto, a fronte di una
più ampia riflessione per l’adulterio e lo stupro. In materia i
giuristi classici rivolsero la propria attenzione limitatamente all’incestum derivante da illecitum matrimonium, ponendo in rilievo
le diverse questioni che sorgevano in ambito privatistico e penale. Il diritto
classico oltre agli impedimenti matrimoniali derivati dal fas e dai mores,
formulò nuove ipotesi, effetto della riflessione dei giuristi e di nuovi
interventi normativi. L’incesto occasionale al contrario venne
considerato solo come fattispecie complessa in concomitanza con lo stuprum e l’adulterium. L’A. procede quindi alla ricostruzione della
riflessione giurisprudenziale classica in materia, operazione difficile a causa
di diverse interpolazioni. Per quanto riguarda il II secolo d.C., la sintesi
della costruzione sistematica in materia si rinviene in Gai. 1.58-64, che
rappresentò la base dogmatica per la giurisprudenza successiva, ed anche
per le Istituzioni di Giustiniano. In questo passo l’incestum viene studiato da un punto di vista privatistico, e solo
in relazione con l’illecitum
matrimonium, per cui si enumerano gli impedimenti matrimoniali sulla base
dei gradi di parentela e di affinità. Sotto gli Antonini si ammise in
via eccezionale che per rescritto imperiale si potesse derogare i divieti
legittimando i matrimoni incestuosi, deroghe che non furono più concesse
a partire dal principato di Marco Aurelio e Lucio Vero. Sotto i Severi si
ampliarono i limiti dell’incesto integrando il sistema precedente. Tra i
giuristi severiani è stato Papiniano a prestare particolare interesse
all’incesto, affrontando vari problemi, anche di carattere processuale.
Il giurista tuttavia non si rifece ad una sistematica della materia, mentre
procede all’analisi delle singole questioni, interessandosi in
particolare agli effetti del reato di incesto sullo status dei figli nati da unioni incestuose. La dottrina papinianea
influenzò per certi aspetti i suoi contemporanei, ad esempio Ulpiano e
Marciano, in merito alla questione della punibilità della donna e
l’utilizzo dei tormenta giudiziari. La tendenza ad allargare i
limiti del reato di incesto prevedendo nuovi impedimenti matrimoniali si
rinviene anche nella legislazione dei Severi: ad esempio una costituzione del
228 di Alessandro Severo (C. 5.4.4) sancì come crimine le nozze del
figlio con la concubina del padre, pur qualificandolo come stuprum. Nel
capitolo seguente si illustra La
disciplina postclassica. Nelle compilazioni di questo periodo si rinvengono
con alcune alterazioni i dettati originali della disciplina precedente. Nel
periodo tra l’impero di Diocleziano e Costanzo si registrano due
tendenze, l’inasprimento della repressione criminale da un lato,
dall’altro l’utilizzo dei condoni, mirati ai numerosi strati della
popolazione che non conoscevano il diritto romano, a cui la costituzione di
Caracalla aveva esteso la cittadinanza. In materia di incesto le fonti non
riportano alcuna disposizione di Costantino, probabilmente perché riteneva
idonea la disciplina precedente. Costanzo II ampliò la nozione del reato
estendendo gli impedimenti matrimoniali per i parenti e affini in linea
collaterale. Appare chiara l’avversione della legislazione postclassica
nei confronti dell’incesto, e ciò è dimostrato
dall’inasprimento della repressione, dalla criminalizzazione di alcune
unioni che erano legittime per il diritto precedente, e, dal 380,
dall’esclusione del crimine dalle indulgentiae
criminum. In Occidente l’esclusione dell’incesto dalle amnistie
si attestò nel 381 con Graziano (CTh. 9.38.6), e con Valentiniano II nel
385 (CTh. 9.38.8), sebbene in tal senso non vi sia un orientamento stabile. Nei
secoli IV e V si registrano delle tendenze imperiali moderate, in particolare
nella seconda metà del V secolo: se da un lato si estero i divieti
matrimoniali, in collegamento con il diffondersi del pensiero cristiano sul
matrimonio, dall’altro lato vi fu «un processo di progressivo
decremento della repressone strettamente criminale e del ricorso alle pene
personali afflittive in bilancio con l’incremento dell’impiego di
sanzioni patrimoniali e civili». Il quarto capitolo indaga su L’incesto nel diritto giustinianeo e
postgiustinianeo. Nella Compilazione l’assetto della materia venne
dato per la maggior parte sulla base delle riflessioni dei giuristi classici, e
solo in minima parte ispirandosi alla legislazione imperiale. La sintesi si
rinviene in I. 1.10.1-12, che conferma i divieti matrimoniali delineati nel
periodo classico, insieme a qualche aggiunta. Vengono rinnovate le pene civili
e criminali risalenti all’età classica, in quanto
l’imperatore non si adeguò alle tendenze moderate della
legislazione postclassica. L’inasprimento della repressione si rinviene
nel diritto delle Novelle, dove la materia viene regolata dal 535 al 539, e nel
542. Questa concentrazione cronologica si spiega l’acuirsi in vari luoghi
dell’impero della resistenza contro il diritto matrimoniale giustinianeo.
