N. 5 – 2006 – Memorie

 

Giovanni Lobrano

Università di Sassari

 

Dottrine della ‘inesistenza’ della Costituzione e il “modello del diritto pubblico romano”

 

 

 

Sommario: Premessa. Conferma dello schema dialettico, romanistico, di interpretazione costituzionale descritto da De Martino: la alternativa tra modello inglese e modello romano di costituzionalismo e di forma di Stato.

 

1. Dottrina dellacrisi dello StatO”a. Attualità della dottrina della “crisi dello Stato” e suoi limiti: sincronici (mancata percezione della parte ‘di struttura’) e diacronici (mancata interpretazione storico–sistematica). – b. Faccia esterna e faccia interna nonché aspetti negativi e aspetti positivi della parte ‘di superficie’ della crisi della forma di Stato e del costituzionalismo di modello inglese. c. Istituti essenziali e concetti fondamentali nonché aspetti negativi e aspetti positivi della parte ‘di struttura’ della crisi della forma di Stato e del costituzionalismo di modello inglese.

 

2. Dottrine della ‘inesistenza della Costituzione’. – a. Constatazioni degli aspetti negativi della crisi di struttura del costituzionalismo (e della forma di Stato) di modello inglese come constatazioni della ‘inesistenza della Costituzione’. – b. Constatazione della inesistenza dell’istituto costituzionale ‘inglese’ della rappresentanza politica per la formazione della volontà pubblica. – c. Constatazione della inesistenza dell’istituto costituzionale ‘inglese’ dell’equilibrio dei tre poteri per la difesa dei diritti. – d. Constatazione della carenza di senso e/o della anfibologia dei concetti fondamentali del costituzionalismo odierno quali ‘Stato’ e ‘repubblica’ (ma anche ‘democrazia’ e ‘federalismo’). 

 

3. Risorgenza spontanea della forma di Stato (e del costituzionalismo) di modello romano. – a. Affermazione mondiale del ruolo ‘politico’ delle Città come risorgenza del modo ‘romano’ di partecipazione dei cittadini alla formazione della volontà pubblica. – b. Diffusione mondiale dell’istituto del Difensore civico come risorgenza del mezzo ‘tribunizio’ per la difesa dei diritti. – c. Tentativo (a proposito del ‘bene ambiente’) di lettura romanistica del concetto di ‘Stato’ (con la ricomposizione – nella distinzione – della separazione ‘diritto pubblico-diritto privato’) e nuova ma ancora ambigua fortuna delle categorie di ‘democrazia’, ‘repubblica’ e “federalismo municipale”.

 

Appendice I. Constatazione della inesistenza dello schema dialettico proposto dalla scienza economica (alternativa tra mercato senza società e società senza mercato) e la nuova domanda di diritto: romano, a partire dalla positio studii del ius publicum.

 

Appendice II. La Costituzione della Repubblica Bolivariana del Venezuela.

 

 

Premessa. – Conferma dello schema dialettico, romanistico, di interpretazione costituzionale descritto da De Martino: la alternativa tra modello inglese e modello romano di costituzionalismo e di forma di Stato

 

Nel 1997, nel Convegno del cinquantenario della Costituzione repubblicana, l’autore della Storia della Costituzione romana, Francesco De Martino, fa il punto sulle critiche rivolte alla Costituzione e le divide tra «le critiche alle parti invecchiate» e le critiche rivolte, invece, alla struttura stessa.

Queste seconde – osserva De Martino – sono avanzate da «Pierangelo Catalano ed altri» romanisti[1], i quali criticano la scelta di campo montesquieuiana (fondata, come noto, sul modello costituzionale inglese) della Costituzione, consistente nella scelta parlamentare della rappresentanza e della divisione dei poteri (la quale ultima, secondo quei romanisti, «non garantisce realmente il cittadino»)  e ne indicano la alternativa storica e teorica nella scelta di campo rousseauiana, fondata – sempre secondo quei romanisti – sul «modello del diritto pubblico romano», consistente nella scelta della partecipazione del popolo «effettivamente sovrano» e del «tribunato della plebe con i suoi poteri di interdizione».

De Martino individua, dunque, i termini complessivi della problematica costituzionale strutturale sollevata da romanisti, in due macro-questioni, che investono i pilastri della Costituzione, ovverosia i due istituti costituzionali essenziali della formazione della volontà pubblica e della difesa dei diritti. Le questioni sono: 1) validità o meno degli istituti della rappresentanza politica e dell’equilibrio dei tre poteri; 2) fondamento giusromanistico o meno degli (alternativi) istituti della partecipazione del popolo dei cittadini alla formazione delle leggi e del tribunato.

Se, sul piano della interpretazione storica della «costituzione romana», De Martino dichiara di condividere la lettura, proposta da Catalano, della plebs come parte del populus e della natura dei tribuni «organi della costituzione» come titolari di «poteri negativi» (tanto da negare di essere «un seguace dell’indirizzo sistematico di Mommsen»)[2], sul piano della applicazione attuale di quella interpretazione alla interpretazione della Costituzione italiana, De Martino non condivide né le critiche strutturali alla nostra Costituzione né la tesi del modello romano del costituzionalismo rousseauiano, in quanto (come scrive sempre nell’intervento del ’97) egli ritiene: 1) che la Costituzione sia «andata oltre i modelli di democrazia moderata, nella quale si era alla fine adagiata l’eredità della rivoluzione» e 2) che non «si possa attribuire allo stesso Rousseau, a Robespierre, ai Giacobini od altri campioni della rivoluzione una conoscenza così profonda delle fonti giuridiche romane»[3].

Ma, l’elemento in sé estremamente importante e di coincidenza tra questo autore e i romanisti da lui citati, è – in definitiva – lo stesso schema storico-sistematico, con il quale De Martino fa il punto della riflessione giuridica sullo stato della Costituzione, ponendola in relazione con la questione del «modello del diritto pubblico romano».

Oggi, nel 2005, nel quadro della riflessione sollecitata dal cinquantenario della Corte costituzionale, credo di dovere confermare sia la validità di questo schema interpretativo sia (all’interno di questo schema) la opzione critica nei confronti della struttura della Costituzione per la propria dipendenza dalla forma di Stato ovverosia dal costituzionalismo di modello inglese, interpretato scientificamente e riproposto de iure condendo da Montesquieu (e da altri); modello che ho definito «parlamentare-rappresentativo-centralista e dell’equilibrio dei tre poteri»[4], che è divenuto dominante anzi unico durante la epoca contemporanea e cui quelle critiche sono dirette principalmente. Credo, ugualmente, di dovere confermare la individuazione della alternativa storica e sistematica nella forma di Stato ovverosia nel costituzionalismo di modello romano, interpretato scientificamente e riproposto de iure condendo da Rousseau[5], nonché da Robespierre, dai Giacobini e da altri campioni della Rivoluzione; modello che ho definito «repubblicano-municipale-federativo e del potere tribunizio»[6] e che è divenuto soggiacente anzi “dimenticato”[7] durante la epoca contemporanea, anche se suoi elementi importanti si trovano inseriti nella costruzione opposta, così come – sovente – elementi frammentari della architettura di edifici antichi si trovano inseriti nelle – diverse – architetture di edifici medievali[8].

Rinvio, per il significato (peraltro, almeno in parte intuitivo) delle definizioni da me proposte di entrambi i modelli, agli scritti in cui ho trattato questi temi, limitandomi, qui, a esplicitare (per la comprensione immediata del prosieguo del discorso) che, secondo la tesi da me sostenuta, nella forma di Stato e nel costituzionalismo di modello romano la «effettiva sovranità popolare» passa attraverso il ruolo delle città, le urbes civitatesmunicipii res publicae, insieme: sedi necessarie, patrimoni comuni e costituzioni societarie dei rispettivi popoli – omnes cives nonché “parti” del “tutto” costituito dalla repubblica romana universale, della quale è ‘dominus’ il popolo romano, altrettanto universale.

Infatti, ciò che mi preme, ora, osservare e – almeno parzialmente – argomentare è, che il dibattito giuridico e politologico ultimo e più attuale dimostra proprio e in maniera vieppiù evidente: 1) sia il concentrarsi della attenzione fortemente critica di un numero crescente di settori della dottrina sul valore e/o sulla validità degli istituti costituzionali della rappresentanza politica e dell’equilibrio dei tre poteri, sia il (ri-)proporsi pressoché spontaneo degli istituti da noi individuati come quelli storicamente e sistematicamente alternativi; 2) che, pertanto, lo schema scientifico di interpretazione storica e dogmatica infulcrato nella contrapposizione dialettica settecentesca tra ‘forma di Stato – costituzionalismo’ di modello inglese (interpretato e riproposto sopra tutti da Montesquieu) e ‘forma di Stato – costituzionalismo’ di modello romano (interpretato e riproposto sopra tutti da Rousseau) è lo schema che oggettivamente consente di ‘comprendere’ (e che a noi consente di cercare di comprendere) sia il modello costituzionale romano “antico” con la sua forma di Stato sia il modello costituzionale inglese (medievale–)“moderno” con la sua forma di Stato, sia la vicenda giuridica pre-settecentesca (in particolare, dai secoli XII/XIII al secolo XVII) sia la vicenda giuridica contemporanea (in particolare, le questioni costituzionali) della Europa e dei Paesi influenzati dalla cultura europea.

La tesi che cercherò di esporre sinteticamente in questo scritto è che la applicazione dello schema interpretativo di De Martino (e nostro) alla vicenda giuridica odierna ci conduce a parlare di dottrine della ‘inesistenza della Costituzione’ e di risorgenza spontanea della forma di Stato (e del costituzionalismo) di modello romano. Scrivo di ‘dottrine’ al plurale per la loro frammentarietà e di risorgenza ‘spontanea’ (mettendo tra parentesi il costituzionalismo di modello romano) per il grado embrionale di elaborazione e di coscienza scientifiche di questo ultimo fenomeno.

 

 

1. – Dottrina della “crisi dello Stato”
a. – Attualità della dottrina della “crisi dello Stato” e suoi limiti: sincronici (mancata percezione della parte ‘di struttura’) e diacronici (mancata interpretazione storico–sistematica)

 

La riflessione sia giuridica sia –più in generale– delle ‘scienze sociali’ si è caratterizzata, negli ultimi anni,  per la messa a fuoco della categoria di “crisi dello Stato”, della quale quella riflessione ha fatto una sorta di topos dottrinario[9].

La dottrina utilizza – correttamente – la categoria di ‘crisi’ per designare un fenomeno di rottura della continuità e di transizione e, pertanto: sia con aspetti – che, senza giudizio di valore, chiamo – ‘negativi’, del deteriorarsi e venire meno di situazioni preesistenti, sia con aspetti – che, sempre senza giudizio di valore, chiamo – ‘positivi’, del sopravvenire e imporsi di situazioni nuove.

Nello specifico, la dottrina interpreta correttamente come crisi dello Stato un insieme di fenomeni di rottura e di transizione, che investono lo Stato costituzionale contemporaneo.

Dal punto di vista del romanista, il quale utilizzi – anche – la positio studii del ius publicum e applichi lo schema interpretativo appena menzionato, la dottrina presenta, però, limiti gravi – tra loro connessi – nella interpretazione della stessa crisi.

Vi è un limite – che chiamo – ‘sincronico’ e che consiste nella riduzione alla sola parte – che chiamo – ‘di superficie’ della crisi dello Stato. Vi è, infatti, un’altra parte – certamente non meno importante – della crisi dello Stato: è quella – che, corrispondentemente, chiamo – ‘di struttura’.

Vi è, inoltre, un limite – che, sempre corrispondentemente, chiamo – ‘diacronico’, che è connesso all’altro e che consiste nella non-percezione del nesso di continuità della fenomenologia odierna con la contrapposizione dialettica settecentesca e pre-settecentesca tra “forme di Stato” e costituzionalismi connessi nonché con i suoi sviluppi otto- e novecenteschi.

L’insieme di tali limiti fa sì che la dottrina chiami “crisi dello Stato” una parte (la parte di superficie) della crisi di una forma di Stato (la forma di Stato di modello inglese) ovverosia di un costituzionalismo (quello corrispondente), divenuti prima assolutamente dominanti e quindi addirittura unici (almeno nella cultura e nella esperienza giuridica cosiddetta ‘occidentale’) soltanto durante la epoca contemporanea.

 

b. – Faccia esterna e faccia interna nonché aspetti negativi e aspetti positivi della parte ‘di superficie’ della crisi della forma di Stato e del costituzionalismo di modello inglese

 

La parte di superficie della crisi dello Stato (o meglio: della forma di Stato di modello inglese) consiste nella osmosi significativa di quote del potere – una volta appannaggio esclusivo dello Stato – sia verso l’esterno sia verso l’interno della dimensione – una volta assolutamente impermeabile – dello stesso Stato.

Gli aspetti negativi di tale parte della crisi sono, dunque, la riduzione importante del potere dello Stato.

Gli aspetti positivi ne sono, dunque, il costituirsi di ‘centri’ o ‘soggetti’ di potere nuovi, sia all’esterno sia all’interno della dimensione-Stato, i quali non sono o non appaiono della stessa natura dello Stato ottocentesco e novecentesco a noi noto.

Si tratta, rispettivamente, del processo cosiddetto di ‘globalizzazione’, all’esterno dello Stato, e del processo di rivendicazione-assunzione di ruolo politico da parte di Enti locali (soprattutto delle Città), all’interno dello Stato[10]. Per definire complessivamente l’insieme di questi due processi è stata coniata la parola “glocalizzazione”[11].

Tale sintesi della parte di superficie della ‘crisi dello Stato’ è sostanzialmente corretta ma – come anticipato – essa ha il difetto di non percepire il nesso di continuità della crisi odierna, nell’àmbito di questa stessa parte, con la contrapposizione dialettica settecentesca e pre-settecentesca tra forme di Stato e costituzionalismi con i suoi sviluppi otto- e novecenteschi. Il nostro schema interpretativo ci consente, invece, di riconoscere nella globalizzazione odierna (che occorre assolutamente non confondere – come, invece, spesso si fa – con l’universalismo romano)[12] lo stadio ultimo, per quanto innovativo, del processo di statalizzazione di modello anglosassone mentre la ri-collocazione del potere politico nelle Città è una manifestazione del processo opposto di ri-sorgenza del modello costituzionale romano ed entrambi i processi sono, nel loro insieme, manifestazione di quella dialettica e di quello scontro tra modelli alternativi, di cui veniamo trattando.

Operare la distinzione qualitativa tra il processo di globalizzazione e il processo di riappropriazione del ruolo politico da parte delle Città è il primo passo per transitare dal punto di vista corrente ma difettoso della “crisi dello Stato” al punto di vista della ‘crisi di una forma di Stato’ nonché della  ‘crisi del costituzionalismo’ corrispondente, recuperandone – oltre la parte meramente ‘di superficie’ – anche la parte ‘strutturale’.

 

c. – Istituti essenziali e concetti fondamentali nonché aspetti negativi e aspetti positivi della parte ‘di struttura’ della crisi della forma di Stato e del costituzionalismo di modello inglese

 

La dottrina ha, dunque, sviluppato in maniera organica (sia pure con il difetto della percezione diacronica) la parte di superficie della crisi della forma di Stato di modello inglese. La stessa dottrina tende, però – come ho detto – a fare coincidere la parte con il tutto, dimenticando l’altra parte – certamente non meno importante – della crisi di questa forma di Stato: la parte che chiamo ‘di struttura’ perché investe questa forma di Stato sia nella sua variante degli istituti essenziali dello Stato (a iniziare dagli istituti della formazione della volontà pubblica e della difesa delle libertà, che – sempre in questa forma di Stato – sono gli istituti della rappresentanza politica e dell’equilibrio dei tre poteri) sia nei concetti fondamentali del costituzionalismo corrispondente (a iniziare dai concetti stessi di ‘Stato’ e di ‘repubblica’).

Anche tale parte della crisi ha aspetti negativi (del deteriorarsi e venire meno degli istituti e dei concetti sinora dominanti) e aspetti positivi (del sopravvenire e imporsi di istituti e concetti ‘nuovi’ e, comunque, opposti, alternativi).

