Università di Sassari
Plebe,
pontefice massimo, tribuni della plebe: a proposito di Liv. 3.54.5-14*
Sommario: 1. Premessa: Liv. 3.54.5-14 e la restaurazione
del tribunato della plebe. – 2. La possibile impasse per il rinnovo del tribunato della plebe. –
3. I motivi della scelta del pontefice: a) la tutela pontificale dei sacra e l’integrazione della plebs. – b) una possibile capacità di sostituzione del pontefice
massimo? – 4. Il silentium. – 5. Conclusioni.
Dopo aver
esposto la concitata caduta del decemvirato legislativo[1],
responsabile di due gravi crimini commessi belli
domique[2],
Tito Livio[3]
procede a descrivere la restaurazione degli organi della res publica. Infatti, erano state sospese le magistrature, come
testimonia lo stesso Livio ricordando la trasmissione dell’imperium consolare ai decemviri[4];
mentre Cicerone serba memoria dell’abdicazione sia dei consoli, sia dei tribuni
della plebe[5],
ma anche Pomponio, nel lungo frammento del suo Enchiridion conservato nel Digesto di Giustiniano, fa riferimento
alla sospensione di tutte le magistrature[6].
Per Tito
Livio la fine della magistratura decemvirale fu sancita da un senatoconsulto:
Liv. 3.54.5-14: [5] Factum senatus consultum, ut decemviri se primo
quoque tempore magistratu abdicarent, Q. Furius pontifex maximus tribunos
plebis crearet, et ne cui fraudi esset secessio militum plebisque. [6] His
senatus consultis perfectis dimisso senatu decemviri prodeunt in contionem
abdicantque se magistratu ingenti hominum laetitia. [7] Nuntiantur haec plebi.
Legatos quidquid in urbe hominum supererat prosequitur. Huic multitudini laeta
alia turba ex castris occurrit. Congratulantur libertatem concordiamque
civitati restitutam. [8] Legati pro contione: ‘Quod bonum, faustum felixque sit
vobis reique publicae, redite in patriam ad penates, coniuges liberosque vestros;
sed, qua hic modestia fuistis, ubi nullius ager in tot rerum usu necessario
tantae multitudini est violatus, eam modestiam ferte in urbem! In Aventinum
ite, unde profecti estis! [9] Ibi felici loco, ubi prima initia inchoastis
libertatis vestrae, tribunos plebi creabitis. Praesto erit pontifex maximus,
qui comitia habeat’. [10] Ingens adsensus alacritasque cuncta adprobantium
fuit. Convellunt inde signa profectique Romam certant cum obviis gaudio. Armati
per urbem silentio in Aventinum perveniunt. [11] Ibi extemplo pontifice maximo
comitia habente tribunos plebis creaverunt, omnium primum L. Verginium, inde L.
Icilium et P. Numitorium, avunculum Vergini, [12] auctores secessionis, tum C.
Sicinium, progeniem eius, quem primum tribunum plebis creatum in Sacro monte
proditum memoriae est, et M. Duillium, qui tribunatum insignem ante decemviros
creatos gesserat nec in decemviralibus certaminibus plebi defuerat. [13] Spe
deinde magis quam meritis electi M. Titinius, M. Pomponius, C. Apronius, Ap.
Villius, C. Oppius. [14] Tribunatu inito L.
Icilius extemplo plebem rogavit, et plebs scivit, ne cui fraudi esset secessio
ab decemviris facta.
Il
provvedimento del Senato imponeva le dimissioni dei decemviri, disponeva che il
pontefice massimo Quinto Furio creasse i tribuni della plebe[7]
e sanciva che non vi fosse alcuna persecuzione per le secessioni dell’esercito
e della plebe[8]
avvenute durante la sollevazione[9]
provocata dall’indignazione per le vicende che portarono alla morte di Virginia[10].
Il
senatoconsulto in questione appare frutto di un accordo tra i due ordini, come
emerge nel precedente capitolo
La
deliberazione del Senato venne presa dopo che Valerio e Orazio riferirono le
richieste della plebe, e, narra Livio, non si ebbero obiezioni da parte dei
decemviri, Appio Claudio escluso[15].
In tal modo, ricorda Livio: concordiamque
civitati restitutam[16].
L’annalista
tratteggia, quindi, l’elezione dei tribuni della plebe sulla base
dell’indicazione del consesso dei patres. I legati senatori, i quali
dovevano comunicare alla plebs il
provvedimento del Senato, si avviarono verso l’accampamento plebeo posto sul
monte Sacro, seguiti dalla plebe che era rimasta nell’Urbs. La folla venne raggiunta da un’altra turba laeta mossa dall’accampamento. Di fronte
a tale contio i legati invitarono i
plebei a recarsi sull’Aventino per la restaurazione dei tribuni. Quindi la
plebe, levate le insegne dal Sacer mons,
attraversata l’urbe, si diresse
sull’Aventino[17],
dove si trovava il pontefice massimo, il quale, presiedendo, i concilia, fu preposto alla creatio dei tribuni: un potere di grande
responsabilità politica, che sorprendentemente coinvolgeva il pontifex
maximus nelle vicende della seconda secessione della plebe.
La notizia liviana, che solleva alcune questioni, non è
l’unica testimonianza intorno all’episodio: riporta infatti l’accaduto anche
una fonte di derivazione ciceroniana, che si discosta solo in alcuni punti da
Livio.
Ascon., in Cornel., 68 s. Kiessling et Schoell: Reliqua
pars huius loci, quae | pertinet ad secundam constitutionem tribunorum et
decemvirorum finitum imperium, et breviter et aperte ab ipso dicitur. Nomina
sola non adicit, quis ille ex decemviris fuerit qui contra libertatem vindicias
dederit, et quis ille pater contra cuius filiam id decrevit; scilicet quod
notissimum est decemvirum illum Appium Claudium fuisse, patrem autem virginis
L. Verginium. Unum hoc tantummodo explicandum, quo loco primum de secunda
secessione plebis, dehinc concordia facta, sic dicit: Tum interposita fide per
tres legatos amplissimos viros Romam armati revertuntur. In Aventino
consederunt; inde armati in Capitolium venerunt; decem tr. pl. <per>
pontificem, quod magistratus nullus erat, creaverunt. Legati tres quorum nomina
non ponit hi fuerunt: Sp. Tarpeius, C.
Iulius, P. Sulpicius, omnes consulares; pontifex max. fuit M. Papirius.
Evidente la difforme indicazione circa l’identità del
pontefice massimo. Livio, infatti, indica Quinto Furio, mentre Asconio fa
riferimento a M. Papirio[18].
Alcuni autori moderni considerano maggiormente verosimile il nome di Papirio,
poiché Quinto non è un prenome usuale presso i Furii[19].
Effettivamente da una disamina dell’opera liviana e di altre fonti letterarie,
appare come l’uso da parte di questa gens
del prenome Quinto sia registrato solo da Liv. 3.54.5[20],
sebbene sia evidente che questo non sia un dato risolutivo.
Nessun riferimento alle elezioni dei tribuni della plebe
invece in Pomponio, il quale al contrario si sofferma sul caso di Virginia;
tuttavia nell’Enchiridion si colgono,
per quanto flebili, gli echi di uno spostamento della plebe urbana
sull’Aventino, dove le legioni precedentemente stanziate sull’Algido[21],
abbandonando i propri duces, si erano
trasferite con i signa.
Per quanto
attiene alla necessità di un simile procedimento, bisogna sottolineare come la creatio dei consoli, ricordata da Livio
nel capitolo successivo[22],
avvenne attraverso un interrex, e per
tale nomina non si fa riferimento ad alcuna disposizione in merito nel
senatoconsulto. Infatti, soprattutto durante il periodo in cui la costituzione
repubblicana non si era ancora consolidata, e quando la repubblica si fece
teatro di dure lotte, per la decisione in merito alle magistrature si ricorreva
all’antico istituto dell’interregnum,
che permetteva ai membri patrizi del senatus
la creatio dei magistrati supremi[23],
in quanto auspicia ad patres redeunt[24].
Quindi automaticamente, in assenza di magistrati muniti d’imperio, senza
necessità di alcun senatoconsulto, si convocavano i patres per la nomina dell’interrex[25].
Il ricorso
ad un istituto presente nella prassi costituzionale, l’interregnum, per
la creatio dei consoli dopo la caduta del decemvirato, posto a confronto
con il mezzo straordinario per eleggere i massimi magistrati plebei, può essere
indice della presenza di un’impasse
per l’elezione nei concilia plebis.
Infatti mancava un tribuno in carica, vista la sospensione delle magistrature
derivata dall’instaurazione del decemvirato, il quale potesse riunire e
presiedere l’assemblea della plebe, e non vi era alcun precedente
consuetudinario che potesse risolvere la questione. Del resto, «il
consolidamento del potere dei tribuni fu consuetudinario e – come sostiene il
De Martino – le competenze loro furono fissate mediante uno sviluppo delle
norme stabilite nella prima epoca»[26].
La prima
questione sollevata dal racconto liviano riguarda l’attendibilità della notizia
della presidenza da parte del pontefice massimo dei concilia plebis, sebbene Livio parli di comitia[27].
Infatti, diverse sono le fonti che sostengono come dalle assemblee della plebe
fossero esclusi gli esponenti del ceto patrizio, ed inoltre la presidenza di
questi veniva attribuita sempre ad un magistrato plebeo[28].
Quindi, l’indicazione di un’unica deroga dell’usuale procedura con un ricorso
al pontifex maximus può apparire
alquanto strana. Tra gli studiosi, infatti, vi è chi, come il De Martino, ne ha
negato l’autenticità, considerando il passo un’invenzione annalistica[29].
Al contrario, il Bouché-Leclercq sostiene che il senatoconsulto «prouve
qu’en l’absence de magistrats, l’initiative revenait tout naturellement au P. M.»[30]. Per
apprezzare meglio l’idea del grande studioso francese bisogna comprendere in
che cosa consistesse questa “naturalezza” nella scelta dei pontefici, nel
sistema costituzionale romano. Innanzitutto, se la notizia fosse un’invenzione,
ci si dovrebbe domandare perché l’annalistica abbia dovuto ricorrere ad uno
strumento così straordinario, in quanto, vista la sua forza oppositrice, la
plebe poteva semplicemente optare per un atto unilaterale autoritativo di
parte. Del resto, secondo la tradizione, i tribuni della plebe furono
costituzionalmente riconosciuti proprio in seguito alle sopranarrate vicende,
attraverso una delle leggi Valeriae
Horatiae, promulgate dai consoli creati dopo il decemvirato, che
riconosceva solennemente il potere tribunizio; quindi sarebbe giustificata una
scelta non “rivoluzionaria”, per un ordine sociale teso ad acquisire peso
politico nella civitas[31].
Questa
apertura al dialogo si scorge nella descrizione liviana delle trattative tra
plebei e legati senatori. Nel discorso di Icilio infatti doveva trasparire
chiaramente che la plebe riponeva le proprie speranze in aequitate rerum plus quam in armis[32].
La
veridicità della notizia di Livio, intorno alla scelta senatoria del pontefice
massimo[33]
per habere i concilia plebis, appare supportata da alcuni dati
della tradizione.
Innanzitutto,
questa scelta che attribuiva un incarico nell’ambito del diritto pubblico al
massimo esponente del collegio pontificale, era coerente e conforme con la
specificità del sistema giuridico-religioso romano[34]
che vedeva i sacerdoti come parte integrante dell’assetto costituzionale. La
concezione che i sacerdoti fossero parte attiva nella vita della costituzione
si riscontra nella sistematica di Ulpiano. In un frammento del primo libro
delle Istituzioni ulpianee, infatti, il giurista articola in una tripartizione,
ormai famosa, il diritto pubblico romano: Publicum
ius in sacris in sacerdotibus, in magistratibus consistit[35].
Oltre
a ciò probabilmente il pontefice massimo, definito da Festo come iudex atque arbiter … rerum divinarum
humanarumque[36], potrebbe essere stato considerato
per la sua posizione super partes[37].
Del resto, la decisione senatoria comunicata ai plebei attraverso dei legati,
con l’indicazione di radunarsi sull’Aventino[38]
per procedere alle elezione dei tribuni della plebe sotto la presidenza del
pontefice massimo, fu accolta con gioia dalla plebe, e Livio non registra alcun
dissenso in merito. Eppure dissensi sarebbero dovuti essere inevitabili visto
che i pontefici provenivano dal patriziato e bisognerà attendere il
Inoltre,
appariva un fatto del tutto normale che i pontefici ricoprissero nel contempo
magistrature curuli[41].
La possibilità di esercitare contemporaneamente al sacerdozio funzioni
magistratuali, e quindi di salvaguardare la civitas
“doppiamente”, come sacerdoti e come magistrati, era cosa abituale. Lo stesso
Livio, quando commenta l’elezione a pontefice massimo di P. Licinio Crasso,
sottolinea l’eccezionalità dei casi in cui furono creati come pontifices
coloro che non avessero ricoperto precedentemente magistrature curuli[42].
In secondo
luogo va sottolineato un altro possibile collegamento tra i tribuni della plebe
e il collegio pontificale: i magistrati plebei erano tutelati da un apparato
sanzionatorio di carattere religioso[43].
Le leges sacratae[44],
infatti, rappresentavano lo strumento che dava fondamento al potere dei tribuni
della plebe.
Diverse sono le posizioni dottrinarie che hanno cercato di
individuare il fondamento del potere tribunizio nel complesso, e non univoco,
racconto delle fonti[45].
Un’ampia analisi della dottrina si rinviene in G. Lobrano[46],
il quale in particolare si è soffermato sulla sacrosanctitas considerata come il fondamento del potere dei
magistrati plebei, mentre il fondamento del potere dei magistrati patrizi era
rappresentato dagli auspicia[47]. Pur nella diversità vi era la
stessa matrice, il “sistema giuridico-religioso”, non si trattava quindi di una
vera antitesi tra poteri, ma consisteva in «una contrapposizione tra
‘specializzazioni’ di un medesimo (del populus
Romanus) patrimonio religioso-giuridico: il sacer-sanctus e l’augurium-auspicium»[48].
Questa valenza basilare della sacrosanctitas è stata
evidenziata anche da F. Sini[49],
il quale analizza alcune fonti che mostrano la presenza di una riflessione
giurisprudenziale intorno al tribunato della plebe. In Liv. 3.55.6-12 si
ricordano i vari orientamenti dei giuristi intorno all’interpretazione della lex Valeria Horatia de tribunicia potestate;
proprio «dalla sententia degli iuris interpretes citati da Tito Livio
emerge, non solo che il problema della qualificazione giuridica della tribunicia potestas consisteva
essenzialmente nella questione della sacrosanctitas,
ma soprattutto che era proprio la sacrosanctitas,
fondata sul vetus ius iurandum plebis del
Questo
fondamento venne ribadito e riconosciuto dalla lex de tribunicia potestate del 449[51],
che probabilmente conservava il dettato originale del provvedimento plebeo[52],
per quanto Livio sostenga che all’epoca si era quasi perso il ricordo delle
leggi sacrate. Nella tradizione liviana si conferma inoltre un collegamento tra
la legge sacrata sull’inviolabilità tribunizia ed i sacra, in quanto rinnovando
l’inviolabilità tribunizia si rinnovarono anche alcune cerimonie sacre
interrotte da parecchio tempo[53].
L’inviolabilità
tribunizia, sulla base della lex de
tribunicia potestate, godeva quindi di una tutela giuridico-religiosa in
virtù della quale chi attentava alla persona dei tribuni sarebbe stato dichiarato
sacer a Giove, e i suoi beni
consacrati a Cerere[54],
Libero e Libera[55].
Intorno all’originalità del richiamo in questa legge sacrata delle
deità a cui la plebe era devota sono presenti in dottrina diverse posizioni. J.
Bayet sostiene che il dedicare la testa del colpevole a Juppiter rappresenti la
formula originale, alla quale sarebbe stata aggiunta la consacrazione dei beni
alla triade plebea, aggiunta frutto «d’une véritable convention entre les deux parties de la
population romaine, Jupiter étant le dieu des patriciens comme Cérès est la
divinité de la plèbe. Sans oublier cependant que c’est à Jupiter que la plèbe
avait voué, nous dit-on, le Mont Sacré, lorsqu’elle le quitta pour rentrer dans
Per S. Tondo, al contrario, la lex
de tribunicia potestate avrebbe spostato la consacrazione del trasgressore
da Cerere a Juppiter, in quanto la norma «volle porsi qual espressione d’una
politica unitaria, ch’era tesa a realizzare, rispetto al contesto delle
strutture civiche, un più deciso inserimento delle istituzioni plebee»[58].
Una parte della dottrina, del resto, ha affermato l’esclusività
della consacrazione a Cerere negli atti della plebe. In particolare G. Wissowa sostiene che la legge attribuita a Romolo in materia di
ripudio tramandata da Plut., Rom. 22.3
(in cui si fa riferimento alla consacrazione di parte del patrimonio del
colpevole a Demetra) sarebbe una tardiva innovazione che ricalcherebbe la legge
sacrata plebea[59].
B. Perrin ritiene che la menzione di Cerere nella repressione di un crimine,
intesa come divinità offesa, non fosse originale. Infatti, il richiamo
sanzionatorio a questa divinità, nella quale si identificava la plebe in modo
esclusivo, andò ad inserirsi nel quadro della lotta tra gli ordini. Le altre
ipotesi testimoniate dalle fonti, dove si prevede la consacrazione a Cerere
della persona o dei beni del colpevole, sarebbero il frutto di una
sovrapposizione di questa dea alle divinità patrizie[60].
Visto,
dunque, il nesso tra inviolabilità tribunizia e tutela giuridico-religiosa,
nessuno, meglio del pontefice massimo, al quale è riconosciuta dalle fonti una
generale competenza sui sacra[61],
poteva procedere alla creatio di un
magistrato che fondava i suoi poteri nella religione[62].
Del resto, la glossa festina Sacer mons[63]
ricorda che questo luogo fu sede della secessione plebea che
portò alla creazione dei tribuni della plebe tutelati da una lex tribunicia; a tale proposito Festo
spiega la situazione dell’homo sacer,
e l’immunità che sorge in capo di colui che l’uccide, immunità ribadita anche
nel precetto della lex tribunicia per
cui: si quis eum, qui eo plebei scito
sacer sit, occiderit, parricida ne sit[64].
Le due
materie, leggi sacratae e competenza
pontificale sui sacra[65],
appaiono dunque alquanto vicine.
Il
riferimento a Giove nelle leggi sacrate rimanda al supremo valore della fides[66];
ma si potrebbe rinvenire anche un’altra valenza concettuale. Si tratta di una
valenza politica: il richiamo a Juppiter deve essere inteso come l’affermazione
della volontà plebea di assumere un ruolo politico all’interno della civitas[67].
