Luigi
Garofalo
Università
di Padova
Studi sulla Sacertà
Padova,
CEDAM, 2005, pp. VIII-178
Indice
Sommario
Prefazione, 1
I. – Sulla
condizione dell’homo sacer in
età arcaica, 11.
II. – Iuris interpretes e inviolabilità dei magistrati,
51.
III. – Homo sacer e arcana imperii, 75.
Indice degli autori, 167.
Indice delle fonti, 175.
Prefazione
Della sacertà mi sono occupato in vari studi:
ma in modo più esteso e approfondito nei tre che qui si susseguono
nell’ordine in cui sono stati concepiti.
Ho maturato l’idea di raccoglierli in un
libro grazie a Tommaso dalla Massara. Colpito dalla sorprendente
attualità che la sacertà mostra, ha deciso di dedicarvi una parte
dell’insegnamento di Storia del diritto romano che, a iniziare
dall’ottobre del 2005, tiene a beneficio degli studenti della sede
trevigiana della Facoltà giuridica dell’Università di
Padova. E conoscendo la passione che da sempre nutro per questo tema
dall’indubbio fascino, mi ha sollecitato a mettere a punto un testo
fruibile a scopo didattico.
Dei tre scritti, il primo, Sulla condizione di
homo sacer’ in età arcaica, trae origine da una relazione che, per
iniziativa del professor Francesco Sini, ho esposto il 22 maggio
Il secondo, Iuris interpretes’ e
inviolabilità magistratuale, riprende e sviluppa alcune idee che ho
enunciato in una lezione tenuta, su invito dei professori Luigi Labruna e
Franco Salerno, il 26 marzo 1998 all’interno dei corsi di Storia del
diritto romano e Storia della costituzione romana da loro impartiti nella
Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Napoli
«Federico II» e poi riferito, con maggior ampiezza, il 16 novembre
L’ultimo, Homo sacer’ e arcana
imperii’, l’unico a essere inedito, dà forma compiuta a
quanto ho avuto modo di sostenere in una comunicazione presentata, per volere
del professor Pierangelo Catalano, il 22 aprile
Leggendo questi saggi apparirà
nitidamente che la sacertà, lungi dall’interessare soltanto gli
studiosi della fenomenologia giuridica nel contesto della risalente
società romana, attrae l’attenzione degli specialisti di non poche
altre branche del sapere scientifico, che vi scorgono una sorta di prisma in
grado di ridare luce ad aspetti di un’antichità, anche molto
remota, che toccano, oltre al diritto, la religione, la politica,
l’economia e l’antropologia[1]. Ma soprattutto
emergerà con evidenza che essa riveste ora una posizione di particolare
importanza nell’ambito del dibattito filosofico internazionale.
Essenziale è allora chiarire da subito come abbia potuto conquistarla.
Inizialmente va ricordato che da qualche tempo
tanti pensatori, attingendo ai lasciti di Michel Foucault[2] e Hannah Arendt e mettendoli variamente a
frutto[3], scrutano e spiegano
l’esperienza presente e passata sulla base dei paradigmi concettuali
della biopolitica: uno strumento a valenza euristica dalla denominazione
ambigua, se non proprio fuorviante, che consente loro di svelare i meccanismi
di controllo e dominio della nuda vita[4], ossia della vita
nella sua forma elementare e primaria[5], affermatisi nel
corso della storia, dopo il declino della classicità greca, e
principalmente negli ultimi secoli[6] (ciò che
giustifica il rilievo critico sul vocabolo con cui lo si designa, dal momento
che, a restare al lessico familiare ad Aristotele, esso rimanda al bíos,
e dunque alla vita qualificata che abita il politico, e non, come sarebbe
naturale attendersi, alla zoé, cioè alla vita nella sua
dimensione biologica, esclusa dal politico[7]).
Di frequente, occorre aggiungere a maggior
specificazione, questi pensatori concentrano il loro sguardo
sull’eterogenea realtà tradizionalmente aggregata intorno a
categorie che alla più parte dei cultori del diritto sembrano ancora
dotate di una forza ricostruttiva insuperabile, tra le quali – a voler
esemplificare – quelle di sovranità, legge e democrazia[8], e, avvalendosi appunto degli schemi
conoscitivi della biopolitica, ne portano alla luce una costante che tali
categorie lasciano invece nell’ombra: vale a dire l’indissolubile
legame tra il potere moderno e la vita intesa nel suo significato corporeo
ovvero, per ripetere parole di Laura Bazzicalupo e Roberto Esposito[9], «il nesso costitutivo del potere
moderno con la morte e la sopravvivenza».
