Il
relativismo dei valori e gli squilibri del terrore
Università
di Sassari
«Dopo tutto è mettere le
proprie congetture a ben alto prezzo,
il voler, per
esse, far arrostire vivo un uomo».
(Montaigne,
Saggi, l. III, XI)
Sommario: 1. Visioni
«monoteistiche» e guerra globale. – 2. Origine e natura dei valori.
– 3. Il relativismo. – 4.
Laicismo e mitezza. – 5. Conflitto e ordine mondiale.
Gli squilibri del
terrore: questa icastica espressione, come chiarisce Michelangelo Bovero
nell’Introduzione al presente volume[1],
designa il connotato principale dell’attuale situazione internazionale,
segnala, cioè, per antitesi la differenza fondamentale che esiste
rispetto alla situazione precedente, l’epoca della guerra fredda e del
bipolarismo, caratterizzata appunto dal cosiddetto «equilibrio del
terrore». Un’epoca in cui il terrore era un deterrente della
potenziale guerra nucleare, non un componente della guerra in atto. Il
riferimento è a quella che ormai viene comunemente indicata come la
guerra globale contro il terrorismo transnazionale[2],
che, però, come tutte le guerre – e con intensità e
intenzionalità crescenti a
partire dalle fasi finali del secondo conflitto mondiale – non
risparmia le popolazioni civili né si preoccupa di seminare in esse il
terrore.
Molti osservatori
concordano nel ritenere che gli elementi portanti del «nuovo ordine
mondiale» comincino a profilarsi all’indomani del crollo
dell’Unione Sovietica, come conseguenza della fine dell’equilibrio
bipolare[3].
E’ da allora che si avviano i processi di ristrutturazione del quadro
delle relazioni internazionali, in funzione della globalizzazione dei mercati e
del ruolo egemonico che gli Stati Uniti d’America rivendicano nella cura
degli affari planetari, in quanto unica (o superstite) superpotenza economica,
militare e tecnologica. L’attentato terroristico alle Twin Towers innesca
il detonatore della guerra globale. Ma la guerra globale non è una
«risposta» specifica e circoscritta ad un caso specifico e
circoscritto (l’eccidio dell’11 settembre 2001), bensì una
soluzione strategica generale, lo strumento più idoneo che i teorici
neoconservatori individuano per difendere l’interesse nazionale e
garantire la sicurezza interna degli Stati Uniti, che, ovviamente, tendono a
identificare tout court con l’interesse e la sicurezza del
«mondo libero»[4].
L’idea della guerra globale e preventiva, come prodotto di decisioni
unilaterali e della pretesa di assoluta indipendenza rispetto a possibili
condizionamenti di organismi internazionali formalmente deputati ad intervenire
in caso di conflitti armati, abbisogna infatti di una base giustificativa
più ampia di quella che può offrire la difesa
dell’interesse nazionale, a meno che, appunto, l’interesse
nazionale non venga fatto coincidere con la difesa dei valori della
civiltà occidentale dalla minaccia del fondamentalismo islamico. Non a
caso l’apparato argomentativo-persuasivo impiegato a giustificazione
della guerra globale non può prescindere dal ricorso alla retorica della
missione salvifica dell’umanità dalle forze del male. In fin dei
conti si tratta di proteggere valori ritenuti universali, assoluti, e –
perché no?, se è vero che sono «veri» – anche
di imporli ai ciechi, ai sordi o, più in generale, ai recalcitranti,
perfino con la violenza. In questo modo, un’elementare catena
argomentativa salda insieme la giustificazione dell’ineluttabilità
della guerra globale e la giustificazione del ruolo guida, da superpotenza
imperiale, che gli Stati Uniti rivendicano in funzione della salvaguardia dei
valori occidentali, in base ai quali andrebbe rimodellato il nuovo ordine
mondiale. Da una parte, la coalizione delle forze del bene, dall’altra
l’asse del male, i nuovi barbari. Ma la prospettiva ha anche il suo
rovescio: da una parte i difensori della vera fede e dei valori autentici
dell’autentico islam; dall’altra gli aggressori occidentali, i
nuovi crociati. Unendo le prospettive, la visione è più che
desolante: la guerra globale assorbe, da una parte e dall’altra, gli
umori settari e intolleranti del fondamentalismo religioso e, perciò,
viene configurandosi sempre più non tanto (o non soltanto) come lo
scontro di civiltà, preconizzato da Huntington[5],
quanto come l’anacronistico remake della guerra santa, prevista,
teorizzata e prescritta dai testi sacri sia della tradizione giudaico-cristiana
sia della fede islamica[6].
Un’incredibile e stupefacente regressione culturale ad uno stadio di
primitiva e ottusa ferinità dei rapporti internazionali, che
l’evoluta civiltà occidentale sembrava essersi lasciato
definitivamente alle spalle.