La massima divinità romana[68]
esprime la sua valenza politica nell’appellativo di Ottimo Massimo[69],
e vede il suo culto in Giove Capitolino, il cui tempio sul Campidoglio fu
dedicato proprio nel primo anno della repubblica[70]
dal console, e pontefice massimo, Orazio Pulvillo[71].
Giove dunque
era presente alla fondazione di Roma e aveva acconsentito alla nascita della civitas[72]
e alla sua crescita attraverso gli auspicia,
lo strumento politico-religioso del governo della res publica, in mano ai patrizi. Juppiter, quindi, era
l’espressione ed il riflesso del supremo potere del populus Romanus[73].
Giurare la sacertà a Giove di chi avesse violato la persona del tribuno
significava da parte plebea affermare la propria presenza all’interno della civitas e la volontà di integrarsi con
essa e con le sue istituzioni[74].
Del resto
Livio riferisce la notizia che nel 448 una delegazione di Latini e di Ernici
fece dono a Giove Ottimo Massimo di una corona d’oro, per felicitarsi della
trovata concordia tra patrizi e
plebei[75];
questo racconto sarebbe un’ulteriore dimostrazione che proprio Giove appariva,
nella visione degli antichi, il deus ex
machina nelle vicende della civitas, ed in tal caso nell’equilibrio
tra i due ordini. Secondo la visione antica, Giove era il dio che aveva
espresso la propria volontà di sostenere Roma e di partecipare alla sua vita[76],
ed anche, come appare da questo episodio, la divinità referente ai fini del
superamento dei contrasti tra i due ordini.
Per
avvalorare questa posizione si può ricordare come tale valenza politica appaia
anche nei tradizionali luoghi votati come sede d’agitazione plebea. Luoghi che durante tutto il corso della vita repubblicana, legati alla più
antica lotta tra gli ordini, furono rivalorizzati dalla propaganda[77].
Intorno alla sede della prima secessione non vi è concordanza nelle
fonti, che oscillano tra il colle Aventino e il monte Sacro; per quanto vi sia
anche un riferimento al territorio di Crustumerium[78] identificato da alcuni con il monte Sacro[79]. Questa discordanza nelle testimonianze è risalente, in quanto viene
riportata dallo stesso Livio, il quale prima cita la tradizione antica più
diffusa:
Liv. 2.32.2: Et primo agitatum dicitur de consulum caede, ut solverentur sacramento;
doctos deinde nullam scelere religionem exsolvi, Sicinio quodam auctore iniussu
consulum in Sacrum montem secessisse,
mentre nel
paragrafo seguente ricorda che ea
frequentior fama est quam, cuius Piso auctor est, in Aventinum secessionem
factam esse[80].
Chi ha sostenuto con vigore che
fosse proprio l’Aventino la meta della prima agitazione della plebe è stato A.
Guarino: «che i plebei
abbiano seceduto piuttosto sull’Aventino che non sul lontano monte Sacro si può
ritenere quasi al limite del sicuro. Non ultimo motivo dell’emersione del monte
Sacro nei racconti tradizionali deve essere stata la necessità di spiegare
l’oscura denominazione delle ‘leggi sacrate’»[81].
Tuttavia, la gran parte della dottrina indica il monte Sacro come luogo della
prima secessione[82].
Il monte
Sacro, in origine indicato come trans
Anienem, viene ricordato con il nome di Sacer
mons proprio in relazione alla sua consacrazione a Giove da parte della
plebe[83].
Anche l’Aventino[84]
appare accogliere sin da epoca numana un’ara dedicata a Juppiter Elicius[85],
in connessione con l’episodio del leggendario incontro tra il re Numa e Giove[86],
avvenuto appunto su questo colle[87].
Da questi
dati sembrerebbe che tra i plebei vi fosse l’idea di occupare lo spazio
all’interno della sfera di influenza propria di Juppiter e del sistema
politico-religioso degli auspici[88].
Appare quasi che con la loro secessione i plebei piuttosto che dividersi dalla
comunità cittadina, attraverso l’occupazione di luoghi sacri a Juppiter,
cercassero di stabilire un trait d’union
con il sistema del potere patrizio[89].
Il rapporto
tra Giove e la plebe romana trova compimento nella celebrazione di ludi plebei,
citati per la prima volta nel
Lo stesso
impiego della sacertà, il cui uso si registra dall’età monarchica[91],
mostra quanto la plebe fosse integrata nella realtà cittadina fin dalle
origini.
Nelle parole
che i legati senatori rivolsero alla plebe si possono trovare anche alcuni
spunti di riflessione: il discorso contiene la formula quod bonum, faustum felixque sit, che, con alcune lievi varianti,
appare anche in altre fonti[92]
e in diversi passi liviani in riferimento ad atti ufficiali[93],
che confermerebbe l’autenticità del racconto qui preso in esame, e la sua
possibile derivazione da archivi pontificali[94].
Si tratta di un’antica formula utilizzata dai maiores, come testimonia Cicerone[95], legata all’idea della forza intrinseca
delle parole, concezione tipica dei Romani[96].
In
particolare si deve ricordare un brano di Livio che riporta l’esortazione da
parte dell’interrex al popolo riunito
in contione a creare un degno successore di Romolo[97]:
un atto d’origine senatoria mirato alla creatio,
proprio come in Liv. 3.54.8-9, dove l’invito da parte dei legati senatori a
recarsi sull’Aventino per restaurare i tribuni, venne rivolto alla contio
plebea.
Dal discorso
dei legati appare quindi trasparire la volontà dello stesso Senato di
considerare la plebe come parte integrante ed interna alla civitas, richiamando i suoi componenti secondo l’usuale formula
utilizzata fin dalle origini per rivolgersi ai cives[98].
Significativamente la formula era stata usata in passato in occasione della
grave decisione di Tullo Ostilio di unificare Alba Longa con la civitas romana[99].
Il discorso
di Livio lascia intravedere un altro indizio sull’utilizzo di materiali degli
archivi sacerdotali da parte dello storico. Infatti, l’errata indicazione di comitia per l’elezione dei magistrati
plebei, in luogo dei concilia, che si rinviene nella parte discorsiva
del racconto (Liv. 3.54.11: Ibi extemplo
pontifice maximo comitia habente tribunos plebis creaverunt), non è
presente nel testo dell’atto senatorio riportato in Liv. 3.54.5 (pontifex maximus tribunos plebis crearet),
e in Liv. 3.54.9 (tribunos
plebi creabitis. Praesto erit
pontifex maximus, qui comitia habeat), dove al contrario si fa
riferimento alla creatio dei tribuni della plebe. L’assenza di
imperfezioni di tipo giuridico nella parte relativa al testo del senatoconsulto
fa propendere per un utilizzo liviano di materiali scrittori della tradizione
documentaria dei collegi sacerdotali.
La
spiegazione della scelta senatoria può trovarsi in una possibile capacità di sostituzione
del pontefice massimo. Si registrano infatti alcuni episodi in occasione dei
quali i pontifices presero il posto di altri organi in loro assenza.
In
materia di celebrazioni viene ricordato da Tacito il frequente ricorso alla
sostituzione pontificale nel compimento dei sacra
in vece del flamen Dialis, in ragione
di un impedimento per malattia o a causa dell’assunzione di un ufficio pubblico[100].
Tuttavia, questo riferimento si potrebbe spiegare con il potere dei pontefici
di controllo del regolare svolgimento dei riti[101],
e del rapporto gerarchico con flamini[102],
vestali[103],
e altri sacerdoti[104]
o sottoposti[105].
Questa cautela a ché i sacra fossero
svolti, e si celebrassero correttamente, era tesa ad impedire che si incrinasse
il pacifico rapporto con le divinità[106].
Gli dèi, stando a leggere il De legibus[107],
partecipavano alla medesima societas
e alla medesima norma di una civitas
communis deorum atque hominum, erano gli artefici dell’incremento
demografico e della prosperità della civitas[108].
Se quindi
nel campo dei sacra il sostituirsi
pontificale si può spiegare con la funzione di controllo del regolare
svolgimento delle cerimonie religiose, appare difficile interpretare con la
stessa ratio altre testimonianze.
In questo
senso risulta interessante il caso risalente al
Per quanto
attiene alla facoltà del pontefice massimo di sostituirsi ad alcuni organi
costituzionali in caso di loro assenza, conviene riflettere brevemente intorno
alla presidenza dei comitia calata.
Riguardo l’essenza di questi
comizi, si rinviene in dottrina una certa disparità di vedute, e del resto,
come constata L. Capogrossi
Colognesi, «ci troviamo su un terreno assai incerto»[115].
Una parte della letteratura sostiene che i comitia calata siano stati
dei veri comizi, rappresentando una realtà autonoma rispetto alle altre
assemblee popolari[116].
Al contrario, un’altra posizione dottrinaria considera la natura di questi comitia
come una forma speciale di comizi curiati[117]; inoltre vi sono studiosi che
sostengono l’identità tra i comizi curiati e i comitia calata[118].
Si ricorda, inoltre, la
particolare visione di U. Coli[119], per il quale i comitia calata erano
dei regolari comizi convocati, non deliberanti, che si svolgevano durante la
prima fase in cui il popolo veniva adunato e quindi «rimaneva confusus in
contione»[120].
Per quanto attiene al problema dell’organizzazione
del popolo all’interno dei comitia calata, oltre a coloro che rimandano
ad una riunione per curie, come il de Francisci[121], vi sono alcuni autori che
sostengono una distribuzione del popolo alternativamente, in curie ed in
centurie[122],
come Th. Mommsen, il quale inoltre ritiene che i cittadini in tali assemblee si
riunivano in centurie per l’inaugurazione del flamen Martialis[123].
La teoria di una autonomia dei comitia calata richiede, a
mio avviso, ulteriori indagini per spiegare il perché della esistenza di questi
comizi.
Sulla base delle nostre conoscenze, in età storica queste assemblee
erano connotate da una funzione religiosa, funzione che richiedeva la
partecipazione del popolo. L’unica fonte in materia è Aulo Gellio, il quale riporta la
lezione di Labeone[124]
conservata nell’opera ad Q. Mucium di
Lelio Felice:
noct. Att. 15.27.1-3: [1] In libro Laelii Felicis ad Q. Mucium primo scriptum est
Labeonem scribere ‘calata’ comitia esse, quae pro conlegio pontificum habentur
aut regis aut flaminum inaugurandorum causa. [2] Eorum autem alia esse
‘curiata’, alia ‘centuriata’; ‘curiata’ per lictorem curiatum ‘calari’, id est
‘convocari’, ‘centuriata’ per cornicinem. [3] Isdem
comitiis, quae ‘calata’ appellari diximus, et sacrorum detestatio et testamenta
fieri solebant. Tria enim genera testamentorum fuisse accepimus: unum, quod
calatis comitiis in populi contione fieret, alterum in procinctu, cum viri ad
proelium faciendum in aciem vocabantur, tertium per familiae emancipationem,
cui aes et libra adhiberetur.
Nel primo paragrafo viene esposto il pensiero di Labeone, il quale
qualificava come calata i comizi che si svolgevano pro conlegio pontificum,
per il compimento della inaugurazione del re e dei flamini. Nel testo di
Gellio è difficile attribuire alla particella pro una accezione tanto
diversa da quello che è il suo “primo” significato, che è quello di “dinanzi”. Per questo motivo, la
frase pro conlegio pontificum deve essere intesa come “dinanzi al”, od “in
presenza del” collegio dei pontefici, e a tal fine rimando alla traduzione
proposta da R. Marache: «Dans le premier livre du commentaire de Laelius Felix à Quintus Mucius il
est écrit que suivant Labéon les comices calata sont ceux qui ont lieu
devant le collège des pontifes pour inaugurer ou le roi ou les flamines»[125]. D’altra parte lo stesso Aulo Gellio, per
esemplificare la varietas dell’oratio Latina, richiama
proprio i diversi significati che può assumere la preposizione pro[126].
Nel secondo paragrafo del testo in esame, Gellio sostiene che
esistono anche altri comizi, oltre ai comitia calata. Qui appare come la
discriminante tra le varie assemblee popolari sia proprio il modo di
convocazione, azione descritta dall’antiquario con il verbo calare, con
l’accezione, precisata quasi in modo didascalico, di convocare. Ben altra cosa
è l’aggettivo calata accostato a comitia. Questa specificità dei comitia
calata appare anche nel paragrafo seguente, in cui Gellio elenca ulteriori
compiti, rispetto ai casi previsti da Labeone. La conseguenza di tale lettura è
che si tratti di autonomi comizi, come emerge proprio dal titulus del
capitolo in questione: Quid sint ‘comitia calata’, quid ‘curiata’, quid
‘centuriata’, quid ‘tributa’, quid ‘concilium’; atque inibi quaedam eiusdemmodi[127].
Dalle funzioni che si indicano in noct. Att. 15.27.1 (inauguratio
del re e dei flamini, detestatio sacrorum, testamentum calatis
comitiis) appare la specificità religiosa dei comitia calata, che,
formalmente convocati, probabilmente si arrestavano alla prima fase comune a
tutti i comizi, quella della contio[128],
poiché non deliberanti, per le funzioni a cui erano destinati (lo stesso Gellio
sostiene che il testamento comiziale in populi contione fieret).
Pertanto si può sostenere che non si svolgevano né per curie, né per centurie,
in quanto il popolo si riuniva senza alcuna distinzione.
Dalle fonti, infatti, abbiamo notizia che nel periodo monarchico i
pontefici assistevano alle operazioni sacrali svolte dal re, durante le quali
il popolo non sembra riunirsi secondo un preciso criterio. In tale contesto si
deve chiamare un passo varroniano che appare illuminante intorno alle riunioni
religiose del populus davanti al re, relative alla composizione del
calendario:
Varr., de ling. Lat. 6.28: Eodem die [enim] in
Urbem ab agris ad regem conveniebat populus. Harum
in Arce, quod rerum vestigia apparent in sacris Nonalibus in Arce, quod tunc
ferias primas menstruas, quae futurae sint eo mense, rex edicit populo.
Qui si descrive come il populus
si muovesse dalla campagna all’Urbe per riunirsi di fronte al re, il quale
procedeva alla edictio feriarum. Proprio in questo brano si rinviene
la dicotomia urbs-ager, rispetto alla
provenienza del populus, la campagna,
e alla sua destinazione, la città. Questo farebbe propendere, almeno per i
tempi antichi, per una riunione disordinata del populus convocato. Sebbene Varrone non qualifichi tale raduno come comitia
calata, è tuttavia importante rimarcare come i pontefici avessero un ruolo
nelle antiche operazioni legate alla proclamazione del calendario:
Macr., sat.
1.15.9-12: [9] Priscis ergo temporibus, antequam fasti a Cn. Flavio scriba
invitis patribus in omnium notitiam proderentur, pontifici minori haec
provincia delegabatur ut novae lunae primum observaret aspectum visamque regi
sacrificulo nuntiaret. [10] Itaque sacrificio a rege et minore pontifice
celebrato idem pontifex calata, id est vocata, in Capitolium plebe iuxta curiam
Calabram, quae casae Romuli proxima est, quot numero dies a kalendis ad nonas
superessent pronuntiabat, et quintanas quidem dicto quinquies verbo kalî, septimanas repetito septies praedicabat. [11] Verbum autem kalî Graecum est, id est voco, et hunc diem, qui ex his diebus
qui calarentur primus esset, placuit kalendas vocari. Hinc et ipsi curiae ad
quam vocabantur Calabrae nomen datum est, et classi, quod omnis in eam populus
vocaretur. [12] Ideo autem minor pontifex numerum dierum qui ad nonas
superesset calando prodebat, quod post novam lunam oportebat nonarum die
populares qui in agris essent confluere in urbem, accepturos causas feriarum a
rege sacrorum sciturosque quid esset eo mense faciendum.
L’azione pontificale di calare
risulta così strettamente connessa alla presenza del popolo e ad alcune
specifiche cerimonie, legame questo che si rinviene anche in altre testimonianze
in materia[129].
Da queste riunioni presiedute dal re, si formarono, attraverso diverse
modificazioni avvenute con il tempo, quegli specifici comizi calati, a cui si
riferisce la tradizione labeoniana, comitia che si svolgevano sotto
l’egida del collegio pontificale, in quanto sacerdozio che aveva una generale
competenza su tutti i sacra. Le operazioni di convocazione erano curate
dai pontefici, i quali si avvalevano del calator[130]
il cui collegamento con l’azione di calare si trova in Paolo diacono[131].
Di fronte a
tali comizi, com’è noto, si svolgevano gli atti necessari per i testamenta
calatis comitiis[132].
In materia si può affermare, almeno per l’età repubblicana, che al pontefice
massimo passò il compito di presiedere i comizi calati, ereditando le funzioni
che in origine spettavano quasi per certo al rex[133],
e successivamente al rex sacrorum.
Del resto la dottrina accoglie ormai senza riserve l’ipotesi formulata dal
Mommsen[134],
secondo il quale i comitia calata si
riunivano per i testamenti[135]
il 24 marzo e il 24 maggio, giorni indicati nel calendario festivo arcaico con
la sigla Q.R.C.F. (Quando Rex Comitiavit Fas)[136],
dove vi è l’espresso richiamo ad un’operazione sacrale del rex.
Una
conduzione pontificale dei comitia calata viene affermata dalla
giurisprudenza augustea anche per atti diversi dalla confezione dei testamenti
comiziali, conduzione che doveva risalire, almeno in casi particolari, all’età
monarchica. Le Noctes Atticae[137] danno
notizia che tali comitia si
svolgevano pro conlegio pontificum in
occasione della inaugurazione del re e del flamine[138]:
la spiegazione sta nel fatto che sarebbe stato impossibile per il designato non
ancora inaugurato assumere la presidenza dei comizi calati, perché fino ad
allora non investito dei poteri religiosi[139].
Alla luce di tale dato parrebbe che anche la facoltà del pontefice massimo di
presiedere i comizi calati non fosse altro che espressione della facoltà di
sostituzione pontificale, quanto meno in particolari casi di assenza.
Interessante
nel racconto di Liv. 3.54.5-14, è anche la notizia che la plebe armata
attraversò la città in silenzio per dirigersi verso l’Aventino[140].
Quasi come un ossimoro Livio riporta il termine silentium, che accompagna il cammino dei plebei verso il colle. Il
silenzio appare una condizione quasi “innaturale” per la plebe, descritta
spesso come una massa informe, multitudo[141],
e rumoreggiante. Ma forse silentio
vuol dire di più, rimanda ad un momento d’estremo raccoglimento, un concetto
che si radica nella rappresentazione romana che riconosceva una grande forza,
quasi sovrannaturale, della parola.
