Università di Brescia
Bellum Iustum tra etica e diritto[1]
Sommario: 1. L’idea di «guerra
giusta» oggi. – 2. Una
citazione di Hans Kelsen. – 3. Cicerone
e la dottrina del bellum iustum.
– 3.1. Le
‘fonti’ ciceroniane. – 4. Conclusione.
Come intendere oggi l’espressione
«guerra giusta»?
Se per ‘guerra’ possiamo ancora
accettare una definizione classica quale «lotta armata tra due o
più Stati o tra fazioni all’interno dello stesso Stato»
(sebbene in tale definizione non rientrino i recenti fenomeni bellici del
«terrorismo internazionale» e del «conflitto
asimmetrico»), risulta invece più difficile definire
l’aggettivo ‘giusto’. Dobbiamo intenderlo
nell’accezione ‘etica’ di guerra contro il male per il
trionfo del bene?
Nei
recenti conflitti, che hanno visto coinvolto pesantemente l’Occidente
europeo, come per esempio
Due
esempi:
1)
a proposito dell’azione bellica in Afghanistan dopo l’11 settembre
2001, Oshama Bin Laden e gli ideologi dell’organizzazione terroristica Al
Qaeda motivarono la resistenza armata all’attacco militare
anglo-americano chiamando in causa la figura religiosa della jihad, la «guerra giusta»,
perché ‘santa’;
2) il politologo statunitense Michael Walzer
ha teorizzato, criticando la riflessione giuridica, il ritorno al concetto di
guerra giusta in un’ottica etico-morale: «la giustizia diventa una
necessità militare»[2].
L’espressione
«guerra giusta» è quindi decisamente presente nel linguaggio
attuale, con la funzione di indicare nell’evento bellico uno strumento
utile alla difesa di valori umani
«universali e pregiuridici», uno strumento cioè che
travalica quasi lo stesso principio di sovranità, «attributo
naturale» degli Stati.
E’
mia convinzione che non sia stato sempre così.
Già
a partire dalla riflessione di Hans Kelsen, il concetto di «guerra
giusta», messo in ombra dal positivismo ottocentesco, fu riutilizzato con
l’intento di decidere sulla legittimità della guerra. La guerra
cioè come sanzione del diritto internazionale[3]
(si pensi al cap. IV della Carta delle Nazioni Unite relativo alla
«Soluzione pacifica delle controversie» e in particolare
all’art. 51). Una tesi questa, da cui prenderà le mosse
l’idea del «pacifismo giuridico» di Norberto Bobbio[4].
Il
punto interessante, in questa sede, è che la riflessione kelseniana
richiama esplicitamente la teorizzazione romana sul bellum iustum. In una delle sue opere più importanti, General Theory
of Law and State del 1945, Kelsen scrive: «neanche l’imperialismo
romano ritenne di poter procedere senza un’ideologia che ne giustificasse
le guerre come azioni lecite. Il diritto di guerra era quindi strettamente
connesso con il cosiddetto ius fetiale.
Venivano considerate ‘guerre giuste’ solo quelle guerre che fossero
intraprese osservando le regole dello ius
fetiale. Queste regole, a vero dire, avevano essenzialmente soltanto un
carattere formale; ma Cicerone, che può essere considerato il filosofo
del diritto rappresentativo di Roma antica, e che anche a questo riguardo
esprime probabilmente solo l’opinione pubblica generalmente corrente,
afferma che potevano essere ritenute azioni lecite soltanto quelle guerre che
fossero intraprese per motivi di difesa o per motivi di vendetta»[5].
Il
testo di Cicerone richiamato è De
re publica 3.23.35 (che sarà esaminato più avanti) ed
è citato a sostegno di un’interpretazione tutta
ideologico-strategica della teorica del bellum
iustum ciceroniana.
Non
è questo il luogo per approfondire il pensiero di Kelsen; è
invece opportuno chiedersi se la categoria elaborata da Cicerone appartenesse
alla sfera della politica, caratterizzandosi così come concetto
meta-giuridico.