Il fatto che questa parte ‘di struttura’ sfugga, di regola, alla dottrina, che tratta il tema della crisi dello Stato, non significa – ovviamente – che la dottrina si disinteressi alla crisi degli istituti e dei concetti costituzionali essenziali e fondamentali dello Stato; anzi, è importante osservare che, mentre gli aspetti positivi della parte di struttura della crisi sono –come vedremo– di natura prevalentemente se non esclusivamente empirica, gli aspetti negativi sono di natura prevalentemente se non esclusivamente dottrinaria. Proprio questa osservazione ci conduce ad integrare la nostra interpretazione della “crisi dello Stato” come ‘crisi di una forma di Stato’ con la menzione puntigliosa della ‘crisi del costituzionalismo’ corrispondente: con un rapporto – però – inverso tra forma di Stato e costituzionalismo a seconda che ci riferiamo agli aspetti negativi o agli aspetti positivi di questa parte ‘di struttura’ della crisi.

Tuttavia, anche la dottrina che affronta o, direttamente, costituisce tale fenomenologia di crisi non soltanto non si connette – specularmene – alla dottrina (sulla parte di superficie) della crisi dello Stato, come parte ad altra parte di un tutto  unico ma – di regola – neppure coglie nella sua interezza anche soltanto la parte ‘di struttura’. Per lo più, infatti, appaiono oggetto di trattazioni tra loro sconnesse sia le crisi di ciascuno dei diversi istituti e/o concetti sia i rispettivi aspetti negativi e aspetti positivi della fenomenologia complessiva. E’ questa la ragione per cui – come annunziato – scrivo, al plurale, di dottrine della ‘inesistenza della Costituzione’. Infine, anche per questa parte ‘di struttura’ della crisi, la regola delle varie dottrine e della dottrina complessiva è di non cogliere che siamo di fronte alla crisi degli istituti e dei concetti della forma di Stato e del costituzionalismo di modello inglese, cioè di una delle due forme di Stato e di uno dei due costituzionalismi (l’altra e l’altro sono quelli di modello romano) teorizzati e proposti nel Settecento.

Si può, però, e occorre distinguere e accorpare le diverse dottrine in due filoni diversamente importanti ma entrambi importanti: 1) il filone più propriamente giuridico, di matrice “romana-germanica” e 2) il filone prevalentemente politologico, di matrice anglosassone.

Gli approcci, i tempi e i risultati della riflessione giuridica e quelli della riflessione politologica appaiono tra loro sfasati cronologicamente più che diversi sostanzialmente.

Tuttavia, la riflessione dei giuristi, per certi versi più risalente e per altri versi più recente rispetto a quella politologica, tende non soltanto a considerare separatamente, direi per ‘compartimenti stagni’, i vari istituti e concetti in crisi ma anche ad arrestarsi, per lo più, alla sola pars destruens, alla considerazione cioè dei soli aspetti negativi della crisi. Il passaggio alla pars construens, con la reductio ad unum dei due aspetti della crisi, non è operata da questa riflessione scientifica: sia perché la unicità del pensiero statalista di modello inglese non consente neppure di concepire la possibilità della propria alternativa (neppure ai giuristi critici delle sue istituzioni)[13] sia perché la, connessa, obliterazione scientifica del modello giuridico romano non consente comunque di vedere positivamente tale alternativa.

Senza rinnegare (anzi, in certo modo confermando) la osservazione già fatta circa la natura prevalentemente empirica (cioè promossa rilevata dalla dottrina) degli aspetti positivi della parte di struttura della crisi, possiamo affermare che la riflessione politologica, meno vincolata dal rigore di schemi dogmatici (quindi, oggi, di schemi statalisti), tende, invece, quantomeno a coniugare (sia pure in maniera incompleta) la pars destruens con la pars construens[14] e, nel farlo, re-introduce il metodo dei modelli storici e, tra i modelli, torna precisamente al modello della “città antica”. Tuttavia, o viene evocata esclusivamente la “democrazia” della polis greca[15] o, anche se ci si richiamo alla “repubblica” della urbs civitas romana, non ne se recupera il ben più complesso sistema giuridico[16].

Dunque, lo stato della dottrina sugli aspetti negativi della parte di struttura della crisi dello Stato o, meglio, del costituzionalismo e della forma di Stato di modello inglese è tale per cui (come verificheremo immediatamente) possiamo/dobbiamo parlare di dottrina della ‘fine della Costituzione’ corrispondente; anzi (data la frammentazione, la divisione in compartimenti di questa dottrina) di una pluralità di dottrine della ‘fine della Costituzione’; che però (in forza dello schema storico-sistematico menzionato in ‘Premessa’) possiamo/dobbiamo comporre o ricomporre in una dottrina unica e complessiva, la quale si faccia carico anche degli aspetti positivi della stessa crisi e che noi leggiamo – conseguentemente – come ri-sorgenza spontanea della forma di Stato (e del costituzionalismo) di modello romano.

 

 

2. – Dottrine della ‘inesistenza della costituzione’
a. – Constatazioni degli aspetti negativi della crisi di struttura del costituzionalismo (e della forma di Stato) di modello inglese come constatazioni della ‘inesistenza della Costituzione’

 

Come anticipato, gli aspetti negativi della parte ‘di struttura’ della crisi sono di natura – almeno prevalentemente – teorica. Si tratta di linee di riflessione scientifica molto interessanti e (sia pure con soluzioni – recenti – di continuità, che vanno sanate) tali linee di riflessione vengono da lontano: esse, cioè, possono–devono essere riconnesse al dibattito settecentesco e pre-settecentesco.

In questo contributo però, per ragioni di brevità, circoscrivo e concentro la attenzione al solo secolo XX nonché a questi primissimi anni del secolo XXI, durante i quali dobbiamo registrare serie consistenti e crescenti di riflessioni critiche – proposte sia da giuristi (positivi) sia da politologi – le quali hanno investito e continuano ad investire, in maniera demolitoria, gli istituti attraverso i quali le Costituzioni contemporanee danno risposta alle esigenze essenziali del diritto pubblico e che già sono state oggetto della contrapposizione settecentesca e pre–settecentesca: 1) individuazione dei ‘soggetti’ e definizione delle procedure di formazione della volontà pubblica e 2) determinazione dei mezzi per la difesa dei diritti, a iniziare dai diritti di libertà. Queste serie di critiche investono –infatti, come ho anticipato– le varianti ‘inglesi’ di tali istituti: la rappresentanza politica e l’equilibrio dei tre poteri, sino ad aggredirne i presupposti concettuali dello Stato–persona. Queste serie di critiche, che consistono nella negazione dottrinaria della esistenza degli istituti essenziali e dei concetti fondamentali della ‘forma di Stato’ ovverosia del costituzionalismo di modello inglese, comportano (secondo quello che ho definito un “sillogismo imbarazzante”[17]) la negazione della esistenza stessa –a nche – della – nostra – Costituzione.

Secondo queste critiche, siamo, dunque, senza Costituzione.

Siamo senza la Costituzione di modello inglese teorizzato e proposto da Montesquieu: 1) in forza del postulato della identità tra Costituzione e sistema rappresentativo («Je soutiens que toute constitution social dont la représentation n’est pas l'essence est une fausse constitution»[18] afferma, con ortodossia montesquieuiana,  Sieyès, mentre viene scritta la prima Costituzione francese); 2) in forza del postulato della identità tra Costituzione ed equilibrio dei tre poteri («Toute société dans laquelle la garantie des droits n’est pas assurée, ni la séparation des pouvoirs déterminée n’a point de constitution» è affermato, con la medesima ortodossia, nella “Déclaration des droits de l’homme et du citoyen” del 1789, che intesta sia la prima Costituzione francese del 1791 sia l’ultima e ‘vigente’ del 1958[19]).

In realtà, potremmo/dovremmo dire che, essendo il fenomeno della formazione del mercato globale e del suo Stato globale – in definitiva – soltanto lo stadio ultimo della forma di Stato di modello inglese, anche la ‘evaporazione’ degli istituti della rappresentanza politica e dell’equilibrio dei tre poteri sono – in definitiva – soltanto lo stadio ultimo del costituzionalismo corrispondente. Ma questo è un discorso ulteriore rispetto a quello che qui, ora ci siamo proposti di fare[20].

Dobbiamo invece qui, ora osservare che, se – in forza di queste serie di critiche – la Costituzione di modello inglese si dimostra teoricamente e storicamente inconsistente (una “Chimera” o un “Sevarambo”, avrebbe scritto Rousseau) una Costituzione di modello romano (ri-)appare oggi storicamente e teoricamente possibile e auspicabile. Fermo restando che la sua interpretazione e la sua riproposizione sono tutt’altro che semplici[21].

 

b. – Constatazione della inesistenza dell’istituto costituzionale ‘inglese’ della rappresentanza politica per la formazione della volontà pubblica

 

La riflessione critica –lunga e complessa– sulla rappresentanza politica non è sempre uguale a sé stessa; essa, però, colpisce sempre e comunque tale istituto nel suo nucleo essenziale: la pretesa, cioè, di essere lo strumento capace di tradurre  in volontà unitaria le volontà di una pluralità di persone (rappresentati) attraverso la volontà di altre persone (rappresentanti), che le prime delegano a questa funzione senza mandato imperativo[22]. Desta, invece, generalmente meno attenzione il presupposto logico necessario, per il quale le persone rappresentate devono essere previamente costituite in una persona ulteriore, nuova, “fittizia–artificiale”: “giuridica”, che chiamiamo ‘Stato’.

La prima riflessione critica novecentesca è prodotta dalla riflessione ‘costituzionale’ immediatamente successiva alla prima guerra mondiale. Il ‘romanista’ Max Weber (autore della Storia agraria romana), nel famoso saggio Economia e società, la cui prima edizione è del 1922, individua due tipi di rappresentanza, quella degli antichi e quella dei moderni, e li pone nella “schärfste Gegensatz”, chiaman­doli rispettivamente “gebundene Repräsentation” e “freie Re­präsentation”, la quale ultima soltanto “dem Okzident eigen­tümlich” fa dei rappresentanti i “padroni” (“Herr”) anziché i “servitori” (“Diener”) dei rappresentati[23]. Nel 1925, Hans Kelsen[24] denunzia il «tentativo di mascherare la riduzione non lieve che la idea democratica subisce per il fatto che la volontà statuale è formata non dal popolo ma da un organo, il parlamento, assai diverso, anche se eletto dal popolo». Nel 1931, Carré de Malberg[25], scrive che «l'idée de souveraineté de la volonté générale a été exploité en vue de fonder la puissance souveraine du Parlement lui-même. Une telle contradiction paraîtra difficilement acceptable à tout homme qui n'est pas résigné à se payer de mots». Infatti, «Comment admettre que, dans notre droit public, les décisions émanées du Parlement aient pu être présentées comme des productions de la volonté populaire, alors que la Constitution tient systématiquement les citoyens à l'écart de leur formation?». Carré de Malberg si riferisce alla costituzione francese, allora vigente, del 1875. La stessa identica critica investe però anche il costituzionalismo successivo alla seconda guerra mondiale. Nel 1975, Costantino Mortati[26] afferma durissimamente, a proposito della Costituzione italiana, che nessuna delle condizioni necessarie a consentire l'esercizio popolare della sovranità (pure solennemente affermato all'art.1 della stessa Costituzione) si realizza in Italia, con la conseguenza grave che «il regime di poliarchia effettivamente vigente viene a realizzare una forma di sovranità del Parlamento».

Il primo studioso che, però, giunge alla (ri-)constatazione (duecento anni dopo Jean–Jacques Rousseau e comunque senza la consapevolezza giuridica rousseauiana) della inesistenza stessa dell’istituto della rappresentanza politica non è un giurista ma è una filosofa della politica, Hanna Arendt, la quale, nel secondo dopo-guerra, tra gli anni ’50 e gli anni ’70, nel quadro di una riflessione critica sulle istituzioni dello Stato moderno, ‘scopre’ la inconsistenza logica della dottrina della rappresentanza politica, che liquida come «mistero». Secondo Arendt, il fenomeno della «trasmissione» dello spirito politico dei cittadini ai capi dello Stato per il tramite delle istituzioni moderne rappresentative è «altamente misterioso»[27]. Forse proprio per questa liquidazione concettuale della rappresentanza politica, Hanna Arendt ‘scopre’ anche la attualità delle istituzioni politiche delle Città antiche. Le due ‘scoperte’ sono –comunque, ovviamente– connesse.

Alla formulazione esplicita e rotonda della ri-constatazione della inesistenza stessa dell’istituto della rappresentanza politica i giuristi arrivano più tardi. Nel 1972, anche il costituzionalista Vanossi definisce la rappresentanza politica un «mistero»[28]. Nel 1982, Torres del Moral afferma, invece, che «La teoría de la prohibición del mandato imperativo asentada en el principio de soberanía nacional […] es histórica y actualmente insostenible, desde el punto de vista rigurosamente teórico. De manera que no puede sorprender nos en absoluto que en la práctica política [el mandato imperativo] se haya mantenido vigente»[29]. Nel 1983, il giurista e parlamentare italiano, Fisichella accede alle affermazioni del politologo nord-americano Heinz Eulau, secondo il quale (1978) «Se [...] con qualche sforzo siamo in grado di indicare con sufficiente approssimazione ciò che la rappresentanza non è, malgrado molti secoli di impegno teoretico non possiamo dire cosa la rappresentanza è». Fisichella non segue, però, Eulau nella affermazione che la crisi riguarda «la teoria della rappresentanza e non delle istituzioni rappresentative» in quanto egli considera la crisi teorica proiezione della crisi istituzionale, sebbene la maggiore ‘velocità’ della crisi della teoria rispetto alla crisi dell’istituto può far sì che «la prima emerga quando la seconda è ancora poco visibile»[30]. Tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90, la inesistenza concettuale della rappresentanza politica diviene oggetto, in Italia, anche delle trattazioni istituzionali per eccellenza: quelle dei dizionari. Nel 1987, Nocilla e Ciaurro scrivono sulla Enciclopedia del Diritto di «difficoltà di pervenire  ad una definizione dogmatica della “rappresentanza politica”»[31]. Nel 1991, sulla Enciclopedia giuridica, Ferrari[32] si “sorprende” (anche lui, come già Torres del Moral) «che la difficoltà di definizione teoretica [della “nozione di rappresentanza politica” “centrale nella concezione stessa dello Stato di democrazia classica”] non abbia indotto significative correnti del pensiero pubblicistico a lamentare una crisi delle stesse istituzioni rappresentative».

Insomma: «il re è nudo!». Il tutto mi fa pensare alla riflessione (peraltro non coincidente con la mia) sulle “formule magiche” della scienza giuridica[33].

In questo quadro, vanno lette le iniziative, in Italia, per la abrogazione diretta e indiretta del ‘divieto di mandato imperativo’, cioè della regola ‘chiave di volta’ dell’istituto della rappresentanza politica. Il 20 aprile 1999, è stata presentata al Parlamento italiano, da ben 21 deputati tra i più autorevoli di quel Parlamento, la «Proposta di legge costituzionale n. 5923 [...] “Modifica dell’articolo 67 della Costituzione, in materia di divieto di mandato imperativo”»[34] direttamente volta alla abrogazione del divieto, nella cui “Relazione” di presentazione si sostiene la tesi che «una disposizione del genere aveva fatto ormai il suo tempo […] Perciò oggi il divieto di mandato imperativo è una norma tralatizia» nonché in «irriducibile contrasto con l'articolo 1, secondo comma, della Costituzione, in base al quale la sovranità appartiene al popolo» (è la tesi di Mortati!) e con il diritto dei cittadini «a concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale [art. 49]»[35]. La proposta di legge costituzionale del ’99 non è stata approvata ma, nel 1993, era stata invece approvata una legge ordinaria, che obbliga i candidati Sindaci a sottoporre al voto dei cittadini il proprio programma amministrativo[36]. E’ vero che anche questa obbligazione è rimasta –sinora– meramente formale (una sorta di lex imperfecta, secondo le categorie romanistiche); restano però straordinari sia il fatto di due attacchi –almeno tendenzialmente– mortali alla rappresentanza politica, attraverso la abrogazione della sua regola–chiave, sia il fatto che tali attacchi non abbiano suscitato nessuna reazione: né scientifica né politica.