Un modello di questa tipologia di indagini
è offerto da quell’ampia ricerca che per anni è andato
svolgendo Giorgio Agamben, uno dei filosofi italiani di maggior prestigio,
della quale parlo diffusamente nel terzo contributo. E ne parlo perché
è proprio al suo interno che si rinviene una nuova analisi della
sacertà, grazie alla quale l’autore giunge ad affermare che in
essa andrebbe individuata «la forma originaria dell’implicazione
della nuda vita nell’ordine giuridico-politico» e non certo,
secondo quanto credono molti, una manifestazione di quella primitiva
ambivalenza della nozione di sacro che in realtà costituirebbe il frutto
della duplicazione della polarità di valori insita nella struttura
etnografica di tabù.
Ebbene, da quando Agamben ha affacciato questa
tesi, offrendo così una soluzione alla questione dell’origine del
dogma che vuole sacra la vita, intesa come bloßes Leben’ –
messa a fuoco da Walter Benjamin in un famoso saggio dato alle stampe nel 1921[10], nel quale avanza anche l’idea che in
quel dogma, come scrive Jacques Derrida[11], risieda «la
risposta relativamente moderna e nostalgica dell’Occidente alla perdita
del sacro» –, la sacertà si è stabilmente insediata
nell’universo della meditazione teorica, occupandovi anzi, come ho in
precedenza osservato, un posto di primo piano. Intellettuali di ogni dove
continuano invero a disquisirne, pur non uscendo quasi mai dall’orizzonte
segnato dalla reinvestigazione compiuta da Agamben – che dei limiti
sicuramente soffre, ben percepibili ove si confrontino le fonti antiche e le
trattazioni scientifiche più o meno recenti sull’argomento che
risultano scrutinate dall’autore e quelle che gli erano a disposizione[12] – e comunque al prevalente fine di
accogliere o respingere la sua interpretazione in chiave biopolitica
dell’homo sacer.
Zygmunt Bauman, per esempio, in due libri da poco
tradotti nella nostra lingua cui accenno anche nell’ultimo scritto,
indugia sulla sacertà, riprendendo e sintetizzando la riflessione che al
suo riguardo ha articolato Agamben. Al pari di questi, infatti, egli distingue
nell’homo sacer una figura dell’antico diritto romano, della quale
la storia registra «moderne incarnazioni»[13], «posta al di fuori della giurisdizione
umana senza trapassare in quella divina», in cui si nasconde
l’intima correlazione tra potere sovrano e nuda vita[14]. E come Agamben si mostra convinto che la
vita dell’homo sacer non abbia rilievo alcuno sotto il duplice profilo
umano e divino, tanto da poter scrivere, in scia a lui: «uccidere un homo
sacer non è un reato punibile, ma la vita di un homo sacer non si può
usare neanche in un sacrificio religioso. Privata di quel senso umano e divino
che solo la legge può conferire, la vita dell’homo sacer non ha
valore. Uccidere un homo sacer non è reato né sacrilegio, ma per
lo stesso motivo non può costituire un’offerta sacrificale.
Traducendo tutto ciò in termini laici contemporanei, potremmo dire che,
nella sua versione attuale, l’homo sacer non è né definito
da un insieme di leggi positive, né è portatore di diritti umani
che precedono le norme di legge»[15]. Ma anche Eligio
Resta, per addurre un esempio ulteriore, là dove – in una
monografia relativamente recente[16] – parla del
criminale che «è sulla linea di una demarcazione tra un dentro e
un fuori, tra un’inclusione e un’esclusione» e degli
«ossimori» che «rendono giustizia di questo stato di
esclusione degli inclusi che ogni criminalità viene a
rappresentare», evoca l’homo sacer così come visto da
Agamben: «il criminale era il sacer delle XII tavole», egli dice,
«e la sua sacertà era il simbolo di ogni sospensione» del
diritto, esattamente come sostiene Agamben; «se smette di essere
l’empio’», prosegue Resta, «di quel meccanismo
dell’empietà continua a prendere parte»[17].
La traiettoria speculativa inaugurata da
Agamben non è comunque rimasta priva di eco nel campo, che già si
è visto composito, al quale da sempre appartiene l’esplorazione
della sacertà.