Se questo è il
quadro, sia pure dipinto in forma semplificata, allora si possono capire le
nostalgie che alcuni nutrono per il periodo caratterizzato
dall’equilibrio bipolare. Una situazione che potrebbe riproporsi in un
prossimo futuro, anche se in una versione
inedita, se
Si è fatto cenno
alla falsa credenza nel «monoteismo dei valori». La credenza
è, ovviamente, falsa sul piano descrittivo, giacché su quello
normativo le proposizioni non sono né vere né false. «Falsa»
sul piano descrittivo significa non corrispondente o contraria alla
realtà effettuale, che è invece caratterizzata dalla
molteplicità delle culture, delle opzioni etico-politiche, delle fedi
religiose, in una parola, da quel che Max Weber, sulle orme di John Stuart
Mill, chiama il «politeismo dei valori»[7].
Il politeismo dei valori è dunque un fatto, come ognuno può
constatare. Un fatto, innanzitutto, da capire e da spiegare. Le ipotesi di tipo
metafisico che postulano la trascendenza ontologica dei valori, quali
entità oggettive la cui «esistenza» non dipende
dall’esperienza umana, sono indubbiamente suggestive e, perfino,
rassicuranti, ma non portano lontano. L’obiezione principale che
può essere loro mossa è che non sono in grado di
«dimostrare» quel che affermano, cioè la natura oggettiva di
valori. E neppure sono in grado di spiegarne l’origine, che non va
ricercata nell’empireo dove albergano le fumisterie delle ipostasi
metafisiche, bensì, molto al di sotto di quella rarefatta dimensione,
nel mondo fisico e storico che produce la grezza materia dei bisogni umani[8].
Il bisogno denota una
mancanza e reclama di essere soddisfatto. Ciò che soddisfa il bisogno ha
un valore. Dunque non ci sono, propriamente parlando, valori, ma cose alle
quali attribuiamo un valore[9]
in quanto sono in grado di soddisfare i nostri bisogni e che perciò
eleviamo ad oggetto dei nostri desideri. Quel che chiamiamo
«valori» sono pertanto «esemplificazioni di
qualità», «entità ideali», sorte (o costruite)
per astrazione dal mondo dei nostri bisogni, che fungono da criterio per le
nostre scelte e costituiscono il metro per giudicare (valutare) il nostro e
l’altrui comportamento[10].
Non desideriamo la giustizia e la libertà perché sono dei valori,
come sostengono le concezioni oggettivistiche, bensì giustizia e
libertà sono valori soltanto perché noi le desideriamo[11].
Se, quindi, si assume
che sono legati ai bisogni storici degli esseri umani, i valori, per
quanto riguarda l’origine e
la natura, si rivelano soggettivi e relativi, nel senso che si
configurano in relazione a bisogni individuali o di gruppo che mutano col
mutare delle situazioni storiche, dei contesti socio-culturali, delle
latitudini geografiche. Ne discende che non si può parlare di valori
oggettivi nel significato pieno del termine, ma di valori (più o meno) comuni,
condivisi, diffusi, generali (o generalizzabili); né si può
parlare di valori assoluti (o eterni), ma di valori (più o meno)
ricorrenti e costanti sul piano storico.
Il politeismo dei
valori è un fatto, ma i valori non sono dei fatti, che possano essere
empiricamente accertati. Sono astrazioni idealizzanti, costruzioni mentali
elaborate per esprimere la scala delle nostre preferenze in relazione alla
scala dei nostri bisogni (o desideri). In quanto tali, non sono, in senso
stretto, né veri né
falsi. Questo significa che nel campo dei valori non agisce la logica
dell’accertamento empirico in funzione verificante o falsificante,
né la logica dimostrativa della matematica, bensì la logica della
giustificazione. I due modi di giustificare i valori – deducendoli da valori
primi o considerandoli come strumentali rispetto a valori ultimi –
non sono però applicabili né ai valori primi né ai valori
ultimi, che si potrebbe convenire di chiamare, sulla falsariga di quanto
suggerisce Felix E. Oppenheim, «valori intrinseci»[12].
Per quanto possa apparire paradossale, i valori intrinseci, che consentono la
giustificazione dei valori derivati e dei valori strumentali, non
possono, a loro volta, essere giustificati. In altre parole, i valori
intrinseci non si giustificano, si assumono, esattamente come la
kelseniana Grundnorm, che fonda l’ordinamento giuridico, ma
non può essere a sua volta fondata. «Proposte etiche», per
dirla con Dario Antiseri, che «non si fondano né si
confutano», ma che, semplicemente, «si accettano o si respingono»[13].
Inutile aggiungere che tale assunzione-accettazione, che poggia, in
ultima analisi, su basi di tipo emotivo, si configura come una scelta
arbitraria, una decisione che scaturisce da una preferenza soggettiva
immotivabile[14].