Prima
di analizzare i testi ciceroniani relativi al bellum iustum, si rendono necessarie tre premesse:
1)
il significato di bellum iustum che a
me interessa rilevare nell’opera di Cicerone è attinente allo
scenario ‘internazionale’ e non a quello ‘interno’,
come la ‘guerra civile’. Il significato, quindi, su cui
concentrerò l’attenzione è quello di “guerra
giusta” in relazione ai conflitti armati tra i Romani e gli altri popoli
inquadrandolo nella visuale della ‘giuridicizzazione’
(“Normativität”)[6]
delle relazioni ‘internazionali’ romane, convinto – come sono
– che i Romani avessero un sistema giuridico sovranazionale[7];
2)
la seconda premessa, direttamente collegata alla prima, è la presenza
nella cultura romana della concezione della guerra come «procedimento
giuridico-religioso»[8].
Nello specifico, il bellum iustum
indicava, in epoca romana arcaica, l’agire bellico secondo le regole
dello ius belli conosciute e
custodite dai Feziali;
3)
Cicerone, per le molte pagine dedicate al tema della guerra, è non a
torto considerato il teorico del bellum
iustum. La dottrina, pur con importanti sfumature al suo interno (si pensi
alla diversità tra Ziegler, Clavadetscher-Thürlemann da una parte e
Hausmaninger e Ilari dall’altra), considera l’Arpinate
l’ideatore del concetto di guerra ‘sostanzialmente’ giusta.
Una conclusione questa che non condivido. Cicerone fu senz’altro un
teorico del bellum iustum, ma la tesi
che fu l’ideatore del fondamento etico della “guerra giusta”
non mi convince. Per essere meno categorico, ritengo che sia possibile avanzare
anche un’altra lettura del bellum
iustum ciceroniano, diversa da quella dominante.
Nell’opera
di Cicerone si trova una corposa, anche se non sempre lineare[9],
riflessione sul tema della guerra. In particolare, l’espressione bellum iustum, il suo contrario bellum iniustum et similia ricorrono in
16 loci dell’opera ciceroniana[10].
Qui
interessano, in modo particolare, soltanto le citazioni presenti nei tre
scritti filosofici De re publica, De legibus e De officiis, che tra l’altro, avendo carattere speculativo,
meglio si prestano alla ricostruzione teorica del pensiero dell’autore.
Cominciamo
con il De re publica, scritto nel
Sono
due i passi del De re publica, in cui
si parla esplicitamente di bellum iustum.
Sul primo (rep. 2.17.31), che appartiene alla parte dell’opera ritrovata
nel 1820 dal cardinale Angelo Mai, ci soffermeremo subito. Sul secondo (rep.
3.23.35), trattandosi di un testo che ricostruiamo grazie ad una citazione di
Isidoro di Siviglia ed essendo anche quello più importante per il nostro
argomento, preferisco rinviare l’esame al termine dell’analisi di
tutti gli altri passi sull’argomento. Si potrà così
valutare meglio il suo apporto specifico rispetto all’insieme delle altre
testimonianze.
Soffermiamoci,
quindi, su rep. 2.17.31: Mortuo
rege Pompilio Tullum Hostilium populus regem interrege rogante comitiis
curiatis creavit, isque de imperio suo exemplo Pompili populum consuluit
curiatim. Cuius excellens in re militari gloria magnaeque extiterunt res
bellicae, fecitque idem et saepsit de manibus comitium et curiam constituitque
ius, quo bella indicerentur, quod per se iustissime inventum sanxit fetiali
religione, ut omne bellum, quod denuntiatum indictumque non esset, id iniustum
esse atque inpium iudicaretur.
Siamo
nel secondo libro e Cicerone ci offre uno squarcio dell’epoca regia.