Nelle fonti appare una duplice valenza del silenzio. Da una
parte nella teologia romana si rinviene una rilevanza del concetto
squisitamente religiosa. Il silenzio infatti era condizione necessaria per le
celebrazioni rituali. In particolare si rinviene nell’auspicium ex tripudiis[142]
il cui svolgimento viene tramandato da Cicerone. In tale atto l’auspicante
chiedeva l’assistenza del pullarius[143],
il quale portava al cospetto del comandante dei polli in una stia[144].
In un momento successivo alla celebrazione questo speciale addetto, su
richiesta del capo dell’esercito, doveva verificare che vi fosse silentium[145].
La spiegazione tecnica della parola silentium è offerta dallo stesso oratore: silentium dicimus in auspiciis, quod omni vitio caret[146];
come sosteneva Veranio Flacco: hoc enim
est <proprie sil>entium, omnis vitii in auspiciis vacuitas[147]:
dunque bisognava impedire con il silenzio rituale il verificarsi di qualsiasi
possibile vizio[148].
Nel contesto in esame però conformemente a quanto si
sostiene da altre testimonianze, non si fa riferimento alla presa degli
auspici, non richiesti per la validità dell’elezione dei tribuni plebei[149].
Tuttavia, si scorge nelle fonti il generale valore del silenzio durante le
celebrazioni, e non solo in riferimento agli auspici. In questo senso è giusto
ricordare un brano di Seneca, il quale sottolinea la necessità del silenzio
perché il sacrificio si compisse ritualmente:
Sen.
phil., de vit. beat. 26.7: quotiens
mentio sacrarum litterarum intervenerit, favete linguis. Hoc verbum non, ut
plerique existimant, a favore trahitur, sed imperat silentium, ut rite peragi
possit sacrum nulla voce mala opstrepente: quod multo magis necessarium est
imperari vobis, ut, quotiens aliquid ex illo proferetur oraculo, intenti et
compressa voce audiatis[150].
Dall’altra parte si ravvisa una valenza costituzionale del
silenzio, come del resto è la stessa trazione degli auspici, in quanto
condizione necessaria alla nomina del dittatore, la cui dictio, secondo
Livio, avveniva oriens de nocte silentio[151].
Quindi, il silentium era un elemento
fondamentale nella nomina di questo magistrato.
In Liv. 3.54.10 il
silenzio della plebe appare quasi spontaneo, ma questa condizione può trovare
una sua giustificazione nella concezione religiosa romana. Silentio i plebei si incamminarono per riunirsi sotto l’egida del
pontefice massimo, esponente del collegio più importante nella repubblica,
quasi per deferenza verso il sacerdote; per andare ad eleggere i propri magistrati
che fondavano il loro potere su principi giuridico-religiosi. La plebe, quindi,
ascendeva verso l’Aventino nell’atteggiamento di chi è nell’atto di assistere
alla celebrazione di un rito.
Tirando le fila di quanto
detto fino a questo momento, si può sostenere come dato coerente con la realtà
della prima repubblica il ricorso all’azione del pontefice massimo
nell’elezione dei tribuni della plebe, magistrati che allora muovevano i primi
e difficili passi verso il pareggiamento degli ordini sociali.
Il collegio dei pontefici
doveva mantenere la pace con gli dèi, su cui reggeva la vita stessa del popolo
romano, e in connessione a tale funzione vi era una serie di attribuzioni
pontificali, quali il controllo del regolare svolgimento dei riti, la
memorizzazione dei fatti più importanti per la città, la conoscenza dei nomi
degli dèi, la conservazione del nome del dio protettore di Roma e del rito
dell’evocatio[152]. Questa somma delle funzioni dei pontifices ben giustifica il potere di
sostituzione del pontefice massimo in mancanza degli organi preposti.
Emerge quindi da Livio la
conferma della sussistenza di un rapporto tra pontificato e plebe nei primi
secoli della res publica. Il collegio
dei pontefici appare dunque come parte importante del sistema costituzionale
del popolo romano, ed atta a salvaguardarne la vita; per questo motivo,
nell’episodio di cui abbiamo parlato, il pontefice massimo fu il referente per
l’inserimento, o meglio per il potenziamento, della plebs e delle sue
istituzioni nel sistema giuridico-religioso romano, e questo significava il
riconoscimento da parte dello stesso Juppiter.
Per concludere si devono
ricordare alcune riflessioni del grande studioso della religione romana Georges Dumézil, che ben tratteggiano il riconoscimento
politico della plebe da parte del dio supremo:
«La lutte du patriciat et de la plèbe, dans ses moments
les plus importants, a été chargée de fictions et d’anachronismes: la passion
et la vanité ne sont pas propices à la sereine histoire. Quant à la part qu’y a
tenue, active et passive, la conception de Jupiter, quelques constantes se
dégagent pourtant des récits. Deux tendances s’opposent et, puisqu’il faut bien
que Rome vive, finalement composent. D’une part, dieu de la tradition, Jupiter n’est
pas favorable aux progrès de la plèbe, les retarde, marque son mécontentement;
d’autre part, dieu de l’État, il ne s’engage pas à fond dans le conflit, il
reste le dieu souverain des deux parties et, comme les patriciens, cède au
“mouvement de l’histoire”»[153].
* Sulla relazione, presentata a Suzdal il 27 giugno 2006, sono
intervenuti i professori Alessandro Corbino, Carla Masi Doria, Cosimo Cascione
e Leo Peppe. Sono grata a tutti per le osservazioni ed i suggerimenti; in
particolare, ringrazio il professor Corbino per aver richiamato la mia
attenzione sull’esigenza di specificare maggiormente la natura dei comitia
calata.
[1] Liv. 3.49-53. Per il decemvirato
rinvio a G. Poma, Tra legislatori e tiranni. Problemi storici e
storiografici sull’età delle XII tavole, Bologna 1984 (cfr. anche Ead., La
valutazione del decemvirato nel De republica di Cicerone, in Rivista
storica dell’antichità 6-7, 1976-1977, 129 ss.), e P. Zamorani, Plebe genti esercito. Una ipotesi sulla
storia di Roma (509-339). Lezioni, Milano 1987, 305 ss. (da leggere con la
recensione di G. Lobrano, in IVRA 38,
1987, 209 ss.).
[2] Così Liv. 3.43.1: Ad clades ab hostibus acceptas duo nefanda
facinora decemviri belli domique adiciunt. Si tratta dell’assassinio del
militare plebeo L. Siccio Dentato, personaggio scomodo per i decemviri in
quanto istigava i propri commilitoni alla restaurazione del tribunato (Liv.
3.43.2-7), e della famosa vicenda di Virginia (Liv. 3.44-48).
[3] Nella sterminata bibliografia
dedicata a Tito Livio segnalo alcuni lavori intorno ai primi libri della sua
opera: F. Calderaro, Nuovi discorsi sulla
prima deca di Tito Livio. Studio filosofico - storico - politico, Padova
[4] Liv. 3.33.1: Anno trecentesimo altero, quam condita Roma erat, iterum mutatur forma
civitatis, ab consulibus ad decemviros, quem ad modum ab regibus ante ad
consules venerat, translato imperio. Minus insignis, quia non diuturna, mutatio fuit.
[5]
Cic., de re publ. 2.61: Sed aliquot ante annis, cum summa esset
auctoritas in senatu populo patiente atque parente, inita ratio est ut et
consules et tribuni plebis magistratu se abdicarent, atque ut Xviri maxima
potestate sine provocatio|ne crearentur, qui et summum imperium haberent et
leges scriberent. Vedi
anche Dion. Hal. 10.56.2, il quale ricorda, dopo la deposizione volontaria dei
consoli (10.56.1), come non vi fosse in carica alcuna magistratura, menzionando
a titolo di esempio l’assenza dei tribuni, degli edili e dei questori.
[6] D. 1.2.2.24
(Pomp. lib. sing. ench.): Et cum placuisset leges quoque ferri, latum
est ad populum, uti magistratu se abdicarent. Cfr. anche Oros., hist. adv. pagan. 2.13.2: potestas
consulum decemviris tradita;
2.13.5: ablegata religione consulum.
[7] Per il tribunato della plebe (di
fronte all’immensa bibliografia esistente) mi limito ad alcune parziali
indicazioni: F. Stella Maranca, Il
tribunato della plebe dalla “lex Hortensia” alla “lex Cornelia”, Lanciano
1901 [rist., Napoli 1982, con una nota di lettura di G. Boulvert]; E. Lefèvre, Du Rôle des Tribuns de
[8] Per la plebe e
le sue istituzioni segnalo: J. Binder, Die
Plebs. Studien zur römischen Rechtsgeschichte, Leipzig 1909; A. Rosenberg, Studien zur Entstehung der Plebs, in Hermes 48, 1913, 359 ss.; H.J. Rose, Patricians and Plebeians at Rome, in The Journal of Roman Studies 12, 1922,
106 ss.; G. Niccolini, Il
tribunato della plebe, cit., 1 ss.; A. Dell’Oro, La formazione dello stato patrizio-plebeo, Milano-Varese 1950, 57
ss.; A. Momigliano, L’ascesa della plebe
nella storia arcaica di Roma, in Rivista
Storica Italiana 79.2, 1967, 297 ss.; Id., Prolegomena a ogni futura metafisica sulla
plebe romana, in Labeo 23, 1977,
7-15 (lavori pubblicati ora in Id., Roma
arcaica, Firenze 1989, 225 ss., 303 ss.); J. Gagé, La «plebs» et le «populus» et leurs
encadrements respectifs dans
[9] Diodoro Siculo (12.25.1-2) non fa
riferimento ad un senatoconsulto, ma menziona un accordo tra le parti in causa,
ottenuto grazie alla mediazione di ambasciatori inviati ai contendenti da parte
dei chariéstatoi. Tale accordo prevedeva la scelta di dieci tribuni
della plebe, e la possibilità di eleggere almeno un console plebeo.
[10] Per l’episodio della vergine
plebea rimando da ultima a M.T. Fögen, Storie
di diritto romano. Origine ed evoluzione di un sistema sociale, tr. it. di
A. Mazzacane (ed. originale: Römische
Rechtsgeschichten. Über Ursprung und Evolution eines sozialen Systems, 2a
ed., Göttingen 2003), Bologna 2005, 53 ss., 93 ss., la quale pone questo famoso
episodio in rapporto con la redazione delle XII Tavole.
[11] Liv. 3.53: [1] Tum Valerius Horatiusque missi ad plebem
condicionibus quibus videretur revocandam conponendasque res decemviris quoque
ab ira et impetu multitudinis praecavere iubentur. [2] Profecti gaudio
ingenti plebis in castra accipiuntur, quippe liberatores haud dubie et motus
initio et exitu rei. Ob haec iis advenientibus gratiae actae. [3] Icilius pro multitudine verba facit. Idem, cum de condicionibus
ageretur, quaerentibus legatis, quae postulata plebis essent, conposito iam
ante adventum legatorum consilio ea postulavit, ut appareret in aequitate rerum
plus quam in armis reponi spei. [4] Potestatem enim tribuniciam
provocationemque repetebant, quae ante decemviros creatos auxilia plebis
fuerant, et ne cui fraudi esset concisse milites aut plebem ad repetendam per
secessionem libertatem. [5] De decemvirorum modo supplicio atrox
postulatum fuit: dedi quippe eos aequum censebant vivosque igni concrematuros
minabantur. [6] Legati ad ea: ‘quae consilii fuerunt, adeo
aequa postulastis, ut ultro vobis deferenda fuerint; libertati enim ea
praesidia petitis, non licentiae ad inpugnandos alios. [7] Irae vestrae magis ignoscendum quam indulgendum est, quippe qui
crudelitatis odio in crudelitatem ruitis et prius paene, quam ipsi liberi sitis,
dominari iam in adversarios vultis. [8] Numquam ne quiescet civitas nostra a
suppliciis aut patrum in plebem Romanam aut plebis in patres? [9] Scuto vobis magis quam gladio opus est. Satis superque humilis est,
qui iure aequo in civitate vivit nec inferendo iniuriam nec patiendo. [10] Etiam si quando metuendos vos praebituri estis, cum reciperatis
magistratibus legibusque vestris iudicia penes vos erunt de capite nostro
fortunisque, tune ut quaeque causa erit statuetis; nunc libertatem repeti satis
est’.
[12] G. Poma, Tra legislatori e tiranni, cit., 301. Vedi anche
A. Vasaly, Personality and power: Livy’s
depiction of the Appii Claudii in the first pentad, in Transactions of the American Philological Association 117, 1987,
203: «The reader of Livy’s first pentad soon becomes aware that people with
similar names tend to behave in similar ways», così i membri della gens Valeria sono stati sempre dipinti
come «heroic soldiers and energetic supporters of popular rights».
[13] Livio tratteggia costantemente un
quadro negativo dei Claudii, ad esempio in Liv. 2.56.7 (Is, cum Volero nihil praeterquam de lege loqueretur, insectatione
abstinens consulum, ipse accusationem Appi ‘familiaeque superbissimae ac
crudelissimae in plebem Romanam’ exorsus) si riportano le invettive del tribuno Volerone; vedi anche
9.34.3 (Haec est eadem familia, Quirites,
cuius vi atque iniuriis conpulsi extorres patria Sacrum montem cepistis) e
9.34.15: (Nolo ego istam in te modestiam;
ne degeneraveris a familia imperiosissima et superbissima), in cui si ricordano le parole con
cui il tribuno P. Sempronio appellava la famiglia del censore Appio Claudio.
Vedi A.
Vasaly, Personality and power, cit.,
203 ss., la quale analizza la descrizione stereotipata dei Claudii fatta nei
primi cinque libri di Livio: «The narratives of the Appii Claudii in the first
pentad of Livy’s history illustrate the danger for the state when a potentially
tyrannical personality is endowed with an office in which the holder is free
from effective restraints on the use of power» (225); in particolare per il
personaggio 212 ss. Per «les traditions anti-claudiennes» rimando
a M. Humm, Appius Claudius Caecus: la république
accomplie,
Écoles françaises d’Athènes et de Rome 2005, 77 ss.
[14] Liv.
3.33.7: Regimen totius magistratus penes
Appium erat favore plebis; adeoque novum sibi ingenium induerat, ut plebicola
repente omnisque aurae popularis captator evaderet pro truci saevoque
insectatore plebis. Cfr. anche Dion. Hal. 10.57.3, dove si fa riferimento ad una certa
premura dei decemviri nei confronti dei plebei.
[15] Liv.
3.54.1-4: Facerent ut vellent
permittentibus cunctis mox redituros se legati rebus perfectis adfirmant.
Profecti cum mandata plebis patribus exposuissent, alii decemviri, quando
quidem praeter spem ipsorum supplicii sui nulla mentio fieret, haud quicquam
abnuere; Appius, truci ingenio et invidia praecipua, odium in se aliorum suo in
eos metiens odio ‘haud ignaro’ inquit ‘imminet fortuna. Video, donec arma adversariis
tradantur, differri adversus nos certamen. Dandus invidiae est sanguis. Nihil
ne ego quidem moror, quo minus decemviratu abeam’.
[16] Liv.
3.54.7. Vedi sul
punto L. Gagliardi, Decemviri e centumviri. Origini e competenze, Milano 2002, 32,
il quale sintetizza con chiarezza il risultato delle trattative accorse tra patres
e plebs: «I patrizi accettarono le prime due condizioni, ma si
opposero fermi alla terza. Rispettosi dell’accordo che avevano stretto con i decemviri, imposero ai plebei la
condizione che si tenessero lontani dalla crudeltà e dalle stragi nei confronti
di quelli. In cambio, i patrizi accettavano che i decemviri fossero processati
e giudicati caso per caso, malfatto per malfatto, onestamente, da giudici
plebei. Questo fu il contenuto dell’accordo e, così, la concordia fu restituita alla città».
[17] Tra le fonti non vi è certezza
sul luogo in cui avvenne la secessione dopo i misfatti dei decemviri, e anche
su coloro che procedettero a tale secessione. Il racconto che Livio offre della
vicenda è alquanto articolato. In Liv. 3.50.13 si parla di uno spostamento
armato verso l’Aventino da parte di una multitudo,
per la maggior parte soldati delle legioni che erano dislocate sulle pendici
del monte Algido contro gli Equi; multitudo che esortata da Virginio
creò i tribuni militum (Liv. 3.51.1-6). Livio nel proseguo
del suo racconto ricorda che sull’Aventino si diresse anche l’esercito
impegnato nel fronte della Sabina (Liv. 3.51.10), e successivamente lo storico
descrive uno spostamento dei soldati e della maggior parte della plebe,
dall’Aventino al Monte Sacro (Liv. 3.52.1-4); da qui i secessionisti si
sarebbero spostati sull’Aventino per l’elezione dei tribuni della plebe.
Secondo Cicerone, invece, dopo l’episodio di Virginia, gli eserciti si
ritirarono prima sul monte Sacro e poi si spostarono sull’Aventino: de re publ. 2.63. Altre fonti designano
l’Aventino come sede di secessione, ma paiono far riferimento alla sola
occupazione dell’esercito, senza far menzione della plebe: Diod. 12.24.4-5;
Dion. Hal. 11.43; Flor. 1.24.3; de vir.
ill. 21.3. Al contrario Ampel., lib. memor. 25.1, rammenta una secessione della plebe
sull’Aventino; cfr.
anche Sall., bell. Iug. 31.17, il
quale ricorda due occupazioni plebee armate sullo stesso colle. Invece
Oros., hist. adv. pagan. 2.13, 7, parla di una occupazione
armata dell’Aventino da parte del popolo. Mentre Ascon., in Cornel., 68 s. Kiessling et Schoell (vedi infra in questo par.), sostiene che i
plebei armati sarebbero passati dall’Aventino al Campidoglio per l’elezione dei
tribuni della plebe dinnanzi al pontefice massimo.
Da tali testimonianze appare come la maggior parte delle
fonti sia concorde nel sostenere che l’occupazione dell’Aventino avvenne in
armi. Un dato coerente con quanto riferito da Livio per cui le fila dei
secessionisti erano composte sia dai militi plebei delle due legioni, sia dalla
quasi totalità della plebe dell’Urbe.
[18] Alcuni autori indicano i Fasti
capitolini del
Tra coloro che lasciano aperta l’alternanza tra un Furio ed
un Papirio (proponendo praenomina diversi) come pontefice massimo del
[19]
Così: J. Bayet, Appendice V. – L’organisation plébéienne et les «leges
sacratae», in Tite-Live, Histoire
romaine, Tome III. Livre III, texte établi par J. Bayet et traduit par G.
Baillet, 3a ed., Paris 1962, 150 nt. 3;
Titi Livi, Ab urbe condita libri, erklärt von W. Weissenborn, bearbeitet
von H.J. Müller, II.1, Buch III, 8a ed., Zürich-Berlin 1965, 118 nt. 5.
[20] Tra i prenomi attestati presso i
Furii si rinviene: Sextus (Liv.