Ma questo non è l’unico limite che la ragione incontra nel
trattare i valori intrinseci. Non esiste infatti una procedura razionale per
risolvere il disaccordo su questi valori. E questo spiega perché, in
caso di contrasto, si ricorra abitualmente
non alla forza della ragione, ma alle ragioni della forza.
A differenza dei valori
intrinseci, i valori strumentali possono essere formulati in termini
descrittivi e la proposizione che li contiene può essere sottoposta a
verifica come se fosse un enunciato fattuale[15].
Parimenti, possono essere espressi in un linguaggio descrittivo anche i
«giudizi di valore caratterizzanti», i quali, secondo Ernest Nagel,
rappresentano «stime tecniche» basate sull’applicazione di un
modello standard di valutazione precedentemente e stipulativamente
definito[16].
Ad esempio, l’espressione «
In sintesi: i valori derivati
e quelli strumentali sono giustificabili (anzi, per definizione, giustificati,
se il procedimento della loro inferenza è corretto); le proposizioni
contenenti valori strumentali e valori caratterizzanti possono essere
‘trattate’ come delle proposizioni fattuali; i valori intrinseci,
il cui fondamento è puramente emotivo, sfuggono invece ad ogni tipo di
‘controllo’ razionale. Ma, se non vi è valore strumentale e
derivato che non possa essere incastonato in uno schema logico-argomentativo
perfettamente coerente, questo significa che tutti i valori strumentali e
derivati hanno il medesimo titolo di validità per quanto attiene alla
loro possibilità di giustificazione. Ma, riguardo almeno al fondamento
delle loro procedure giustificative, significa anche che sono tutti ugualmente deboli.
Nonostante l’imponenza
degli edifici logico-argomentativi innalzati in funzione persuasiva per
giustificare questo o quel sistema di valori, le fondamenta di tali edifici
risultano, quindi, assai fragili e precarie. E’il carattere arbitrario
dei valori intrinseci a rendere deboli le ragioni addotte per giustificare i
valori strumentali e derivati. E la mancanza di un fondamentum inconcussum
fornisce, da un lato, elementi per la spiegazione e costituisce,
dall’altro, una conferma indiretta del politeismo dei valori, ovvero del
pluralismo etico-politico.
Come constatazione di
un fatto, l’esistenza del fenomeno del pluralismo etico-poltico
può essere giudicata positivamente o negativamente, oppure, anche,
può essere considerata in maniera ‘neutra’ se la si accetta,
puramente e semplicemente, come un carattere ‘strutturale’ del
mondo reale, che sarebbe mistificante ignorare o velleitario contrastare,
esattamente con la stessa ‘indifferenza’ con la quale in maniera
del tutto ragionevole ci si può accostare al fenomeno della molteplicità
delle lingue.
Se il giudizio è
positivo, l’atteggiamento che ne consegue nell’affrontare la
questione della pluralità dei valori diversi è ispirato,
coerentemente, al principio pratico della tolleranza. Ne deriva che la
tolleranza può essere assunta a norma di condotta non in quanto il
pluralismo è un fatto (si cadrebbe altrimenti nella fallacia
naturalistica), ma in quanto al fatto del pluralismo è attribuita una
qualificazione positiva, dal momento che può essere considerato una
ricchezza culturale da rispettare e tutelare. Viceversa, l’intolleranza,
come atteggiamento pratico, parte dal presupposto opposto, da una valutazione
negativa del pluralismo etico-politico, inteso come fattore di anarchia morale
e di disorientamento sul piano politico. Entrambi gli atteggiamenti sono
possibili alla condizione che esista il fenomeno del pluralismo. La scelta
effettiva tra i due principi pratici e la misura della loro applicazione
dipendono, invece, dal valore o dal disvalore che, a seconda delle circostanze
e in relazione agli specifici contesti etico-politici, ciascuno attribuisce al
fenomeno del pluralismo. Rettamente intese, tolleranza e intolleranza non si
prestano, dunque, ad essere assolutizzate. Oltre un certo limite la tolleranza può
divenire sinonimo di nichilismo o di qualunquismo morale, o, addirittura,
tradursi in una pratica autolesionistica se si estende indiscriminatamente
anche agli intolleranti; mentre l’intolleranza senza limiti può
divenire sinonimo di fanatismo e costituire la fonte di tutte le persecuzioni.
La natura soggettiva
dei valori, che è alla base del pluralismo etico-politico, solleva la
questione della loro commensurabilità. Altrimenti detto: esistono
criteri certi, condivisi, in base ai quali stabilire, fra sistemi di valori
diversi, quale sia il migliore? Se i valori potessero essere distinti in veri o
falsi, la risposta sarebbe facile e ampiamente scontata: il criterio della
verità. Ma la dimensione assiologica, per parafrasare il titolo di un
noto libro di Uberto Scarpelli, è «senza verità»[17].
Ovvero: «l’etica non è scienza»[18],
per la semplice ragione, giusta l’indicazione di Max Weber, che non
è possibile una scienza dei fini ultimi[19].