Nel 2000, il costituzionalista statunitense Bruce Ackerman, autore di un ponderoso trattato in più volumi sulla Costituzione federale degli Stati Uniti d’America ed il quale ragiona in riferimento ad una organizzazione statuale di dimensioni semi-continentali (simili –quindi– a quelle della Unione Europea)[37], non si limita a ripetere le osservazioni critiche sulla rappresentanza politica ma, facendo (dopo e sulle tracce di Hanna Arendt) un passo ulteriore nel senso del ritorno (seppure sempre –apparentemente– inconsapevole) al costituzionalismo rousseauiano di modello romano, propone di attribuire il potere legislativo al popolo dei cittadini, lasciando al Parlamento soltanto il potere normativo proprio dell’esecutivo[38]. Il contributo di Ackerman è il più sviluppato sul piano propriamente giuridico–istituzionale di quella riflessione politologica anglosassone e –più precisamente– statunitense cui ho fatto cenno (supra, al paragrafo 1.c) e che è caratterizzata dalla denuncia e dall’abbandono dell’istituto della rappresentanza politica e dalla ricerca di forme di partecipazione popolare cioè di “democrazia” (anzi, come ora si dice, di «democrazia deliberativa») le quali forme vengono cercate (come già fatto da Hanna Arendt) nel ‘modello’ antico della ‘Città’[39].

 

c. – Constatazione della inesistenza dell’istituto costituzionale ‘inglese’ dell’equilibrio dei tre poteri per la difesa dei diritti

 

I giuristi positivi ri-constatano – quindi – la inconsistenza fino alla inesistenza anche dell’altro pilastro del costituzionalismo di modello inglese-montesquieuiano: la garanzia costituzionale dei diritti fornita dall’equilibrio dei tre poteri.

Anche qui, come per la rappresentanza politica, non sono però primi i giuristi ma è un famoso economista ‘liberal’ a riproporre, sempre – si direbbe – senza rendersene conto, tesi di J.-J. Rousseau. Si tratta, nel 1973,  dell’austriaco, premio Nobel, Friedrick von Hayek, il quale così scrive: «Quando Montesquieu e i padri della costituzione americana formularono esplicitamente l’idea di una costituzione come insieme di limiti all'esercizio del potere, in base ad una concezione che si era spontaneamente sviluppata in Inghilterra, fondarono un modello che, da allora in poi, il costituzionalismo liberale ha sempre seguito.  Il loro scopo principale era di provvedere delle garan­zie istituzionali per la libertà individuale, e lo strumento in cui riposero la loro fiducia fu quello della separazione dei po­teri.  Nella forma in cui noi la conosciamo, tale divisione tra il potere legislativo, giudiziario ed esecutivo, non ha raggiunto gli scopi per cui era stata progettata.  Dovunque, per via di mezzi costituzionali, i governi hanno ottenuto poteri che quei pensatori non intendevano affidar loro.  Il primo tentativo di assicurare la libertà individuale per mezzo di forme costituzionali è evidentemente fallito» [40].

Tra i testi giuridici che, successivamente, vanno nella stessa direzione ri-tracciata da von Hayek, il posto d’onore spetta senz’altro alla relazione di Silvano Labriola, nel quadro dei documenti prodotti, nel  1995, dalla Commissione  bicamerale del Parlamento italiano (presieduta da Nilde Jotti) per la riforma della Costituzione: «All’origine del costituzionalismo moderno si pone il problema […] della limitazione del potere: ed a tale assillante esigenza si è opposto il principio della divisione dei poteri. Ma due secoli di storia politica successiva alla teorizzazione del principio ne dimostrano il completo esaurimento formale. […] Non si vuole sostenere che sia decaduto il principio della divisione dei poteri in sé […] Ciò che sopravvive del principio […] non può però corrispondere all’esigenza rispetto alla quale il principio è stato originariamente concepito e teorizzato, ossia il fine della limitazione del potere politico, che viene realizzato con la spartizione del potere tra sovrano e gruppi sociali economicamente forti (elettori censuari) [il corsivo è mio!]. A tale fine, nelle democrazie contemporanee, come quella del regime repubblicano italiano, il principio non serve più (mentre resta indispensabile per assicurare la legalità nell’esercizio del potere, che è cosa distinta e diversa dalla limitazione del potere: il potere politico è o non è legalmente esercitato, è o non è limitato, l’una alternativa essendo assolutamente separata ed indipendente rispetto all’altra)»[41].

Avrei serie difficoltà a immaginare giudizi liquidatori dell’istituto dell’equilibrio dei tre poteri più perentori ed assoluti di quelli formulati da von Hayek e, attraverso il costituzionalista Labriola, da una Commissione bicamerale italiana per la riforma della Costituzione.

 

d. – Constatazione della carenza di senso e/o della anfibologia dei concetti fondamentali del costituzionalismo odierno quali ‘Stato’ e ‘repubblica’ (ma anche ‘democrazia’ e ‘federalismo’)

 

Tra gli elementi di crisi strutturale del costituzionalismo e della forma di Stato dominanti è anche la constatazione della mancanza di significato dei concetti fondamentali, sia di quelli endogeni di tali costituzionalismo e forma di Stato sia di quelli mutuati da altre dottrine e da altre esperienze.

Tra i primi, spicca il concetto stesso di ‘Stato – persona giuridica sovrana’, ancora fondamentale al momento della scrittura della Costituzione[42] ma che i giuristi, epigoni odierni di Thomas Hobbes, hanno ridotto dal concetto temibile ma chiaro e forte di ente “divino” (per quanto “artificiale” e “mortale”) caratterizzato in maniera assolutamente esclusiva dal monopolio della forza, al concetto opaco e debole di ‘Stato–ente–apparato, convivente dello ‘Stato-comunità’, (pronubo, non necessariamente esplicitato ma riconoscibile, il concetto fergusoniano di “società civile”, a sua volta già traduzione-tradimento dei concetti aristotelico di koinonia politiké e ciceroniano di societas civilis).

Tra i secondi, spicca il concetto di ‘repubblica’.  Esso è assunto con la enfasi massima nelle Carte costituzionali. La Costituzione italiana all’articolo 139 (il secondo dei due articoli della sezione II “Revisione della Costituzione. Leggi costituzionali”) pone un limite intangibile unico alle possibilità della propria revisione:  «La forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale». La dottrina del costituzionalismo dominante, in realtà, non sa cosa sia la “repubblica”, concetto che non le appartiene e che essa utilizza nel contesto del proprio linguaggio metodologicamente se non proprio programmaticamente anfibologico. La crisi in corso evidenzia tale limite. Già nel 1968, il Novissimo Digesto Italiano, alla voce “Repubblica” affermava che «è impossibile trarre un concetto unitario di “repubblica”», che «la contrapposizione fra monarchia e repubblica si rivela oggi di poco valore, sia sul piano giuridico, sia su quello politico» e che «Oggi, qualunque cosa si intenda per monarchia e per repubblica, tutto ciò appare un po’ fuori dai tempi»[43].

Altro concetto sul quale si continuano a infulcrare i discorsi sugli assetti costituzionali da perseguirsi nei vari contesti e ai vari livelli è il concetto di ‘democrazia’. Tuttavia, nel saggio su La democrazia degli antichi e dei moderni (1971) Moses Finley ‘scopre’ lo stesso fenomeno visto a proposito della parola ‘repubblica’, la quale risulta priva senso in epoca contemporanea. Finley (giungendo a conclusioni perfettamente omologhe a quelle dei giuristi in materia di ‘repubblica’) ha scritto che il consenso generale sulla parola ‘democrazia’ corrisponde a una svalutazione talmente radicale del concetto da renderne inutile qualsiasi analisi[44].

Per quanto concerne il concetto di ‘federazione’, basti osservare che lo studioso del federalismo W.H. Stewart ne ha censito circa 500 accezioni diverse![45].

E’ evidente che la crisi strutturale del costituzionalismo e della forma di Stato di modello inglese, se –come ho detto– è, per quanto concerne la crisi degli istituti, ‘dottrinaria’ nel senso che è opera della dottrina, per quanto concerne la crisi dei concetti, essa è ‘dottrinaria’ anche nel senso che colpisce la stessa dottrina.

 

 

3. – Risorgenza spontanea della forma di Stato (e del costituzionalismo) di modello romano
a. – Affermazione mondiale del ruolo ‘politico’ delle Città come risorgenza del modo ‘romano’ di partecipazione dei cittadini alla formazione della volontà pubblica

 

Il fenomeno della risorgenza del ruolo economico e ‘politico’ delle Città è di dimensione mondiale. Su di esso abbonda la bibliografia, la quale, di norma e non a torto, lo individua come ‘faccia’ positiva (insieme alla ‘Globalizzazione’) del fenomeno della “crisi dello Stato” (su cui vedi, supra, il paragrafo 1.b).

Per le stesse ragioni di economia, già invocate in tale paragrafo, mi esento anche dall’illustrare la letteratura su questo fenomeno specifico, limitandomi ad osservare che anche la attenzione per  il fenomeno della ri-sorgenza economica–politica delle Città soffre degli stessi limiti che ho menzionato a proposito della dottrina sul fenomeno generale della “crisi dello Stato”, cioè: la circoscrizione ad una parte certamente importante ma –in realtà– non sostanziale (‘di superficie’, la ho definita) del fenomeno e la mancata percezione del suo collegamento storico–sistematico con la grande dialettica giuridica–costituzionale del Settecento[46].

Del fenomeno della risorgenza del ruolo economico e ‘politico’ delle Città giudico, invece, senz’altro più utile osservare la parte –ancora decisamente meno indagata ma, a mio avviso, decisamente più significativa– della risorgenza dell’iter ‘partecipativo’ municipale–federale, che, nella formazione della volontà pubblica, torna a sostituirsi all’iter ‘rappresentativo’ parlamentare, costituendo, quindi, l’elemento istituzionale in cui si concreta il primo ‘aspetto positivo’ della parte che ho definito ‘di struttura’ del fenomeno della crisi del costituzionalismo e della forma di Stato di modello inglese.

La riflessione su questa parte ‘di struttura’ del fenomeno della risorgenza del ruolo economico e ‘politico’ delle Città è prevalentemente politologica. Già la stessa Arendt[47], all’inizio degli anni ’50, e poi altri esponenti del filone ‘politologico’ anglosassone, sino ad oggi (ricordo il filone della cosiddetta “democrazia deliberativa”, che ho menzionato a proposito del costituzionalista nord-americano Ackerman), non si limitano (come, di norma, fanno i giuristi) ad osservare la inconsistenza della rappresentanza politica moderna ma individuano anche il rimedio a quella inconsistenza precisamente nei processi decisionali della Città antica[48]. Tale riflessione appare indicativa di una esigenza e di una tendenza positive anche se, sempre dal punto di vista romanistico, dal quale siamo partiti sulla scorta della citazione di Francesco De Martino, questi contributi, pure importanti e interessanti, appaiono limitati proprio dalla mancata lettura giusromanistica di Rousseau e rousseauiana del Diritto romano, ragione/i per la/e quale/i –in maniera doppiamente naïve, almeno dal punto di vista giuridico– il modello di partecipazione popolare: 1) è cercato ancora nelle “città-Stato” greche (in particolare nella ‘polis’ di Atene, da Clistene [507 a.C.]  fino alla conquista da parte dei Macedoni [322 a.C.]) anziché nello “Stato municipale” romano[49], e 2) si pensa di riproporlo – oggi – attraverso l’istituto dei referendum, grazie alle opportunità fornite dalle nuove tecniche di comunicazione informatica.

Tuttavia, questa risorgenza del processo ‘partecipativo municipale–federale’ di modello romano e la sua risostituzione tendenziale all’iter ‘rappresentativo parlamentare’ di modello inglese, nella formazione della volontà pubblica, avvengono in maniera oggettivamente razionale e organica, pure in assenza del supporto e della guida di una riflessione giuridica ad hoc.

La Città (il Municipio–Comune), dopo la sua espulsione multisecolare dall’iter decisionale pubblico, operata dalla e nella logica parlamentare, si riporta oggi alla base di tale iter, come sua potissima pars: il principium. La Città odierna –come già la Città antica– ritorna  o, quanto meno, vuole ritornare ad essere il luogo della trasformazione alchemica del ‘privato’ in ‘cittadino–sovrano’. La città concreta con il suo “concreto” popolo di cittadini torna ad imporsi nei confronti del Leviatano-fantasma. Trovo straordinario –in questo senso– qualche passaggio della Nouvelle Charte d’Athènes, edita nel 1998 dal Conseil Européen des Urbanistes, tra le cui “Recommandations” si può leggere «2. Une véritable participation […] la participation du public [...] est freinée [...] par la manière très rigide avec laquelle est appliqué le système de représentation démocratique, souvent hautement centralisé. L'expression du droit, des besoins et des souhaits des citoyens et leur compréhension des phénomènes [...] ne peuvent se réaliser uniquement à travers un système fondé sur des représentants élus à niveau local et central [...] Il faut restructurer les cadres d'organisation de l'urbanisme [...] le principe de subsidiarité doit être rigoureusement appliqué [...] Des formes innovatrices de participation doivent être mises en œuvre à la plus petite échelle possible au niveau local pour renforcer l'implication active des citoyens [...] et favoriser leur participation à la vie civique. Il faut encourager l'existence d'équipements sociaux et culturels de proximité et des espaces d'expression ou de rencontre» etc.

Questa ‘rivoluzione’ investe tanto i rapporti economici, politici e giuridici–istituzionali esterni dei Comuni quanto i rapporti economici, politici e giuridici–istituzionali interni. La ‘rivoluzione’ si propone, infatti, sia nei flussi decisionali esterni alla Città (con la inversione della direzione dell’iter decisionale, il quale tende a porre le proprie radici negli stessi Comuni, così trasformati da ultima agenzia esecutiva di decisioni discendenti dall’alto a momento primo e fondamentale di una volontà che ascende verso sintesi [via via] superiori)[50] sia nei meccanismi decisionali interni alla Città, per i quali ha ora senso che vengano riconquistati dai cittadini.

Per quanto riguarda la dimensione esterna della Città, ricordo due proposte ‘costituzionali’ omologhe, ai livelli, rispettivamente, della Unione europea e dello Stato nazionale italiano. La prima (del 1991) è la proposta scientifica, avanzata da parte di uno specialista di Althusius, Thomas Hüglin, di modellare la costituzione della Unione Europea sullo schema federale althusiano: «societario» (cioè ‘non–rappresentativo’) e costruito come un processo decisionale ascendente, il cui livello di base sono le Città[51].  La seconda (del 1997) è la proposta legislativa, avanzata da parte della Commissione bicamerale (presieduta da Massimo D’Alema) del Parlamento italiano per la riforma della Costituzione, di modificazione della rubrica odierna della parte seconda della Costituzione italiana “Ordinamento della Repubblica” con una nuova rubrica “Ordinamento federale della repubblica” e, soprattutto, di sostituzione dell’odierno Titolo primo della parte seconda della Costituzione italiana, “Il Parlamento”, con un nuovo Titolo primo, così formulato: “Comuni, Province, Regioni, Stato”[52]!

Va detto, con realismo, che (sebbene la Unione Europea abbia avuto e continui ad avere un ruolo importante nel dare spazio alle Città, se non altro per rafforzare la formazione di nessi trasversali tra i livelli di governo[53]) di queste proposte e delle riflessioni connesse non c’è traccia evidente nel processo costituente europeo, la cui elaborazione finale appare condizionata piuttosto da esigenze di equilibri quantitativi tra Stati, di profilo concettuale assai modesto. Né i riformatori italiani appaiono rendersi conto di aver proposto la sostituzione del modello–ordinamento costituzionale inglese con il modello–sistema costituzionale romano. Tale mancata coscienza ha certamente influito sul parziale ‘retour à l’arrière’ della successiva legislazione italiana di riforma della Costituzione in generale e specificamente del Titolo V della Parte seconda[54].