Ne recano limpida testimonianza, come pure
affiorerà dal mio saggio conclusivo, due ponderose opere, l’una
– che già ho richiamato nella nota di apertura – di Roberto
Fiori e l’altra di Andrea Carandini, e una lettura critica che Rainer
Maria Kiesow ha dedicato proprio al volume di Agamben per noi più
significativo, Homo sacer’. Potere sovrano e nuda vita, apparso a Torino
nel 1995. Nella prima, invero, il romanista si sofferma brevemente sulla rielaborazione
concettuale della sacertà prospettata da Agamben, definendola
«suggestiva» e prendendone tuttavia le distanze, persuaso che
«alla base dell’utilizzazione della figura dell’homo sacer
come paradigma della soggezione dell’individuo al potere sia in
realtà un’incomprensione», in quanto «il potere
sovrano, in diritto romano arcaico, punisce mediante il sacrificium, che
coincide con la pena di morte ..., e dunque il sacer esto – ossia la
possibilità di uccisione che non sia immolatio – è con esso
ontologicamente inconciliabile»[18]. Nella seconda,
invece, l’archeologo plaude al filosofo, che «ha colto il nesso fra
homo sacer e l’origine della sovranità»[19]. Mentre nel terzo lavoro lo storico e teorico
del diritto manifesta uno scetticismo assoluto nei confronti dello sforzo
ermeneutico di Agamben. «Niemand weiß – genau, oder
auch nur ungefähr –, was sacer im frühen Rom bedeutet
hat», egli osserva, in quanto «von realen’ homines sacri
– jenseits bruchstückhafter normativer Bestimmungen –
weiß mann nichts». Donde un inevitabile corollario, che vanifica
l’impegno di Agamben: «der homo
sacer bleibt ein historisches Änigma – ein Mythos»; e
ancora: «der homo sacer ist ein
Mythos, das bloße Leben als von der Sazertät abgeleiteter Begriff eine
reine, und insofern genau zu Benjamins messianischem Gewalttext passende,
Mystifikation». Esprimendo un giudizio che non collima con quello che ho
sopra formulato, l’autore riconosce peraltro ad Agamben un merito:
«zwar diskutiert er die rechtshistorische Forschung zum homo sacer
durchaus ausführlich»; ma immediatamente soggiunge:
«allerdings ohne dass die gedankliche Funktion dieser Erörterung
deutlich würde»[20].
La disamina condotta da Kiesow, d’altro
canto, risulta già valorizzata all’interno del circuito della
scienza giuridica europea. Ad attingervi, in particolare, è Tomasz
Giaro, nell’ambito di una lunga ricerca protesa a stigmatizzare, talora
con eccesso di caparbietà e ironia, l’odierna tendenza, diffusa
soprattutto tra gli studiosi dediti al diritto romano, a vedere in questo un
insieme di istituti dall’inesauribile energia, capaci di attraversare il
tempo veicolati da legislazioni, dottrine e giurisprudenze succedutesi nei
secoli o di ricomparire ciclicamente nel corso della storia: come appunto nel
caso della sacertà, che nello scenario ricreato da Agamben torna
ripetutamente, dislocandosi in luoghi diversi, tra i quali i famigerati campi
di concentramento dell’esperienza nazista[21].
Siamo dunque di fronte, com’è
facile constatare, a posizioni discordanti, che di per sé giustificano
l’incessante proseguire di indagini sulla sacertà che – in
conformità al monito di Salvatore Settis a contrastare
«l’eccessiva segmentazione» interna alle discipline relative
al mondo classico[22] – intersechino
le molteplici prospettive donde, mai come adesso, la si guarda[23].
Studiandone adeguatamente i delicati
meccanismi e la cornice storica entro cui s’inquadra, d’altro
canto, meglio si può comprendere l’incidenza del sacro
sull’evoluzione della società e dell’individuo: di quel
sacro che a taluno[24] sembra affievolirsi
sempre più[25], progressivamente
obnubilato dall’inarrestabile espandersi della tecnica[26], che, ben diversamente dal primo, non
esibisce nessun fine e nessun limite[27], pronta
com’è a superare all’infinito i propri risultati
all’unico scopo di potenziare se stessa[28].
Concludo con una notazione che attiene al
piano personale. È questo il primo libro che dedico a Giambattista
Impallomeni, di cui ho avuto la fortuna di essere allievo. La ragione è che,
in vita, mi aveva intimato, e in modo davvero invincibile, di onorare, prima di
lui, coloro che ho ricordato nei miei precedenti volumi: segno, tra i tanti,
del suo aristocratico magistero.