L’unica distinzione possibile fra i valori derivati e strumentali
riguarda, quindi, la loro validità, ossia la correttezza, sul piano
logico, delle procedure deduttive da o della relazione strumentale con
i valori intrinseci. Ovviamente, i sistemi di valori si differenziano anche in
rapporto alla qualità degli apparati argomentativo-persuasivi di cui
sono dotati. Ma, a parità di correttezza logica e di tecnica
argomentativa, come determinare la «superiorità» di un
sistema sugli altri? Lo stesso
principio kantiano dell’universalità delle massime morali o
la sua variante in chiave utilitaristica proposta da R.M. Hare
(«l’universalità soverchiante»)[20]
non rappresentano criteri di giudizio incontestabili, né appaiono sicuri
ed infallibili, e neppure dirimenti di fronte a sistemi etico-politici, diversi
per contenuti, ma uguali nella pretesa all’universalità[21].
Per fare un esempio: un sistema di valori «fondato» sul principio
d’autorità può superare il «test di
universalizzazione» altrettanto agevolmente di un sistema incardinato sul principio opposto della
libertà.
Del resto, quale principio etico o valore non ambisce
all’universalità, non si rivolge alla classe indifferenziata degli
esseri umani? Ma l’aspirazione all’universalità, non
equivale a dire che la loro portata sia realmente universale. Ancora una
volta, soccorre la distinzione fra giudizi di fatto e giudizi di valore, fra
un’asserzione e una prescrizione. Una proposizione universale di tipo
fattuale che enunci che «tutti gli uomini sono bipedi», è
un’ipotesi generale che può essere assunta come vera fino a prova
del contrario, cioè fino a che, secondo il paradigma popperiano, non
venga falsificata da un’osservazione di carattere particolare che la
contraddica. Una proposizione del tipo «tutti gli uomini devono essere
considerati e trattati come uguali» è invece una massima (una
prescrizione) che non ha un contenuto di verità ed ha un carattere
universale solo sul piano logico formale, dal punto di vista delle regole della
sintassi (comincia infatti con le parole «tutti gli
uomini…»), ma niente di più, salvo riconoscere che
l’aspirazione dell’emittente è quella che possa trovare
un’applicazione di tipo universale. In questo caso
l’universalità della proposizione non dipende dal contenuto del
suo enunciato, ma, in primo luogo, dal suo carattere formale e, secondariamente
ed eventualmente, da condizioni e da circostanze che sono esterne al suo
contenuto normativo. Ne discende che quando si parla di valori universali, il
significato di «universale» non possa essere quello di un enunciato
descrittivo, a meno che, negando ogni distinzione fra fatti e valori, si
aderisca a quelle ipotesi di tipo metafisico sulla natura dei valori che ne
postulano la trascendenza ontologica, come erano appunto, per fare un esempio
familiare, le ipotesi giusnaturalistiche. Attribuire ai valori il medesimo
carattere universale che hanno le proposizioni descrittive del tipo «ogni
S è P» (dette, in logica, appunto, affermative universali)
rappresenta uno stratagemma retorico-persuasivo di indubbia efficacia per
favorirne l’accettazione, ma è anche un modo alquanto surrettizio
per reintrodurre la presunzione della loro assolutezza, cioè per
additare di soppiatto, attraverso la deriva dell’universalismo, la
credenza nell’esistenza di valori assoluti.
E, allora? Il fatto
è che per dirimere il confronto o lo scontro fra valori diversi non
esiste un punto di vista «imparziale» o «impersonale»,
per la semplice ragione che non esiste un metro di giudizio
«esterno» rispetto a qualsiasi sistema di valori. Giudichiamo gli
altrui valori sulla base dei nostri, anzi, dall’alto dei nostri, che
riteniamo superiori solo perché nostri.
Il pluralismo
etico-politico è dunque rivelatore di un’altra caratteristica dei
valori: la loro relatività. Una caratteristica connaturata al
pluralismo, niente affatto nascosta, ma spesso obliterata o rimossa. E non
senza un motivo. Parlare della relatività dei valori equivale, infatti,
a infrangere una sorta di tabù presente nella cultura occidentale, che
pure vanta in proposito, a cominciare dagli Essais di Montaigne, una
nobile tradizione, sebbene alquanto pavida e «ritenuta», per paura
forse degli anatemi della gerarchia ecclesiastica, nel denunciare che le
persecuzioni religiose o ideologiche nascono, tutte, dalla credenza che i
valori siano verità assolute e, come tali, da imporre ai dissidenti
anche con la violenza.
