Il
costituzionalismo inclusivo*
Università
di Sassari
Secondo la concezione
che risale al costituzionalismo della rivoluzione francese, cioè alle
origini, il diritto costituzionale e lo stato sono un binomio inscindibile.
Quello riguarda questo, naturalmente, tanto che non c’è neppure
bisogno di dirlo: per diritto costituzionale si intende il diritto
costituzionale dello stato. Del resto, nello Stato liberale, quindi durante
tutto l’Ottocento, la politica era soltanto statale, non si poteva
neppure immaginare un centro politico ed un processo di unificazione
extrastatali. Funzioni statali erano, sì, attribuite ad istituzioni periferiche,
i comuni, le province, i dipartimenti, ecc., ma erano funzioni e poteri
amministrativi, in quanto tali non politici. Il decentramento dunque non
toccava la sfera del diritto costituzionale, ma quella del diritto
amministrativo. Il fenomeno peraltro non minava neppure l’unità
amministrativa, la quale, in particolare in Italia, è stata lo strumento
fondamentale dell’unificazione nazionale.
Il monopolio statale
della politica è stato via via eroso, a partire dai primi anni del
Novecento, da quando si sono insediati «nuovi, diversi soggetti della
lotta politica, con o senza Stato, con o senza contenuto statale»[1].
La coincidenza tra la politica e lo stato, l’unità politica
statale, è finita nel momento in cui la società civile si
è politicizzata, quando i molteplici e diversi interessi sociali (specie
quelli operai e popolari, esclusi dallo Stato liberale) si sono organizzati e
hanno trovato rappresentazione politica nei sindacati e soprattutto nei
partiti. Lo Stato liberale, ossia lo stato di diritto borghese, raffigurato
come sovrano secondo la concezione classica dello stato risalente a
Machiavelli, Hobbes e Bodin, non ha retto alla politicizzazione o
‘corporativizzazione’ della società[2].
La nuova realtà
dello stato è stata rappresentata come costituzione in senso materiale
da Mortati[3].
La teoria mortatiana corrisponde alla condizione nella quale gli interessi e la
strutturazione sociali sono usciti dall’ambito apolitico della
società civile e si sono organizzati politicamente nei partiti. La
costituzione in questa situazione, secondo Mortati, è posta dal partito
politico. Ha origine sociale e non statale. E’ tuttavia il risultato di
un processo di statalizzazione degli interessi sociali: questi costituiscono lo
stato già nell’istante in cui il partito che li organizza
politicamente vince lo scontro con i partiti antagonisti e impone un suo
orientamento politico. Una parte quindi stabilisce l’indirizzo politico
dello stato, di tutti. L’unità politica è non più lo
stato in sé, ma la linea politica del partito dominante. Non è
più intrinsecamente statale, perché il progetto di società
borghese presupposto dallo Stato liberale non è più un progetto
di tutti e che si impone a tutti. Altri, in qualche caso opposti, progetti di
società hanno trovato rappresentazione politica e pretendono potere.
Quindi lo stato, in quanto borghese, non può essere l’unità
come tale; può esserlo piuttosto se esprime l’indirizzo del
partito dominante. Il progetto di società borghese è diventato una
parte, un partito, non è più tutto. Ma questa parte è
politica, ha la stessa natura dello stato, è portatrice di un progetto
totalitario, che riguarda, cioè, l’assetto sociale complessivo. Il
partito è parte totale, è l’unità politica in
potenza, che diviene attuale, allorché prevale su quelli ad esso avversi.
Lo stato non è più l’unità politica, ma soltanto un
mezzo per realizzarla; è al servizio del partito dominante. Le
finalità di questo partito dirigono politicamente tutte le
attività statali. Lo stato ha dunque un indirizzo politico che lo
unifica e che lo pone al servizio delle finalità della parte dominante
della società. Questo indirizzo in conseguenza è esterno allo
stato, proviene dalla società e si è affermato nella
società. In definitiva, lo stato è indirizzato politicamente
dalla strutturazione sociale.
La
dottrina della costituzione in senso materiale esprime una concezione
integrativa del partito politico. Da questo punto di vista, è parecchio
diversa da quella decisionista di Schmitt. Infatti, la teoria schmittiana si
propone di preservare la neutralità statale, cioè di porre lo
stato al di fuori della partizione politica, che è potenzialmente
dissolutoria dell’unità politica; quella mortatiana è
diretta invece a costruire l’unità politica attraverso il partito.
La diversa posizione riguardo alla partizione politica comprende anche e
necessariamente un diverso atteggiamento rispetto all’integrazione nello
stato degli interessi sociali. Mentre il discorso di Schmitt è chiuso in
un ambito rigorosamente politico-statale, quello di Mortati è invece
aperto alla società, agli interessi sociali nel momento in cui essi si
organizzano in partito, quindi si politicizzano e si statalizzano. E’
questa la componente integrativa della teoria mortatiana, che la distingue in
modo rilevante dal decisionismo schmittiano.