[1] Che attraverso la sacertà si
acceda a una pluralità di ambiti circostanti al diritto risulta
ottimamente da R. Fiori, Homo
sacer’. Dinamica politico-costituzionale di una sanzione
giuridico-religiosa, Napoli, 1996, specialmente 7 ss. e 507 ss.: una monografia
dal vasto impianto che rimane di grande utilità, nonostante la critica
demolitoria che vi ha riservato F.
Zuccotti, In tema di sacertà, in Labeo, XLIV, 1998, 417 ss.
[2] E in particolare alla sua analisi del
potere, impostata in termini di «esplicazione del nesso
corpo-dominio», come rileva S.
Natoli, La verità in gioco. Scritti su Foucault, Milano, 2005,
68.
[3] Cfr. S.
Forti, Introduzione, in La filosofia di fronte all’estremo.
Totalitarismo e riflessione filosofica, a cura di S. Forti, Torino, 2004, XXI
s., nonché gli autori qui richiamati alla nt. 14.
[4] Cfr. P.
Barcellona, Il suicidio dell’Europa. Dalla coscienza infelice
all’edonismo cognitivo, Bari, 2005, 49 ss. e 152 ss.; v. altresì G. Bonacchi, Corpo e storia, in
Dialoghi di bioetica, a cura di G. Bonacchi, Roma, 2003, 38, che vede nel corpo
il «luogo cruciale dell’alleanza fra saperi e poteri e del
conflitto fra soggettività e disciplinamento che sta al cuore
dell’impresa epistemologica occidentale».
[5] Cfr. S.
Forti, Introduzione, cit., XXII.
[6] «L’opera di Foucault»,
si legge in M. Hardt - A. Negri,
Impero, trad. it., Milano, 2003, 39, «ci permette ... di riconoscere la
natura biopolitica del nuovo paradigma di potere. Il biopotere è una
forma di potere che regola il sociale dall’interno, inseguendolo,
interpretandolo, assorbendolo e riarticolandolo. Il potere può imporre
un comando effettivo sull’intera vita della popolazione solo nel momento
in cui diviene una funzione vitale e integrale che ogni individuo comprende in
sé e riattiva volontariamente. Come scrive Foucault: oggi la vita
è divenuta ... un oggetto di potere’. La funzione più
determinante di questo tipo di potere è quella di investire ogni aspetto
della vita e il suo compito primario è quello di amministrarla. Il
biopotere agisce dunque in un contesto in cui ciò che è in gioco
per il potere è la produzione e la riproduzione della vita
stessa».
[7] Cfr. R.
Esposito, Bíos. Biopolitica e filosofia, Torino, 2004, 4; v.
altresì L. Bazzicalupo,
Ambivalenze della politica, in Politica della vita. Sovranità,
biopotere, diritti, a cura di L. Bazzicalupo - R. Esposito, Roma - Bari, 2003,
137, il cui pur rapido cenno in materia è illuminante: anticamente si
discriminava «tra zoé, nuda vita, in comune con gli animali,
l’orizzonte della necessità che lega l’uomo ai bisogni della
sopravvivenza, ciò che Aristotele chiamava la vita nutritiva’,
cioè potere di autoconservazione e istanza di resistenza alla morte, e
bíos, la vita che ha forma, la forma di vita, che è
specificamente umana e nella quale ha luogo il politico. La zoé, la vita
biologica, era esclusa dal politico: la produzione e consumo dei mezzi di
sostentamento e la riproduzione della specie – dunque il lavoro e la
famiglia – sono soggetti alla necessità, danno luogo a rapporti di
dipendenza, diseguaglianza, illibertà. È esattamente questa vita
biologica, i cui bisogni sono quelli comuni alla specie, la sequenza lavoro,
produzione, famiglia – stretta nel morso della non scelta, del dobbiamo
sopravvivere’ in situazione di scarsità – che si porta al
centro del nuovo spazio moderno».