Il relativismo, lungi
dall’essere una teoria normativa che indica quel che dovrebbe essere,
è un orientamento che nasce dalla constatazione di un fatto –
l’esistenza del pluralismo etico-politico – e
dall’acquisizione cognitiva dell’impossibilità logica di
dotare i valori di un fondamento assoluto. Un orientamento che, come nota Gian
Paolo Prandstraller, sul finire del secolo scorso si è tradotto in costume
sociale, in fatto pratico, assumendo la forma di una mentalità
che ha inciso profondamente sul ‘senso’ della vita e ha introdotto
notevoli mutamenti nelle sfere dell’economia, della politica e
dell’etica all’interno di società complesse, altamente
differenziate, sempre più secolarizzate e refrattarie al richiamo del
monismo o alla seduzione della
trascendenza[22].
Eppure, ancora oggi,
intellettuali laici di grande finezza analitica confondono, per inveterato
pregiudizio, il relativismo con l’indifferentismo, se non addirittura con
il nichilismo[23].
Al contrario, una prospettiva relativistica non solo non costituisce ostacolo
all’assunzione responsabile di valori, ma ne costituisce un presupposto
necessario, perché è l’unica che consente di esercitare
pienamente l’autonomia della scelta morale. Come peraltro aveva notato
Hans Kelsen in un saggio del 1955-56, affermando appunto che:
«una
teoria dei valori relativistica non nega l’esistenza di un ordine morale
e perciò non è – come talvolta si sostiene –
incompatibile con la responsabilità morale o giuridica. Essa nega
l’esistenza di un unico ordine che possa pretendere di essere
riconosciuto valido e, quindi, universalmente applicabile. Essa asserisce che
vi sono parecchi ordini morali diversi l’uno dall’altro e che, di
conseguenza, deve essere fatta una scelta fra loro. In tal modo il relativismo
impone all’individuo il difficile compito di decidere da sé
ciò che è giusto e ciò che è errato, il che implica
certamente una responsabilità molto seria, la responsabilità più
seria che un uomo possa assumere»[24].
Il relativismo, dunque, non come impedimento alla scelta, ma come consapevolezza
del limite. Premesso, infatti, che i valori intrinseci si
«fondano» su una preferenza immotivata; che le procedure
giustificative dei valori derivati e strumentali sono, tutte, ugualmente
deboli; che i criteri di giudizio dei valori sono relativi, cioè
«interni» al sistema di valori del soggetto giudicante, ne consegue
la vanità di ogni tentativo di «dimostrare»
l’oggettiva superiorità dei propri valori, nonché
l’arbitrarietà di ogni pretesa di imporli agli altri, tanto
più se si ricorre all’uso della violenza. Il che non è
irrilevante ai fini della pacifica convivenza.
Non a caso, lo stesso
Kelsen aveva chiarito lo stretto legame funzionale esistente fra democrazia e
relativismo:
«che
i giudizi di valore abbiano una validità soltanto relativa, uno dei
principi fondamentali del relativismo filosofico, implica che gli opposti
giudizi di valore non sono, né logicamente né moralmente,
impossibili. Il rispetto dell’opinione politica altrui è uno dei
principi fondamentali della democrazia, poiché tutti sono uguali e
liberi. Tolleranza, diritti della minoranza, libertà di parola e di
pensiero, così tipiche della democrazia, non hanno diritto di
cittadinanza in un sistema politico basato sulla fede nei valori
assoluti»[25].
La correlazione
è così chiara e netta che non ha bisogno di chiose o commenti. Si
potrebbe forse aggiungere che solo una diffusa cultura politica improntata alla
concezione relativa dei valori, più che qualsiasi espediente giuridico-costituzionale,
impedisce alla maggioranza di abusare del proprio potere e consente ad una
minoranza di divenire a sua volta maggioranza. Qui risiede la quintessenza
della democrazia, che è pur sempre un sistema di governo, giova
ricordarlo, e dunque un sistema imperniato su relazioni di potere. La stessa
regola di maggioranza, che non ha alcun fondamento assiologico, ma è una
mera sublimazione della forza bruta – «sta alla spada come la
cartamoneta sta alla riserva aurea», aveva icasticamente osservato
Edoardo Ruffini[26] –,
sarebbe uno strumento che si presterebbe ad un uso scriteriato e pericoloso per
le libertà se non fosse applicata in un contesto culturale fondato sulla
concezione relativistica dei valori e non fosse dunque accompagnata dal senso
del limite delle proprie opzioni assiologiche.
Niente, dunque,
è più estraneo alla prospettiva relativistica del precetto
agostiniano del «compelle intrare», dell’ispirazione
messianica, dell’anelito fanatico per le crociate, della spinta alla colonizzazione
culturale. Niente è più arbitrario, secondo tale prospettiva,
dell’imporre con la forza il proprio punto di vista, del costringere a
credere, dell’esportare forme di governo a suon di bombe, ammesso,
e non concesso, che la guerra sia uno strumento efficace (idoneo allo scopo) Non
è invece arbitrario difendere i propri valori, certo non in quanto
«assoluti», «veri» o «oggettivamente
superiori», ma semplicemente e onestamente, in quanto
«propri», in quanto espressione della propria identità.