2.39.9); Spurius (ad es.: Liv.
2.43.1); Caius (ad es.: Cic., pro Balb. 20; Liv. 4.12.1; Plin., nat. hist. 18.41.3; Apul., apolog. 66; Eutrop., breviar. ab urb. cond. 2.24.1);
Lucius (ad es.: Cic., Brut. 108; de orat. 2.154; Corn. Nep., de vir. illustr. 7.6; Liv. 4.25.4; Val. Max. 1.1.9; Front., strateg. 1.1.11; Fest., v. Vindiciae,
[21] D.
1.2.2.24 (Pomp. lib. sing. ench.): Et cum placuisset leges quoque ferri, latum
est ad populum, uti magistratu se abdicarent, quo decemviri constituti anno uno
cum magistratum prorogarent sibi et cum iniuriose tractarent neque vellent
deinceps sufficere magistratibus, ut ipsi et factio sua perpetuo rem publicam
occupatam retineret: nimia atque aspera dominatione eo rem perduxerant, ut
exercitus a re publica secederet. Initium fuisse secessionis dicitur Verginius
quidam, qui cum animadvertisset Appium Claudium contra ius, quod ipse ex vetere
iure in tabulas transtulerat, vindicias filiae suae a se abdixisse et secundum
eum, qui in servitutem ab eo suppositus petierat, dixisse captumque amore
virginis omne fas ac nefas miscuisse: indignatus, quod vetustissima iuris
observantia in persona filiae suae defecisset (utpote cum Brutus, qui primus
Romae consul fuit, vindicias secundum libertatem dixisset in persona Vindicis
Vitelliorum servi, ditionis coniurationem indicio suo detexerat) et castitatem
filiae vitae quoque eius praeferendam putaret, arrepto cultro de taberna
lanionis filiam interfecit in hoc scilicet, ut morte virginis contumeliam
stupri arceret, ac protinus recens a caede madenteque adhuc filiae cruore ad
commilitones confugit. Qui universi de Algido, ubi tunc belli gerendi causa
legiones erant, relictis ducibus pristinis signa in Aventinum transtulerunt,
omnisque plebs urbana mox eodem se contulit, populique consensu partim in
carcere necati. Ita rursus res publica suum statum recepit.
[22]
Liv. 3.55.1: Per interregem deinde
consules creati L. Valerius, M. Horatius, qui extemplo magistratum occeperunt.
[23] Per questo ricorso all’interregnum che in epoca avanzata ebbe
solamente «una pura sopravvivenza formale» vedi F. De Martino, Storia della costituzione romana, I, 2a
ed., Napoli 1972, 267 s.
[24] Vedi: Cic., de leg. 3.9: Ast quando
consules magisterve populi nec escunt, auspicia patrum sunto, ollique ec se produnto,
qui comitiatu creare consules rite possint; ad Brut. 1.5.4: Dum enim unus
erit patricius magistratus, auspicia ad patres redire non possunt. Per
questo principio vedi la suggestiva ipotesi di A. Magdelain, Auspicia ad
patres redeunt, in Hommages à J. Bayet,
éd. par M. Renard et R. Schilling, Bruxelles-Berchem 1964, 427 ss. [ora in Id., Jus imperium
auctoritas, cit., 341 ss.] (da leggersi con i rilievi di F.
Sini, A proposito del carattere religioso del ‘dictator’ (note metodologiche
sui documenti sacerdotali), in Studia
et Documenta Historiae et Iuris 42, 1976, 401 ss. = in AA.VV., Dittatura degli antichi e dittatura dei
moderni, a cura di G. Meloni, Introduzione di C. Nicolet, Roma 1983, 111 ss.).
[25] Vedi F. De Martino, Storia della costituzione romana, I,
cit., 269: «l’interregno era un potere originario, che risorgeva non appena
venivano a mancare le cause, che ne impedivano l’esercizio».
[26] F. De Martino, Storia della costituzione romana, I,
cit., 262.
[27] L’uso del termine comitia in
luogo di concilia plebis si riscontra altre volte in Tito Livio:
6.35.10: Haud inritae cecidere minae; comitia praeter aedilium
tribunorumque plebi nulla sunt habita; 6.39.5: Licinius Sextiusque, cum
tribunorum plebi creandorum indicta comitia essent, ita se gerere, ut negando
iam sibi velle continuari honorem acerrime accenderent ad id, quod dissimulando
petebant, plebem;
6.39.11: deinde comitiis tribuniciis declararent voluntatem; 8.22.4: Tribunatumque plebei proximis comitiis petentibus absens praefertur. In particolare vedi anche altri
passi in cui Livio, pur riferendosi alla riforma del
Nonostante il termine utilizzato da Livio, la maggior parte
della dottrina sostiene che l’assemblea radunata davanti al pontefice massimo
fosse un concilium plebis tributum, in quanto l’episodio del 449 è successivo
alla riforma di Volerone: A. Bouché-Leclercq, Les pontifes de l’ancienne Rome, cit., 307 (ma vedi Id., Manuel
des institutions romaines, Paris 1886, 6 nt. 1, dove l’A. indica come
assemblea in questione i comitia calata); A. Schwegler, Römische Geschichte im Zeitalter des Kampfs
der Stände, III, 2a ed., Tübingen 1872, 67 nt.; L. Lange, Römische
Alterthümer. I. Einleitung und der Staatsalterthümer, Berlin 1876
[rist. an., Hildesheim-New York 1974], 635; E. Cocchia di Enrico, Il tribunale della plebe e la sua autorità
giudiziaria studiata in rapporto colla procedura civile. Contributo
illustrativo alle legis actiones e
alle origini storiche dell’editto pretorio, Napoli 1917, 38 nt. 1; F. De
Martino, Storia della costituzione romana,
I, cit., 348 nt. 51; J. Linderski, The
Auspices and the Struggle of Orders, in Staat
und Staatlichkeit in der frühen römischen Republik. Akten Eines Symposiums 12. - 15. Juli
1988, hrsg. W. Eder, Stuttgart 1990, 41 nt. 22. Sostengono
invece che nell’assemblea del 449 il popolo si riunì in comizi tributi: G.W.
Botsford, The roman assemblies from their origin to the end of the republic,
New York 1968, 285; P. Marottoli, Leges sacratae, Roma 1979, 41 s. nt.
23.
Vedi inoltre F.V. Hickson, Roman Prayer Language: Livy and the Aneid of Vergil, Stuttgart
1993, 64, il quale fa riferimento ad una contio;
mentre J. Celse-Saint-Hilaire, L’enjeu
des «sécessions de la plèbe» et le jeu des familles, cit., 737, 741 s.,
ritiene trattarsi di comizi curiati, riuniti sotto la presidenza del pontefice
massimo; una simile assemblea, secondo l’A., si sarebbe riunita sotto la
presidenza del sacerdote anche nel 493, per l’elezione dei primi tribuni.
Tuttavia, va detto che la tradizione antica non registra un coinvolgimento
dell’intero popolo nell’elezione dei magistrati plebei.
[28] Fest., v. Scita plebei,
[29] F. De Martino, Storia della costituzione romana, I,
cit., 371 s.: «Poiché si trattava di restaurare la vecchia costituzione,
sospesa per la nomina dei decemviri, non essendovi tribuni in carica, così gli
annalisti hanno probabilmente escogitato la presidenza del pontefice massimo».
Così già: E. Meyer, Der Ursprung des Tribunats und die Gemeinde der vier
Tribus, in Hermes 30, 1895, 4 (ora in Id., Kleine
Schriften, I, 2a ed., Halle 1924, 338), il quale, oltre a sostenere la
mancanza di fondamento storico dell’episodio, nega veridicità alla stessa
secessione del 449; H. Siber, Die
plebejischen Magistraturen bis zum lex Hortensia, Leipzig 1936, 18, per il
quale la guida del pontefice di una assemblea auspicata della plebe sarebbe
stata una «sakrale Untermalung». Vedi anche P. Zamorani, Plebe genti esercito, cit., 333: «Sembra francamente impossibile
che l’elezione dei tribuni sia avvenuta, stante la mancanza di altri tribuni,
sotto la presidenza del pontefice massimo: il particolare è con ogni
verosimiglianza inventato e sembra risalire alla comprovata tendenza
annalistica a “costituzionalizzare” gli eventi».
Altri studiosi hanno espresso forti dubbi intorno alla
veridicità della notizia, ma al contempo hanno cercato di formulare una
spiegazione plausibile: Th. Mommsen,
Römische Forschungen, I, cit., 193, il quale sembra
quasi accettare la storicità dell’episodio, considerandolo l’unica eccezione
alla guida dei magistrati plebei delle assemblee della plebe; tuttavia,
successivamente, lo studioso (Le droit
public romain, III, tr. fr. di P.F. Girard, Paris 1893 [réimpr. 1984], 40
s.) non ha trovato spiegazioni plausibili per lo stesso episodio all’interno
del diritto pubblico: «la chose ne peut être considérée comme légale qu’en
admettant que le rétablissement du tribunat aurait été opéré de cette façon en
vertu d’une résolution spéciale du peuple», connotando quindi anche questo
episodio di una allure “liberale”; per R.M. Ogilvie, A commentary on Livy, books 1-5, Oxford 1965 [repr., Oxford
1998], 494 s., risulta inconcepibile che il pontefice possa aver presieduto le
elezioni dei tribuni della plebe nel
Al contrario, tra coloro che considerano autentico il
racconto di Livio e di Asconio, vedi: A. Schwegler, Römische Geschichte im Zeitalter des Kampfs der Stände, III, cit.,
66 e nt.1; L. Lange, Römische Alterthümer, I, cit., 634 ss.; Id.,
Römische Alterthümer. II. Der Staatsalterthümer,
Berlin 1879 [rist. an., Hildesheim-New York 1974], 459, 533; E. von
Herzog, Geschichte und System der
römischen Staatsverfassung, 1. Königszeit
und Republik. 1: Königszeit,
Geschichte der Verfassung der römischen Republik, Leipzig 1884 [Neudr. der Ausg., Aalen
1965], 187 s.; E. Cocchia di Enrico, Il
tribunale della plebe e la sua autorità giudiziaria, cit., 37 s.; G.
Niccolini, I fasti dei tribuni della
plebe, cit., 31; F. Fabbrini, v. «Tribunis
plebis», cit., 789; S. Tondo, Profilo
di storia costituzionale romana, I,
Milano 1981, 202; G. Lobrano, Il potere
dei tribuni della plebe, cit., 125 s. e nt. 250; G. Poma, Tra legislatori e tiranni, cit., 297
ss.; J. Celse-Saint-Hilaire, L’enjeu des
«sécessions de la plèbe» et le jeu des familles, cit., 731 ss.; R. Del
Ponte, La religione dei romani, cit.,
137, 241.
[30] A. Bouché-Leclercq, Les pontifes dans l’ancienne Rome, cit.,
307 s. Secondo lo studioso, il fatto che «la religion se mêlait intimement à la
vie publique» (306) portò ad accordare autorità civile al pontefice massimo;
durante l’età repubblicana, in cui il potere temporale venne separato da quello
spirituale, comunque si lasciò a questo sacerdote il diritto di convocare i
comizi per atti religiosi e civili. Le prerogative dell’età repubblicana tesero
quindi ad assimilare il pontefice massimo ai magistrati. Per questo motivo il
senatoconsulto del 449, che attribuì la convocazione al pontefice massimo, non
va inteso come un fatto straordinario. In un’altra sua opera (Histoire de la divination dans l’antiquité,
IV. Divination italique
[étrusque- latine-romaine], Paris 1882 [rist., New York 1975], 213 s., 278), il
Bouché-Leclercq sostiene che quando, con l’avvento della repubblica, si
attribuirono gli auspici ai consoli, poiché questi ultimi «n’ayant plus le
caractère sacerdotal qui avait appartenu au roi», si conferì al pontefice
massimo sia il diritto di inaugurare con auspici i sacerdoti pubblici, sia la
presidenza di comizi religiosi. Secondo l’A., quindi, si sarebbe attribuita al pontifex
maximus la competenza di trarre gli auspicia, propria dei
magistrati.
Anche altri autori attribuiscono prerogative magistratuali a
questo sacerdote, considerando in particolare gli auspicia a lui
conferiti espressione del potere di magistrato: Th. Mommsen, Le droit public romain, III, cit., 37,
il quale sostiene inoltre, che la competenza del pontefice massimo a nominare
gli altri sacerdoti costituiva ulteriore prova del suo potere magistratuale, in
quanto tale facoltà di nomina un tempo era appartenuta al rex; J.
Marquardt, Le culte chez les romains,
I, cit., 277, il quale asserisce che il pontefice massimo nella cerimonia dell’inauguratio
rappresentasse il re ed aveva quindi pieni poteri magistratuali; in tale circostanza
gli auspici venivano tratti da un augure per ordine del pontifex maximus.
Bisogna però convenire con la posizione di P. Catalano, Contributi allo studio del diritto augurale, Torino 1960, 195, 361,
per il quale gli auspici del pontefice massimo non erano l’esplicazione di
alcun potere magistratuale.
[31] L’azione dei magistrati plebei e
della stessa plebe è stata interpretata in termini rivoluzionari da Th. Mommsen,
Le droit public romain, III, cit., in
part. 323, 348; E.
Betti, La rivoluzione dei tribuni in Roma dal 133 all’88, in Studi
Storici per l’antichità classica 6.3-4, 1914, 301 ss.; 7.1, 1914, 1 ss.
(ora in Labeo 9, 1963, 57 ss., 211
ss.); F. De Martino, Storia della
costituzione romana, I, cit., 340 ss.; A. Guarino, La rivoluzione della plebe, Napoli
Per il concetto di “rivoluzione” rimando a: R. Syme, The
Roman Revolution, 2a ed., London 1951 (= La rivoluzione romana,
introduzione di A. Momigliano, tr. it. di M. Manfredi, Torino 1962); risultati
dell’Incontro preliminare su “Stato
e istituzioni rivoluzionarie in Roma antica” (Cagliari 1971), in Index
3, 1972, 153 ss. (con i contributi
di L. Bertelli, J. Ellul, G. Grosso, M.A. Levi, G. Lobrano, S. Mazzarino, D.
Sabbatucci, E. Sereni); Atti del
Convegno di Studi su “Stato e istituzioni rivoluzionarie in Roma
antica” (Sassari, 15-19 marzo
1973), in Index 7, 1977 [ma 1979], 3 ss. (con i contributi
di G. Lobrano, D. Sabbatucci, A. Dell’Oro, H.J. Padrón, J. Irmscher, J.
Godechot, I. Rens, S.A.B. Meira, P. Frezza, A. Guzmán Brito, G. Boulvert, V.
Hanga, E.T. Gascue, H. Eichler, G. Grosso, A.E. Lapieza Elli, G. Floris
Margadant, R. Günther, H. Vázquez); La
rivoluzione romana. Inchiesta tra gli antichisti, Napoli 1982; M.A. Levi, “Rivoluzione romana”, in Rendiconti.
Atti della Accademia Nazionale dei Lincei. Classe di Scienze Morali, Storiche e
Filologiche 394, 1997, 221 ss.
[32] Liv. 3.53.3.
[33] Per il pontefice massimo vedi, ad
esempio: J. Marquardt, Le culte chez les
Romains, I, cit., 294 s., 376 ss.; Th. Mommsen, Le droit public romain, III, cit., 19 ss.; Z. Zmigryder-Konopka, Pontifex maximus, iudex atque arbiter rerum
divinarum humanarumque, in EOS 34,
1932-33, 361 ss.; J. Bleicken, Oberpontifex und Pontifikalkollegium. Eine Studie zur römischen Sakralverfassung, in Hermes 85, 1957, 345 ss. (ora in Id., Gesammelte Schriften, I, 1. Griechische Geschichte. 2. Römische
Geschichte (Anfang), hrsg. von F. Goldmann, M. Merl, M. Sehlmeyer und U.
Walter, Stuttgart 1998, 409 ss.); A. Calonge, El Pontifex Maximus y el
problema de la distinción entre magistraturas y sacerdocios, in Anuario de historia del derecho español 38,
1968, 5 ss.; J.-Cl. Richard,
Sur quelques grands pontifes plébéiens,
in Latomus 27, 1968, 786 ss.; R. Del
Ponte, La religione dei romani, cit.,
107 ss.
[34] Per il concetto di “sistema
giuridico-religioso” vedi P. Catalano, Linee
del sistema sovrannazionale romano, Torino 1965, 30 ss.; Aspetti spaziali del sistema
giuridico-religioso romano. “Mundus”, “templum”, “urbs”, “ager”, “Latium”, “Italia”, in Aufstieg und Niedergang der
römischen Welt 2.16.1, Berlin-New York 1978, 445 s.; Diritto e persone. Studi su origine e attualità
del sistema romano, Torino 1990, 57.
[35]
D. 1.1.1.2 (Ulp. 1 inst.). Secondo P. Catalano, La divisione del potere in Roma (a proposito
di Polibio e di Catone), in Studi in
onore di G. Grosso, VI, Torino 1974, 670, la tripartizione ulpianea sarebbe
stata ispirata dal De legibus di
Cicerone, dove l’oratore tratta dei sacra
e dei sacerdotes (2.19-22) e poi
dei magistrati (3.3-4 e 6-11). Tra coloro che hanno aderito alla posizione del
Catalano vedi: C. Nicolet, Notes
complémentaires, in Polybe, Histoires,
Livre VI, Paris 1977, 149 s. nt. 15, 1; F. Sini, Documenti sacerdotali
di Roma antica, I. Libri e commentarii, Sassari 1983, 213 s.; Id., Bellum nefandum.
Virgilio e il problema del “diritto internazionale antico”, Sassari 1991,
259 s. nt. 69; Id., Sua
cuique civitati religio. Religione e
diritto pubblico in Roma antica, Torino 2001, 175, 267 s. nt. 75;
J. Scheid, Le prêtre et le magistrat. Réflexions sur les sacerdotes et le
droit public à la fin de
[36] Fest., v. Ordo sacerdotum,
[37] L’autorità del pontefice massimo
viene considerata di alta risalenza, ad es., da M. Skřejpek, Pontifex
maximus et aediles. Ovide’s Fasti and Roman Law,
in Orbis Iuris Romani 2, 1996, 75: «It is highly plausible that the pontifex
maximus enjoyed a special authority, stemming from pre-historical times,
authority conferred on him by religious rules themselves. Conferred on him by
the presumption that he was the person to ensure the proper communication of
humans and goods and thus to protect the undisturbed existence of Roman
society. From this power, originally solely in the hands of the king, the
profane power was gradually detached».