L’idea
della costituzione come integrazione è stata elaborata da Smend[4].
Ad essa Mortati aggiunge il partito politico, il soggetto che organizza
politicamente gli interessi sociali e li integra nello stato.
L’integrazione
attraverso il partito politico accomuna situazioni costituzionali del Novecento
di segno molto diverso: in particolare concerne tanto l’esperienza
fascista quanto quella socialista-sovietica. Quindi l’integrazione
partitica verosimilmente è una tendenza generale che in Europa ha
attraversato i più importanti tentativi di soluzione delle questioni
costituzionali sollevate dalla dissoluzione dello Stato liberale. Ha riguardato
anche la fase iniziale della democrazia pluralista del secondo dopoguerra.
L’integrazione è stata realizzata democraticamente, è stata
autointegrazione democratica, e non eterointegrazione autoritaria, come le
anzidette esperienze del primo dopoguerra; inoltre è stata determinata
non dal partito unico, ma da più partiti. Il pluralismo di tale fase
della seconda metà del Novecento è stato
«”moderato”, perché imperniato e ordinato su un numero
limitato di soggetti rilevanti»[5].
Ovviamente non è stato un cambiamento di poco conto. Ma pure in questa
fase costituzionale, quella partitica è stata la forma di organizzazione
politica che ha diretto lo stato. Il partito politico dunque ha continuato ad
essere il luogo originario della politica, la sede nella quale gli interessi
sociali sono stati rappresentati politicamente. Tuttavia, la politica si
è svolta in ambito statale. Lo stato ha continuato ad essere un mezzo e
non un soggetto della politica e, in più, è diventato il teatro
della politica, lo spazio costituzionale dello scontro politico.
La novità
dell’attuale fase del costituzionalismo è che lo stato non
è più l’unico spazio costituzionale. Il pluralismo si
è esteso, andando ben oltre la dimensione partitica e determinando la
moltiplicazione non solo dei soggetti politici, ma anche degli ambiti e dei
mezzi istituzionali della politica. Ciascuno spazio è organizzato in
modo differente, ha la propria organizzazione costituzionale adeguata alle
specifiche esigenze della comunità politica che esprime.
Le appartenenze sociali
si sono moltiplicate e su di esse si sono radicate diverse pretese di
riconoscimento di identità, che non possono essere più ricondotte
all’idea universalistica propria dello Stato liberale. Secondo questa
idea è l’individuo astratto il soggetto che va rappresentato
politicamente e che è titolare dei diritti. La sua concreta
caratterizzazione sociale è irrilevante e deve essere ignorata dal
diritto. Ogni individuo spogliato della sua socialità è eguale
all’altro e gli spettano i medesimi diritti. Le differenti appartenenze
sociali non possono trovare rappresentazione politica. Lo Stato esprime, anzi
è, l’unità politica, che non ammette alcuna divisione,
quindi rappresentazione politica delle differenze sociali. Questa concezione
universalistica «cieca alle differenze»[6]
trascura in particolare la condizione di svantaggio delle classi popolari, le
quali per emanciparsi da questa situazione si sono organizzate politicamente
fuori dallo stato e hanno preteso i diritti sociali. La soddisfazione di queste
pretese avanzate dal movimento operaio ha minato la sostanza borghese e la
forma liberale dello Stato ottocentesco, innescando la crisi da cui ne è
scaturito il costituzionalismo inclusivo giunto a maturazione nel Secondo
dopoguerra. Le costituzioni di questa nuova fase del costituzionalismo
comprendono le diverse appartenenze di classe espresse dai partiti politici.
Sono le costituzioni dei partiti. La divisione sociale così è
diventata pluralismo politico-partitico. Esse hanno sviluppato le politiche
redistributive e hanno integrato i molteplici interessi sociali organizzati
politicamente in partiti. In questo modo, si è ottenuta «la
pacificazione dell’antagonismo di classe»[7].
Negli ultimi anni alle
domande inerenti all’appartenenza di classe se ne sono aggiunte altre,
collegate ad altre appartenenze: di razza, di genere, di religione ecc. Sono
pretese di riconoscimento di identità culturali, che la globalizzazione
e l’immigrazione hanno accentuato. Le domande sono non solo molteplici,
ma anche difficilmente conciliabili. Si pensi, ad esempio, al caso
dell’operaia di colore che può avanzare pretese diverse, di
classe, di genere e di razza. L’operaia di colore infatti può
richiedere una tutela differente da quella degli operai, in quanto donna; e
diversa da quella delle donne, in quanto di colore; e può essere che tra
le diverse pretese non vi siano punti di intersezione. In questo caso quindi
non è dato trovare nessuna unità. La stessa persona è
portatrice di pretese diverse e ciascuna di esse la rappresentano nella stessa
misura, quindi nessuna di esse può essere sottomessa o sacrificata alle
altre o sacrificata oltre misura. Va ricercata una conciliazione che comprenda
le differenze. Il suo diritto fondamentale all’eguale dignità non
può essere un’astrazione universalizzante che prescinde dalle
concrete particolarità dell’esistenza sociale, quindi può essere
scomposto in molti profili rilevanti, la cui conciliazione non può
essere una unità, una sintesi, che escluda qualcuna delle appartenenze,
dato che tutte e in eguale misura esprimono la stessa persona.