Per quanto riguarda la dimensione interna della Città, ricordo ancora[55] la legge 1993 n. 81, disciplinante la “Elezione diretta  del sindaco, del presidente della provincia, del consiglio comunale e del consiglio provinciale”, che  impone al candidato Sindaco di presentarsi ai comizi elettorali con un “programma” sulla cui base domandare ai cittadini il mandato per amministrare la comunità urbana[56]. In questo modo, i cittadini non soltanto eleggono il sindaco ma decidono anche il “programma amministrativo” dello stesso sindaco, in contrasto palese con il divieto costituzionale di mandato imperativo e, quindi, oramai al di fuori dell’istituto della rappresentanza politica. Ricordo che un tecnico della rappresentanza politica, quale Emmanuel Sieyès,  afferma espressamente che –per quanto riguarda tale istituto– non vi è differenza tra il governo nazionale e quello «del più piccolo dei comuni»[57].

Menziono, inoltre, il fenomeno –incipiente– di attenzione  e di imitazione dell’istituto latino-americano dell’“Orçamento participativo”, ‘inventato’ nel Municipio brasiliano di Porto Alegre (un milione e cinquecentomila abitanti, nello Stato di Río Grande do Sul) per consentire ai cittadini di concorrere tutti alla formazione del bilancio comunale di previsione, considerato, ai massimi livelli di autorità, la forma migliore di amministrazione cittadina[58] e che ora è proposto a livello dello Stato riograndense, a riprova del nesso inevitabile tra dimensione interna e dimensione esterna della Città-Municipio.

 

b. – Diffusione mondiale dell’istituto del Difensore civico come risorgenza del mezzo ‘tribunizio’ per la difesa dei diritti

 

Il secondo ‘aspetto’ positivo della parte che ho definito ‘di struttura’ del fenomeno generale di crisi della forma di Stato di modello inglese è costituito dal fenomeno specifico (iniziato durante il secolo XX, nel secondo dopoguerra) della diffusione mondiale di istituti di difesa dei cittadini contro la loro stessa pubblica amministrazione: Difensore civico in Italia, ‘Defensor del Pueblo’ in Spagna, ‘Médiateur’ in Francia etc.

Anche su questo fenomeno esiste una vasta letteratura giuridica[59].

Tuttavia, anche qui mi esento da rassegne, non soltanto né principalmente perché credo che tale letteratura sia nota ai- o facilmente conoscibile dai giuristi ma anche perché credo che il valore di tale letteratura sia limitato dalla interpretazione del fenomeno (comunemente adottata da quella letteratura e che –in questo caso– mi appare, più che ‘di superficie’, superficiale) come diffusione/imitazione dell’istituto nordico dell’Ombudsman, a sua volta interpretato come ‘commissario del Parlamento’.

Considero, cioè, lo stato della dottrina sul fenomeno della diffusione mondiale dell’Ombudsman nordico ancora meno soddisfacente dello stato della dottrina sulla diffusione mondiale del ruolo politico delle Città, in quanto in quella dottrina –e a differenza di questa– neppure ne risulta percepita la inscrizione, come fenomeno specifico, nel fenomeno generale della crisi dello Stato.

Tale opacità particolare della interpretazione del ‘nuovo Ombudsman’ dipende dal fatto che il suo rapporto con il fenomeno della crisi dello Stato è circoscritto alla sola parte ‘di struttura’ di questa crisi, cioè proprio a quella parte della crisi non ‘vista’ come tale dalla dottrina della “crisi dello Stato”.

Il fenomeno della diffusione mondiale del Difensore civico acquista, invece, ben altro significato e ben altra portata se esso è interpretato come fenomeno specifico del fenomeno generale della crisi dello Stato, nonché –più precisamente e più correttamente– come aspetto positivo di uno dei due elementi istituzionali essenziali della parte ‘di struttura’ della crisi della forma di Stato di modello inglese. In altri termini e ‘più semplicemente’: è necessario coglierne il nesso con la crisi dell’istituto dell’equilibrio dei tre poteri e recuperarne la natura tribunizia[60]; ma per potere fare ciò, si deve utilizzare lo schema interpretativo descritto da De Martino.

Si noti, inoltre, che il saggio di Ackerman, citato a conclusione del paragrafo precedente a proposito della crisi dell’istituto della rappresentanza politica, è dedicato all’istituto dell’equilibrio dei tre poteri, istituto del quale Ackerman propone la sostituzione con una bipartizione tra il potere ‘sovrano–legislativo’ del popolo ed ‘esecutivo – di governo’ del parlamento e del governo in senso stretto con l’inserimento di un istituto –la Corte costituzionale– profondamente ripensato in funzione di termine medio tra popolo sovrano e parlamento/governo esecutivo[61]. Catalano mette, giustamente, in guardia dalla sovrapposizione sulla nozione di «tribunat» della nozione “borghese–liberale” di «organes ayant des fonctions de ‘contrôle de constitutionnalité’»[62],  tuttavia, se la costruzione di Ackerman non è il modello romano di Rousseau, mi appare oggettiva la tendenza –se non alla collimazione– quanto meno all’avvicinamento.

E’, infine, notevole la relazione di questo fenomeno specifico con l’altro fenomeno specifico della risorgenza del ruolo economico e ‘politico’ delle Città. In effetti, almeno in Italia, soltanto nella dimensione municipale è stata prevista la possibilità della elezione diretta del Difensore da parte dei Cittadini, ciò che (come osservato acutamente in dottrina) è la innovazione costituzionale vera[63].

 

c. – Tentativo (a proposito del ‘bene ambiente’) di una lettura romanistica del concetto di ‘Stato’ (con la ricomposizione –nella distinzione– della separazione ‘diritto pubblico – diritto privato’) e nuova ma ancora ambigua fortuna delle categorie di ‘democrazia’, ‘repubblica’ e “federalismo municipale”

 

A differenza della cesura (registrata a proposito degli istituti essenziali dello Stato costituzionale: soggetti e iter di formazione della volontà pubblica e mezzi di difesa della libertà – limitazione del potere) tra fenomeni negativi di critica del costituzionalismo (e della forma di Stato) di modello inglese e fenomeni positivi di risorgenza della forma di Stato (e del costituzionalismo) di modello romano e, quindi, della connessa mancanza di coscienza della esistenza e della natura del complesso organico di tali fenomeni, si deve registrare, a proposito del concetto di Stato, la comparsa – ancora isolata ma già significativa – della critica del concetto di ‘Stato persona giuridica’ e dell’ordinamento su di esso teoreticamente fondato, critica cui si collega organicamente una prima ricostruzione di un ordinamento (ancora non si può parlare di ‘sistema’) fondato sul concetto di ‘Stato societas’ (non – lo ripeto – sul ‘falso amico’ della categoria – oramai fergusoniana – di “società civile”, che dello Stato-Leviatano persona artificiale-rappresentata è, anzi, integrazione utile se non necessaria)[64]. Sia la critica sia la ricostruzione fanno capo, complessivamente ed esplicitamente, al Diritto e alla tradizione giuridica romani[65]. Credo utile ricordare che la considerazione unitaria di “atti” posti in essere da una pluralità di persone in vista delle “costituzione, modificazione o estinzione di diritti” è questione centrale della scienza giuridica ed essa è stata risolta precisamente mediante la ‘invenzione’ del contratto di società, dai giuristi romani e mediante la ‘invenzione’ della persona ficta vel repraesentata (cioè, la persona giuridica) dai giuristi medievali–moderni in generale e da quelli “parlamentari” in particolare[66].

E’ anche significativo che questa critica e questa ricostruzione prendano le mosse dalla questione della tutela efficiente-efficace dell’ambiente. Tale tutela è ravvisata nell’istituto della ‘azione popolare’. In effetti, la azione popolare, che appartiene al sistema giuridico ‘romano’ e che è forma di partecipazione dei cittadini all’esercizio processuale di diritti pubblici (intesi come diritti degli stessi cittadini), è incompatibile con i concetti basilari della logica giuridica statalista (il concetto di Stato-persona con la separazione tra diritto pubblico e diritto privato) e con l’istituto della rappresentanza politica ed ha un nesso storico-sistematico macroscopico (sebbene non approfondito scientificamente) con il ruolo ‘costituzionale’ dell’istituto dei Municipi-Comuni[67].

E’, infine, degna di nota, dopo e – in certa misura – ancora insieme alle affermazioni di insignificanza dei concetti di ‘democrazia’ e di ‘repubblica’, la nuova attenzione dedicata a questi concetti. Si tratta di una linea recente di riflessione scientifica, nota appunto come “democrazia deliberativa” e/o “repubblicanesimo”. In questa linea confluiscono una serie notevolmente consistente di voci e di contributi, espressi dapprima nella contrapposizione tra “liberalismo” e “comunitarismo”[68] (dalla parte del ‘comunitarismo’), tra loro non necessariamente coincidenti anzi dividentisi in gruppi e sotto-gruppi, ma caratterizzantisi complessivamente e vieppiù per la critica nei confronti degli ordinamenti costituzionali odierni e per la ricerca di soluzioni alternative nelle forme della partecipazione dei cittadini e della loro tutela presso gli ordinamenti della Città antica.

Ho già accennato agli autori che vengono accomunati dalla o nella categoria della “democrazia deliberativa” e non posso qui che ribadire entrambe le osservazioni già fatte in quelle sede: 1) importanza sia della critica agli istituti della rappresentanza politica e dell’equilibrio dei tre poteri sia della ricerca della loro alternativa negli istituti della democrazia delle Città antiche, 2) limite della circoscrizione di tale ricerca alla esperienza politica greca e della disattenzione per la esperienza giuridica romana e i suoi sviluppi medievali, moderni e contemporanei, con la proposizione – conseguente –di soluzioni istituzionali (di genere referendario) che trovo sostanzialmente ‘naïves’.

Il ricorso alla categoria “repubblicanesimo” dovrebbe ovviare a questo ‘limite’ della riflessione sulla “democrazia deliberativa”. Esso comporta – infatti – la ri-connessione sia al pensiero repubblicano romano sia ai suoi sviluppi medievali e moderni (a proposito dei quali viene, anzi, coniata la espressione «neo-romani») sino a rivalutare e riproporre la esperienza del «federalismo  comunale»[69]. Tuttavia, proprio la riflessione che si esprime nel “repubblicanesimo” appare più sfuggente sul piano propriamente giuridico: sia in generale sia, in particolare, nei confronti degli istituti –invece essenziali per il discorso costituzionale– di formazione della volontà pubblica e di garanzia dei diritti, risultando – almeno dal punto di vista del giurista – più espressione di una insoddisfazione e di una esigenza che la risposta all’una e all’altra.

In ogni caso, il dibattito dottrinario recente sulle forme di organizzazione politiche-giuridiche, che proviene d’oltre oceano, è interessante e occorre tenerne conto, nonostante i limiti, che appaiono dalla nostra prospettiva interpretativa.

 

 

Appendice I. – Constatazione della inesistenza dello schema dialettico proposto dalla scienza economica (alternativa tra mercato senza società e società senza mercato) e la nuova domanda di diritto: romano, a partire dalla positio studii del ius publicum

 

Il quadro – così ricostruito, secondo lo schema interpretativo da cui siamo partiti – sia delle constatazioni dottrinarie della inesistenza della Costituzione ovverosia del modello costituzionale detto oggi “occidentale” (e propugnato, anche con la forza, come l’unico “democratico” possibile se non addirittura come l’unico pensabile) sia della ri-sorgenza (prevalentemente spontanea) del modello storicamente e sistematicamente alternativo – nonostante lo sforzo, anche pedante, di ‘Zusammenfassung’ – è un quadro lacunoso. Le lacune, dipendenti dai limiti di tempo e di spazio dedicati a questo contributo, non mi preoccupano: sono inevitabili e inevitabilmente saranno riempite, se lo schema usato per la ri-costruzione storica–sistematica è – come io credo – giusto. Vi è, però, una prospettiva che sinora ho tralasciato e che, invece, ritengo necessario – almeno – menzionare già in questo primo livello espositivo. Si tratta della prospettiva propria alla scienza economica.

Vi è stato, infatti, un nesso fortissimo, in tutto il corso della epoca contemporanea, tra l’affermarsi di una scienza economica-guida,  auto-referente, affrancata dall’imperativo etico[70], ‘superiore’ al diritto[71] e l’affermarsi di un costituzionalismo e di una forma di Stato di modello inglese: dall’affermarsi della teoria del vizio fonte della ricchezza della Nazioni, ad opera dei cosiddetti ‘illuministi scozzesi’[72], all’affermarsi della teoria della dipendenza dell’istituto giuridico della rappresentanza politica dall’istituto economico della specializzazione nella organizzazione del lavoro, ad opera di Sieyès[73], all’affermarsi della teoria marxista del diritto “sovrastruttura” della “struttura” economica[74], per non citare che tre passaggi salienti di quel nesso.

Un nesso altrettanto forte vi è, ora, tra la crisi del costituzionalismo e della forma di Stato dominanti e la crisi della scienza economica.

In effetti, anche la scienza economica contemporanea è entrata in una fase di crisi, la cui manifestazione più clamorosa è stata la fine, sul piano della prassi, della sua dialettica tra ‘mercato’ e ‘società’ (con la implosione dei ‘socialismi reali’) per cui si è parlato, addirittura, di “fine della storia”.

Ma la storia non si arresta per così poco e la scienza economica ha dovuto avviare una riflessione critica, anche sul piano della teoria, della sua stessa dialettica di fondo. Questa riflessione non soltanto risulta allineata perfettamente ai fenomeni giuridici coevi, che abbiamo sommariamente  esposto, ma, inoltre, getta sui medesimi una luce ulteriore, assai interessante.

Penso, in particolare, a due filoni di questa riflessione.

Uno di essi si è formato in riferimento alle organizzazioni aziendali, alle organizzazioni – cioè – a fini essenzialmente economici, e consiste nella teoria secondo la quale la partecipazione diffusa dei lavoratori delle aziende ai processi decisionali, che ne determinano la attività, rende questa stessa attività più efficace e più redditizia. Sembra incredibile ma, dopo quasi due secoli di teoria rigorosamente gerarchica, verticale, dall’alto verso il basso della organizzazione aziendale, oggi, se si vuole leggere di ‘ricerche’ sui vantaggi della democrazia, occorre consultare non pubblicazioni politiche o di politica delle istituzioni di ispirazione ‘gauchiste’ ma precisamente riviste tecniche del settore aziendale, che – con il loro idioletto specifico – trattano il tema del passaggio dal ‘fordismo’ al ‘toyotismo’. Questo ‘filone’ ha prodotto, inoltre, la direttiva (che trovo straordinaria) della Unione Europea sulla “Societas Europaea” di apertura della gestione societaria ai lavoratori[75]: in controtendenza totale con la tendenza giuridica, ugualmente coeva, espressione del modello giuridico ancora dominante (seppure in crisi) e che ha prodotto, invece, la direttiva della stessa UE per la istituzionalizzazione generalizzata delle società unipersonali[76]. La direttiva sulla apertura ai lavoratori della gestione societaria mi fa pensare all’incipit della nostra Costituzione «L’Italia è una repubblica democratica, fondata sul lavoro» ma, soprattutto, mi ricorda il famoso principio giuridico sancito nel Codice di Giustiniano «quod omnes similiter tangit ab omnibus comprobari debet» (C. J., 5.59.5.2)[77].