Sotto questo profilo,
è innegabile l’affinità che esiste fra il relativismo e il
laicismo. Sul laicismo (il significato del termine, l’origine storica, i
presupposti culturali, i valori che incorpora, le prospettive che dischiude, i
principi che enuncia) si è discusso molto in Italia nel corso
dell’anno passato. Il dibattito, promosso da uno dei più
autorevoli e diffusi quotidiani italiani, aveva preso spunto da un fatto
contingente: l’interventismo crescente - da taluni condannato come
un’indebita ingerenza, da altri accolto come una salutare
‘provvidenza’ - della gerarchia ecclesiastica nelle questioni
politiche domestiche, attraverso esplicite raccomandazioni rivolte ai
legislatori e tassative indicazioni dirette agli elettori. Era perciò
praticamente scontato che si focalizzasse intorno al tema dei rapporti fra
Stato e Chiesa, delle rispettive sfere di competenza, dei reciproci doveri da
osservare per rispettare l’autonomia funzionale, costituzionalmente
sancita, delle due istituzioni. In questo contesto, il significato del termine
«laico» è apparso tutt’altro che problematico, anzi
affatto condiviso: secondo l’uso consolidato, almeno in Occidente, da una
lunga tradizione, laico si oppone a confessionale e come tale identifica il
carattere precipuo dello Stato moderno, che, a differenza delle teocrazie,
tutela la libertà di culto e, a differenza dello Stato confessionale,
non privilegia alcuna religione in particolare. E’ stato perciò
agevole da parte di tutti gli intervenuti al dibattito aderire alla parafrasi
del celebre detto crociano e identificarsi nel moto «perché non
possiamo non dirci laici»[27].
In fondo si trattava, semplicemente, di riconoscere validità alla
pericope evangelica «Dai a Cesare quel che è di Cesare, e a Dio
quel che è di Dio».
Ma restringere il
significato di laico ad un carattere o ad una qualificazione dello Stato
è estremamente riduttivo perché ne limita l’estensione alla
sfera del pubblico e non rivela il nucleo profondo del concetto. In proposito,
può aiutare il riferimento alla radice etimologica. «Laico»
proviene dal greco «laos», che indicava – originariamente e
genericamente – una qualunque persona appartenente al popolo e,
perciò, distinta rispetto agli appartenenti alla cerchia esclusiva e
ristretta della classe superiore. Transitando attraverso il latino medioevale,
nell’epoca del massimo fulgore della Chiesa di Roma, la parola conserva
qualcosa del significato originario, cui aggiunge una connotazione ulteriore:
designa, in opposizione a chierico, la figura del fedele non appartenente
all’ordine ecclesiastico. In questa accezione, indica una condizione
all’interno di una gerarchia presente nella comunità dei
cristiani, ma coglie una distinzione meramente formale, del tutto esteriore: la
differenza di status che intercorre fra chi indossa i paramenti sacri e
chi non veste l’abito talare. Il termine «laico» acquista un
diverso significato soltanto nell’età moderna, a partire dal
secolo dei Lumi, quando la sua opposizione a «chierico» si
definisce non sulla base di caratteristiche formali, inerenti a ruoli o
funzioni sanciti dal diritto canonico, bensì in relazione a modi
distinti (e contrapposti) di accostarsi al problema della conoscenza della
«verità». Mentre il chierico è il depositario e il
custode di certezze assolute, stabilite ex autoritate, per definizione
inconcusse e incontestabili, e, dunque, è il portatore di una visione
esclusivista e dogmatica della verità, matrice potenziale del
fondamentalismo monistico e dell’integralismo religioso, il laico, al
contrario, è guidato dallo spirito critico e dal dubbio sistematico,
ricusa il principio d’autorità (l’ipse dixit) nella
sfera delle attività intellettuali, cerca la «verità»
attraverso il confronto ed è disposto a modificare le proprie certezze
se si dimostrano infondate. In questo senso, il laicismo è un habitus
mentale, uno stile di pensiero, un modo di accostarsi ai problemi e di
ricercarne la soluzione attraverso l’uso della sola ragione. Il che
accosta la mentalità laica alla mentalità dello scienziato o,
più generalmente, all’attività dello studioso, almeno dello
studioso che si ponga come l’erede di quelli che Norberto Bobbio
definì negli anni ’50 del secolo scorso «i frutti più
sani della tradizione intellettuale europea», vale a dire
«l’inquietudine della ricerca, il pungolo del dubbio, la
volontà del dialogo, lo spirito critico, la misura nel giudicare, lo
scrupolo filologico, il senso della complessità delle cose»[28].