Tullo
Ostilio, succeduto al re Numa Pompilio, fu impegnato in imprese belliche facendosi
promotore di un sistema di regole (ius)
per iniziare la guerra, fondato sui rituali dello ius fetiale. Pertanto, ogni guerra, intrapresa senza essere denuntiata e indicta, doveva ritenersi iniusta
e inpia.
Gli
aspetti decisivi per la comprensione del “bellum iustum” sono:
–
innanzi tutto il richiamo all’ordinamento feziale come elemento fondante
della dichiarazione di guerra (i termini ‘iniustum’ e ‘inpium’ erano propri delle antiche formule feziali usate
nella dichiarazione di guerra);
–
poi, l’individuazione del requisito del bellum iustum nelle azioni del denuntiare
e dell’indicere; due verbi,
questi, usati in senso tecnico[11].
Lo
schema del “bellum iustum”
risulta, quindi, strettamente legato allo ius fetiale circa
l’indizione della guerra, consentendoci di concludere che il sintagma
‘bellum iustum’ indicava
la guerra conforme al sistema giuridico.
Passiamo
ora al De legibus (iniziato nel
Sono due le annotazioni su cui è qui
necessario richiamare l’attenzione.
La
prima è che il vocabolo usato per indicare la guerra è quello
arcaico di duellum[12]
a dimostrazione dell’antichità dell’espressione.
La
seconda è che i due termini, l’aggettivo iusta e l’avverbio iuste,
rimandano al registro giuridico dell’esposizione ciceroniana,
richiamando, rispettivamente, le regole del bellum
iustum, prescritte dall’ordinamento romano (ruolo del Senato e del
Comizio), e lo ius in bello (i
criteri di comportamento durante e dopo la battaglia).
Le «guerre giuste» erano,
quindi, in relazione all’attività dei magistrati (consoli) ed in
sintonia con l’ordinamento giuridico (funzione del Senato e
dell’Assemblea popolare).
Possiamo
quindi concludere che nel passo del De
legibus l’idea del bellum
iustum è riconducibile al tipo di guerra conforme al diritto.
Fermiamoci
sul testo del De officiis (redatto
nel
Siamo
nel primo libro e, al paragrafo 38, leggiamo che, quando si lotta per la
supremazia (bellum de imperio) e si
cerca la gloria con la guerra, debbono verificarsi quelle circostanze indicate
in precedenza come “giuste” per le guerre: Cum vero de imperio decertatur belloque quaeritur gloria, causas omnino
subesse tamen oportet easdem, quas dixi paulo ante iustas causas esse bellorum (1.12.38).
Ai
fini della risoluzione del nostro problema, se cioè l’espressione
ciceroniana “bellum iustum” debba intendersi in
un’accezione etico-sostanziale oppure giuridico-procedurale, diventa
dirimente stabilire se le iustae causae
bellorum richiamate nel brano si riferiscono alla causa sostanziale, citata da Cicerone nel paragrafo 35[13],
o alle regole giuridiche formali, riportate nel paragrafo 36[14].
La
dottrina, abbagliata dal termine ‘causa’,
ha ricondotto le «giuste cause delle guerre» al paragrafo 35, dove
Cicerone scrive che la guerra è mezzo per raggiungere la pace.
Non è stato, però, valutato appieno il contenuto del
paragrafo 36, cui – a mio parere – rimanda espressamente
l’espressione paulo ante del
paragrafo 38. Nel paragrafo 36, Cicerone sottolineava come la
legittimità della guerra fosse sancita dal diritto feziale del popolo
romano, con il che nessuna guerra sarebbe legittima se non fosse condotta per
chiedere riparazione, o precedentemente denunciata e dichiarata. Si aveva,
quindi, bellum iustum rispettando le
regole fissate dall’antico diritto dei feziali e cioè quando si
agiva per res repetere ovvero quando
la guerra fosse prima annunciata e poi dichiarata.
Personalmente
propendo per la logica intrinseca al testo, per cui le causae del paragrafo 38 sono da ricondurre alle regole richiamate
al paragrafo
Le
«giuste cause» della guerra sono dunque quelle previste dal
diritto.