L’altro filone si è formato, invece, in riferimento alla efficacia delle organizzazioni politiche–territoriali sul piano –anche se non principalmente– della promozione economica. Citazione obbligata per tale filone è lo studio di Robert Putnam[78], il quale non soltanto, per mezzo di una serie di parametri, misura la maggiore efficacia delle Regioni del Nord–Italia rispetto alle Regioni del Sud–Italia ma soprattutto la spiega. Secondo Putnam (il quale ha –così– contribuito a diffondere una categoria economica recente) l’elemento che fa la differenza a favore delle Regioni del Nord–Italia è la maggiore quantità di “capitale sociale”: cioè –nel lessico della scienza economica– la propensione dei “cittadini” a ‘investire’ in obiettivi comuni[79]. E Putnam trova la radice di questa –maggiore– disponibilità negli istituti della esperienza comunale medievale, la quale –infatti– è stata repressa generalmente in Europa ma stroncata specificamente nel meridione d’Italia soprattutti da un Imperatore germanico, per altro splendido: Federico II, che teneva corte a Palermo e che –nel 1224– fondò la Università di Napoli. Circa quindici anni dopo lo studio di Putnam ci si è accorti che il “capitale sociale” dilapidato da Federico II è quello accumulato dalla rete di città (i Municipi) che è l’Impero romano[80]. Del resto, circa centocinquanta anni or sono, già Theodor Mommsen aveva definito il popolo romano una «confédération de toutes les cités des citoyens», individuando l’elemento caratterizzante il Principato nella rete di città che, nel Comune, «est la base de notre civilisation»[81]; ed era stato Marco Tullio Cicerone a insegnare che il popolo è una società costituita per il perseguimento della “communio utilitatis” e che la “constitutio populi” è la civitas, la quale nient’altro è se non una societas[82]. Trovo veramente istruttiva – anche dal punto di vista volgarmente politico – la riflessione secondo la quale il Nord-Italia può prosperare grazie al portato della civiltà urbana-repubblicana ‘meridionale’ (del Mediterraneo) mentre il Sud-Italia è penalizzato dal portato della cultura dei regni nazionali “del Nord”.

In conclusione: gli economisti stanno transitando dalla constatazione della fine della dialettica economica “reale” (come conseguenza della fine del “socialismo”) alla ‘constatazione della inesistenza’ della stessa dialettica economica teorica tra ‘mercato’ e ‘società’ (o ‘socialismo’). Gli economisti riconoscono, oramai, che lo schema interpretativo di fondo della scienza economica contemporanea, per cui «Dal punto di vista teorico, lo sviluppo dell’economia moderna si è compiuto svuotando le relazioni economiche del loro contenuto sociale», è fallace ed «è sempre più diffusa l’idea che non sia possibile interpretare correttamente i fenomeni economici – anche quelli più tipici, come gli scambi commerciali e la performance aziendale – senza tenere conto della loro dimensione relazionale. L’attività economica infatti, per quanto si cerchi di isolarla, rimane profondamente radicata nella struttura sociale. [...]  In altre parole, si avverte l’esigenza di colmare il divario che, nell’ambito della teoria economica, esiste tra economia e società»[83]. Ancora con altre parole la stessa idea è stata espressa come «senso di una perdita dolorosa, di una amputazione subita (e anche voluta) dagli studi economici rinunciando a indagare, nell’ambito della produzione e degli scambi, l’uomo intero, l’uomo [...] civile, che ne è protagonista e limitandosi in tal modo a registrare senza denunciarlo come tale, ma quindi anche in qualche misura contribuendo a ribadirlo, il grado di alienazione che l’homo oeconomicus rappresenta rispetto all’essere civile che è l’uomo nella sua interezza»[84]. Appare evidente il cammino di ritorno della economia verso la casa del diritto e il modello di diritto che si traguarda è proprio quello ‘romano’, il diritto “giusto” codificato da Giustiniano (D. 1.1.1.pr.) e riproposto da Rousseau: secondo gli stessi autori da ultimo citati, un concetto importante per recuperare il senso di una “economia civile” è il concetto rivoluzionario francese di “fraternité”, il cui tempo «sarebbe stato inaugurato dalla dittatura della Montagna». Non so se è superfluo, qui, ricordare che, secondo le Istituzioni di Gaio (3.15; cfr. Cic. de or. 1.56.273; Fest. 82; Gell. 1.9.12), il contratto di società viene dall’istituto del consortium tra fratelli, che quel contratto ri-produce per mezzo dello iuris consensus.

 

 

Appendice II. – La Costituzione della Repubblica Bolivariana del Venezuela

 

Alla natura prevalentemente spontanea (sprovvista, cioè, del supporto di una coscienza scientifica adeguata) del ri-sorgere della forma di Stato di modello romano fa eccezione (come già accennato a suo luogo) la Costituzione latino–americana del Venezuela, del 20 dicembre 1999, istitutiva della nuova “República Bolivariana de Venezuela” in luogo della precedente “República de Venezuela”.

Non intendo, qui, sostenere che tale Costituzione è traduzione completamente soddisfacente del costituzionalismo di modello romano, di cui Simaón Bolívar è, comunque, esponente tra i più significativi.

Certamente, però, la Costituzione venezuelana del 1999 è l’unico tentativo odierno, politicamente e scientificamente cosciente, di riproporre sistematicamente quel costituzionalismo. All’art. 1 della stessa Costituzione, è posta a fondamento, del «patrimonio moral» e dei «valores de libertad, igualdad, justicia y paz internacional» della Repubblica, la “dottrina” del Libertador, il cui modello, la “Roma repubblicana”, è menzionato dal Presidente della Repubblica, Hugo Chávez Frías, nel Discurso a la Asamblea Nacional Constituyente del 5 agosto 1999[85].

In particolare, tale Costituzione rompe deliberatamente il meccanismo dei tre poteri, portandoli –in linea con una importante tradizione di pensiero– a cinque[86]. Oltre i Poteri legislativo (artt. 186 ss.), esecutivo (artt. 225 ss.) e giudiziario (artt. 253 ss.), sono introdotti il ‘Poder ciudadano’  affidato al ‘Consejo Moral Republicano’ (integrato dal ‘Defensor del pueblo’, dal ‘Fiscal General de la República’ e dal ‘Contralor General de la República’) (artt. 273 ss.) e il ‘Poder electoral’ affidato al ‘Consejo Nacional Electoral’ (artt. 292 ss.). La fonte di ispirazione del ‘Poder ciudadano’ è il ‘Poder moral’, proposto da Bolívar nel proprio Progetto di costituzione presentato in Angostura il 15 febbraio 1819,  e il ‘Poder electoral’ è ispirato all’istituto omonimo, proposto da Bolívar nel proprio Progetto di costituzione redatto per la Bolivia nel 1826.

Il fatto che la Costituzione, la quale chiude il secolo ventesimo e apre il secolo ventunesimo, sia orientata verso il modello romano di costituzionalismo e di forma di Stato mi appare, in ogni caso, segno da cui trarre auspici favorevoli per il nostro operare.

 

 



 

* Nel convegno di Mosca l’autore ha presentato il contributo preparato per i Cinquanta anni della Corte costituzionale della Repubblica italiana e pubblicato nel volume Tradizione romanistica e Costituzione, I, diretto da L. Labruna, a cura di M.P. Baccari e C. Cascione, Napoli 2006, 321 ss.

 

[1] F. De Martino, “Le idee costituzionali dell’antichità classica e la nostra Costituzione”, in Aa.Vv., Dalla Costituente alla Costituzione. Convegno in occasione del cinquantenario della Costituzione repubblicana [= Atti dei convegni lincei 146] Roma 1998, 76 s. La precisazione “romanisti” è mia; del resto, sono l’unico «altro» autore citato da De Martino in quel contesto specifico (nt. 56): in particolare, due mie monografie, rispettivamente, del principio degli anni ’80 (Il potere dei tribuni della plebe, Milano 1982) e della metà degli anni ’90 (Res publica res populi, Torino 1996) nonché il contributo “République et démocratie anciennes avant et pendant la révolution” in M. Vovelle, sous la direction de, Révolution et république. L’exception française [= Actes du Colloque Paris I Sorbonne 1992], Paris s.d.

 

[2] F. De Martino, “Il modello della città-stato” in A. Schiavone, a cura di, Storia di Roma, vol. I,  Torino 1988, 357 s. L’autore cui De Martino confuta di essere un “mommseniano” è sempre Catalano.

 

[3] F. De Martino, “Le idee costituzionali dell’antichità classica e la nostra Costituzione” loc.cit. Sostanzialmente nello stesso senso già i contributi nella Storia di Roma curata da Aldo Schiavone: “La costituzione della città-stato” (cit., 345 ss., dove si invita a «giudizi più realistici sulla costituzione della repubblica, nonostante gli entusiasmi di Rousseau e dei giacobini per le libertà democratiche di Roma» [p. 359]) e “Il modello della città-stato” (nel vol. IV, Torino 1989, 433 ss., dove si afferma che «Quanto alla sovranità popolare, si può dire che il suo concetto era sconosciuto alla filosofia politica di Roma, e non si trova nemmeno in quegli autori della tarda repubblica, che erano imbevuti di pensiero greco, come Cicerone.» [p. 446]).

 

[4] Una mia prima riflessione su questo tema è nel saggio Diritto pubblico romano e costituzionalismi moderni, Sassari 1989 (tr. in lingua spagnola di J. Fuquen Corredor, Modelo romano y constitucionalismos modernos. Anotaciones en torno al debate juspublicístico contemporaneo con especial referencia a las tesis de Juan Bautista Alberdi y Vittorio Emanuele Orlando, Bogotá 1990), edizione aggiornata Sassari 1993, 71 ss., cui ha fatto séguito una trattazione più ampia: Res publica res populi. La legge e la limitazione del potere, Torino 1996. Successivamente, ho ripreso la ricerca in occasioni diverse, approfondendone punti specifici. Menziono, in particolare: 1) “Dal ‘Defensor del Pueblo’ al Tribuno della Plebe: ritorno al futuro. Un primo tentativo di interpretazione sistematica con particolare attenzione alla impostazione di Simón Bolivar”, in P. Catalano - G. Lobrano - S. Schipani, a cura di, Da Roma a Roma. Dal Tribuno della plebe al Difensore del popolo. Dallo jus gentium al Tribunale penale internazionale, Roma 2002, 67-86 (poi, ampliato e tradotto in lingua spagnola, in UGMA Jurídica. Revista de la Facultad de Derecho de la Universidad Gran Mariscal de Ayacucho, año 2/n.2/2003, 11 ss. e, con qualche ulteriore integrazione, in Roma e America. Diritto romano comune, 14/2002, 135-165 e in Memorias. XIII Congreso Latinoamericano de derecho romano. La Habana, Cuba, 7 al 10 de agosto del 2002, édite dalla Universidad Michoacana, Morelia - Michoacán 2004, 258 ss.); 2) “Problèmes actuels de droit à travers le droit (public) romain: de la crise de l’‘Etat-fantôme’ à la résurgence de l’‘Etat-municipal’. Réflexions en cours de systématisation avec quelques notes de sources et bibliographiques”, in Sofia Avgerinou Kolonias - Elena Maistrou, a cura di, Polis, Démocratie et Politique. Rencontre scientifique. Sparte 29 mars - 1er avril 2001, Athènes 2002, 278-292 (quindi ripubblicato in lingua italiana in M.M. Morfino, a cura di, Miscellanea in memoria di P. Sebastiano Mosso S.I. [= Theologica & Historica XI] Cagliari 2002, 263-282 e, ancora in lingua francese, in Aa.Vv., Ville, cité et Antiquité, L’Harmattan  2003 [= Méditerranées. Revue du centre d’Ėtudes Internationales sur la Romanité, n.33 – 2002] 17-37); 3) “Dalla rete di città dell’‘Impero municipale’ romano, l’alternativa al pensiero unico statalista anche per la Costituzione europea”, in Aa.Vv. [“Prefazione” di G. De Rita], Roma, la Convenzione ed il futuro dell’Europa, Milano 2003, 23-52; 4) “Città, municipi, cabildos”, in Roma e America. Diritto romano comune [= Atti di Mundus novus, America. Sistema giuridico latinoamericano, Congresso internazionale, Roma 26 - 29 novembre 2003], Roma 2005, 169-191.

 

[5] La ‘repubblica’: «J’appelle donc République tout Etat régi par des lois, sous quelque forme d’administration que ce puisse être» (CS, II.6 “De la loi”); cfr. «quand tout le peuple statue sur tout le peuple [...] Alors la matière sur laquelle on statue est génerale comme la volonté qui statue. C’est cet acte que j’appelle une loi» (ibidem).

 

[6] Vedi, supra, la nt. 3.

 

[7] La espressione è di Pierangelo Catalano, che la ha introdotta a proposito del potere tribunizio: P. Catalano, “Un concepto olvidado: poder negativo” in Revista general de legislación y jurisprudencia, segunda época, tomo 8, Madrid, marzo 1980, 231 ss. (ripubblicato, in lingua cinese, in: Roman Law and Modern Civil Law. The Annals of the Institute of Roman Law, Xiamen University, ed. by prof. Xu Guodong, 3, 2002, 215 ss.).

 

[8] Gli interventi di Catalano nei confronti della Costituzione, sono orientati anche al recupero e alla valorizzazione di questi elementi, ad iniziare dal principio della sovranità popolare (vedi, in proposito, P. Catalano, “Sovranità della multitudo e potere negativo: un aggiornamento” in Studi in onore di Gianni Ferrara, I, Torino 2005, 641 ss.), scontrandosi tuttavia –in tale operazione– con il fatto che il “regime” costituzionale è però inequivocabilmente quello – opposto – della sovranità parlamentare, come osservato e stigmatizzato (vedi, infra, prgf. 2.b) da Costantino Mortati.

 

[9] Vedi, in particolare, le monografie dell’economista giapponese K. Ohmae, La fine dello Stato-nazione. L’emergere delle economie regionali, 1995, ed.it. Milano 1996 e dei giuristi italiani N. Irti - F. Margiotta Broglio, La crisi dello Stato moderno, Firenze 1992. e S. Cassese, La crisi dello Stato, Bari 2001. Adde A. Sediari, sous la direction de, Etat-Nation et prospective des territoires, Rabat 1996 (ivi, in part., F. Delperée, “La destructuration de l’Etat-nation”, 15 ss.; Th. Michalon, “L’Etat inutile?”, 27 ss.; D. Ben Ali, “L’Etat-nation à l’heure des mutations politico-économiques”, 53 ss.).

 

[10] Vedi la nt. precedente. Dobbiamo distinguere dai processi di globalizzazione e di localizzazione cittadina dei poteri, che sono manifestazioni della crisi dello Stato, i fenomeni –soltanto simili– della aggregazione di Stati (quale è, ad esempio, la Unione Europea) del ‘decentramento’ di potere ai ‘dipartimenti’ degli Stati (quali sono, ad esempio, le Regioni italiane).

 

[11] Della abbondante bibliografia segnalo soltanto la raccolta di scritti a cura di J. Mander - E. Goldsmith, Glocalismo. L’alternativa strategica alla globalizzazione, ed. it. Bologna 1998; ivi, in particolare, la prefazione di Serge Latouche. Mi esento ugualmente dalla menzione della bibliografia (anche solamente giuridica) sulla ‘globalizzazione’, rinviando al recente F. Galgano, La globalizzazione nello specchio del diritto, Bologna 2005.

 

[12] Anche sulla nozione romana di universalismo e sulla sua contrapposizione alla nozione contemporanea di globalizzazione la bibliografia è abbondante; segnalo per la prima nozione F. Sini, “Dai documenti sacerdotali romani: dinamiche dell’universalismo nella religione e nel diritto pubblico di Roma antica” in Diritto @ Storia n.2 – Marzo 2003 = http://www.dirittoestoria.it/tradizione2/Sini-Dai-Documenti.htm e per la sua opposizione alla seconda nozione J. Baudrillard, “Le mondiale et l’universel” in Libération, 18 marzo 1996 e Y. Redalié, “Globalizzazione e universalità” dal documento Le chiese e la globalizzazione del Sinodo delle Chiesi valdesi e metodiste del 2001, 15 ss.

 

[13] Cfr. M. Luciani, “L’antisovrano e la crisi delle Costituzioni”, in Scritti in onore di Giuseppe Guarino, II, Padova, 1998, 731 ss.