Inoltre si devono considerare altre motivazioni, come finalità fiscali,
l’intento di ridurre le diversità istituzionali e socio-culturali
presenti nell’impero, l’orientamento tipico della normazione
novellare di risistemazione settoriale in campo privatistico, il disegno di
riforma amministrativa delle zone periferiche. Dopo la Nov. 115.3-4 del 542
l’imperatore non si occupò più della materia, e questo
silenzio si può spiegare sia sulla base dell’ipotesi che
l’intervento delle disposizioni legislative avrebbe ridotto le unioni
endogamiche, sia con la teoria per cui il fenomeno delle nozze incestuose non
sarebbe stato considerato pericoloso per le istituzioni romane. La normativa
novellare diede nuove basi alla materia, incentrandosi principalmente su 4
finalità: «instaurare un processo di omogeneizzazione della
disciplina ai fini della creazione di un regime unitario entro cui dare assetto
al quadro generale del reato; integrare entro questo regime e sanare
particolarismi abnormi; ridefinire lo stato giuridico dei figli incestuosi;
regolare, in maniera diversa che nella legislazione del passato, i diritti
degli stessi». Nel 566 Giustino II tornò sulla materia con la Nov.
2, che da un lato appare come legge speciale che prescrive il condono,
dall’altro lato ha carattere di legge generale che reprime in modo severo
il reato, anche se particolarmente mirata contro la prassi della delazione.
L’ultimo capitolo offre i Profili
storici dell’incesto, facendo il punto su quanto è emerso
dall’esegesi delle fonti analizzate. La linea di tendenza generale che ne
appare è di repulsione verso l’incesto che porta in modo
progressivo ad una estensione dei divieti matrimoniali, in particolare per il
rapporto di adfinitas, il cui divieto fu sancito in antico dal fas,
oggetto di disapprovazione morale durante la repubblica, motivo di impedimento
per i legami in linea retta durante il periodo classico, e per la linea
collaterale nell’età postclassica. Il Puliatti procede poi a
delineare la storia del regime delle pene, la ricostruzione delle singole
fattispecie del reato, e lo sviluppo della persecuzione della donna che ha
commesso incesto, problema su cui la letteratura è difforme, e che trova
un parallelo con il regime della persecuzione della donna per altri crimini
sessuali.
Il Botta rivolge la
propria indagine alla repressione dei reati di stupro violento e di ratto nel
diritto romano e bizantino. Lo “Stuprum
per vim”, analizzato nel primo capitolo, era un illecito che in
età romana e bizantina non ebbe mai autonomia concettuale. In materia si
rinviene una contrapposizione tra le fonti, in particolare quelle
giurisprudenziali, mai chiarita dalla dottrina. Le testimonianze del III secolo
d.C., infatti, oscillano nel collocare l’illecito sotto il regime della lex Iulia de adulteriis et de stupro,
oppure sotto la sfera della lex Iulia de
vi. In realtà, inizialmente lo stuprum
per vim era sussunto sotto il regime della lex Iulia de adulteriis, come variante dell’adulterium/stuprum, per essere poi
ricondotto in epoca severiana al dettato della lex de vi extra ordinem, come attestano D. 48.6.3.4 (Marcian. 14 inst.) e D. 48.5.30(29).9 (Ulp. 4 de
adult.). Così, le forme
morfologicamente incompatibili del crimen
adulterii, crimen commune a
struttura compartecipativa, e del reato di vis,
tipicamente unilaterale, vennero avvicinate nella riflessione del III secolo.