Tutti
i testi di Cicerone, relativi al bellum
iustum, presi in considerazione, sono riconducibili alla concezione della
«guerra giusta» come guerra conforme al diritto.
Resta
un solo testo da analizzare.
Si
tratta di un frammento del De re publica (3.23.35)
che, a differenza di quello già preso in considerazione (2.17.31),
appartiene all’opera andata perduta e viene ricostruito grazie ad una
citazione di Isidoro di Siviglia. L’erudito cristiano della fine del VI
secolo, trattando il tema delle guerre (de
bellis), individuava quattro tipi di guerra: Quattuor autem sunt genera bellorum: id est iustum, iniustum, civile,
et plus quam civile. Iustum bellum est quod ex praedicto geritur de rebus
repetitis aut propulsandorum hostium causa. Iniustum bellum est quod de furore,
non de legitima ratione initur.
Subito
dopo la definizione del bellum iustum lo
scrittore richiamava un passaggio del De
re publica di Cicerone: De quo in Republica Cicero dicit: «Illa iniusta bella sunt, quae sunt
sine causa suscepta. Nam extra ulciscendi aut propulsandorum hostium causam
bellum geri iustum nullum potest». Et
hoc idem Tullius parvis interiectis subdidit: «Nullum bellum iustum habetur nisi denuntiatum, nisi dictum,
nisi de repetitis rebus».
La
citazione, con l’eccezione delle frasi che riporto in grassetto, è
ricondotta dalla dottrina integralmente al De
re publica di Cicerone: 3,23,35. Sarebbero così tre le frasi
autentiche dell’Arpinate, con i seguenti contenuti:
a)
si avvisa che sono «guerre ingiuste» quelle intraprese senza una
“causa”;
b)
poi si dice che le guerre giuste sono soltanto quelle intraprese per vendicare
un torto subìto (ulciscendi)
ovvero per ricacciare indietro i nemici (propulsandorum
hostium);
c)
infine si afferma il principio che non si può avere «guerra
giusta» qualora questa non sia stata annunziata, dichiarata e finalizzata
alla riparazione.
Va
da sé che, mentre il contenuto dell’ultima frase è
riconducibile alla tradizione feziale dell’indictio belli[16]
(ben conosciuta da Cicerone[17]), l’individuazione della portata
morale della giustificazione della guerra, la giustizia cioè come fine ultimo
(“causa”) della guerra
(esplicitata nella seconda frase), rappresenta una novità
nell’elaborazione romana del bellum
iustum[18].
Cicerone
è informato della ‘causa finale’ di stampo aristotelico
riferita alla guerra, come si evince da
off. 1.11.35 dove il termine causa
è riferito al fine della guerra di raggiungere la pace, ma non è
collegato in alcun modo con il “bellum
iustum”.
Solo
nel passo del De re publica appena
citato riscontriamo un rapporto inequivocabile tra iusta causa, estranea agli schemi giuridici, e bellum iustum. Tant’è che la dottrina, basandosi su
tale testo, ha sostenuto la tesi di un Cicerone teorico della «guerra
giusta» dal punto di vista ‘sostanziale’, fuori cioè
dalle regole del diritto (cfr. Kelsen).
È
mia convinzione che tale conclusione sia azzardata, non soltanto perché
questo sarebbe l’unico testo (per giunta non pervenutoci direttamente) in
cui Cicerone parla esplicitamente di cause sostanzialmente giuste, ma anche
perché la scrittura non è poi così lineare. Nutro,
infatti, forti dubbi sulla paternità ciceroniana della frase «Nam extra ulciscendi aut propulsandorum
hostium causam bellum geri iustum nullum potest».