[38] Sebbene non si possa sostenere
con certezza che l’Aventino fosse il centro della lotta plebea intorno al
494-471, è del tutto evidente che questo colle divenne la sede di insediamenti
abitativi della plebe attraverso la lex
de Aventino publicando del 456. La norma in questione, infatti, consentì ai
plebei non abbienti di costruire sul colle, e quindi permise alla plebs «di acquistare una nuova forza
economica» (F. De Martino, Storia della
costituzione romana, I, cit., 344). Sulla norma vedi: Liv. 3.31.1; 3.32.7;
in particolare Dion. Hal. 10.32.2-5, per il quale la proposta venne ratificata
dai comizi centuriati, ma una cosa interessante che emerge dal racconto è che
la ratifica avvenne alla presenza di pontefici, auguri e di due addetti ai
sacrifici, per porre in essere voti e preghiere rituali. Per la lex de Aventino publicando rinvio a: G.
Rotondi, Leges publicae populi Romani, Milano 1912 [Reprogr.
Nachdr., Darmstadt 1962], 199 s.; vedi inoltre, tra coloro che sostengono che
tale norma fu una lex sacrata: H.
Siber, Die plebejischen Magistraturen bis
zum lex Hortensia, cit.,
[39] Liv. 10.6.3-9.2.
[40] Liv. op. perioch. 18: Tib. Coruncan<i>us primus ex plebe pontifex maximus creatus
est.
In generale su Tiberio Coruncanio vedi: W. Kunkel, Die Römischen Juristen. Herkunft und soziale Stellung, 2a
ed., Graz 1967 [unver. Nachdr., Köln-Weimar-Wien 2001], 7 s.; F. d’Ippolito, Sul pontificato massimo di Tiberio
Coruncanio, in Labeo 23, 1977,
131 ss.; Id., I giuristi e la città,
Napoli 1978, 27 ss.; R.A. Bauman, Lawyers
in Roman republican politics. A
study of the Roman jurists in their political setting, 316-82 BC,
München 1983, 71 ss.; J.W. Cairns, Tiberius
Coruncanius and the Spread of Knowledge about Law in Early Rome, in The Journal of Legal History 5, 1984,
129 ss.; F. Sini, A quibus iura civibus praescribebantur. Ricerche sui giuristi del III
secolo a.C.,
Torino (1992) 1995, 81 ss.; Id., Sua cuique civitati religio, cit., 218
ss.; G. Viarengo, I giuristi arcaici:
Tiberio Coruncanio, in Ius
Antiquum-Drevnee Pravo 7, 2000, 73 ss.
[41] Per i rapporti e le interazioni
tra magistrature e sacerdoti, e la collocazione di questi ultimi all’interno
della dinamica costituzionale, rimando a: J. Bleicken, Kollisionen zwischen sacrum und publicum. Eine Studie zum Verfall der altrömischen
Religion, in Hermes
85, 1957, 446 ss. (= Id., Gesammelte Schriften,
I, cit., 431 ss.); J. Vernacchia, Il pontificato nell’ambito della
«respublica» romana, in Studi in onore di E. Betti, IV, Milano 1962,
425 ss.; G.J. Szemler, The Priest
of the Roman Republic, cit.; J. Scheid, Le
prêtre et le magistrat, cit., 243 ss.
[42] Liv. 25.5.4: Hic senes honoratosque iuvenis in eo certamine vicit. Ante hunc intra
centum annos et viginti nemo praeter P. Cornelium Calussam pontifex maximus
creatus fuerat qui sella curuli non sedisset.
[43] Per la santità dei tribuni vedi
Cic., de leg. 3.9: Plebes quos pro se contra vim auxilii ergo
decem creassit, ei tribuni eius sunto, quodque ii prohibessint quodque plebem
rogassint, ratum esto; sanctique sunto neve plebem orbam tribunis relinquonto.
[44] La definizione generale di tali
norme si rinviene in Fest., v. Sacratae
leges,
Per le leges sacratae
vedi: G. Niccolini, Il tribunato della
plebe, cit., 40 ss.; F. Altheim, Lex
sacrata. Die Anfänge der
plebeischen Organisation, Amsterdam 1940; J. Bayet, Appendice V. –
L’organisation plébéienne et les «leges sacratae», cit., 145 ss.; R.
Orestano, I fatti di normazione
nell’esperienza romana arcaica, Torino 1967, 262 ss.; P. Marottoli, Leges
sacratae, cit.; B. Albanese, ‘Sacer esto’, in Bullettino dell’Istituto di Diritto Romano 91, 1988 [ma 1992], 145
ss.; R. Fiori, Homo sacer, cit., 293
ss.
[45] Tra gli autori che sostengono la
centralità del giuramento della plebe, vedi in particolare: R. Orestano, I fatti di normazione, cit., 265 ss.; R.
Fiori, Homo sacer, cit., 314. Vedi
inoltre H. Fugier, Recherches sur
l’expression du sacré dans la langue latine, Paris 1963, 224 ss., la quale,
nel sostenere l’essenza religiosa del potere tribunizio, afferma che «Le
serment de la plèbe aurait donc trois noms, de même qu’il se manifeste pour
ainsi dire à trois étages différents: caerimoniae,
pour désigner la forme qu’il revêt; iusiurandum,
sa force d’obligation; sacrum, la
relation qu’il implique avec les dieux. En utilisant ce dernier aspect, les
plébéiens avaient gagné» (230). Per F. Zuccotti, Il
giuramento nel mondo giuridico e religioso antico. Elementi per uno studio
comparatistico, Milano 2000, 41, è ingiustificato considerare la sacratio delle norme relative all’offesa
del tribuno della plebe, come la trasgressione di un giuramento. Infatti, per
l’A. si deve distinguere tra un giuramento puramente religioso, con cui si
attira su di sé e sulla propria stirpe la vendetta della divinità chiamata a
testimone in caso di spergiuro, «e la legge umana, che prevede più
specificamente la sacratio di chi
violi un determinato precetto di essa».
Tra chi sostiene che il potere dei tribuni si fondasse su un
foedus tra i due ordini vedi: A. Dell’Oro, La formazione dello stato patrizio-plebeo, cit., 89 ss.
Affermano che
la sacrosanctitas tribunizia si
fondava su misteriose cerimonie sacre: A.M. Piganiol, Les attributions militaires et les attributions religieuses du tribunat
de la plèbe, in Journal des Savants 1919,
237 ss. (ora in
[47] G. Lobrano, Il potere dei tribuni della plebe, cit., 121 ss.; Id., Fondamento
e natura del potere tribunizio nella storiografia giuridica contemporanea,
in Index 3, 1972, 235 ss.
[48] G. Lobrano, Il potere dei tribuni della plebe, cit., 125. Vedi anche Id., Plebei
magistratus, patricii magistratus, magistratus populi Romani, in Studia et Documenta Historiae et Iuris
41, 1975, 245 ss.
[49] F. Sini, Interpretazioni
giurisprudenziali in tema di inviolabilità tribunizia (a proposito di Liv.
3,55,6-12), in Ius Antiquum-Drevnee
Pravo 1, 1996, 80 ss. (lett. ivi a p. 80 nt. 2).
[50] F. Sini, Interpretazioni
giurisprudenziali in tema di inviolabilità tribunizia, cit. 90.
[51] Liv.
3.55.6-10: Et cum plebem hinc
provocatione, hinc tribunicio auxilio satis firmassent, ipsis quoque tribunis,
ut sacrosancti viderentur, cuius rei prope iam memoria aboleverat, relatis
quibusdam ex magno intervallo caerimoniis renovarunt, et cum religione inviolatos
eos tum lege etiam fecerunt sanciendo, ut, qui tribunis plebis, aedilibus,
iudicibus decemviris nocuisset, eius caput Iovi sacrum esset, familia ad aedem
Cereris, Liberi Liberaeque venum iret. Hac lege iuris interpretes negant
quemquam sacrosanctum esse, sed eum, qui eorum cuiquam nocuerit, Iovi sacrum
sanciri; itaque aedilem prendi duci que a maioribus magistratibus, quod etsi
non iure fiat - noceri enim ei, cui hac lege non liceat -, tamen argumentum
esse non haberi pro sacrosancto aedilem; tribunos vetere iure iurando plebis,
cum primum eam potestatem creavit, sacrosanctos esse fuere. Per tale norma
rinvio a G. Rotondi, Leges publicae
populi Romani, cit., 204 s.
[52] Tra coloro che sostengono il
recepimento nella legge Valeria Orazia della formula delle leges sacratae vedi ad es.: F. De Martino, Storia della costituzione romana, I, cit., 349; F. Zuccotti, Il giuramento nel mondo giuridico e
religioso antico, cit., 39. Vedi anche F. Stella Maranca, Il tribunato della plebe dalla “lex
Hortensia” alla “lex Cornelia”, cit., 21 s.: «dopo il decemvirato, e i
consoli e i tribuni furono ristabiliti; e come l’istituzione del tribunato
invece fu accompagnata da una lex sacrata,
anche la restaurazione fu sancita da un’altra lex sacrata, nella quale furono ripetute le cerimonie religiose che
erano state osservate nella prima, che così fu confermata, essendosene
richiamati in vigore le prescrizioni e gli effetti».
[53] Liv. 3.55.6: relatis quibusdam ex magno intervallo caerimoniis renovarunt. Per
un rinvio alla celebrazione di determinati riti in tale occasione vedi anche
Dion. Hal. 6.89.2-4, il quale fa riferimento ad un giuramento prestato da tutto
il popolo attraverso riti sacrificali, per impegnarsi a rispettare la norma
sulla inviolabilità tribunizia plebea, giuramento a cui fu aggiunta una
preghiera agli dèi.
[54] Per
la dea vedi: J. Marquardt, Le culte chez
les Romains, II, tr. fr. par M. Brissaud, Paris 1890, 57 ss.; G. Wissowa,
v. Ceres, in PWRE 3.2, Stuttgart 1899, coll. 1970 ss.; Id., Religion und Kultus der Römer, 2a ed., München 1912, 192 ss., 297
ss.; G. De Sanctis, Storia dei Romani,
IV. La fondazione dell’impero, II. Vita e pensiero
nell’età delle grandi conquiste, I, 1953 [rist., Firenze 1963], 191 ss.; H.
Le Bonniec, Le culte de Cérès à Rome. Des origines à la fin de
[56] J. Bayet, Appendice V. –
L’organisation plébéienne et les «leges sacratae», cit., 153.
[58] S. Tondo, Profilo di
storia costituzionale romana, cit., 206.
[59] G. Wissowa, v. Ceres,
cit., col. 1975; ma al contrario H. Le Bonniec, Le culte de Cérès à Rome, cit., 86, è dell’avviso che proprio la
legge romulea avrebbe fatto da modello alla lex
sacrata del
[60] B. Perrin, La consecration
à Cérès, in Studi in memoria di E.
Albertario, II, Milano 1953, 385 ss., in part. 416.
[61] Vedi in part. Liv. 1.20.5-7:
[Numa] Pontificem deinde Numam Marcium
Marci filium ex patribus legit eique sacra omnia exscripta exsignataque
attribuit, quibus hostiis, quibus diebus, ad quae templa sacra fierent, atque
unde in eos sumptus pecunia erogaretur. Cetera quoque omnia publica privataque
sacra pontificis scitis subiecit, ut esset quo consultum plebes veniret, ne
quid divini iuris neglegendo patrios ritus peregrinosque adsciscendo
turbaretur; nec caelestes modo caerimonias, sed iusta quoque funebria
placandosque manes ut idem pontifex edoceret, quaeque prodigia fulminibus
aliove quo visu missa susciperentur atque curarentur.
[62] Una parte della letteratura ha
dato una chiave di lettura “religiosa” dell’episodio in esame: A. Schwegler, Römische Geschichte im Zeitalter des Kampfs
der Stände, III, cit., 66 e nt.1, sostiene che la presenza del pontefice si
spiega con la necessità di ripristinare la sacrosancta potestas e la lex
sacrata, dopo che vi era stata la sospensione della magistratura plebea per
l’instaurazione del tribunato; E. Cocchia di Enrico, Il tribunale della plebe e la sua autorità giudiziaria, cit., 37,
ritiene che il senatoconsulto rappresenti «il tentativo di aggiungere una forma
di consacrazione religiosa anche alla nomina della magistratura plebea, colla
decadenza del decemvirato nell’a. 305 di R. / 449 av. Cr.»; G. Poma, Tra legislatori e tiranni, cit., 297,
per la quale nell’episodio, «unico caso in cui la tradizione attribuisce al
pontificato massimo un ruolo attivo nelle vicende politico-istituzionali di
Roma, per l’età arcaica», il conferimento al pontefice della direzione delle
elezioni per la restaurazione dei tribuni significava «dare una consacrazione
religiosa, non di parte, ma vincolante tutto il popolo, alla sacrosanctitas del tribunato, creando
quindi i presupposti sul piano sacrale per il successivo riconoscimento sul
piano legislativo. In questa prospettiva, il ruolo assunto dal pontefice viene
a corrispondere a quelle finalità di religionibus
deorum immortalium et summae rei publicae praeesse che, per Cicerone,
furono all’origine dell’istituzione del pontificato» (298 s.); R. Del Ponte, La religione dei romani, cit., 137, il
quale sottolinea particolarmente l’interesse della civitas a dare continuità al culto plebeo; infatti, la presidenza
pontificale dei concilia plebis «era
del tutto inusuale, ma comprensibile se si rifletta sul fatto che il presidente
del collegio pontificale, nello stesso modo in cui assicurava la continuità
sacrale delle famiglie patrizie nei comizi curiati (tutela dei sacra del passato), doveva anche
garantire la permanenza nel futuro di tutti i sacra della città, nessuno escluso. Rientrava quindi nelle sue
funzioni la riattivazione delle leges
sacratae su cui si basava la funzione tribunizia e, più in generale, dei
riti sacri che la plebe rivolgeva alla triade di Cerere, Libero e Libera».
Tuttavia, l’episodio è stato interpretato anche in funzione politica: F.
d’Ippolito, Questioni decemvirali,
Napoli 1993, 89, il quale sostiene che il racconto di Livio intorno alla
seconda secessione plebea sia una prova dello scontro tra decemvirato e
collegio pontificale, in quanto sarebbe «una riaffermazione di potenti caste
sacerdotali nel governo dello Stato»; vedi anche Id., Le XII Tavole: il testo e la politica, in Storia di Roma. I. Roma in
Italia, direzione di A. Momigliano e A. Schiavone, Torino 1988, dove,
escludendo la partecipazione pontificale alla redazione del testo decemvirale,
considera le vicende in esame come una prova ulteriore «di un contrasto
“istituzionale” fra legislatori e pontefici».
[63] Fest., v. Sacer mons, 422 e
[64] Per la legge sacrata
sull’inviolabilità tribunizia cfr. anche Cic., pro Tull. 52: legem antiquam
de legibus sacratis, quae iubeat inpune occidi eum, qui tribunum plebi
pulsaverit.
[65] Sul punto mi sia consentito
rinviare a C. Rinolfi, Livio 1.20.5-7: pontefici, sacra, ius
sacrum, in Diritto @ Storia 4,
novembre 2005 = http://www.dirittoestoria.it/4/Tradizione-Romana/Rinolfi-Pontefici-sacra-ius-sacrum.htm.
[66] Il ius iurandum Iovis era collegato alla fides: Cic., de off. 3.104
(= Enn., Ann. fr. 20, v. 403, 196
Vahalen): Iam enim non ad iram deorum
quae nulla est sed ad iustitiam et ad fidem pertinet. Nam praeclare Ennius o
Fides alma apta pinnis et ius iurandum Iovis (cfr. Apul., de deo Socrat. 131-132:
Nam et ius iurandum Iovis iurandum
dicitur, ut ait Ennius. Quid igitur censes? Iurabo per
Iovem lapidem Romano vetustissimo ritu?).
[67] Diversi studiosi hanno dato una
motivazione politica alla scelta plebea di affidare a Giove la tutela dei
propri tribuni: H. Le Bonniec, Le culte
de Cérès à Rome, cit., 347: «dans la formule de la loi sacrée selon
Tite-Live, Jupiter occupe la première place parce qu’il est le suprême garant, que
reconnaissent d’un commun accord la plèbe et le patriciat»; G. Dumézil, La religion romaine archaïque, 2a ed.,
Paris 1974, 205, per il quale i plebei non hanno mai inteso Juppiter «comme
un dieu ennemie, mais plutôt comme un arbitre qu’il fallait convaincre, gagner
à leur cause»; G.
Bassanelli Sommariva, Proposta per un
nuovo metodo di ricerca nel diritto criminale (a proposito della sacertà),
in Bullettino dell’Istituto di Diritto
Romano 89, 1986, 373: «la protezione dei tribuni è ricondotta all’intera civitas nel nome di Giove, divinità
tutelare dell’intero populus».
[68] Per le prospettive ideologiche
connesse a Giove, vedi C. Koch, Der
römische Juppiter, 2a ed., Frankfurt am Main 1937 (unv. Aufl., Darmstadt
1968; ora in tr. it. di L. Arcella: Giove
Romano, Roma 1986); J.R. Fears, The
Cult of Jupiter and Roman Imperial Ideology, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt II.17.1, Berlin-New York
1981, 3 ss.
[69]
Questo epiteto, composto da due superlativi, optimus maximus, è il tema dell’analisi di G. Radke, Iuppiter Optimus Maximus: dieu libre de
toute servitude, in Revue Historique
de Droit français et étranger 64, 1986, 1 ss. Per i vari appellativi della
massima divinità romana rimando alla voce Iuppiter
di O. Thulin, in PWRE, 10.2,
Stuttgart 1917, coll. 1126 ss., e vedi in particolare le coll. 1142-1144. Il
ruolo politico di Juppiter Optimus
Maximus è stato posto in rilievo da diversi studiosi: G. Dumézil, La religion romaine archaïque, cit.,
201, secondo il quale «Jupiter O. M. a été naturellement associé à la mission
de puissance et de conquête que Rome se découvrait: regere populos»; R. Del Ponte, La
religione dei romani, cit., 135: «la figura maestosa di Giove Ottimo
Massimo appartiene solo allo Stato. Iuppiter
e res publica si protendono
entrambi verso l’avvenire, che molti prodigi rivelano foriero di grandezza. Al
centro di tutto, il tempio capitolino, nato sacralmente in contemporanea alle
nuove magistrature statuali. Finché questo esisterà, esisterà anche lo Stato».
[70]
Cic., de dom. 139; Liv. 2.8.6-8;
7.3.8; Sen. phil., cons. ad Marc. 13.1;
Val. Max. 5.10.1. Cfr. anche Polyb. 3.22.1. Per l’«importance dans
l’élaboration du récit annalistique de la dédicace du temple de la triade
capitoline» rimando a R. Bloch, Tite-Live
et les premiers siècles de Rome, cit., 75 ss.
[71] Per la carriera del personaggio
vedi T.R.S. Broughton, The Magistrates of
the Roman Republic, I, cit., 3 e 6.