La speculazione severiana fu mirata a ricondurre la violenza sessuale in un
illecito monosoggettivo, tendenza che quindi spiega la presenza di diverse
soluzioni. I giuristi del III secolo consideravano la vis come elemento che escludeva il dolo, per negare la colpevolezza
della donna violentata, la cui accusa era comunque ammissibile in quanto
compartecipe necessaria del crimen
adulterium\stuprum. Inoltre, si procedeva a due differenti giudizi per i
due adulteri, e ciò comportò l’assenza di differenze
strutturali tra il processo per adulterium\stuprum
e quello per vis, poiché le
distinte accusationes contro i compartecipi necessari portarono il
crimine di adulterium a scomporsi «in due reati
‘processualmente’ unilaterali». I giuristi severiani nel caso
di stupro tesero inoltre a disattivare per fini equitativi alcune regole
processuali ordinarie della repressione dell’adulterio, per riportarlo al
regime della lex de vi, attraverso le deroghe alla praescriptio quinquennii e alla regola
della preventiva postulatio lenocinii.
Dunque nel III sec. in materia di stupro si passò da una concezione che
vedeva la violenza come causa di esclusione di responsabilità alla
considerazione dello stesso stupro come elemento costitutivo, per essere
perseguito come crimen vis. Nel regime dell’adulterium\stuprum non si dava facoltà alla donna di
presentare l’accusatio adulterii, facoltà che le venne
assegnata nel 223 d.C. con una costituzione severiana (C. 9.9.7), in quanto la vis
divenne un elemento costitutivo del crimine sessuale violento. Nella prassi si
mantenne l’accusatio adulterii quale mezzo principale contro la
violenza carnale, come emerge da un rescritto di Diocleziano, C. 9.9.20. La
tradizione postclassica occidentale assimilò la violenza sessuale
all’adulterio, in particolare a partire dal VI secolo (P.S. 2.26.12; Ed.
Th. 60), in quanto scomparve come categoria la vis. Ma qui
l’adulterio ebbe una nuova accezione rispetto a quella classica, in
quanto vi rientrava qualsiasi atto contro la pudicitia, aveva una struttura unilaterale ed era extra ordinem. In età
postclassica per altra via, sempre con la stessa finalità di rendere
crimine unilaterale lo stuprum\adulterium non consensuale, si condusse
l’illecito al regime dell’iniuria extra ordinem. Il secondo
capitolo prende in considerazione il “Raptus”,
che appare collegato allo stuprum per vim fin dall’età dei
Severi. Similitudini che comportarono questioni analoghe, poiché
l’illecito fu inserito in diritto classico fra i crimini repressi
nell’ambito della lex Iulia de adulteriis; successivamente, nel
diritto epiclassico, probabilmente il raptus venne avvicinato alla vis,
per poi divenire fattispecie autonoma in età postclassica.
Presumibilmente per evitare le conseguenze negative dell’applicazione del
regime dell’adulterio, si propose un regime processuale differente, ad
esempio Marciano escluse la praescriptio quinquennii in D. 48.6.5.2
(Marcian. 14 inst.), unico frammento classico in materia di ratto. Dal
passo emerge una probabile differenziazione concettuale tra i crimini ex
lege de adulteriis e raptus, per cui si riportava il ratto al regime
della repressione della vis. Il ratto si presentava come crimine
unilaterale, dove la vis, elemento primario, consisteva nella sola sottrazione
della donna al pater. Nel diritto tardoantico il ratto divenne un
crimine autonomo, autonomamente represso, come attesta una costituzione
costantiniana (CTh. 9.24.1). Qui si sanziona il solo raptus delle puellae;
la donna è ritenuta comunque responsabile perché compartecipe
dell’atto, e l’accertamento della sua mancanza di volontà
non ne esclude la colpevolezza, ma gradua la sanzione. Per una parte della
dottrina Costantino avrebbe ribaltato la precedente posizione severiana per cui
la donna non sarebbe stata assoggettata a pena in quanto scusata per vitium
levitatis. In realtà, secondo l’A. questa tesi sarebbe
inaccettabile poiché nelle testimonianze severiane emerge che la donna
non era affetta da vizio di imputabilità, ma in quanto il crimine si concepiva
come unilaterale: in caso di dissenso della vittima, si puniva la sola condotta
del raptor. Il ricorso alle cause di scusabilità sarà
fissato da Giustiniano in alcuni interventi novellari (Nov. 6.6, Nov. 123.43)
sulla base di norme postcostantiniane riferite al rapimento di donne votate a
Dio, dove si riporta l’illecito ad una struttura compartecipativa per
garantire la moralità delle religiose. Nel diritto giustinianeo in
materia di raptus si registrano incertezze e contraddizioni derivanti
dallo scopo dei compilatori di rendere omogenee le diverse soluzioni
prospettate dalle esperienze precedenti; l’unico dato certo è il
rifiuto di ricondurre il tema alla sfera dell’iniuria extra ordinem.