Al
riguardo, mi convincono le argomentazioni avanzate di recente da Luigi Loreto[19]:
-
l’incongruenza tra la frase incriminata e quella immediatamente
successiva di Isidoro «Et hoc idem
Tullius…». Se infatti la spiegazione introdotta dal ‘nam’ fosse di Cicerone, non si
spiegherebbe la necessità di riaffermare subito dopo «lo stesso
Cicerone aggiunge poco più avanti», che invece avrebbe una sua
ragion d’essere se il ‘nam’
introducesse un commento di Isidoro;
-
la duplice contraddittorietà. Quella “interna” circa lo
sfasamento tra le cause sostanziali («ulciscendi
aut propulsandorum hostium») e le cause formali della procedura
feziale («nisi denuntiatum, nisi
dictum, nisi de repetitis rebus»); e quella “esterna”
relativa al rapporto confliggente con l’altro testo del De re publica 2.17.31, dove il bellum iustum è identificato in
via esclusiva con quello denuntiatum e indictum. Anche qui l’antinomia
si supererebbe con l’attribuzione delle cause sostanziali ad Isidoro.
A
tali osservazioni si deve ancora aggiungere che:
-
la tecnica di citazione di Isidoro conferma che anche in altri loci l’erudito cristiano stravolge
a propri fini la segnalazione altrui. Come quando in un altro passo delle Etymologiae (18.1.7), per sostenere il
proprio punto di vista sulla distinzione tra bellum e tumultus
manipola il testo originale delle Filippiche (8.3) di Cicerone[20];
-
tutta l’elaborazione ciceroniana
sulla guerra giusta riconduce al principio tradizionalistico delle regole
giuridiche dell’indictio belli,
fissate in principio dallo ius fetiale[21];
-
il termine ‘causa’
– come già rilevato a proposito del De officiis[22]
– nel linguaggio dei giuristi romani e in Cicerone ha anche
l’accezione di ‘fondamento giuridico dell’azione’ e
quindi l’espressione «iusta
causa» può essere intesa nel significato di requisito
dell’azione prescritto dall’ordinamento.
In
conclusione, la frase originale del De re
publica doveva risultare pressappoco così: «Illa iniusta bella sunt, quae sunt sine
causa suscepta. Nullum bellum iustum habetur nisi denuntiatum, nisi dictum,
nisi de repetitis rebus», escerpendo «Nam extra ulciscendi aut propulsandorum hostium causam bellum geri
iustum nullum potest», che deve ricondursi alla penna di Isidoro[23].
Ritengo
che l’obiettivo di Cicerone fu di armonizzare l’idea del bellum iustum con la nuova realtà
delle guerre transmarine, muovendo dal sistema dell’indictio belli feziale.
Il
disegno ciceroniano si muove, cioè, nell’ottica di una visione
giuridica della guerra.
Sono
consapevole che, nelle guerre di espansione nel Mediterraneo, Roma non sempre
rispettò le modalità proprie del bellum iustum. Sono però altrettanto convinto che Cicerone
ci abbia tramandato, come tutta la tradizione romana, un modello normativo cui
rifarsi per il controllo della vis
decertandi.
Un
cambiamento strutturale si registrò con Sant’Agostino il quale,
nel tentativo di giustificare la presenza della guerra nella città degli
uomini, chiamò in causa la volontà divina, introducendo
così la causa eziologica della guerra[24].
[1] Il presente saggio è destinato agli
Scritti per Luigi Labruna. Riproduco il testo della comunicazione tenuta
al IV Convegno internazionale «Diritto pubblico e privato:
l’esperienza plurisecolare dello sviluppo del diritto europeo»
(Ivanovo-Suzdal’-Mosca, 25-30 giugno 2006) con l’aggiunta di brevi
note bibliografiche.
[2] La citazione è tratta da M. Walzer, La libertà e i suoi nemici, Roma-Bari 2003, 79. Dello stesso
autore vedi già Just and Un just
Wars (1970), trad. it. Guerre giuste
e ingiuste, Napoli 1980.