[72] La presenza di Juppiter alla
fondazione della civitas è dato
costante nelle fonti: Cic., in Cat. I.33:
Tu, Iuppiter, qui isdem quibus haec urbs
auspiciis a Romulo es constitutus, quem Statorem huius urbis atque imperi vere
nominamus, hunc et huius socios a tuis ceterisque templis, a tectis urbis ac
moenibus, a vita fortunisque civium omnium arcebis; Liv. 1.12.4-6: Romulus et ipse turba fugientium actus arma
ad caelum tollens ‘Iuppiter, tuis’ inquit ‘iussus avibus hic in Palatio prima
urbi fundamenta ieci. Arcem iam scelere emptam Sabini habent; inde huc armati
superata media valle tendunt; at tu,
pater deum hominumque, hinc saltem arce hostes, deme terrorem Romanis fugamque foedam siste. Hic ego tibi templum Statori Iovi, quod monumentum sit posteris tua
praesenti ope servatam urbem esse, voveo’; 28.28.11: Ne istuc Iuppiter optimus maximus sirit, urbem auspicato dis auctoribus
in aeternum conditam huic fragili et mortali corpori aequalem esse.
A tal fine appaiono pregnanti le osservazioni di P.
Catalano, Aspetti spaziali del sistema
giuridico-religioso romano, cit., 442 ss., che pongono in luce come secondo
la concezione romana il populus Romanus
Quirites sarebbe nato per volontà di Iuppiter, volontà accertata
auguralmente da Romolo. Cfr. Id., Contributi
allo studio del diritto augurale, cit., 164, dove si evidenzia il rapporto
tra la massima divinità romana e gli auspici: «Giove ha voluto la città, Giove
la sostiene [...] nell’auspicium (nell’esigenza
dell’auspicazione e nell’efficacia del segno) si realizza la presenza
permanente della divinità nell’attività umana».
[73] La valenza politica del dio
emerge anche dalla tradizione (Dion. Hal. 4.59-61, Plin., nat. hist. 28.4; cfr. Liv. 1.55) secondo cui durante i lavori di
scavo delle fondamenta del tempio Capitolino, sotto il regno di Tarquinio il
Superbo, si rinvenne un segno di grande fortuna per la città.
[74] Una parte della dottrina ha
sostenuto l’estraneità e l’autonomia della plebe rispetto alla civitas patrizia.
Vedi ad esempio: A. Dell’Oro, La
formazione dello stato patrizio-plebeo, cit., 70 ss., il quale ha affermato che la plebe era una
collettività politica autonoma «collegata, con modalità non sempre identiche,
alla comunità patrizia»; F. De Martino, Storia
della costituzione romana, I, cit., 256, 261, secondo il quale la plebe si
era organizzata in una autonoma comunità rivoluzionaria, che utilizzava come
arma politica la minaccia di spezzare l’unità della civitas. Da ultimo ha asserito la volontà della plebe a separarsi
dalla città, P. Zamorani, Plebe genti
esercito, cit., in part. 331 ss., per il quale il decemvirato si proponeva
come una forma di governo unitaria, a cui si oppose il separatismo della plebe.
Altri autori, invece, collocano la plebe all’interno della civitas: R. Orestano, I fatti di
normazione, cit., 256 ss., sostiene che l’organizzazione plebea si sarebbe
costituita in seguito alla serrata del patriziato: «essa infatti non si è
formata prima e fuori del nuovo ordinamento romano, ma dopo e dentro questo
ordinamento, con persone che avevano già la condizione di cittadini e che
diedero vita ad un loro proprio ordinamento, il quale si sviluppò e operò all’interno
dell’ordinamento romano» (257); P. Frezza, Secessioni plebee e rivolte servili nella
Roma antica, in Studia et
Documenta Historiae et Iuris 45, 1979, 310 ss. (= Id., Scritti, III, a cura di F. Amarelli ed E. Germino, Romae 2000, 335
ss.), afferma che «una analisi delle costanti delle agitazioni plebee e delle
rivolte servili in Roma muove dal presupposto che né le une né le altre vollero
e poterono essere un moto di sovvertimento dell’ordine vigente, pur
manifestando entrambe una protesta contro questo ordine, ed una volontà di
mutare taluno dei suoi fondamenti» (310 = 335); A.
Momigliano, Osservazioni sulla
distinzione fra patrizi e plebei, in Les
origines de la république romaine, Vandœuvres-Genève
29 août-4 septembre 1966, Genève
1967, 197 ss. (ora in Id., Roma arcaica,
cit., 209 ss.), in part. a p. 215 (= 219), evidenzia il fatto che non si
concretizzò mai una vera battaglia armata tra le due classi sociali: «come la
tradizione non sa di lotte in senato, non sa di vera guerra civile, di veri
urti militari fra patrizi e plebei, come ci si dovrebbe aspettare se gli equites patrizi e i loro clienti fossero
venuti a trovarsi di contro la classis
plebea. La tradizione conosce secessioni di
plebei (sia pure armati), non battaglie tra plebei e patrizi».
[75] Liv. 3.57.7: Inter haec ab Latinis et Hernicis legati gratulatum de concordia patrum
ac plebis Romam venerunt donumque ob eam Iovi optumo maximo coronam auream in
Capitolium tulere parvi ponderis, prout res haud opulentae erant colebanturque
religiones pie magis quam magnifice. Secondo G. Poma, Tra legislatori e tiranni, cit., 299 nt. 74, sebbene questa notizia
non sia presente in Dionigi di Alicarnasso, «potrebbe, anch’essa, discendere
dalla cronaca pontificale».
[76] Per l’utilizzo del termine “vita”
in relazione al populus Romanus rinvio a: P. Catalano, Aspetti spaziali del sistema
giuridico-religioso romano, cit., 443 e nt. 4; F. Sini: Dai peregrina sacra alle pravae et externae religiones dei Baccanali: alcune riflessioni su ‘alieni’ e sistema giuridico-religioso
romano, in Studia et Documenta
Historiae et Iuris 60, 1994, 59 e nt. 30; «Fetiales, quod fidei publicae inter populos praeerant»: riflessioni su fides e “diritto internazionale” romano (a
proposito di bellum, hostis, pax),
in Il ruolo della buona fede oggettiva
nell’esperienza giuridica storica e contemporanea. Atti del Convegno
internazionale di studi in onore di A. Burdese. (Padova – Venezia – Treviso,
14-15-16 giugno 2001), a cura di L. Garofalo, III, Padova 2003, 534 ss.
[77] L. Thommen, Les lieux de la plèbe et de ses tribuns dans
[78] Varr., de ling. Lat. 5.81: Tribuni
plebei, quod ex tribunis militum primum tribuni plebei facti, qui plebem
defenderent, in secessione Crustumerina.
[79] Th. Mommsen, Le droit public romain, III, cit., 313; F. Fabbrini, v. «Tribunis plebis», cit., 780 nt. 2; R.G.
Kent, in Varro, On the latin language,
I. Books V.-VII, Cambridge,
Massachussetts – London 1977, 78 nt. b.
[80] Le altre fonti che indicano il monte Sacro (trans Anienem) come luogo della prima
secessione plebea sono: Cic., Brut.
54; Dion. Hal. 6.45.2; 10.35.1; Liv. 2.33.3; 2.34.10; 3.54.12; Val. Max.
8.9.1; Ascon., in Cornel., 67 Kiessling et Schoell; Plut., Cor. 6.1; Flor. 1.23.1; Fest., v. Sacer mons,
Indicano invece l’Aventino: Calp. Pis., ann. fragm. fr. 22, 129 Peter (= Liv. 2.32.3); Sall., bell. Iug. 31.17; cfr. Liv. 3.54.8-9. Fanno riferimento ad entrambi i
luoghi: Cic., de re publ. 2.58;
Sall., hist. 1, fr. 11 (= Aug., civ. dei
3.17); cfr. Liv. 3.61.5-6.
[81] La rivoluzione della plebe, cit., 190. Indica l’Aventino
anche G. De Sanctis, Storia dei Romani,
II. La conquista del primato in Italia,
2a ed., 1960 [rist., Firenze 1964], 4 s. Per una bibliografia precedente sul
tema rimando a J.-C. Richard, Les
origines de la plèbe romaine, cit., 547 ss.
[82] Vedi: F. Stella Maranca, Il
tribunato della plebe dalla “lex Hortensia” alla “lex Cornelia”, cit., 17
s.; G. Niccolini, Il tribunato della
plebe, cit., 61; H. Fugier, Recherches
sur l’expression du sacré, cit., 227, 235; P. Zamorani, Plebe genti esercito, cit., 176 s.; F. Zuccotti, Il giuramento nel mondo giuridico e
religioso antico, cit., 39.
[83] Vedi anche Paul. Fest., v.
Sacer mons,
[84] Secondo Gell., noct. Att. 13.14.4-7, l’Aventino venne
ricompreso nel pomerium solo durante
il principato di Claudio, in quanto sussistevano impedimenti religiosi rilevati
dagli auguri: [4] Propterea quaesitum est ac nunc etiam in
quaestione est, quam ob causam ex septem urbis montibus, cum ceteri sex intra
pomerium sint, Aventinus solum, quae pars non longinqua nec infrequens est,
extra pomerium sit, neque id Servius Tullius rex neque Sulla, qui proferundi
pomerii titulum quaesivit, neque postea divus Iulius, cum pomerium proferret,
intra effatos urbi fines incluserint. [5] Huius rei Messala
aliquot causas videri scripsit, sed praeter eas omnis ipse unam probat, quod in
eo monte Remus urbis condendae gratia auspicaverit avesque inritas habuerit
superatusque in auspicio a Romulo sit: [6] Idcirco inquit omnes,
qui pomerium protulerunt, montem istum excluserunt quasi avibus obscenis
ominosum. [7] Sed de Aventino monte praetermittendum non
putavi, quod non pridem ego in + Elydis, grammatici veteris, commentario
offendi, in quo scriptum erat Aventinum antea, sicuti diximus, extra pomerium
exclusum, post auctore divo Claudio receptum et intra pomerii fines observatum.
Vedi anche Sen. phil., de brev. vit. 13.8,
per il quale era superfluo soffermarsi sui motivi che portarono l’Aventino a
restare escluso dalla linea pomeriale: Hoc
scire magis prodest, quam Aventinum montem extra pomerium esse, ut ille
adfirmabat, propter alteram ex duabus causis, aut quod plebs eo secessisset. Aut
quod Remo auspicante illo loco aves non addixissent, alia deinceps
innumerabilia, quae aut farta sunt mendaciis aut similia? Tuttavia, appare
significativa la notizia riportata da Val. Max. 1.8.3: Nec minus voluntarius in urbem nostram Iunonis transitus. Captis a
Furio Camillo Veis milites iussu imperatoris simulacrum Iunonis Monetae, quod
ibi praecipua religione cultum erat, in urbem translaturi sede sua movere
conabantur. Quorum ab uno per iocum interrogata dea an Romam migrare vellet,
velle se respondit. Hac voce audita lusus in admirationem versus est, iamque
non simulacrum, sed ipsam caelo Iunonem petitam portare se credentes laeti in
ea parte montis Aventini, in qua nunc templum eius cernimus, collocaverunt.
A parte l’inesattezza dell’appellativo di Giunone traslata da Veio (si
tratterebbe infatti di Iuno Regina, vedi Liv. 5.23.7), dall’aneddoto emerge la
volontà della dea di stare a Roma, e questa volontà venne rispettata
stabilendone il culto sull’Aventino (per il carmen rivolto a Iuno Regina
dopo la distruzione di Veio vedi V. Basanoff, Evocatio. Étude d’un rituel militaire romain,
Paris 1947, 42 ss.). Da
ciò appare, dunque, come il colle fosse considerato in epoca repubblicana parte
dell’urbs, così come emerge dallo
stesso racconto da Liv. 3.52.1-2, per cui l’abbandono dell’Aventino da parte
dei secessionisti per accamparsi sul monte Sacro sarebbe stato visto dai
patrizi come l’abbandono della città stessa: Per M. Duillium, qui tribunus plebis fuerat, certior facta plebs
contentionibus adsiduis nihil transigi, in Sacrum montem ex Aventino transit
adfirmante Duillio non prius, quam deseri urbem videant, curam in animos patrum
descensuram. Vedi in argomento A. Guarino, La rivoluzione della plebe, cit., 190 s., per il quale il colle
«era sociologicamente campagna, in quanto posto fuori dal pomerio, ma
costituzionalmente città, in quanto sito entro le mura serviane». In tal modo i
plebei «non attuarono una secessione nel senso spaziale della parola, non si
allontanarono insomma dalla città, ma, rimanendo in città o almeno ai margini
esterni del pomerio».
Si registrano in letteratura posizione differenti rispetto
alla questione se considerare nell’età della seconda secessione della plebe
l’Aventino interno o meno alla città di Roma. Vedi tra coloro che seguono la
tradizione, sostenendo l’estraneità del colle dalle cinte pomeriali fino
all’imperatore Claudio: S. Accame, I re
di Roma nella leggenda e nella storia, cit., 197; A. Alföldi, Diana Nemorensis, in American Journal of Archaeology 64.2,
1960, 144: «The Aventine remained extra
pomerium, beyond the sphere of the rights of the patrician magistrates, who
would not have legally tolerated this revolutionary organization, an illicita contio, inside the sacred
boundary of the city»; P. de Francisci, Primordia
civitatis, Romae 1959, 664 ss., per il quale il colle era comunque protetto
da una fortificazione, che rappresentava una «prima linea di difesa» della
città; è anche probabile «che l’Aventino abbia attirato l’attenzione e le cure
di Servio Tullo» (665), in quanto il re vi avrebbe innalzato il tempio di
Diana, in un’ottica politico-religiosa, tesa all’unificazione delle popolazioni
laziali sotto il primato di Roma.
[85] Liv. 1.20.7: [Numa] Ad ea elicienda ex mentibus
divinis Iovi Elicio aram in Aventino dicavit, deumque consuluit auguriis quae
suspicienda essent;
vedi anche Varr., de ling. Lat. 6.95:
Sic Elicii Io[bis]vis[a] ara in Aventino
ab eliciendo. Il colle fu oggetto degli interessi di un altro re, Servio
Tullio, il quale vi avrebbe eretto il tempio di Diana: Liv. 1.45; Dion. Hal.
4.26.4; Fest., Servorum dies,
[86] Vedi Ovid., fast. 3.329-348: Constat
Aventinae tremuisse cacumina silvae, / terraque subsedit pondere pressa Iovis;
/ corda micant regis. Totoque e corpore sanguis / fugit, et hirsutae deriguere
comae. / Ut rediit animus, “Da certa piamina” dixit / “fulminis, altorum rexque
paterque deum, / si tua contigimus manibus donaria puris, / hoc quoque, quod
petitur, si pia lingua rogat”. / Adnuit oranti, sed verum ambage remota /
abdidit et dubio terruit ore virum. / “Caede caput” dixit; cui rex “Parebimus”
inquit / “caedenda est hortis eruta cepa meis”. / Addidit hic “hominis”;
“sumes” ait ille “capillos”; / postulat hic animam; cui Numa “piscis” ait. /
Risit, et “His” inquit “facito mea tela procures, / o vir conloquio non
abigende deum. / Sed tibi, protulerit cum totum crastinus orbem / Cynthius,
imperii pignora certa dabo”. / Dixit et ingenti tonitru super aethera motum /
fertur adorantem destituitque Numam. Riportano la stesso episodio
Plutarco (Num. 15.3-9), e Arnobio (adv. nat. 5.1, che ha come fonte Valerio
Anziate). Per una interpretazione del passo vedi C. Rinolfi, Livio
1.20.5-7: pontefici, sacra, ius sacrum, cit.
[87] Afferma la «specifica facies culturale e sacrale
dell’Aventino» V.E. Vernole, Servius
Tullius, Roma 2002, 140.
[88] In tale ottica si deve rinviare
da ultimi ad A. Giardina, Perimetri,
il quale si è dedicato alla «Topografia religiosa e topografia giuridica», ed a
M. Beard, Gli spazi degli dei, le feste,
la quale pone in evidenza lo stretto rapporto tra la topografia di Roma e la
religione (entrambi i lavori sono raccolti in Roma antica, a cura di A. Giardina, Roma-Bari 2005, rispettivamente
a 27 ss., e 35 ss.).
[89] Bisogna a tal fine accettare le
pregnanti considerazioni di G. Dumézil, La religion romaine archaïque, cit., 205: «si les patrices ont
volontiers, ostentatorement, annexé Jupiter, il semble certain que les
plébéiens ne l’ont jamais considéré comme un dieu ennemi, mais plutôt comme un
arbitre qu’il fallait convaincre, gagner à leur cause: puisque la plébe avait
raison, comment le dieu du droit lui aurait-il donne tort?». Del resto, come
sosteneva H. Le Bonniec, Le culte de
Cérès à Rome, cit., 347: «les plébéiens devaient eux aussi, dès l’origine,
adorer Jupiter».
[90]
Vedi: Liv. 23.30.17: Plebei ludi aedilium
M. Aureli Cottae et M. Claudi Marcelli ter instaurati; 25.2.10: Ludi plebei per biduum instaurati et Iovis
epulum fuit ludorum causa; 29.11.12: Ludi
Romani ter, plebeii septiens instaurati; 30.39.8: P. Aelius Tubero et L. Laetorius aediles plebis vitio creati magistratu se abdicaverunt, cum ludos
ludorumque causa epulum Iovi fecissent et signa tria ex multaticio argento
facta in Capitolio posuissent; 31.4.7: et
plebeii ludi ter toti instaurati ab aedilibus plebi L. Apustio Fullone et Q.
Minucio Rufo, qui ex aedilitate praetor creatus erat; et Iovis epulum fuit
ludorum causa; 32.7.13: Ab iis ludi
plebeii <---> instaurati; et epulum Iovis fuit ludorum causa;
33.42.11: Ludi plebeii per biduum
instaurati, et epulum fuit ludorum causa. Alcuni autori sostengono una celebrazione precedente
rispetto alla tradizionale collocazione dei giochi plebei in onore di Giove:
L.R. Taylor, Cicero’s Aedilship, in American Journal of Philology 60, 1939,
195 ss.; H. Le Bonniec, Le culte de Cérès
à Rome, cit., 347, 351 ss.
[91] La sacertà infatti è menzionata
nel lapis Niger: CIL I.2.1 nr. 1, 367 ss.
[92] Vedine l’utilizzo ad esempio in
Vopisc. Syrac., Tacit. 4.4;
18.2.