Nelle Istituzioni imperiali (I. 4.18.4) si condusse sotto la sfera di
applicazione della lex Iulia de adulteriis lo stuprum sine vi
compiuto nei riguardi di virgines e viduae, mentre per
l’adulterio, che ledeva il matrimonio altrui, si prevedeva come possibile
la presenza della vis, quale fattore di esclusione della colpevolezza
della vittima. Per quanto attiene al ratto, in I. 4.18.8 si fornivano delle
indicazioni di indirizzo, riportando il raptus per vim sotto la legge de
vi. In questo passo vi è un espresso rinvio al regime di C. 9.13.1,
costituzione del 533, che presenta alcune difformità rispetto al manuale
imperiale: se nelle Istituzioni il raptus era considerato species
del crimen vis, nella costituzione l’illecito è crimen
autonomo. La novità è che il raptus veniva represso anche
se compiuto nei confronti della donna sposata. Il raptus della nupta
si configurava come un duplex crimen, composto da adulterium e rapina, mentre il ratto delle innuptiae era accostato all’omicidio. La vis atteneva alla
sola condotta del raptor, e sussisteva in presenza del dissenso dei
preposti al controllo della donna, indipendentemente dalla volontà della
rapta, la quale anche se consenziente si vedeva attribuito come praemium
parte del patrimonio del raptor, considerato come corruttore.
L’interpretazione autentica di C. 9.13.1, è contenuta in Nov.
143=150, dove il regime del raptus mulieris diviene generale e quindi
esteso anche alle desponsatae. Qui però il raptus delle nuptae
non è configurato come un duplex crimen, ma come species
dell’adulterio, in quanto il raptus assorbiva il reato contro la
pudicizia. Proprio questo concorso di reati ingenerava delle contraddizioni,
poiché nel rapimento, crimine assorbente, la volontà della rapta
era irrilevante, mentre rilevava nei casi consensuali di stuprum/adulterium,
l’illecito assorbito. L’ultimo capitolo, “Kat¦
b…an”. Violenza, consenso e crimini sessuali
nell’esperienza giuridica bizantina, è stato dedicato allo
studio del regime delle fattispecie in esame fra il VI e il XIII secolo in
Oriente. In tale periodo si registra come comune denominatore la tendenza a
risolvere le incongruità della Compilazione giustinianea, procedendo
alla distinzione concettuale tra adulterium, raptus, stuprum
per vim e stuprum sine vi.
*****
Intorno alle inflizioni corporali segnaliamo: ‘Carcer’. Prison et privation de liberté dans
l’Antiquité classique, a cura di C. Bertrand-Dagenbach, A. Chauvot, M. Matter
e J.-M. Salamito, dove si pubblicano gli Actes
du colloque de Strasbourg (5 et 6 décembre 1997), Paris, De Boccard,
1999; C. Russo Ruggeri, ‘Quaestiones ex libero homine’. La tortura degli uomini
liberi nella repressione criminale romana dell’età repubblicana e
del I secolo dell’impero [Pubblicazioni
della Facoltà di Giurisprudenza della Università di Messina 208],
Milano, Giuffrè, 2002; C. Lovisi,
Contribution à
l’étude de la peine de mort sous la république romaine
(509-149 av. J.-C.), Paris, De Boccard, 1999.
L’opera collettanea dedicata al carcer viene introdotta da A. Chauvot, il quale sottolinea come
solo in tempi recenti la letteratura abbia rivolto la propria attenzione al
tema della prigione a Roma. In questa sede
La ricerca di C. Russo
Ruggeri è indirizzata all’utilizzo della tortura nella
pratica processuale romana della repubblica e del primo principato. Nell’Introduzione si illustra la communis opinio per cui sino al II
secolo d.C. a Roma vigeva il divieto di utilizzo dei tormenta nella repressione criminale verso gli uomini liberi.