[3] Cfr. H. Kelsen,
Teoria generale dello Stato (1945),
trad. it., 1984, 340 ss.; Id., La dottrina pura del diritto (1960),
trad. it., Torino 1975, 352 ss.; Id.,
Il problema della sovranità e
la teoria del diritto internazionale: contributo per una dottrina pura del
diritto (1920), trad. it., Milano 1989, 387 ss.
[4] Cfr. N. Bobbio,
Il problema della guerra e le vie della
pace3, Bologna
1991, 75-90, 113-118,138-146; Id.,
Una guerra giusta? Sul conflitto del
Golfo, Venezia 1991.
[6] Per
riprendere uno spunto di D. Nörr,
Aspekte des römischen
Völkerrechts. Die Bronztafel von Alcántara, München 1989, 118.
[7] Sul tema vedi, per tutti, P. Catalano, Linee del sistema sovrannazionale romano, I, Torino 1965, 30-48.
[9] Cfr. I. Lana,
L’idea della pace
nell’antichità, Firenze 1991, dove l’oscillazione
ciceroniana tra uno stato di pace e/o uno di guerra sarebbe da ricondurre alla «situazione
politica nella quale Cicerone si trova nel momento in cui assume le diverse
posizioni» (58).
[10] Questi gli scritti, ordinati
cronologicamente: inv. 2.23.70; div. in Caec. 62; Catil. 2.1.1; Sest. 22.50;
prov. 4; rep. 2.17.31; 3.23.35; leg.
3.3.9; Att. 7.14.3; 9.19.1; 10.4.3; Deiot. 5.13; off. 1.11.36; fam. 6.6.5;
Phil. 11.14.37; 13.17.35
[11] Dove il verbo ‘denuntiare’
sta ad indicare la dichiarazione solenne, fatta dall’ambasciatore romano
designato; il verbo ‘indicere’ rinvia alla seconda parte
della procedura feziale successiva alla clarigatio (cfr. sul punto A. Calore, Forme giuridiche del ‘bellum iustum’, Milano 2003, 115-122).
[12] Ernout-Meillet,
Dictionnaire étymologique de la
langue latine, s.v. ‘bellum’,
Paris 1967: passaggio dall’antica forma ‘duellum’ alla più recente ‘bellum’.
[13] Cic., off.
1.11.35: Quare suscipienda quidem bella
sunt ob eam causam, ut sine iniuria in pace vivatur.
[14] Cic., off. 11.36: Ac belli quidem aequitas sanctissime fetiali
populi Romani iure perscripta est: ex quo intellegi potest nullum bellum esse iustum,
nisi quod aut rebus repetitis geratur aut denuntiatum ante sit et indictum.
[16] Vedi Liv. 1.32.6-14 (su cui mi permetto di
rinviare al mio Forme giuridiche del
‘bellum iustum’, cit., 43-106).
[18] Non così per la cultura greca, dove
Aristotele (Pol. 7.1333b37-1334a10)
aveva elaborato il concetto di guerra moralmente e politicamente giusta in tre
soli casi: per non cadere nella servitù altrui, per esercitare
un’egemonia nell’interesse degli assoggettati, per ridurre in
schiavitù i barbari perché schiavi per natura (I. Lana, L’idea della pace nell’antichità, Firenze 1991, 39
e 173; per una visione approfondita del tema cfr. V. Ilari, Guerra e diritto
nel mondo antico, I, Milano 1980, 220-235).
[20] Vedi M. Morandini,
Tra Angelo Mai e Isidoro di Siviglia, il
‘bellum iustum’ nel “De re publica” di Cicerone, in
A. Valvo - G. Manzoni (a cura di), Analecta
Brixiana, Milano 2004, 155-170.
[21] Per un’analisi di tutte le
testimonianze ciceroniane relative al bellum
iustum rinvio al mio Forme giuridiche
del ‘bellum iustum’, cit., 107 ss.
[23] È comunque doveroso segnalare che
la totalità delle edizioni critiche del De re publica (Teubner, Les Belles Lettres, Loeb, UTET) riportano
il passo attribuendo la frase a Cicerone. Unica eccezione