 

[14] Vedi, infra, prgff. 2.b e 3.a.

 

[15] Vedi, infra, prgff. 2.b e 3.a.

 

[16] Vedi, infra, prgf. 3.c, nt. 47.

 

[17] G. Lobrano, “Dal ‘Defensor del Pueblo’ al Tribuno della Plebe: ritorno al futuro. Un primo tentativo di interpretazione sistematica con particolare attenzione alla impostazione di Simón Bolivar”, cit. prgff. B.I.1-4.

 

[18] “Note ex­plicative, en réponse” di Sieyès alla Lettre de M. Thomas Paine à M. Emmanuel Syèyes [sic!], Paris le 8 juillet 1791 in Supplément à la Gazette nationale au Samedi 16 juillet 1791 (ora in E. Sieyès, Oeuvres, Genéve, Paris, 1989, 3 voll. senza propria numerazione di pagine, II).

 

[19] La dottrina relativa a questo mezzo ci viene dal capitolo 6 del libro XI dell'Esprit des lois, dove Montesquieu introduce l'esame della costituzione inglese come modello della migliore costituzione possibile («Il y a une nation qui a pour but direct de sa constitution la liberté politique») e che apre precisamente con la teoria della divisione e dell'equilibrio dei poteri: «Il y a, dans chaque état, trois sortes de pouvoirs [...] Tout seroit perdu, si le même homme, ou le même corps des principaux, ou des nobles, ou du peuple, exerçoient ces trois pouvoirs: celui de faire les loix, celui d’exécuter les résolu­tions publiques, & celui de juger les crimes ou les differends des particuliers».

 

[20] In effetti, la “crisi” della forma di Stato di modello inglese è, per quanto violenta, una crisi ‘di crescita’ e il suo esito è per niente scontato. Soltanto comprendendone i termini storici e sistematici si può tentare di ‘pilotarla’ (anche nel senso del passaggio al modello romano). 

 

[21] Oggi, la unica Costituzione che si ispira esplicitamente, attraverso la mediazione di Bolívar, al modello romano teorizzato e proposto da Rousseau è la Costituzione della Repubblica Bolivariana del Venezuela del 1999, costituendo così una eccezione –per ciò– particolarmente interessante; vedi, infra, “Appendice II. La Costituzione della Repubblica Bolivariana del Venezuela”.

 

[22] E’ la tesi espressamente formulata da Edoardo I, Thomas Smith, James Madison, Immanuel Kant, Alexis de Tocqueville, per limitarci ai personaggi più noti (vedi G. Lobrano; Res publica res populi, cit., 159 ss. e 223 ss.)

 

[23] M. Weber, Wirtschaft und Gesellschaft. Grundriss der verstehenden Soziologie5, hrsg v. J. Winckelmann, Tübingen 1976, lib.I cap.III §22 p.172, scrive a proposito della “gebundene Repräsentation”: i «‘Re­präsentanten’ sind in Wahrheit: Beamte der von ihnen Repräsentierten» ed essa è il «Surrogat der in Massenverbänden unmöglichen unmittelbaren Demokratie»; a proposito della “freie Repräsentation” scrive invece: «Der Repräsentant, in aller Regel gewählt [...], ist an keine Instruktion gebunden, sondern Eigenherr über sein Verhalten.  Er ist pflichtmäßig nur an sachliche eigene Ueberzeugungen, nicht an die Wahrnehmung von Interessen seiner Deleganten gewiesen» e «der von den Wählern gekorene Herr derselben, nicht: ihr ‘Diener’ ist [...] Diesen Cha­rakter haben insbesondere die modernen parlamentarischen Repräsentationen an­genommen»; cfr p.173 «Nicht die Repräsentation an sich, sondern die freie Re­präsentation und ihre Vereinigung in parlamentarischen Körperschaften ist dem Okzident eigentümlich».

 

[24] Il primato del parlamento, tr. it. (dalla ed. Wien - Leipzig del 1925, Das Problem des Parlamentarismus) a cura di C. Geraci, con “presentazione” di P. Petta, Milano 1982, 176; (Cfr. A. Oliet Pala, “El principio político formal de identidad en el ordenamiento español”, in Revista de derecho político 23, verano 1986, 118, che rinvia a H.Kelsen, Esencia y valor de la democracia, Ed. Nacional México 1973, 48).

 

[25] La Loi, expression de la volonté générale, ried. in fac-simile della ed. 1931, con “Préface” di G. Bourdeau, Paris 1984, p. 215.

 

[26] “Art. 1” in G. Branca, a cura di, Commentario della Costituzione I Principi fondamentali: Art. 1 – 12, Bologna 1975, 23 e 36

 

[27] Le origini del totalitarismo (1951) tr. it. 1989; Id., La lingua materna (testi del 1954 e del 1964) tr. it. a cura di A. Dal Lago, Milano 1993; Id., Vita activa. La condizione umana (1958) tr.it. Milano 1964; Id., Sulla rivoluzione (1965) tr. it. Milano 1983; Id., La disobbedienza civile e altri saggi (1970–1972) tr. it. Milano 1985. Cfr. Maria Pia Baccari, “Il concetto giuridico di civitas augescens: origine e continuità”, in SDHI, 61, 1995, 760. Vedi anche Id., Cittadini popoli e comunione nella legislazione dei secoli IV-VI, Torino 1996.

Merita qui una menzione anche il contributo del politologo canadese trapiantato negli Stati Uniti, David Easton (A systems analysis of political life, 1965, tr.it. a cura di G. Pasquino, L’analisi sistematica della politica, Casale Monferrato 1984), il quale definisce il sistema politico odierno, in quanto produttore di decisioni, “scatola nera” e “vaso di Pandora”. Sul pensiero di Easton, vedi, ora, D. Fuchs – H.-D. Klingemann, “La teoria politica dell’analisi dei sistemi: David Easton”, in Rivista italiana di scienza politica, n.3, dicembre 2003, 427 ss.

 

[28] J.R. Vanossi, El misterio de la representación política, Buenos Aires 1972.

 

[29] A. Torres del Moral, “Crisis del mandato representativo en el Estado de partidos”, in Revista de Derecho político, 14, verano 1982.

 

[30] H. Eulau, “Changing Views of Representation” in H. Eulau - J.C. Wahlke (Eds.), The Politics of Representation. Continuities in Theory and Research, Beverly Hills, 1978, 32; citato da D. Fisichella, La rappresentanza politica, Milano 1983, 5; cfr. Id., Elezioni e democrazia: un’analisi comparata, Bologna 1982. Vedi anche Gianfranco Pasquino, a cura di, Rappresentanza e democrazia, Roma Bari 1988.

 

[31] D. Nocilla – L. Ciaurro, “Rappresentanza politica”, in Enciclopedia del Diritto, XXXVIII 1987, s.v.

 

[32] G. Ferrari, “Rappresentanza istituzionale”, in Enciclopedia Giuridica, XXV, Roma 1991. Più in generale, cfr. P. Zatti, Persona giuridica e soggettività: per una definizione del concetto di persona nel rapporto con la titolarità delle situazioni soggettive, Padova 1975, e F. D’Alessandro, Persone giuridiche e analisi del linguaggio, Padova 1989.

 

[33] R. Wiethölter, Le formule magiche della scienza giuridica, 1968, tr.it. di L.R. Amirante, Roma Bari 1975.

 

[34] Oltre il primo firmatario, il costituzionalista Armaroli, gli altri deputati firmatari sono: Selva, Pisanu (attualmente Ministro dell’Interno), Follini, Biondi, Giovanardi (attualmente Ministro dei Rapporti con il Parlamento), Anedda, Armani, Deodato, Frattini (attualmente Commissario europeo e già Ministro degli Affari esteri), Giuliano, Landi, Malgieri, Martino (attualmente Ministro della Difesa), Menia, Carlo Pace, Antonio Pepe, Saponara, Urbani (attualmente Ministro dei Beni culturali). Nel 1996 erano state presentate al Senato della Repubblica altre due proposte, di minor portata, tendenrti a riformare l’art. 67 della Costituzione (il Disegno di legge costituzionale d’iniziativa della senatrice Mazzuca Poggiolini [12 settembre] e il Disegno di legge costituzionale d’iniziativa dei senatori Montagnino, Andreolli, Diana Lino, Follieri, Monticone, Erroi e Lo Curzio [25 settembre]).

 

[35] Nella “Relazione” si ricorda che, già al momento della redazione della Costituzione, «In sottocommissione Umberto Terracini sostenne che una disposizione del genere aveva fatto ormai il suo tempo. Valida in passato e all'epoca del collegio uninominale, quando la rappresentanza era circoscritta al collegio, ai giorni nostri una siffatta norma costituzionale “non varrebbe a rallentare i legami tra l'eletto e il partito che esso rappresenta o l'eletto e il comitato sorto per sostenere la sua candidatura». Mentre un altro comunista, Ruggero Grieco, si dichiarò contrario alla esclusione del mandato imperativo perché «i deputati sono tutti vincolati a un mandato: si presentano difatti alle elezioni sostenendo un programma, un orientamento politico particolare”» e si afferma che «L'esperienza repubblicana dimostra che la disposizione costituzionale in questione ha ormai esaurito tutte le sue potenzialità. […] Perciò oggi il divieto di mandato imperativo è una norma tralatizia. Nella migliore delle ipotesi, una foglia morta, per usare una espressione cara a Carlo Arturo Jemolo, e nella peggiore delle ipotesi una foglia di fico che copre a malapena le vergogne del trasformismo e dei cosiddetti “ribaltoni”. Tali vergogne si pongono in irriducibile contrasto con due disposizioni costituzionali che rappresentano l'architrave di ogni moderna democrazia. Da un lato, con l'articolo 1, secondo comma, della Costituzione, in base al quale la sovranità appartiene al popolo, e non emana semplicemente dal popolo. Dall'altro, con il successivo articolo 49, a norma del quale i cittadini hanno il diritto di associarsi in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale».

 

[36] Vedi, infra, prgff. 2.b e 3.a.

 

[37] Vedi, infra, prgf. 3.a, la proposta scientifica di Thomas Hüglin per la ‘costituzione federale europea’.

 

[38] B. Ackerman, La nuova separazione dei poteri. Presidenzialismo e sistemi democratici, Roma 2003; traduzione it. del saggio apparso originariamente sulla Harvard Law Rewiew nel 2000 e della quale vedi la recensione di T.E. Frosini in Diritto pubblico comparato ed europeo, 2, 2003. Ackerman ritiene che anche nel modello parlamentare, il consenso elettorale al programma del partito, che vince –così– le elezioni, postuli una sorta di  mandato popolare vincolante alla realizzazione del programma stesso, in vista del quale vengono forniti al Governo gli strumenti di potere necessari. Tuttavia i meccanismi costituzionali non garantiscono la correttezza di tale sequenza, con un vero e proprio “errore nel diritto costituzionale” cui si deve ovviare mediante ciò che egli chiama il “parlamentarismo vincolato”. Scrive, infatti, Ackerman: «piuttosto che dividere l’autorità legislativa tra Camera, Senato e Presidente [con riferimento alla separazione dei poteri di tipo americano], dovremmo cercare di dividerla tra il Parlamento ed il popolo, il primo assumendo le decisioni governative di routine e quest’ultimo esprimendo la sua volontà attraverso un processo attentamente costruito di referendum consecutivi» (op.cit. 41 ss.). Ackerman è noto per due ampi saggi sul potere popolare nella costituzione degli Stati Uniti: We the People. Foundations, Cambridge, Mass. 1991 e We the People: Transformations, Cambridge, Mass. 1998, i quali costituiscono le prime due parti di una trilogia annunciata, la cui parte terza dovrà essere intitolata We the People: Interpretations. Il saggio del 2000 è considerato da Frosini una anteprima della parte terza. Sulle prime due parti vedi Tania Groppi, “We the People: Transformations. Considerazioni sul libro di Bruce Ackerman”, in Politica del diritto, 2, 1999.

 

[39] Vedi, infra, al prgf. 3 a.

 

[40] F. A. von Hayek, Rules and Order, 1973, ora in Id., Legge, legislazione e libertà, tr. di P.G. Monateri, Milano 1989.

 

[41] S. Labriola, “Relazione sulla forma dello Stato”, in Commissione parlamentare per le riforme istituzionali, Documenti istitutivi – Discussioni in sede plenaria – Progetto di legge di revisione costituzionale – Indici II [= Testi parlamentari 17 lavori preparatori e dibattiti] Camera dei deputati, Roma 1995; cfr. Id., Lezioni di diritto costituzionale, Rimini 1997, e, nella stessa linea, già S. Lessona, “La divisione dei poteri. Appunti terminologici”, in Id., Scritti minori, a cura di Lucia Praga, II, Milano 1958; M. Volpi, “Gli organi costituzionali dello Stato”, in G. Morbidelli - L. Pegoraro - A. Reposo - M. Volpi, Diritto costituzionale italiano e comparato, Bologna 1997; G. Berti, Interpretazione costituzionale. Lezioni di diritto pubblico, IV Padova 2001. La idea della crisi della divisione o separazione ed equilibrio dei tre poteri appare ulteriormente diffusa nella dottrina costituzionale italiana, menziono: F. Bassi, 1965; G. Balladore Pallieri, 1972; C. Mortati, 1991; G. De Vergottini, 1991; G. Bagnetti, 1994; G. Amato – A. Barbera, 1997; Falcòn, 1998).

 

[42] Penso, esemplarmente, al contributo del costituzionalista e padre costituente (fu relatore sulla forma di governo) Egidio Tosato, sostenitore della «identificazione della personalità dello Stato con la personalità del popolo, e della sovranità del popolo con la sovranità dello Stato» per cui «il popolo è lo Stato» (Id.,  Sovranità del popolo e sovranità dello Stato” in Riv. trim. dir. pubbl., 1957, 37 ss.).

 

[43] G. Maranini – S. Basile, “Repubbblica”, in NNDI, 1968 [r. 1980] s.v.

 

[44] Finley, nella “Prefazione alla seconda edizione” (1981) rileva anche l’«affermarsi di una teoria elitista della democrazia [...] formulata all’inizio di questo secolo con un cospicuo contributo dei pensatori italiani, Gaetano Mosca e Vilfredo Pareto, e di un immigrato tedesco in Italia molto apprezzato da Mussolini, Roberto Michels, un tempo influente esponente della socialdemocrazia tedesca [.. . secondo la quale] la democrazia può funzionare e sopravvivere solo nelle forme di una oligarchia de facto di politici professionisti e di burocrati [...] la partecipazione popolare deve esserci solo in occasione delle elezioni [...e] un’apatia politica è un segno di salute» (le citazioni sono prese dalla edizione italiana M.I. Finley, La democrazia degli antichi e dei moderni, Bari 1982, 11 e vii).

 

[45] W.H. Stewart, Concepts of Federalism, Lanham, MD, University Press of America, 1984; cfr. Ugo M. Amoretti, “Il Federalismo e le sue conseguenze”, in Aa.Vv., Statuti regionali e federalismi. Riflessioni e proposte [= Presente e futuro. Periodico semestrale dell’Associazione tra ex Consiglieri regionali della Sardegna, 14, dicembre 2002] Cagliari 2002, 22. Vedi, però, anche G. Lobrano, “Costituzione italiana e Statuto sardo tra federalismo vero e federalismo falso” in QB - Quaderni Bolotanesi, 31, 2005, 29 ss.

 

[46] Vedi, supra, prgff. 1.a.

 

[47] Vedi, supra, prgf. 2.a; cfr. R. Schoonbrodt, “La ville et la philosophie”, in P. Ansay – R. Schoonbrodt, a cura di, Penser la ville. Choix de textes philosophiques, Bruxelles – Archives d’Architecture Moderne 1989, 61: «Hanna Arendt et la solution de la Grèce Classique», che, di Harendt, cita «Condition de l’Homme moderne, Ed. Calmann-Lévy, Paris, 1983, p. 41».