Secondo l’A., è necessario tuttavia procedere ad una differente
proposta interpretativa delle fonti, in quanto da un lato alcune di esse,
considerate inattendibili dalla dottrina dominante, testimoniano il ricorso a
forme di coercizione corporale fin dall’età regia,
dall’altro numerose testimonianze affermano il principio
dell’esenzione degli uomini liberi dalla tortura. Attraverso «una
lettura per così dire conciliante» non si può escludere che
nella realtà giuridica in alcuni casi il ricorso a strumenti coercitivi
fosse ammesso, in particolare per la tutela degli interessi fondamentali della civitas. Nel primo capitolo, La tortura giudiziaria degli uomini liberi
nell’esperienza processuale dell’età regia e repubblicana,
si procede all’analisi delle fonti intorno all’inflizione di tormenta nel periodo che va dal VI al I
secolo a.C. Ne emerge come già prima del principato si ricorresse
all’impiego processuale dei tormenta,
in una vasta gamma di circostanze. La non eccezionalità del ricorso
processuale alla tortura viene attestata dal richiamo ai tormenta nella lex Iulia de
vi publica, legge che confermò la provocatio, qui intesa come la domanda di devolvere il caso
all’organismo competente, per la pena capitale e per la verberatio, e la estese al ricorso
magistratuale alla tortura nelle indagini istruttorie, sancendo la violazione
con una relativa quaestio. Tuttavia,
non si deve ritenere che in epoca repubblicana le torture fossero inflitte
incondizionatamente dal magistrato; dalle fonti infatti appare come si facesse
ricorso alla coercizione corporale in caso di gravi crimina che ponevano in pericolo la salus populi Romani: si trattava di fattispecie di reato rientranti
prima nell’ambito della perduellio,
e successivamente nel crimen maiestatis.
Il superamento delle garanzie personali costituzionalmente riconosciute per la
tutela della sicurezza della res publica
era un’idea radicata nella tradizione repubblicana, che venne teorizzata
dall’aristocrazia durante i conflitti politici dell’età
ciceroniana «per legittimare la richiesta dell’intervento armato
dei consoli». Probabilmente, se si accetta quanto tramanda Ammiano
Marcellino (rer. gest. 19.12.17),
questo principio consuetudinario di assoggettare a tortura giudiziaria nei casi
di crimen maiestatis, ebbe un
riconoscimento legislativo già nella repubblica, con Silla. Questa norma
viene identificata dalla Russo Ruggeri con la lex Cornelia de maiestate, che avrebbe permesso la tortura nei casi
di incesto e di lesa maestà. Nel capitolo successivo, La tortura giudiziaria degli uomini liberi
nel I secolo dell’impero: una prassi ‘contra legem’?, si
sostiene che in materia l’impero confermò una consuetudine ed una
legislazione precedente, e quindi si deve rigettare l’interpretazione
tradizionale per cui la tortura giudiziaria dei liberi nel I secolo d.C.
consisteva in una prassi processuale contra
legem, recepita ufficialmente solo nel secolo successivo. Secondo
l’A. infatti in via preliminare si deve tener conto della circostanza che
al proposito vennero emanate due norme augustee: la lex Iulia maiestatis del
L’indagine di C.
Lovisi è rivolta
alla pena di morte e alla procedura relativa, dalla nascita della repubblica
fino al
Nella seconda parte dell’opera, Du châtiment à la peine, si mostra come nella prima
età consolare esistessero due differenti tipi di repressione criminale
che erano il riflesso dell’antitesi politica tra patriziato e plebe. La
parte patrizia si avvaleva dello strumento della coercizione capitale, mentre
quella plebea creò un tribunale popolare per perduellio che traeva il suo fondamento
dall’inviolabilità dei tribuni della plebe. La coercitio magistratuale, potere
discrezionale incluso nell’imperium, viene analizzato nel capitolo La coercition capitale et ses limites:
intercession tribunicienne et ‘provocatio ad populum’. Durante
l’età repubblicana, la coercizione capitale si attuava attraverso
l’antico metodo della decapitazione per mezzo dell’ascia, strumento
che simboleggiava la sovranità del magistrato superiore. Nei primi
secoli della repubblica il ricorso alla coercitio
capitale militiae viene attestato
chiaramente dalle fonti, mentre per quanto riguarda la coercizione domi non si rinviene la stessa nitidezza
delle testimonianze. Infatti, alcune di esse sostengono l’istituzione
della provocatio ad populum fin dal