[8] Alla più parte dei cultori del
diritto, ho detto: perché non mancano tra essi coloro che avvertono la
debolezza delle indicate categorie. Emblematico, al riguardo, è quanto
scrive L. Ferrajoli, La
sovranità nel mondo moderno. Nascita e crisi dello Stato nazionale, Roma
- Bari, 2004, 43: «almeno sul piano della teoria del diritto, la
sovranità si è ... rivelata uno pseudo-concetto o, peggio, una
categoria anti-giuridica. La sua crisi, possiamo ora affermare, inizia per
l’appunto, nella sua dimensione interna come in quella esterna, nel
momento stesso in cui essa entra in rapporto con il diritto, dato che del
diritto essa è la negazione, così come il diritto è la sua
negazione. Giacché la sovranità è assenza di limiti e di
regole, cioè il contrario di ciò in cui il diritto consiste. Per
questo la storia giuridica della sovranità è la storia di
un’antinomia tra due termini – diritto e sovranità –
logicamente incompatibili e storicamente in lotta tra loro».
[9] Scritte nella Premessa di
Politica, cit., V.
[10] Alludo a Zur Kritik der Gewalt: nella
traduzione italiana esso è intitolato Per la critica della violenza ed
è ricompreso in W. Benjamin,
Angelus novus’. Saggi e frammenti, a cura di R. Solmi, rist., Torino,
2004, 5 ss. Il punto che qui rileva si trova a p. 28, dove l’autore
afferma: «falsa e miserabile è la tesi che l’esistenza
sarebbe superiore all’esistenza giusta, se esistenza non vuol dire altro
che la nuda vita ... . Ma essa contiene una grande verità se
l’esistenza (o meglio la vita) ... designa il contesto inamovibile
dell’uomo’. Se la proposizione significa cioè che il
non-essere dell’uomo è qualcosa di più terribile del
(peraltro: solo) non-esserci-ancora dell’uomo giusto. A questa
ambiguità la frase suddetta deve la sua apparenza di verità.
L’uomo non coincide infatti in nessun modo con la nuda vita
dell’uomo; né con la nuda vita in lui né con alcun altro
dei suoi stati o proprietà, anzi nemmeno con l’unicità
della sua persona fisica. Tanto sacro è l’uomo (o quella vita in
lui che rimane identica nella vita terrestre, nella morte e nella
sopravvivenza), tanto poco lo sono i suoi stati, tanto poco lo è la sua
vita fisica, vulnerabile dagli altri. Che mai infatti la distingue
essenzialmente da quella degli animali e delle piante? ... Varrebbe la pena di
indagare l’origine del dogma della sacertà della vita».
[11] In un lavoro che, sotto il titolo Nome
di Benjamin, si può leggere in italiano in J. Derrida, Forza di legge. Il fondamento mistico
dell’autorità’, a cura di F. Garritano, Torino, 2003, 86 ss.
(la citazione proviene da p. 130).
[12] Vero è, peraltro, che il filosofo
è ben più propenso del giurista alla selezione dei materiali da
discutere, memore di autorevoli insegnamenti che affondano le loro radici nel
mondo classico, come si desume da U.
Curi, Pólemos’. Filosofia come guerra, Torino, 2000, 14 s.
e 32 ss.
[13] Cfr. Z.
Bauman, La società sotto assedio, trad. it., Roma - Bari, 2005,
253.
[14] Cfr. Z.
Bauman, Vite di scarto, trad. it., Roma - Bari, 2005, 41.
[15] Cfr. ancora Z. Bauman, Vite, cit., 41.
[16] E precisamente in Il diritto fraterno,
Roma - Bari, 2002, 99.
[17] Non è il caso di continuare
ancora negli esempi: ma almeno una fugace segnalazione merita la menzione
dell’homo sacer, quale soggetto «messo al bando della
società» e non più considerato come una
«persona» nonostante la sopravvivenza fisica, da parte di L. Bossi, Storia naturale
dell’anima, trad. it., Milano, 2005, 344, che sul punto si rifà ad
Agamben.
[18] Cfr. R.
Fiori, Homo sacer’, cit., 521 s., nt. 44 bis. Un minuscolo accenno
all’homo sacer che emerge dalle pagine scritte da Agamben si rinviene
anche in un volume di un altro romanista: «Per Iovem lapidem». Alle
origini del giuramento. Sulla presenza del sacro’ nell’esperienza
giuridica romana, Milano, 2000, di cui è autore A. Calore. Qui, a p. 75, lo studioso, dopo aver richiamato
l’homo sacer, afferma infatti che il medesimo «veniva a trovarsi
... – come teorizza Agamben – in una zona originaria di
indistinzione in cui sacer significava una vita uccidibile e insacrificabile’».
[19] Cfr. A.
Carandini, La nascita di Roma. Dei, Lari, eroi e uomini all’alba
di una civiltà, Torino, 1997, 190, nt. 32.