Se il laico, in
definitiva, è colui che sottopone costantemente al vaglio critico anche
le proprie certezze, che considera niente affatto immuni dal tarlo del dubbio,
se è, come osserva Claudio Magris, colui che è «libero dal
bisogno di idolatrare e di dissacrare»[29],
allora è innegabile che fra relativismo e laicismo vi sia un rapporto di
reciproca implicazione. E a questo punto si potrebbe essere tentati,
benché il fatto sia insolito, di fare l’elogio del relativismo in
quanto orientamento che nasce dalla constatazione della relatività dei
valori e che si accompagna, da un lato, al laicismo, inteso come abito mentale
(attitudine intellettuale o stile di pensiero) e, dall’altro, alla
virtù della mitezza.
Il senso del limite
delle opzioni assiologiche, che caratterizza il relativismo, è, infatti,
il migliore antidoto contro la costrizione a credere. E il quid proprium
della mitezza Bobbio lo individua, riprendendo un’espressione di Carlo
Mazzantini, nel moto «lascia che l’altro sia quello che
è»[30].
Né remissivo, né cedevole, il mite non è un proselitista.
E nell’astenersi dall’interferire pesantemente sulle credenze
altrui, mostra che la mitezza è una virtù che mal si concilia con
l’esercizio del potere, giacché il persuadere qualcuno a fare o
non fare qualcosa, a credere o a non credere in qualcosa, significa esercitare
influenza e l’influenza è pur sempre, benché la più
blanda (ma non la meno efficace), una forma di potere.
E’ incerto se il
relativismo dei valori, il laicismo e la mitezza siano elementi di per
sé sufficienti per scongiurare il pericolo delle guerre neo-coloniali o
per evitare, almeno, le stragi degli innocenti, quel che però è
certo è che l’imporre la propria visione come assoluta, ergersi
arbitrariamente a paladini del Bene contro il Male, cedere allo spirito di
crociata e sviluppare corsi politici all’insegna dell’arroganza e
della protervia sono gli ingredienti basilari per comporre la miscela micidiale
che può portare all’esplosione della guerra di tutti contro
tutti.
Ma è tempo di ritornare al punto di
partenza (quali «rimedi agli squilibri del terrore»?) e cercare di
tracciare una conclusione. In un’ottica pluralista e relativista, il
nuovo ordine mondiale non può che essere multipolare, rispettoso delle
differenze culturali, cioè dei piani esistenziali e dei sistemi di
valori che ogni gruppo che popola il mondo dovrebbe avere il diritto (e la
libertà) di adottare. Entro questa cornice normativa vanno soppesate le
più o meno realistiche ipotesi di edificazione della civitas maxima,
la prospettiva di un governo mondiale, si tratti di una federazione di Stati,
secondo l’antica ambizione kantiana, o di un inedito plesso
organizzativo-istituzionale incardinato sulle idee (per la verità
prossime al genere utopistico) della cittadinanza universale e del
costituzionalismo globale[31].
Lo stesso discorso vale (e la stessa cautela si impone) nell’affrontare
la delicata questione dei diritti dell’uomo (o diritti fondamentali, o
diritti universali)[32].
Sul tema dei diritti, proprio perché si tratta di una delle maggiori
conquiste (e, come tale, oggetto di legittimo vanto) della cultura politica
occidentale, la tentazione di interpretarlo, contro ogni evidenza, in chiave
assolutistica si fa particolarmente forte. Al punto da indurre a sottovalutare
il fatto, tutt’altro che trascurabile, che trentatré anni dopo la
solenne proclamazione della «Dichiarazione universale dei diritti
umani», incentrata, come è noto, sull’enfasi posta sulle
prerogative dell’individuo, viene firmata la «Carta africana sui
diritti umani e dei popoli», in cui l’accento, piuttosto che sui
diritti, è posto sui doveri che il singolo ha verso la comunità,
custode della morale e dei valori tradizionali che lo Stato ha l’obbligo
di promuovere e proteggere. Così come vi è la tendenza a
sorvolare sulla circostanza che alla prima Conferenza mondiale sui diritti
umani, tenutasi a Vienna nel 1993, fu apertamente contestato, in particolare
dai paesi asiatici, la presunta portata universale della dottrina dei diritti
fondamentali, considerata, al contrario, alla stregua di una semplice concezione
regionale, l’espressione tipica della civilizzazione occidentale e, come
tale, incapace di tener conto dei valori e delle tradizioni specifiche presenti
in altre culture. Basterebbero queste considerazioni a frenare le tentazioni
universalistiche in senso forte. Il guaio è che alla dottrina dei
diritti umani – sia che la si intenda in senso assolutistico, come
pretesa-dovere di affermare valori ritenuti, per definizione,
incontrovertibili, sia che la si intenda in senso relativistico, come diritto
di difendere i «propri» valori – è comunque correlata
l’idea, per molti versi sconcertante, della «guerra
umanitaria».