Restando fedele al
principio integrativo che lo fonda, il costituzionalismo contemporaneo è
chiamato a conciliare le nuove contrapposizioni pluralistiche o le vecchie
contrapposizioni che oggi assumono forma pluralistica: sono l’uguaglianza
e la differenza, l’universalismo e il particolarismo,
l’unità e
Il pluralismo
partitico, espressione e forma politica di integrazione dell’appartenenza
di classe, è ormai inadeguato a rappresentare le complesse
identità sociali che oggi domandano riconoscimento. L’inclusione
di queste domande richiede la moltiplicazione dei luoghi della rappresentanza
democratica, delle istituzioni politiche e dei procedimenti decisionali. Al
pluralismo politico-partitico si aggiunge il multiculturalismo; alle politiche
redistributive si sommano quelle di riconoscimento. Lo stato, dopo aver perso
l’unità politica, sta smarrendo l’omogeneità
culturale.
La norma costituzionale
della massima inclusione in questa situazione di pluralismo
‘ultrapartitico’ esige un sistema costituzionale complesso, che
può essere raffigurato metaforicamente con una rete o una matrice. In
esso le molte e diverse istituzioni politiche sono poste su un piano paritario.
Hanno la medesima legittimazione democratica. Nessuna di esse pertanto
può giustificare la prevalenza sulle altre. Nessuna istituzione è
intrinsecamente superiore alle altre. Sono uguali, secondo il principio
democratico: ciascun cittadino è rappresentato democraticamente, quindi
in modo eguale, da ognuna delle istituzioni politiche[8].
In conseguenza il sistema costituzionale reticolare o matriciale[9]
non è gerarchico, non ha un vertice che si impone alla base; non ha
neppure un centro che prevale sulla periferia. Insomma, non ha una base,
né un vertice, né un centro, né una periferia. I processi
decisionali, non sono lineari, non procedono dall’alto verso il basso,
né dal centro verso
Se si assume
l’interpretazione secondo cui
* Questo scritto
riproduce gran parte dell’Introduzione alla seconda edizione del volume Il diritto costituzionale della Sardegna,
che verrà pubblicato prossimamente da Giappichelli.
[2]
L’idea della corporativizzazione è di S. Romano, Lo Stato
moderno e la sua crisi, in Lo Stato
moderno e la sua crisi, Milano, 1969, 23.
[4] R. Smend, Verfassung und Verfassungrecht, München-Leipzig,
1928, trad it. Costituzione
e diritto costituzionale, Milano, 1988.
[6] C. Taylor, The politics of recognition,
[7] J. Habermas, Die Einbeziehung des anderei, Frankfurt am Main, 1996, trad. it, L’inclusione
dell’altro, Milano, 1998, 133.
[8]
Cfr. O. Chessa,
[9]
Per la rappresentazione matriciale cfr. D.J.
Elazar, Exploring Federalism,
The University of Alabama Press, 1987, trad. it. Idee e forme del federalismo, Milano, 1998, 12 ss.
[10]
Per questa concezione normativistica del pluralismo, cfr. M. Rosenfeld, Just Interpretations. Law between Ethics and Politics, Berkeley, 1998, trad. it. Interpretazioni. Il diritto fra etica e politica, Bologna 2000,
31 s. e 324 ss.
[12]
Forse l’unità compromissoria somiglia al modello del «libro
delle regole» di cui parla R.
Dworkin, Law’s Empire,
Cambridge, 1986, trad. it. L’impero del diritto, Milano, 1989, 198:
«Esso [il modello] presuppone che i membri di una comunità
politica facciano proprio un impegno generale ad obbedire alle regole stabilite
o che sono parti di un accordo commerciale limitato e temporaneo. Queste
persone obbediscono alle regole che hanno accettato o negoziato per un senso di
obbligo e non per una semplice questione d’opportunità, ma muovono
dal presupposto che il contenuto di queste regole esaurisce il loro impegno.
Non sono consci del fatto che le regole sono state negoziate sulla base di un
impegno comune verso principi sottintesi che sono fonte di ulteriori obblighi;
ritengono invece che queste regole rappresentino un compromesso tra interessi o
punti di vista antagonisti. Se le regole sono il prodotto di una negoziazione
particolare, come nel caso del contratto, ogni parte cerca di concedere il
minimo e di ottenere il massimo e sarebbe quindi iniquo, e non semplicemente
errato, da parte di entrambi sostenere che loro accordo è tutto
ciò che non è stato esplicitamente stabilito».