[93]
Al riguardo
F.V. Hickson, Roman Prayer Language,
cit., 63, evidenzia
come «A number of sources attest the predominantly official character of the
formula quod bonum faustum felixque sit and
its variations»; per l’A.
questa formula introduttiva, che in Livio appare 8 volte, sarebbe una sorta di
benedizione divina: «All example of the formula appear in an
official setting, four of the eight in the context of a contio (1.17.10, 3.34.2, 3.54.8, 10.8.12 = App. 4, 13, 15, 37). It
is always spoken by people in official positions, a king, envoys, and senators
(e.g. 1.28.7, 3.54.8, 42.30.10 = App. 7, 15, 77), and to people carrying out
official functions, such as soldiers and assemblies (e.g. 24.16.9, 3.54.8 =
App. 45, 18). Its objective is always a divine blessing on acts about to be
undertaken will affect the state such as voting (e.g. 1.17.10 = App. 4). Thus,
although Livy does not present any of the occasions which occur in other
sources, the historian clearly uses this formula in the same manner» (64 s.).
[94] Sostengono l’origine pontificale
del racconto, ad esempio: S. Mazzarino, Sul
tribunato della plebe, cit., 109, il quale constatava: «È in ogni caso
evidente che la ‘restaurazione’ del tribunato nel
[95] Cic., de divin. 1.102:
Neque solum deorum voces Pythagorei
observitaverunt, sed etiam hominum, quae vocant omina. Quae maiores nostri quia
valere censebant, idcirco omnibus rebus agendis ‘quod bonum, faustum, felix
fortunatumque esset’ praefabantur, rebusque divinis, quae publice fierent, ut
‘faverent linguis’, imperabatur inque feriis imperandis, ut ‘litibus et iurgiis
se abstinerent’. Itemque in lustranda colonia ab eo, qui eam deduceret, et cum
imperator exercitum, censor populum lustraret, bonis nominibus, qui hostias
ducerent, eligebantur. Quod idem in dilectu consules
observant, ut primus miles fiat bono nomine.
[96] Diverse sono le testimonianze
relative alla forza insita nella parola, in particolare Plinio (nat. hist. 28.14) afferma che multi vero magnarum rerum fata et ostenta
verbis permutari.
Numerosi autori hanno sostenuto la “forza” intrinseca dei verba, vedi ad esempio: R. Orestano, Dal ius al fas. Rapporto fra diritto divino
e umano in Roma dall’età primitiva all’età classica, in Bullettino dell’Istituto di Diritto Romano 46,
1939, 261 (= Id., Scritti, II,
Sezione prima Saggistica, con una
nota di lettura di A. Mantello, Napoli 1998, 628); Id., I fatti di normazione, cit., 189 ss.; C. Gioffredi, Religione e diritto nella più antica
esperienza romana. (Per la definizione del concetto di ‘ius’), in Studia et Documenta Historiae et Iuris
20, 1954, 274 (in parte ora in Aa.Vv., Diritto
e storia. L’esperienza giuridica di Roma attraverso le riflessioni di
antichisti e giusromanisti contemporanei: Antologia, a cura di A. Corbino,
Padova 1995, 256); R. Bloch, Liberté
et déterminisme dans la divination romaine, in Hommages à J.
Bayet, cit., 95; A. Ronconi, «Malum
carmen» e «malus poeta», in Synteleia
V. Arangio-Ruiz, a cura di A. Guarino e L. Labruna, 2, Napoli 1964, 958 ss.
Per «The power of words», vedi anche, F.V. Hickson, Roman Prayer Language, cit., 7 ss.
[97]
Liv. 1.17.10: Tum interrex contione
advocata ‘Quod bonum, faustum felixque sit’ inquit ‘Quirites, regem create; ita
patribus visum est. Patres deinde, si dignum, qui
secundus ab Romulo numeretur, crearitis, auctores fient’.
[98] In Liv. 3.34.2, nel descrivere un
altro momento importante della prima età repubblicana, in apertura si utilizza
la formula in questione per far conoscere le dieci tavole redatte dal primo
decemvirato: quod bonum, faustum felixque
rei publicae, ipsis liberisque eorum esset, ire et legere leges propositas
iussere.
[99] Liv. 1.28.7: rex cetera, ut orsus erat, peragit: ‘Quod bonum, faustum felixque sit
populo Romano ac mihi vobisque, Albani, populum omnem Albanum Romam traducere
in animo est, civitatem dare plebi, primores in patres legere, unam urbem, unam
rem publicam facere. Ut ex uno quondam in duos populos divisa Albana res est,
sic nunc in unum redeat’.
[100] Tac., ann. 3.58.2: Saepe pontifices
Dialia sacra fecisse, si flamen valitudine aut munere publico impediretur.
[101] Per il controllo pontificale
sulla regolarità dei riti vedi ad esempio Cic., de nat. deor. 1.61: Itaque
ego ipse pontifex, qui caerimonias religionesque publicas sanctissime tuendas
arbitror.
[102] Esempi di provvedimenti del
pontefice massimo nei confronti dei flamini in Cic., Philipp. XI 18; Liv. 37.51.1-6; Val. Max 1.1.2.
[104] Liv. 40.42.8-10, riferisce della
multa inflitta dal pontefice massimo al duumviro navale L. Cornelio Dolabella,
il quale doveva essere consacrato re dei sacrifici.
[105] Per il potere di repressione del
pontefice massimo sui suoi sottoposti, rimando all’episodio del
[106] Sulla nozione romana di pax deorum, vedi ora (con riferimento
alle fonti e alle letteratura precedente) F. Sini, Bellum nefandum, cit., 256 ss.; Populus et religio dans
[107]
Cic., de leg. 1.23: Est igitur, quoniam nihil est ratione
melius, eaque est et in homine et in deo, prima homini cum deo rationis
societas. Inter quos autem ratio, inter eosdem etiam recta ratio [et] communis
est: quae cum sit lex, lege quoque consociati homines cum dis putandi sumus.
Inter quos porro est communio legis, inter eos communio iuris est. Quibus autem
haec sunt inter eos communia, ei civitatis eiusdem habendi sunt. Si vero isdem
imperiis et potestatibus parent, multo iam magis parent [autem] huic caelesti
discriptioni mentique divinae et praepotenti deo, ut iam universus sit hic
mundus una civitas communis deorum atque hominum existimanda. Et quod in
civitatibus ratione quadam, de qua dicetur idoneo loco, agnationibus familiarum
distinguuntur status, id in rerum natura tanto est magnificentius tantoque
praeclarius, ut homines deorum agnatione et gente teneantur. Vedi in materia: P. Catalano, Una civitas communis deorum atque
hominum: Cicerone tra temperatio
reipublicae e rivoluzioni, in Studia et Documenta Historiae et Iuris
61, 1995, 724; F. Sini, Sua cuique civitati religio, cit., 190 s.
[108] La crescita della civitas
romana viene ben delineata da Pomponio con la «felice espressione» (così F.
Sini, Sua cuique civitati religio, cit., 8 nt. 17) di civitas augescens: D. 1.2.2.7 (Pomp. lib. sing.
enchir.): Augescente civitate quia deerant quaedam genera agendi, non post
multum temporis spatium Sextus Aelius alias actiones composuit et librum populo
dedit, qui appellatur ius Aelianum. Sul concetto vedi gli studi di M.P.
Baccari: Il concetto giuridico di civitas
augescens: origine e continuità, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 61,
1995, 759 ss.; Cittadini popoli e
comunione nella legislazione dei secoli IV-VI, Torino 1996, 55 ss.
[109] Per l’episodio vedi: G.
Dumézil, La bataille de Sentinum, in
Id., Idées romaines, Paris 1969, 179
ss. (testo che sviluppa il precedente lavoro La bataille de Sentinum:
remarques sur la fabrication de l’Histoire romaine, in
Annales, Économies, Sociétés,
Civilisations 7, n. 2, Paris 1952, 146 ss.); J. Bayet, L’étrange «omen» de Sentinum et le celtisme en Italie, in Hommages à A. Grenier, éd. par M.
Renard, Bruxelles-Berchem 1962, 244 ss.
[110]
Console nel
[111] Sul personaggio vedi T.R.S.
Broughton, The Magistrates of the Roman
Republic, I, cit., 159, 164, 175, 177. Sui Decii rimando a Ch. Guittard,
Naissance et développement d’une légende:
les «Decii», in Hommages à H. Le
Bonniec, Res Sacrae, publ. par D. Porte et J.-P. Néraudau, Bruxelles 1988,
256 ss.
[112] Per quanto riguarda il praeire verba vedi ad esempio: Varr., de ling. Lat. 6.61; Liv. 4.27.1;
8.9.4-8; 9.46.6; 10.28.14; 31.9.9; 36.2.3; 42.28.9; Tac., hist. 4.53.3; ILS II.1, nr. 4909. Questa importante funzione
pontificale persistette a lungo: Svetonio (Claud.
22.2) ricorda che il divus Claudius, in qualità di pontefice massimo,
suggerì la formula delle preghiere propiziatorie al popolo, in occasione della
sinistra apparizione di un uccello infausto sul Campidoglio. Per il praeire
verba rimando a F. Sini, A quibus iura civibus praescribebantur,
cit., 126 nt. 23.
[113] Per la devotio vedi, in particolare: L.G. Gyraldus, Historiae Deorum Gentilium, Basileae 1548, 696 s.; A.
Bouché-Leclercq, Les pontifes de
l’ancienne Rome, cit., 160 ss.; V. Basanoff, Deuotio de M. Curtius eques, in Latomus
8, 1949, 31 ss.; P. de Francisci, Primordia
civitatis, cit., 312 ss.; K. Latte, Römische
Religionsgeschichte, München 1960, 125 s., 203 s.; G. Dumézil, La religion romaine archaïque, cit., 108
ss.; H.S. Versnel, Two Types of Roman devotio,
in Mnemosyne 29, 1976, 365 ss.; C. Bennett Pascal, The Dubious Devotion of Turnus, in Transactions of the American Philological
Association 120, 1990, 251 ss.; J. Rüpke, Domi militiae. Die religiöse Konstruktion des Krieges
in Rom, Stuttgart 1990, 156 ss.
[114] Liv. 10.29.3-4: At ex parte altera
pontifex Livius, cui lictores Decio tradiderat iusseratque pro praetore esse,
vociferari vicisse Romanos, defunctos consulis fato; Gallos Samnitesque
Telluris matris ac deorum Manium esse, rapere ad se ac vocare Decium devotam se
cum aciem furiarumque ac formidinis plena omnia ad hostes esse. Per la
vicenda vedi anche de vir. ill. 27.3:
Quarto consulatu cum Fabio Maximo, cum
Galli, Samnites, Umbri, Tusci contra Romanos conspirassent, ibi exercitu in
aciem ducto et cornu inclinante exemplum patris imitatus advocato Marco Livio
pontifice hastae insistens et solemnia verba respondens se et hostes diis
manibus devovit; cfr. Oros., hist.
adv. pagan. 3.21.1-6.
Tuttavia,
per R. Seguin, Remarques sur les origines
des pontifes romains: Pontifex Maximus
et Rex Sacrorum, in Hommages à H. Le
Bonniec. Res Sacrae, cit., 418, queste sostituzioni consisterebbero in
«activités sporadiques, ou accidentelles. Si le Pontifex Maximus participe à certaine cérémonies, ce n’est pas pour
les célébrer lui-même, mais pour en garantir par sa présence la validité
conforme au rituel immuable».
[115] L.
Capogrossi Colognesi, Storia delle istituzioni romane, Roma s.d. [ma
1978], 108.
[116] Vedi
in particolare: Æ. Forcellini, Totius
latinitatis Lexicon, consilio et cura J. Facciolati, I, Patavii 1771, v. calātus, 352: «Calata primum dicta sunt omnia comitia,
quod ad ea populus calaretur, seu convocaretur: hæc postea in curiata, centuriata, & tributa divisa
sunt. Deinde calata comitia speciatim
dicta sunt, quæ pro collegio pontificum habebantur, aut regis sacrorum, aut
flaminum inaugurandorum causa: item quæ sacris promulgandit, aut testamento
faciendo cogebantur»; J.L.E. Ortolan, Spiegazione
storica delle Istituzioni dell’imperatore Giustiniano, col testo, la
traduzione, e le spiegazioni sotto ciascun paragrafo, preceduta Da una
esposizione generale del diritto, I, 2a ed., tr. it. sulla 5a ed. fr. di N.
Longo-Mancini, Napoli 1856, 339, il quale parlava specificamente di assemblee
speciali del popolo, per affari religiosi e per confezionare testamenti; P. de Francisci,
Primordia civitatis, cit., 577 nt.
87, per cui i comizi calati sarebbero stati in origine le antiche riunioni
delle vecchie curie convocate dal pontefice massimo; con la creazione dei
comizi curiati convocati di carattere politico-militare presieduti dal re, i comitia
calata si distinsero da questi in quanto presieduti dal pontefice massimo e
convocati da un calator; F. Daverio, Sacrorum
detestatio, in Studia et Documenta
Historiae et Iuris 45, 1979, 531, il quale sottolinea che i comitia calata erano «un’autonoma e
“tecnica” modalità d’assemblea, caratterizzata dalla presenza e dalla
sostanziale direzione dei pontefici»; A. Corbino, La nozione di ‘comitia calata’, in IVRA 42, 1991, 145 ss., il quale reputa i comitia calata come
«un genus comiziale a sé» delle riunioni popolari, non deliberanti,
formalmente convocate per particolari atti, in cui interveniva il collegio
pontificale.
[117] Vedi
ad esempio: P.F. Girard, Manuale elementare di diritto romano, tr. it.
sulla 4a ed. fr. di C. Longo, Milano 1909, 813; G. Nocera, Il potere dei comizi e i suoi limiti, Milano 1940, 2 s.; R.
Marache, in Aulu-Gelle, Les nuits attiques, Tome III, Livres
XI-XV, Paris 1989, 229 nt. 2, il quale sostiene che l’incaricato a convocare il
popolo romano nei comitia calata era un lictor curiatus, per tale
ragione queste riunioni «ne pouvaient être que par curies puisque les
comices par centuries n’étaient pas appelés par le licteur (calata),
mais convoqués à son de cor ou de trompettes»; G. Giliberti, Elementi di storia del diritto romano.
I. Il regno e la repubblica, Torino 1993, 104.
[118] Vedi G. Nicosia, Lineamenti di storia della costituzione e del
diritto di Roma, I, Catania 1971 [rist., Catania 1989], 42, il quale
sostiene con vigore che l’espressione comitia calata: «non designò mai
un’entità diversa dai comizî curiati, bensì fu adoperata (di solito allo
ablativo: calatis comitiis) per indicare che taluni atti si compivano di
fronte a tali comizi riuniti (ad es. testamentum calatis comitiis)».
[119] U.
Coli, Il testamento nella Legge delle XII Tavole, in IVRA 7, 1956, 42 s. (ora in Id., Scritti
di diritto romano, II, Milano 1973, 631 s.).
[120] U. Coli, Il testamento nella Legge delle XII Tavole,
cit., 43 (= Id., Scritti di diritto romano, II, cit., 632).
[121] P.
de Francisci, Primordia civitatis,
cit., 577 nt. 87.
[122] Così
vedi ad esempio: G. Padelletti, Storia del
diritto romano. Manuale ad uso delle scuole, Firenze 1878, 138 nt. 2: «Tutti
quei comizii convocati e preseduti dai pontefici chiamavansi calata ed
erano ora curiati, ora centuriati»; [B.] Kübler, v. Calata
comitia, in PWRE, 3.1, Stuttgart
1879, col. 1330: «Es ist daher wahrscheinlich, dass diese Versammlungen calata
genannt wurden mit Rücksicht auf die ihnen eigentümliche Art Berufung durch
die Pontifices. Sie fanden sowohl nach Curien als nach Centurien statt; jene
wurden durch einem lictor curiatius (diese Form bezeugen die
Inschriften, bei Gellius steht curiatus) berufen, diese durch einem
Hornisten»; G.W. Botsford, The roman assemblies, cit., 152 ss., il quale è del parere che questi
comizi sotto la presidenza pontificale, con scopi religiosi si articolavano in
curie, oppure, meno frequentemente in centurie.
[123] Th. Mommsen, Le droit public romain, VI.1, tr. fr. di P.F. Girard, Paris 1889
[réimpr. 1985], 349
nt. 1, rivedendo così la sua precedente posizione che prevedeva anche il caso
dell’inaugurazione nei comizi centuriati del flamine di Quirino: Römische Forschungen, I, cit., 273.
[124] F. Daverio, Sacrorum detestatio, cit., 530 e nt.
[125] R. Marache, in Aulu-Gelle, Les
nuits attiques, cit., 173.
[126] Gell., noct. Att. 11.3.
[127] Così già A. Corbino, La nozione di
‘comitia calata’, cit., 149 s.
[128] Vedi Varr., de ling.
Lat. 6.91; rinvio in materia a C. Nicolet, Il mestiere di cittadino
nell’antica Roma, tr. it. di F. Grillenzoni, Roma 1980, 326 s.
[129] Varr., de ling. Lat. 6.27: Primi dies mensium nominati Kalendae, quod
his diebus calantur eius mensis nonae a pontificibus, quintanae an septimanae
sint futurae, in Capitolio in curia Calabra sic dicto quinquies: ‘Calo, Iuno
Covella’, septies dicto ‘Calo Iuno Covella’; Serv., in Verg. Aen. 8.654: ‘Horrebat
regia culmo’ Curiam Calabram dicit, quam Romulus texerat culmis. [Serv.
Dan., in Verg. Aen. 8.654] Ideo autem ‘Calabra’, quod cum incertae
essent kalendae aut idus, a Romulo constitutum est, ut ibi patres vel populus
calarentur, id est vocarentur, et scirent, qua die kalendae essent vel etiam
idus. A rege sacrificulo idem fiebat ut, quoniam adhuc fasti non erant, ludorum
et sacrificiorum praenoscerent dies.
[130] Sui calatores vedi: Serv. Dan., in Verg. Georg. 1.268: pontifices
sacrificaturi praemittere calatores suos solent, ut, sicubi viderint opifices
adsidentes opus suum, prohibeant, ne pro negotio suo et ipsorum oculos et
caerimonias deum attaminent; ILS 4970: [in]
honorem domus Augustae kalatores pontificum et flaminum; ILS 4971: kalatores pontificum et flaminum; ILS 4972: kalatori pontif.
[131] Paul. Fest., v. Calatores,
[132] Gai. 2.101: Testamentorum autem genera initio duo fuerunt: nam aut
calatis comitiis testamentum faciebant, quae comitia bis in anno testamentis
faciendis destinata erant, aut in procinctu, id est cum belli causa arma
sumebant; procinctus est enim expeditus et armatus exercitus. Alterum itaque in pace et in otio faciebant, alterum in proelium exituri; Gell., noct. Att. 15.27.3: vedi
supra in questo
par.; Tit. Ulp. 20.2-3: Testamentorum genera fuerunt tria, unum, quod
calatis comitiis, alterum, quod in procinctu, tertium, quod per aes et libram
appellatum est; I. 2.10.1: Sed ut nihil antiquitatis penitus ignoretur,
sciendum est olim quidem duo genera testamentorum in usu fuisse, quorum altero
in pace et in otio utebantur, quod calatis comitiis appellabatur, altero, cum
in proelium exituri essent, quod procinctum dicebatur.