[20] Cfr. R.M.
Kiesow, Ius sacrum’. Giorgio Agamben und das nakte Recht, in
Rechtsgeschichte, I, 2002, 63 s.
[21] Cfr. T.
Giaro, Diritto romano attuale. Mappe mentali e strumenti concettuali, in
P.G. Monateri - T. Giaro - A. Somma,
Le radici comuni del diritto europeo. Un cambiamento di prospettiva, Roma,
2005, 146 e 167, nt. 272.
[22] Cfr. S.
Settis, Futuro del classico’, Torino, 2004, 108, il quale opportunamente
specifica che il classico’ greco e romano va sondato «nella spola
fra identità e alterità, e cioè sia perché lo
sentiamo nostro’, sia perché lo riconosciamo diverso’ da
noi; sia in quanto esso è intrinseco alla cultura occidentale e
indispensabile a intenderla, sia in quanto ci apre la porta a studiare e
comprendere le culture altre’; sia perché serbatoio di valori in
cui possiamo ancora riconoscerci; sia per quello che esso ha di
irrimediabilmente estraneo».
[23] Sulla fecondità del dialogo tra
giuristi e filosofi, idoneo a restituire l’intreccio tra «fondo
giuridico» e «fondo filosofico» di ciò che essi
studiano, insiste N. Irti,
Nichilismo giuridico, Roma - Bari, 2004, VII (un intreccio, aggiungo, che
risalta con evidenza se si legge il volume di J.
Habermas, L’Occidente diviso, trad. it., Roma - Bari, 2005, e in
particolare la sua parte quarta, intitolata Il progetto kantiano e
l’Occidente diviso). Mi piace peraltro citare qui un passo di W. Benjamin, Johann Jakob Bachofen, in
Il viaggiatore solitario e il flâneur. Saggio su Bachofen, a cura di E.
Villari, Genova, 1988, 46 ss., nel quale l’autore, dopo aver rievocato il
dibattito che opponeva Bachofen, allievo di Friedrich Carl von Savigny, al
grande Theodor Mommsen, ravvisandovi «una sorta di prologo a quello che,
qualche anno dopo, doveva far ergere la scienza positivista, nella persona di
Wilamovitz, contro Nietzsche autore dell’Origine della tragedia»,
cita a sua volta questo brano dello stesso Bachofen, ricordando la sua idea del
diritto «come una costruzione sulla terra», le cui fondamenta
sotterranee e di profondità inesplorate sono formate dagli usi e costumi
religiosi del mondo antico: «nessuno è calunniato come colui che
stabilisce i legami fra il diritto e le altre forme di vita e che allontana da
sé la tendenza a isolare, ponendo in caselle separate, ogni disciplina e
la storia di ogni popolo. Si ha la pretesa di approfondire le ricerche
limitandone il campo. Questo metodo non approda a null’altro che a una
concezione superficiale e priva di ogni spiritualità, che ha generato
una passione per una attività tutta esteriore di cui la fotografia dei
manoscritti costituisce il culmine».
[24] Mi riferisco a U. Galimberti, Orme del sacro. Il cristianesimo e la
desacralizzazione del sacro, Milano, 2000, 29 ss.; ma anche J. Ratzinger, Europa. I suoi fondamenti
spirituali ieri, oggi, domani, in M.
Pera - J. Ratzinger, Senza radici. Europa, relativismo, cristianesimo,
islam, Milano, 2004, 72, mette l’accento sulla «profanità
assoluta che si è andata formando in Occidente».
[25] Pur in un contesto in cui le religioni
si atteggiano a «fattori di identificazione simbolica e di
appartenenza», e per ciò stesso anche a fattori di conflitto, come
puntualizza G. Marramao, Il mondo
e l’Occidente oggi. Il problema di una sfera pubblica globale, in Parole
chiave, XXXI, 2004, 33.
[26] Anch’essa ormai stabilmente in
contatto diretto con la nuda vita di Benjamin, come sottolinea E. Resta, L’infanzia ferita, Roma
- Bari, 1998, 108 s.; e anch’essa in rapporto immediato con il diritto,
come emerge da N. Irti,
Nichilismo, cit., 30 ss., che da anni va colloquiando con Emanuele Severino
sull’argomento.
[27] Cfr. E.
Resta, Le stelle e le masserizie. Paradigmi dell’osservatore, Roma
- Bari, 1997, 22.
[28] È U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo
nell’età della tecnica, Milano, 2005,