 

[48] Si veda, in particolare, lo scritto ‘a quattro mani’ di B. Ackerman e J. Fishkin, Deliberation Day, New Hawen 2004. Il sociologo G. Bosetti e il filosofo della politica S. Maffettone, a cura di, Democrazia deliberativa: cosa è, Roma 2003, ne propongono una rapida sintesi con la loro “Introduzione” e la breve selezione di saggi: ivi (oltre ai testi di “lezioni” tenute degli stessi Ackerman e Fishkin e da Mannheimer su sondaggio deliberativo e democrazia) sono inseriti i saggi di M.H. Hansen, “Democrazia diretta, antica e moderna”, 115 ss., e G. Pellegrino, “Appendice. Le radici storiche e teoriche della democrazia deliberativa”, 133 ss. Il danese Hansen è autore di una fortunata The Athenian Democracy in the Age of Demosthenes [1991] tr. it. a cura di A. Maffi, La democrazia ateniese nel IV secolo a.C., Milano 2003, che è divenuta il riferimento per le riproposizioni odierne del modello ateniese antico. Da questi autori – pure con i limiti di una impostazione scientifica non-giuridica (Ackerman a parte) – è colto il fenomeno della crisi della cosiddetta “democrazia liberale”, sostanzialmente elitaria, caratterizzata dalla enfasi sulle elezioni e dal controllo reale da parte delle ‘lobby’ economiche e il futuro è individuato nella alternativa tra il recupero del modello della democrazia greca e il precipitare verso la fine anche degli ultimi residui di democrazia, verso la “postdemocrazia” (cfr. C. Crouch [sociologo-politico, direttore del ‘Department of Political and Social Sciences’ presso l’Istituto Universitario Europeo di Firenze], Postdemocrazia, Roma-Bari 2003).

 

[49] Rinvio, per un primo approfondimento, al mio Res publica res populi, cit. 111 ss., dove cerco di mettere a fuoco la differenza di fondo tra il pensiero politico greco sulla politeia (con la teoria delle sette forme: tre buone, tre degeneri e una ottima: quella mista) e il pensiero giuridico (giuspubblicistico) romano sulla repubblica (contrapposizione tra regnum e res publica e articolazione di questa in tre forme possibili di “governo” [«gubernare rem publicam»]: regia, optimatium e popularis), individuandolo –quindi– nello sdoppiamento del livello di analisi proprio al pensiero romano, da cui Rousseau (ma si veda cosa scrive già lo stesso Bodin) ricava la summa divisio del Contratto sociale tra sovrano (il popolo) e governo (il principe). Il luogo ‘privilegiato’ di transito dal pensiero politico greco al pensiero giuridico romano è quello della koinoníasocietas. Gli stessi giuristi romani costruiscono in tempi –relativamente– lunghi il contratto di società, modificando il consortium non soltanto nella processo di formazione (con il passaggio dall’automatismo tra persone della stessa familia alla voluntas iuris tra chiunque [contratto di ius gentium] ma anche nel regime: dove il processo di disposizione volontaria dei beni sociali viene scandito in due fasi, cioè – appunto – ‘sdoppiato’.

 

[50] E’ un  esempio di questo rovesciamento di prospettive la mozione approvata dalla Assemblea dell’ANCI - Associazione Nazionale dei Comuni Italiani, riunitasi a Cagliari il 21 ottobre 2005. Tale mozione, proposta dalla Conférence permanente des Villes Historiques de la Méditerranée (associazione di piccole e medie Città storiche mediterranee presieduta dalla Città di Betlemme e con Segreteria presso la Città di Alghero) e presentata all’Assemblea dell’ANCI dal Sindaco della Città di Castelsardo, chiede l’abbattimento del muro divisorio che sbarra il territorio betlemita, non sul presupposto di equilibri internazionali ma in quanto incompatibile con quello strumento basilare del basilare governo locale che è il Piano regolatore, del quale la Città di Betlemme si sta dotando, con l’aiuto anche delle Autonomie italiane (in particolare della Regione Lazio). Il rovesciamento di prospettive è già in Giorgio La Pira, vedi G. Lobrano, “Civitas e Urbs nella lezione romanistica di Giorgio La Pira” in Diritto @ Storia, anno IV, 2005, quaderno n. 4 = http://www.dirittoestoria.it/4/Tradizione-Romana/Lobrano-Civitas-urbs-LaPira.htm .

 

[51] Th. Hüglin, Sozietaler Foederalismus. Die politische Theorie des Johannes Althusius, cit.; cfr. G. Duso, “Althusius e l’idea federalista”, in Quaderni fiorentini. Per la storia del pensiero giuridico moderno, 1992, 611 – 622; Id., “Una prima esposizione del pensiero politico di Althusius: la dottrina del patto e della costituzione del regno” in Quaderni fiorentini, 1997, 65 – 126; G. Duso, W. Krawietz, D. Widuckel, hrsg., Konsoziation und Konsens. Grundlage des modernen Foederalismus in der politische Theorie, Berlin 1996.

 

[52] Si tratta, a mio avviso, della vera novità, che non esito a definire rivoluzionaria e comunque decisamente più significativa che l’inserimento della parola ‘federale’ nella stessa intitolazione della Parte seconda: vedi Commissione parlamentare per le riforme costituzionali, Progetto di legge costituzionale. Revisione della parte seconda della Costituzione. Testo risultante dalla pronuncia della Commissione sugli emendamenti presentati ai sensi del comma 5 dell’articolo 2 della legge costituzionale 24 gennaio 1997, n.1, trasmesso alla Presidenza della camera dei Deputati e alla Presidenza del Senato della Repubblica il 4 novembre 1997, p.137; cfr. F. D’Onofrio, relatore sulla forma di Stato, circa “la centralità del comune nel nuovo ordinamento” (p. 18).

Rammento, per comprendere la ‘temperie’ culturale nella quale operava la Commissione bicamerale presieduta da D’Alema, il saggio–intervista di Antonio Bassolino, La repubblica delle città, Roma 1996, in particolare il prgf. 11 “Federalismo dei Comuni”, dove l’autore afferma: «bisogna fare perno sulle Città e sui Comuni [...] Guai a muoversi sulla strada di un federalismo fondamentalmente regionale. Sarebbe un disastro in un Paese come il nostro [...] Io penso che il Comune sia, e debba essere riconosciuto, come la prima e fondamentale parte dello Stato. Qui c’è da innovare nella Costituzione» (71-73). Ma non se ne è fatto niente.

 

[53] Così M. Cremaschi, L’Europa delle Città. Accessibilità, partnership, policentrismo nelle politiche comunitarie per il territorio, Città di Castello 2005. Ma anche a séguito della scoperta della inefficienza della vecchia programmazione economica dall’alto verso il basso o dal centro verso la periferia per grandi settori economici e della scelta conseguente di una nuova programmazione economica ascendente o centripeta per aree omogenee radicata nelle autonomie locali: i famosi PIA – Piani Integrati d’Area, cui è però mancata proprio la ‘interfaccia’ di una rivoluzione omologa nei processi decisionali pubblici.

 

[54] Vedi G. Lobrano, “Riforma federalista della Costituzione: riflessione sul ruolo della Regione tra poteri locali, Stato, e relazioni internazionali”, in Il Popolo Sardo, n. 3  anno 2004, sulla riforma del titolo V della parte seconda della Costituzione, approvata nel 2001, e Id., “Costituzione italiana e Statuto sardo tra federalismo vero e federalismo falso” cit., sulla riforma di tutta la parte seconda della Costituzione oggi in corso.

 

[55] Vedi, supra, prgf. 2.b.

 
[56] Capo I “Elezione degli organi comunali e provinciali”; Art. 3 “Sottoscrizione delle liste”; Comma 5 «deve essere anche presentato il nome e cognome del candidato alla carica di sindaco e il programma amministrativo da affiggere all'albo pretorio. Nei comuni con popolazione superiore a quella dei comuni di cui all'articolo 5 [“Modalità di elezione del sindaco e del consiglio comunale nei comuni con popolazione sino a 15.000 abitanti”], piu' liste possono presentare lo stesso candidato alla carica di sindaco. In tal caso le liste debbono presentare il medesimo programma amministrativo e si considerano fra di loro collegate» (il grassetto è mio; cfr. art. 29, comma 2.c).

 

[57] E. Sieyès, Observations sur le rapport du comité de constitution, concernant la nouvelle organisation de la France (Versailles chez Badouin 1789) quindi in Id., Oeuvres cit. II «Nous n’entendons point soumettre le Gouvernement National, ni même les plus petits Gouvernemens Municipaux au régime Démocratique. Dans la Démocratie, les Citoyens font eux-memes les lois, & nomment directement leurs Officiers publics. Dans notre plan, les Citoyens font, plus ou moins immédiatement, le choix de leurs Députés à l’Assemblée législative; la Législation cesse donc d’être démocratique,  & devient représentative».

 

[58] Su questo istituto molto è stato detto e molto ancora deve essere detto. Ricordo, in maniera del tutto esemplificativa, alcuni titoli recenti: T. Genro – U. de Souza, Orçamento participativo. A experiencia de Porto Alegre, São Paulo 2001; S. Amura, La città che partecipa. Guida al bilancio partecipativo e ai nuovi istituti di democrazia, Roma 2002; P. Sullo, a cura di, La democrazia possibile. Il Cantiere del Nuovo Municipio e le nuove forme di partecipazione da Porto Alegre al Vecchio Continente, Roma 2002; B. de Souza Santos, Democratizar a democracia. Os caminos da democracia participativa, Río de Janeiro 2002 (ed. in lingua italiana, Democratizzare la democrazia, Enna 2003); L. Avritzer – Z. Navarro, A inovação democratica no Brasil, São Paulo 2002; Anna Clara Torres Ribeiro – Grazia de Grazia, Experiencias de Orçamento participativo no Brasil. Periodo de 1997 a 2000, Petropolis 2003; G. Allegretti, L’insegnamento di Porto Alegre. Autoprogettualità come paradigma urbano, Firenze 2003.

Nella prospettiva qui seguita, mi sembra necessario –ancora prima che utile– segnalare il ruolo costituzionale dei municipi nella Federazione brasiliana, sancito nella costituzione del 1988 (vedi R. M. Horta, “Repartição de competências na Constituição Federal de 1988”, in Revista trimestral de direito público. São Paulo, nº 2, 1993, 5 ss.; cfr. J. N. de Castro, Direito municipal positivo. Belo Horizonte 1991; D. Ackel Filho, Município e prática municipal. São Paulo 1992; H. L. Meirelles, Direito municipal brasileiro8, São Paulo 1996; J. A. da Silva, Curso de direito constitucional positivo6, São Paulo 1990; P. Ferreira, Curso de direito constitucional7, São Paulo 1995) ma che ha una lunga storia, la quale ha origine nei municipi romani del Portogallo. La considerazione del fenomeno di Porto Alegre è anche occasione per ricordare la necessità di comprendere l’atteggiamento dell’Islam (il quale condiziona in maniera importante la storia portoghese) in materia di città. Su Islam e città, vedi F. Fusaro, La città islamica, Bari 1984; D. Chabane, La théorie du Umran chez Ibn Khaldoun, Alger 2003, in particolare 195 ss.

Sulla ‘città latino-americana’, vedi, esemplrmente, il numero 1 dell’anno 2003 dell’Anuario americanista europeo, dedicato monograficamente al tema Escribir la ciudad latinoamericana. Miradas cruzadas, interessante proprio per la disattenzione al fenomeno del nuovo ruolo delle città, le quali continuano ad essere osservate come oggetto ‘naturale’ di politiche altrui.

La amministrazione cittadina si manifesta comunque luogo istituzionale privilegiato della partecipazione dei cittadini alle decisioni pubbliche anche in contesti non segnati direttamente dalla tradizione giusromanistica. Ricordo qui l’esperimento, negli anni ’90, del ‘Fund for the City of New York’, il quale ha tentato, per mezzo di sondaggi, di opporre alle priorità individuate dalla amministrazione le priorità individuate dai cittadini. Tale esperimento, che ha avuto eco notevole negli Stati Uniti, si colloca nel quadro della nuova attenzione sorta in quel Paese, a partire dagli anni ’60 e radicatasi nelle amministrazioni locali per la partecipazione dei cittadini ai processi decisionali pubblici. In proposito, vedi Flaminia Saccà, “Comunicazione pubblica e partecipazione negli Sati Uniti”, in Il dubbio. Rivista di critica sociale, anno 1, n.1, 2000; cfr., più in generale, K.W. Deutsch, The nerves of government, tr.it. di F. Occhetto, I nervi del potere, Milano 1972.

 

[59] Vedi, per tutti, J.L. Maiorano (e altri), El Ombudsman. Defensor del pueblo y de las instituciones republicanas, I–IV, Buenos Aires 1999; i tre volumi prodotti dal Servizio studi della Corte Costituzionale, Roma febbraio 2002: Vittoriana Carusi e M. Pieroni, a cura di, Il difensore civico e istituti affini nell’ordinamento comunitario e in quello italiano; senza indicazione di curatori, Il difensore civico e istituti affini nell’ordinamento comunitario e in quello italiano. Appendice: Normative regionali istitutive dell’ufficio del difensore civico; Dalva Carmem Tonato, J. F. Sanchez Barrilao, P. Péréon e Lizette Delgado, a cura di, Il difensore civico e istituti affini. Aspetti di diritto comparato. Paesi: Francia, Portogallo, Spagna, Argentina, Brasile, Bolivia, Colombia, Ecuador, Messico, Paraguay, Perú, Venezuela.

 

[60] G. Lobrano, “Dal ‘Defensor del Pueblo’ al Tribuno della Plebe: ritorno al futuro”, cit. passim.

 

[61] Postulare la ‘nuova’ separazione dei poteri tra popolo e parlamento conduce Ackerman a concepire anche un ‘nuovo’ ruolo della Corte costituzionale, la quale deve divenire veramente indipendente, per potere agire come vincolo e presidio della volontà popolare, per evitare, cioè, che la maggioranza parlamentare possa disattendere le manifestazioni della sovranità popolare. Va detto, per altro, che Ackerman non pensa al modello offerto da Efori, Demarchi e Tribuni, ma, più modestamente, dal Tribunale Costituzionale Federale di Germania (B.A. Ackerman, La nuova separazione dei poteri. Presidenzialismo e sistemi democratici, cit., 41 ss.).

 

 

[62] P. Catalano, “Crise de la division des pouvoirs et tribunat (le problème du pouvoir négatif)” in L’attualità dell’antico, 6, a cura di Maria Grazia Vacchina, Aosta 2005, 205: «On a transformé l’idée de cette institution en une simple complément de la ‘division des pouvoirs’: il est intéressant de noter comment, très souvent, les spécialistes ne font aucune distinction entre le ‘tribunat’ rousseauiste et les institutions chargées du ‘contrôle de constitutionnalité». Catalano sottolinea anche la mancanza di «base populaire» degli organi di ‘contrôle de constitutionnalité’.

 

[63] Cfr. G. Zagrebelsky, “Problemi costituzionali sulla nomina di un Commissario Parlamentare in Italia”, in C. Mortati, a cura di, L'Ombudsman, il Difensore Civico, Torino 1974, 159: «Si è sostenuta l'opportunità (Jemolo) di configurare il Commissario (non più “parlamentare”, ma semmai “popolare”) come emanazione diretta della sovranità popolare, attribuendo perciò il potere di eleggerlo direttamente al corpo elettorale. Senza bisogno di richiamare suggestivi precedenti storici, come quello del Tribunato della Plebe, l'organo si caratterizzerebbe per la sua titolarità di una specie di “droit d'empécher”, di potere negativo (secondo la formula di Catalano) esercitato in nome e per conto del popolo, idonea a controbilanciare la logica delle democrazie rappresentative. Non è il caso di discutere nel merito una proposta di questo genere che tenderebbe a delineare un organo assai diverso da quello di cui si discute in questa sede. Basta osservare pregiudizialmente che la realizzazione di un simile disegno sconvolgerebbe dal profondo l'assetto istituzionale vigente e richiederebbe perciò la legge di revisione costituzionale. Ciò probabilmente non perché ne verrebbe modificata la forma di governo: a questo proposito, anzi, si potrebbe ritenere possibile la coesistenza di quell'organo con la ripartizione del potere tra gli organi costituzionali nella forma realizzata da noi. Si tratterebbe, invece, addirittura di una modificazione dei rapporti, se così ci si vuole esprimere, fra Stato-comunità e Stato-apparato, di una integrazione degli strumenti di esercizio della sovranità popolare per la quale, sicuramente, secondo l'esplicita disposizione dell'art.1 della Costituzione, sarebbe necessaria la revisione di essa». Sostanzialmente nello stesso senso G. Napione, L'Ombudsman: il controllore della pubblica amministrazione, Milano 1969, 269: «L'elezione a suffragio universale garantirebbe in un certo senso l'indipendenza dell'Ombudsman, ma ne muterebbe la natura, da organo del Parlamento a ufficio investito direttamente della sovranità popolare. In tal caso le modifiche [costituzionali connesse] sarebbero strutturali, ancora più profonde e riguarderebbero le stesse strutture dello Stato».