[133] Affermano la presidenza
repubblicana del pontefice massimo dei comitia
calata per i testamenti, ad esempio: Th. Mommsen, Le droit public romain, III, cit., 41, 42 nt. 3; F. Schwind, Römisches Recht, I.
Geschichte, Rechtsgang, System des Privatrechtes, Wien 1950, 374; P. de
Francisci, La formazione della comunità
politica romana primitiva, in Conferenze
romanistiche, Milano 1960, 100; Leage’s
roman private law founded on the Institutes of Gaius and Justinian, 3a ed. by A.M. Prichard, London 1964, 236;
A. Magdelain, La loi à Rome. Histoire d’un concept, Paris 1978, 82 s.; M. Amelotti, Le forme classiche di testamento, I. Lezioni di Diritto romano raccolte
da R. Martini, Torino 1966, 29.
[134] Th. Mommsen, Die römische
Chronologie, cit., 241 ss.; Id., Le
droit public romain, VI.1, cit., 363. Per A. Magdelain, «Quando rex comitiavit fas», in Revue Historique des Droits de l’Antiquité 58,
1980, 7 (ora in Id., Jus imperium
auctoritas, cit., 273) quella dello studioso tedesco fu «une
intuition géniale». Oltre al Magdelain, tra coloro che appoggiarono pienamente il
Mommsen si deve ricordare, ad esempio, E. De Ruggiero, v. Calator, in Dizionario
epigrafico di antichità romane, vol. II.
c-e, Parte I, c-consul, Roma 1900
[rist. an., Roma 1961], 533, ed anche grandi studiosi della religione romana,
quali K. Latte, Römische Religionsgeschichte,
cit., 117 s., e,
pur con alcune riserve, J. Bayet, La
religion romaine. Histoire politique et psychologique, 2a
ed., Paris 1969 [rist., 1976], 99.
Le critiche alla ipotesi
mommseniana, tuttavia, non mancarono. Oltre a chi come A. Momigliano, Il ‘rex sacrorum’ e l’origine della
repubblica, in Studi in onore di E.
Volterra, I, Milano 1971, 363 (ora in Id., Roma arcaica, cit., 169), si limita a definire quella del Mommsen
una «incerta congettura», v’è chi, come G. Wissowa, Religion und Kultus der Römer, cit., 435, 512 nt. 4.,
517 nt. 5, e [A.] Rosenberg, v. Rex
sacrorum, in PWRE, 1A.1,
Stuttgart 1914, coll. 721 ss., ha sostenuto che i giorni indicati con la sigla Q.R.C.F. non erano atti alla redazione
dei testamenta, poiché in tali
dies i comizi si sarebbero dovuti svolgere in una fase nefasta, che
avrebbe impedito la riunione del popolo per il compimento di atti giuridici. Al
contrario, secondo questi autori, nei giorni in questione si sarebbe svolta una
cerimonia espiatoria in funzione del tubilustrum,
rito legato alla stagione militare (per una critica a questi autori vedi F.
Blaive, Rex sacrorum. Recherches sur la fonction religieuse de la
royauté romaine, in Revue
Internationale des droits de l’Antiquité 42, 1995, 144 ss.). V’è inoltre chi afferma che i
testamenti si svolgevano il 15 marzo e il 15 maggio, come, ad esempio, E.
Weiss, Institutionen
des römischen Privatrechts also Einführung in die Privatrechtsrechtordung der
Gegenwart,
2a ed., Basel 1949, 511 s. Vedi anche la posizione di P. de Francisci, Primordia civitatis, cit., 494 nt. 392;
585 e nt. 121; 589 s. e nt. 144; Id., La
formazione della comunità politica romana primitiva, cit., 93 ss., il quale
sostiene che nei giorni in questione si
chiudeva la serie di riti per l’inizio delle campagne militari, e si riuniva
l’assemblea popolare, presieduta dal re per motivi politico-militari (contro le
affermazioni del de Francisci: P. Cipriano, Fas
e nefas, Roma 1978, 116 ss.).
[135] Esiste in dottrina una
diversità di opinioni intorno all’interpretazione del passo di Gaio (comitia … destinata erant), in quanto si
potrebbe intendere che i comitia calata
convocati in questi giorni avessero esclusivamente la funzione di consentire la
creazione di testamenti, come ha supposto A. Magdelain, «Quando rex comitiavit fas», cit., 7 [= Id., Jus imperium auctoritas, cit., 273], secondo il quale: «Il est tentant de supposer que les deux jours QRCF ne font pas connaître
leur objet parce qu’il va de soi», poiché si trattava di due assemblee tenute obbligatoriamente,
per consentire al cittadino di testare. Tuttavia, diversi autori negano la
specificità di tali comizi, ad esempio, G. Scherillo, Appunti sul testamento «in procinctu» nel diritto romano, in Scritti in memoria di A. Giuffrè, I,
Milano 1967, 783 nt. 3, E. Champlin, Creditur vulgo testamenta hominum speculum
esse morum: Why the Romans Made Wills,
in Classical Philology 84, 1989,
Vedi
anche la particolare ipotesi di J. Paoli, La
notion du temps fast et celle du temps comitial (Varron, De l. l., VI, 31 et 32.), in Revue des études anciennes 56, 1954, 121
ss., in part. 135
ss., il quale, considerando i giorni indicati come le uniche riunioni dei
comizi curiati nel periodo antico, afferma che in varie fasi si procedeva a
diversi atti (testamento, detestatio
sacrorum, compiuti nella contio
iniziale, e l’adrogatio, che si
poneva in essere nei comizi successivi) che portavano al compimento di un unico
istituto: l’adozione testamentaria.
[136] La sigla in questione si
rinviene nei Fasti prenestini: CIL I2.1, 234; Inscriptiones Latinae liberae rei publicae, fasciculus prior, ed.
A. Degrassi, Firenze 1957, 28 per martius;
30 per maius; Inscriptiones Italiae, XIII, 1. Fasti
et elogia. II. Fasti anni Numani et
iuliani, ed. A. Degrassi, Roma 1963, 7 e 11.
[138] Sulla funzione del pontifex maximus in rapporto ai comitia calata rimando a J.G. Wolf, ‘Comitia, quae pro conlegio pontificum
habentur’. Zur
Amtsautorität der Pontifices, in Das Profil des Juristen in der europäischen Tradition. Symposion aus
Anlass des 70. Geburtstages von F. Wieacker, hrsg. K. Luig und D. Liebs,
Ebelsbach am Main 1980, 1 ss.
[139] Cfr. P. Catalano, Contributi allo studio del diritto augurale,
cit., 372,
[140] Per
l’esercito romano sussistevano delle prescrizioni giuridico-religiose in
materia di convocazione, in quanto, come risulta per i comizi centuriati, esso
doveva essere radunato fuori dal pomerium:
Gell., noct. Att. 15.27.5: quia exercitum extra urbem imperari
oporteat, intra urbem imperari ius non sit. Sarebbe interessante
comprendere se l’azione di attraversare in armi l’urbe, posta in essere dalla
plebe, contravvenisse in qualche modo queste prescrizioni, che delimitavano extra urbem l’esercizio dell’imperium
militum.
[141] Per alcuni autori il termine
indica una massa non ordinata ed indifferenziata, vedi ad esempio: M.
Balzarini, v. «Plebs», in Novissimo Digesto Italiano, 13, 1966,
141 e nt. 6; V. Giuffrè, «Plebeii gentes
non habent», in Labeo 16, 1970,
329 ss. Mentre intende il termine multitudo come sinonimo di plebe J.-C. Richard, Les origines de la plèbe romaine, cit.,
83: «En dehors de cette élite, il ne connaît que la multitudo, qu’il s’agisse de la fondre en un peuple homogène ou de
lui infuser un sang nouveau par l’ouverture de l’asile». Vedi anche A.
Magdelain, La plèbe et la noblesse dans
Sul significato di plebs
da un punto di vista terminologico
e concettuale nelle opere letterarie tra la tarda repubblica e il
principato augusteo, vedi B. Kühnert, Populus Romanus und sentina urbis: zur
Terminologie der plebs urbana der
späten Republik bei Cicero, in Klio 71,
1989, 432 ss.; Ead., Die plebs urbana
bei Horaz, in Klio 78, 1991, 130 ss.
[142] Un riferimento a questo genere di
auspicio si rinviene in Fest., v. Quin<que
genera signorum,
In materia vedi I.M.J. Valeton, De modo auspicando
Romanorum, in Mnemosyne n.s. 17, 1889, 430 s., 446 s.; 18, 1890, 211
ss., 249 s.; Th. Mommsen, Le
droit public romain, I, tr. fr. di P.F. Girard, Paris 1892 [réimpr. 1984], 95 ss.; V. Spinazzola, Gli
augures, Roma 1895, 45 ss.; G. Wissowa, Religion
und Kultus der Römer, cit., 532 s.; P.
Catalano, Contributi allo studio del
diritto augurale, cit., 18, 70, 258 nt.; J. Guillén, Los
sacerdotes romanos, in Helmantica. Revista de humanidades clasicas 24, 1973,
15 s.; G. Dumézil, La religion romaine archaïque, cit., 588
s.; J. Linderski, The Augural Law, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt II.16.3, Berlin-New York
1986, 2155 s.; J. Vaahtera, Roman Augural Lore in Greek Historiography. A Study of Theory and Terminology,
Stuttgart 2001, 122 ss.
[143]
Cic., de divin. 2.71: … ‘Q. Fabi, te mihi in auspicio esse volo’; respondet: ‘audivi’ ….
[144]
Cic., de divin. 2.72:
attulit … in cavea pullos is.
[145] Cic., de divin. 2.72: … cum ita imperavit is, qui auspicatur: ‘dicito, si silentium esse
videbitur’, nec suspicit nec circumspicit; statim respondet silentium esse
videri. Per la necessità del silenzio durante le auspicazioni vedi anche:
Liv. 10.40.2: Tertia vigilia noctis, iam
relatis litteris a collega, Papirius silentio surgit et pullarium in auspicium
mittit; Fest., v. <Silentio
surgere>,
[146]
Cic., de divin. 2.71.
[147]
Fest., v. <Silentio surgere>,
[148] Durante la celebrazione di un
rito la formula doveva essere correttamente recitata; si presentava dunque come
di grande importanza lo stretto silenzio, per il corretto svolgimento della
cerimonia: Plin., nat. hist. 28.11:
Ex nomine remediorum primum maximae
quaestionis et sempre incertae est, polleantne aliquid verba et incantamenta
carminum. Quod si verum est, homini acceptum fieri oportere conveniat; sed
vititim sapientissimi cuisque respuit fides, in universum vero omnibus horis
credit vita nec sentit. Quippe victimas caedi sine precatione non videtur
referre aut deos rite consuli. Praetera alia sunt verba inpetritis, alia
depulsoriis, alia commendationis, videmusque certis precationibus obsecra<re
sue>sse summos magistratos et, ne quod verborum praetereatur aut
praeposterum dicatur, de scripto praeire aliquem rursusque alium custodem dari
qui adtendat, alium vero preponi qui favere linguis iubeat, tibicinem canere ne
quid aliud exaudiatur, utraque memoria insigi, quotiens ipsae dirae
obstrepentes nocuerint quotiensve precario erraverit.
[149] Sul punto vedi: Liv. 6.41.5-7: Penes
quos igitur sunt auspicia more maiorum? Nempe penes patres; nam plebeius quidem
magistratus nullus auspicato creatur; nobis adeo propria sunt auspicia, ut non
solum, quos populus creat patricios magistratus, ut non aliter quam auspicato
creet, sed nos quoque ipsi sine suffragio populi auspicato interregem prodamus
et privati auspicia habeamus, quae isti ne in magistratibus quidem habent. Quid igitur aliud quam tollit ex civitate
auspicia, qui plebeios consules creando a patribus, qui soli ea habere possunt,
aufert?; 7.6.10-11: Quod ubi est
Romam nuntiatum, nequaquam tantum publica calamitate maesti patres, quantum
feroces infelici consulis plebei ductu, fremunt omnibus locis: irent, crearent consules ex plebe,
transferrent auspicia, quo nefas esset; cfr. inoltre: Cic., de prov. cons. 46: si patricius tribunus plebis fuerit, contra leges sacratas, si
plebeius, contra auspicia fuisse, aut mihi concedant homines oportet in rebus
bonis non exquirere ea iura quae ipsi in perditis non exquirant, praesertim cum
ab illis aliquotiens condicio C. Caesari lata sit, ut easdem res alio modo ferret,
qua condicione auspicia requirebant, leges conprobabant, in Clodio auspiciorum
ratio sit eadem, leges omnes sint eversae ac perditae civitatis; Liv.
4.6.1-2: Cum in contionem consules
processissent et res a perpetuis orationibus in altercationem vertisset,
interroganti tribuno, cur plebeium consulem fieri non oporteret, ut fortasse vere, sic parum utiliter in
praesens certamen* respondit, ‘quod nemo plebeius auspicia haberet, ideoque
decemviros conubium diremisse, ne incerta prole auspicia turbarentur’;
10.8.9: Semper ista audita sunt eadem,
penes vos auspicia esse, vos solos gentem habere, vos solos iustum imperium et
auspicium domi militiaeque: aeque adhuc prosperum plebeium et patricium fuit
porroque erit. Vedi contra Ascon., in Cornel., 68 Kiessling
et Schoell: Itaque auspicato postero anno
tr. pl. comitiis curiatis creati sunt. Per l’assenza di operazioni
religiose nei concilia plebis riuniti
in tribù: Dion. 9.41.3; 49.5; 10.4.3. In materia vedi D. Sabbatucci, La
censura: istituzione rivoluzionaria dell’antica Roma, in Index 3, 1972, 200 s., per il quale al posto degli auspicia i plebei avevano: «“audizioni notturne”. Se i patrizi comunicano con
gli dèi mediante auspicationes, i plebei comunicano mediante auditiones. Ai segni “visibili” di giorno, si contrappongono i segni “udibili” di
notte. [...] Comunque questo sistema di comunicazione con gli dèi [...] non è
attendibile».
Al contrario, P. Catalano, Contributi allo studio del diritto augurale, cit., 195 ss., 450,
ritiene che l’auspicio non appartenesse esclusivamente ai magistrati e al
pontefice massimo, ma in generale il potere di auspicare fosse attribuito «a
ciascuno relativamente a quella sfera di atti che può validamente compiere, di
cui ha competenza» (198). Dunque in senso lato potevano auspicare magistrati,
sacerdoti, privati cittadini (compresi i filii
familias), stranieri, servi e anche i plebei; in particolare «il generale
concetto di auspicio [...] non poteva non esprimersi anche per quegli atti
giuridici che i plebei potevano validamente compiere» (200).
[150] Vedi ancora: Cic., de div. 1.102 (vedi supra nt. 95); Serv.
et Serv. Dan., in Verg. Aen. 5.71: «‘ore favete’ apto sermone usus est et
sacrificio et ludis: nam in sacris taciturnitas necessaria est, quod etiam
praeco magistratu sacrificante dicebat ‘favete linguis, favete vocibus’, hoc
est bona omina habete, aut tacete: in
ludis quoque necessarius favor est,
quem propter plausum futuris spectatoribus dicit. ‘favet’ autem ore quis etiam per taciturnitatem: Horatius posuit
favete linguis, carmina non prius audita
Musarum sacerdos». Vedi però Paul. Fest., v.
Faventia,
[151] Liv. 8.23.15: Eam rem tribuni suspectam infamemque
criminando fecerunt: nam neque facile fuisse id vitium nosci, cum consul oriens
de nocte silentio diceret dictatorem, neque ab consule cuiquam publice privatim
ve de ea re scriptum esse; vedi anche 9.38.14: nocte deinde silentio, ut mos est, L. Papirium dictatorem dixit.
Cfr.: Liv. 4.57.5: Si maneat in sententia
senatus, dictatorem nocte proxima dicturum ac, si quis intercedat senatus
consulto, auctoritate se fore contentum; Vel., de orthograph., 74
Keil: oriri enim apud antiquo surgere frequenter significabat, ut apparet ex
eo quod dicitur ‘oriens consul magistrum populi dicat’, quod est surgens.
Sul «valore rituale del silentium» nella dictio dictatoris vedi
L. Labruna, «Adversus plebem» dictator, in Index 15, 1987, 289.
Per la caratterizzazione religiosa della nomina del dittatore rimando a F. Sini, A proposito del carattere religioso del
‘dictator’, cit., 401 ss. (= in AA.VV., Dittatura
degli antichi e dittatura dei moderni, cit., 111 ss.). Vedi anche G.
Valditara Studi sul magister populi.
Dagli ausiliari militari del rex ai primi magistrati repubblicani, Milano
1989, 293 s., per il quale in principio la dictio sarebbe da collegare
al magister populi, magistratura dell’età regia che si differenziava in
origine dal dictator.
[152] Sull’evocatio vedi, per
tutti, V. Basanoff, Evocatio, cit.; G. Dumézil, La religion romaine archaïque, cit., 425 ss.; Id., L’oubli de l’homme et l’honneur des dieux,
in Id., L’oubli de l’homme et l’honneur
des dieux et autres essais. Vingt-cinq esquisses de mythologie (51-75),
Paris 1985, 135 ss.; J. Le Gall, «Evocatio»,
in Mélanges offerts à J. Heurgon, I,
cit., 519 ss.; R. Schilling, Le carmen de
l’evocatio, in Varron grammaire
antique et stylistique latine. Recueil offert à J. Collart, Paris 1978, 181
ss.; J. Alvar, La fórmula de la evocatio
y su presencia en contextos desacralizadores, in Archivio español de Arqueología 57, 1984, 143 ss.; Id., Matériaux pour l’étude de la formule sive
deus, sive dea, in Numen 32,
fasc. 2, 1985, 236 ss.; N. Berti, Scipione
Emiliano, Caio Gracco e l’«evocatio» di “Giunone” da Cartagine, in Aevum 64, 1990, 69 ss.; J. Rüpke, Domi
militiae, cit., 162 ss.; A. Blomart, Die
evocatio und der Transfer fremder Götter von der Peripherie nach Rom, in Römische Reichsreligion und
Provinzialreligion, hrsg. von H. Cancik und J. Rüpke, Tübingen 1997, 99
ss.; F. Sini, Sua cuique civitati religio, cit., 54 ss. (ivi diversi casi di evocationes).
[153] G.
Dumézil, La religion romaine archaïque,
cit., 201 s.