 

[64] Cfr., supra, il prgf. 2.d.

 

[65] Ho trovato le formulazioni più mature di queste critica e ri-costruzione connessa nel discorso di apertura dell’anno giudiziario 2000 della Corte dei Conti della Regione Lazio, pronunziato dal Procuratore regionale (ora Giudice costituzionale) Paolo Maddalena. Cfr. la ‘vecchia’ sentenza della stessa ‘Corte dei Conti’ (15 maggio 1973) in Foro amministrativo 1973 e, dello stesso Maddalena: Danno pubblico ambientale, Rimini 1990; “Il diritto dell’uomo alla conservazione e gestione del mare: azione e giurisdizione” in CERP – Centre d’Etudes, de Recherches et de Publications, Les zones protegées en Méditerranée: Espaces, espéces et instruments d’application des conventions et protocolles de la Méditerranée [= Actes du Colloque de Tunis – Novembre 1993], Tunis 1995; “L’evoluzione della tutela ambientale e l’azione popolare prevista dall’art. 4 della legge 3 agosto 1999, n. 265” in Rivista Amministrativa, 1999.

La posizione di Maddalena e la giurisprudenza della Corte dei Conti può essere accostata alla sentenza della Cassazione civile, sez. I, 26 ottobre 1995, n. 11151 di valorizzazione del carattere ‘societario’ contro quello ‘personalistico’ della società di diritto privato. Peraltro, occorre fare i conti con fenomeni di segno opposto, quali l’inserimento nel nostro ordinamento della società unipersonale (v. G. Oppo, “Società, contratto, responsabilità”, in Riv. Dir. Civ., 1993 II 184 ss; Id. “La legge ‘finta’”, ibidem, 2001, II, 485  [ove si sostiene che la qualità di società sia per le società unipersonali una “finzione di legge”]; C. Ibba, La società a responsabilità limitata con un solo socio. Commento al d.lg. 3.3.93 n.88, Torino 1995) e della responsabilità penale della società (v. Sara Gennai - A. Traversi, La responsabilità degli enti per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato: commento al D. lgs. 8 giugno 2001, n. 231, Milano 2001). Sulla riforma italiana del diritto delle società v. ora: La riforma delle società. D.LGS. 17 gennaio 2003 n.6 – Codice civile vigente – Testi a confronto con un commento di Vincenzo Buonocore [= Giurisprudenza commerciale – Suppl. al n. 4/03] Milano 2003. Sulla questione complessiva, vedi ora P.P. Onida, “Tensioni non risolte nel nuovo diritto societario: una lettura romanistica” in Diritto @ Storia, 3, Maggio 2004 = . http://www.dirittoestoria.it/3/TradizioneRomana/Onida-Tensioni-non-risolteII.htm .

 

[66] “Dell’homo artificialis - deus mortalis dei Moderni comparato alla societas degli Antichi” in A. Loiodice - M. Vari, a cura di, Giovanni Paolo II. Le vie della giustizia. Itinerari per il terzo millennio, Roma 2003, 161 ss.

 

[67] L’azione popolare, la cui persistenza nel diritto intermedio è, in generale, legata all’applicazione del Diritto romano come diritto comune, ricompare, in particolare, nella vita comunale dei secoli XIII e XIV. In Italia, in epoca contemporanea, dopo le leggi sarde del 26 ottobre e del 20 novembre 1859 in materia di diritto elettorale comunale e provinciale, troviamo l’azione popolare nella legge comunale e provinciale n. 5921 del 1889 (art. 114, per far valere azioni che spettano al Comune o ad una frazione di esso) ed è ripresa dalla legge n. 148 del 1915 (art. 225) per venire abrogata durante il fascismo (nel 1934) ed essere ri-proposta nella legge comunale e provinciale n. 530 del 1947 (art 23) (A. Albanese, L’azione popolare da Roma a noi, Roma 1955, 83 s. e 210). A parte gli interventi correttivi/integrativi delle leggi n. 765 del 1967 (art. 10) e n. 1034 del 1971 (art. 21) e della sentenza n. 103 del 1975 della Corte Costituzionale, la normativa significativa è costituita dalle leggi n. 142 del 1990, n. 265 del 1999 e n. 267 del 2000: sempre in materia di enti locali (P. Maddalena, opp. citt.; cfr. G. Sanna, Tutela giuridica dell’ambiente. Normativa e dottrina. Lezioni per il corso di Diritto dell’ambiente, Sassari 2004, in part. 260 ss. Non può essere dimenticato il contributo determinante dato alla questione da A. Di Porto, La tutela della salubritas fra editto e giurisprudenza. Il ruolo di Labeone, Milano 1990).

 

[68] Nel dibattito tra ‘comunitari’ e ‘liberal’, che i politologi-sociologi anglosassoni avevano proposto già prima degli anni ’90 (su questi autori vedi A. Ferrara, a cura di, Comunitarismo e liberalismo, Roma 1992; cfr., più recentemente, M. Veneziani, Comunitari o liberal? La prossima alternativa, Bari 2000) il ‘modello’ costituita dalle dimensioni e dalle forme cittadine della attività politica non gode (ancora) della attenzione che le viene (ora) tributata dai sostenitori della “democrazia deliberativa” e del “repubblicanesimo”.

 

[69] La espressione “neo-romani” è di Q. Skinner, Machiavel and Republicanism, Cambridge 1993 (tr.it. Machiavelli, Bologna 1999). Vede lo sbocco odierno del pensiero politico repubblicano in una «riforma federale che abbia il suo centro nel comune» M. Viroli, Repubblicanesimo, Roma-Bari 1999, 95. La monografia di Viroli, e quella coeva di G. E. Rusconi, Possiamo fare a meno di una religione civile?, Roma-Bari 1999, consentono un primo ‘punto’ sulla questione del “repubblicanesimo”, all’interno della quale, peraltro, questi autori operano scelte e assumono posizioni proprie e specifiche. Si veda anche L. Baccelli, Critica del repubblicanesimo, Roma-Bari 2003.

 

[70] «...non è detto che la mancanza di altruismo significhi per tutti un disvalore; anzi può essere il presupposto di un’etica alternativa, che a valore positivo assume proprio l’individualità come selfishness [= il pensare prima di tutto ai propri bisogni e benessere, senza curarsi degli altri]. E’ il caso dell’“oggettivismo” di Ayn Rand, che in America continua a trovare seguaci proprio perché afferma che l'egoismo è l'unica etica oggettivamente fondata. Se il fondamento oggettivo della natura umana è egoistico, l'unico rapporto naturale fra gli individui è il libero scambio.....» (V. Zanone, L’età liberale - Democrazia e capitalismo nella società aperta, Milano 1997, 103; citato da G.B. Montironi, “L'uomo responsabile di fronte alla globalizzazione. Esclusione, giustizia, democrazia. 1. La rottura della trascendenza dell'etica” in BiosPsychéZoé, 1999; l’opera citata da Zanone è, invece: A. Rand, Virtue of Selfishness [1964] ora pubblicata in italiano come La virtù dell’egoismo: un concetto nuovo di egoismo, “Prefazione” di N. Iannello, Macerata 1999).

 

[71] Vedi, ad es., F. Galgano, La globalizzazione nello specchio del diritto, cit. 46 ss. [= prgf. II.3 “La separazione dell’economia dal diritto con l’avvento della Rivoluzione industriale”]. Sul rapporto tra diritto ed economia, vedi ancora: N. Irti, L'ordine giuridico del mercato, Roma 1998; N. Irti – E. Baffi e altri, Diritto ed economia: problemi e orientamenti teorici, Padova 1999.

 

[72] Circa la nota influenza della apologia mandevilliana dei «vizi privati» nella formazione delle dottrine degli illuministi scozzesi, vedi E.G. Hundert, The Enlightenment’s Fable. Bernard Mandeville and the Discovery of Society, Cambridge 1994 e R. Hamowy, The Scottish Enlightenment and the Theory of Spontaneous Order, Carbondale (Southern Illinois) 1987; cfr. D. Francesconi, L’età della storia. Linguaggi storiografici dell’Illuminismo scozzese, Bologna 2003.

 

[73] E. Sieyès, “Observations sur le rapport du comité de constitution, concernant la nouvelle organisation de la France” (Versailles chez Badouin 1789) 35 in Oeuvres de Sieyès cit. III: «… la sépara­tion des travaux, effet & cause de l'accroissement des richesses & du perfectionnement de l'industrie humaine.  Cette matière est parfaitement développée dans l'ouvrage du Docteur Smith.  Cette séparation est à l'avantage commun de tous les Membres de la So­ciété.  Elle appartient au travaux politiques comme à tous les genres du travail productif.  L'intérêt commun, l'amélioration de l'Etat social lui-même, nous crient de faire du Gouvernement une profession particulière. [...] Ainsi, la Constitution purement démocratique devient, non seulement impossible dans une grande so­ciété; mais dans l'Etat même le moins étendu, elle est beaucoup moins appropriée aux besoins de la société [...] que la Constitution représentative» (Cfr. G. Lobrano, Res publica res populi, cit. 102 nt.82).

 

[74] Su cui si veda ancora il noto saggio di H. Kelsen, The Communist Theory of Law, London 1955; tr. it. La teoria comunista del diritto, Milano 1956 e 1981, e, per sviluppi bibliografici (oltre che nella ‘altra’ prospettiva), il saggio R. Guastini, Il diritto come sovrastruttura: in che senso?, Bologna 1979. Non è forse necessario esplicitare che, ad onta delle polemiche tra esponenti del pensiero giuridico “borghese” e del pensiero giuridico “comunista”, nella ricostruzione qui proposta, intendo riferirmi agli elementi di omogeneità e di continuità.

 

[75] «Il regolamento comunitario n. 2157/2001, destinato a entrare in vigore l’8 ottobre 2004, in tutti gli Stati membri dell’Unione Europea, contiene la disciplina, particolarmente complessa, della cosiddetta Societas europaea, una “nuova entità societaria” riconducibile alla forma della società per azioni, la cui previsione si inserisce a pieno titolo nel processo di partecipazione dei lavoratori alla impresa» (P.P. Onida, “Tensioni non risolte nel nuovo diritto societario” cit.; cfr. M. Miani, “L’etica della comunicazione e il bilancio sociale partecipativo” in Rivista della cooperazione, 2, 2005, 64 ss., nel quale trovo interessante il ricorso, per indicare la partecipazione dei lavoratori nella gestione impresa, alla stessa formula usata dagli amministratori comunali di Porto Alegre per indicare la partecipazione dei cittadini nella amministrazione della Città).

 

[76] Vedi, supra, nt. 65.

 

[77] Cfr. Paul. D. 4.7.1; Ulp. D. 39.3.8. Sul principio, così formulato, si è formata una vasta bibliografia, vedi, in particolare: P.S. Leicht, “Un principio politico medievale” in Rendic. Acc. Lincei – Cl. Sc. Mor., 1920; quindi in Id., Scritti di storia del diritto italiano I, Milano 1934, 23; G. Post, “A romano - canonical maxim ‘quod omnes tangit’” in Traditio 4 (1946) 197 ss.; A. Marongiu, L’istituto parlamentare dalle origini al 1500, Roma 1949; Id., Il Parlamento in Italia nel Medio evo e nell’Età moderna, Milano 1962; cfr. M. Galizia, La teoria della sovranità dal Medioevo alla Rivoluzione francese, Milano 1951, 91, che sottolinea il ruolo di Nicolò da Cusa.

 
[78] R. Putnam, La tradizione civica nelle regioni italiane, Milano, 1997.

 

[79] Così F. Sabatini, “Il concetto di capitale sociale nelle scienze sociali: una rassegna della letteratura economica, sociologica e politologica” in Studi e Note di Economia, 2/2004, 91 s. Sul concetto di capitale sociale, vedi anche A. Bagnasco, F. Piselli, A. Pizzorno, C. Triglia, Il capitale sociale. Istruzioni per l’uso, Bologna 2002.

 

[80] A. Fusari, “Le nuove forme di potere statale nell’età moderna / III” in Gli argomenti umani. Pensare il mondo nuovo, n. 6, giugno 2005, 82 ss.; cfr. Id, “Quel che la storia insegna” in Gli argomenti umani. Pensare il mondo nuovo, n. 5, maggio 2005, 70 ss.

 

[81] Th. Mommsen, Le droit public romain, VI.II, tr. fr. di F. Girard, Paris 1889, 417 s. «De même que la République fut conduite finalement, par une nécessité logique, à substituer à la ligue des villes italiques la Roma communis patria, le Principat finit par transformer toutes les cités provinciales, d’abord en villes en forme, puis en villes de citoyens. Les résultats de cette évolution, conservée dans les recueils juridiques, ont spécialement par l’intermédiaire de ces recueils, exercé une influence puissante et souvent bienfaisante sur le développement de l’Ėtat et de la commune, qui est la base de notre civilisation» ; cfr. p. 426 «Désormais le peuple romain est plutôt légalement une confédération de toutes les cités des citoyens».

 

[82] Vedi G. Lobrano, “Città, municipi, cabildos”, cit., in particolare il prgf. “II.3. La sintesi di federazione e di cittadinanza nella societas”.

 

[83] F. Sabatini, “Il concetto di capitale sociale nelle scienze sociali: una rassegna della letteratura economica, sociologica e politologica” cit. ibidem

 

[84] S. Sacconi, “L’economia civile di Stefano Zamagni. La sfida della profezia” in Rivista della cooperazione, 1/2005, 88, recensione di S. Zamagni e L. Bruni, Economia civile. Efficienza, equità, felicità pubblica, Bologna 2004.

 

[85] Vedi R. Combellas, Poder constituyente, Caracas 2000 (ivi, xxix ss., il “Discurso” di Chávez); Id., Derecho constitucional. Una introducción al estudio de la Constitución de la República Bolivariana de Venezuela, Caracas 2001. Della stato della coscienza, in Venezuela, della crisi del costituzionalismo dominante è indicativa la raccolta di scritti curata da M. Dos Santos, ¿Qué queda de la representación política?, Caracas 1992.

 

[86] Anche il giurista e politico peruviano Manuel Lorenzo Vidaurre (rappresentante plenipotenziario della Repubblica del Perù al Congresso Anfizionico di Panama convocato da Bolívar nel 1824) aveva individuato (in un Proyecto de Constitución redatto nel 1833) cinque poteri: elettorale (il potere sovrano), legislativo, esecutivo, giudiziario e conservatore (il potere del Tribuno). Più in generale, si può parlare della presenza nella dottrina ‘costituzionale di modello romano’ di una “sistematica quinaria”, di ispirazione rousseauiana e con esponenti quali Romagnosi (1845: Consolato, Comizj, Senato, Avvogaria [equivalente del Tribunato] e Consulta di Stato [equivalente dei Collegi sacerdotali]), De Léon (1902: Consoli, senato, centurie, collegi dei sacerdoti e tribunato della plebe), Catalano (1974: magistrati, senato, moltitudine, sacerdoti e tribuni della plebe), per la quale rinvio al mio Potere dei tribuni della plebe, cit. 34 ss.