La guerra è stata considerata per secoli
una condizione pressoché «naturale»
dell’umanità, una sorta di evento ineluttabile. Un fenomeno talmente
pervasivo che forse nessuna cultura – e di certo non quella occidentale
– conosce una definizione della pace che non sia costruita, come ha
notato Bobbio, in termini negativi: la pace è assenza di guerra,
l’intervallo di tempo fra due guerre, la non-guerra[33].
Un accadimento così ricorrente da indurre a congetturare che possa avere
una base biologica, come alcuni studi di etologia hanno, del resto, tentato di
documentare[34].
La verità è che non la guerra, bensì il conflitto, inteso
come relazione antagonistica o oppositiva fra individui e gruppi, è
connaturato con l’esistenza umana. Non è difficile il mestiere di
vivere, difficile è convivere. E il conflitto è insito
nell’ambito della convivenza organizzata e nei rapporti fra
organizzazioni di convivenze (comunque le si denomini: gruppi, associazioni,
sette, comunità, tribù, chiese, Stati, sistemi politici, ordine
internazionale). La convivenza, su qualunque scala, è di per sé
un fatto problematico, dato che la compresenza di identità diverse, in
contesti caratterizzati dalla scarsità dei beni e dal pluralismo dei
valori, ingenera, sì, il confronto ma predispone anche fatalmente
allo scontro. Non ha bisogno, quindi, di essere invocato, provocato o innescato
artificiosamente: il conflitto è in re, è nelle cose,
congenito alla sfera delle nostre relazioni. Occorre, all’opposto,
limitarlo, controllarlo, regolamentarlo, in una parola, per evitare
l’implosione della convivenza organizzata, occorre imparare a governarlo.
Del resto, la politica, lo Stato e l’ordine internazionale hanno un senso
e una funzione solo perché esiste il problema della governabilità
del conflitto.
La guerra è la forma parossistica che in
generale il conflitto può assumere e, allo stesso tempo, un modo
particolare per spegnere, per risolvere drasticamente un determinato conflitto.
Uno strumento primitivo, assai costoso (in termini di risorse economiche, di
perdita di vite umane e di gratuite sofferenze), e, in proporzione, poco
remunerativo (cioè non razionale rispetto allo scopo). Basterebbe questa
considerazione per chiudere il discorso sulla «guerra umanitaria»,
la «guerra per i diritti o per la democrazia», sorvolando sulla
questione, peraltro non secondaria, dell’intrinseca aporeticità di
queste espressioni[35].
Tra i titoli di merito che possono riconoscersi
al Vecchio Continente vi è quello di aver finalmente imparato, sulla
propria pelle, la dura lezione della storia. Estendendo e rafforzando il
sistema dei diritti e delle garanzie entro il quadro della democrazia, che
è il punto d’approdo istituzionale di un lento, graduale processo
di crescita e di sviluppo di tipo endogeno, non il prodotto di forze esogene
che agiscono dall’alto delle loro fortezze volanti, l’Europa ha
infatti imparato a risolvere i conflitti in modo pacifico. E questa grande
conquista è, a mio avviso, il solo valore che può permettersi di
«esportare», con l’esempio, al di là dei confini della
propria cultura.
[1] Saggio pubblicato in Gli squilibri del terrore. Pace, democrazia
e diritti alla prova del XXI Secolo, a cura di Michelangelo Bovero ed
Ermanno Vitale, Rosenberg & Sellier, Torino 2006, 193-210.
[2] Sulla nozione di
«guerra globale», si vedano
le considerazioni di D. Zolo,
Una ‘guerra globale’ monoteista,
[4] Per una disamina di
tali posizioni, definite come «l’ideologia della forza dei finti
realisti», cfr. G. Preterossi,
L’Occidente contro se stesso, Laterza, Roma-Bari 2004, 57-90.
[5] S.P. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il
nuovo ordine mondiale. Il futuro geopolitico del pianeta, Garzanti, Milano
2000.
[7] M.Weber, Il significato della
«avalutatività» delle scienze sociologiche e economiche
(1917), in Il metodo delle scienze storico-sociali, Einaudi, Torino
1958, 332 ss. Sulla formula weberiana, come esplicito riconoscimento della
insopprimibile molteplicità dei valori, si vedano le considerazioni di P. Rossi, Lo storicismo tedesco
contemporaneo, Einaudi, Torino 1971, 344 ss.
[9] Osserva G. Preti (Moralità e
democrazia (1962), in In principio era la carne, Angeli, Milano
1983, 124) che «i ‘valori’ sono mere astrazioni: quello che
è reale sono le cose aventi valore».
[10] Bobbio, Introduzione alla filosofia del diritto, cit.,
36 ss.; Preti, Moralità
e democrazia, cit., 124-129.
[12] F.E. Oppenheim, Etica e filosofia politica, Il Mulino,
Bologna 1971, 40-41, opera una distinzione fra «giudizi di valore
estrinseci» e «principi normativi e intrinseci».
[14] E’ questa, in
sostanza, l’intuizione di fondo, nell’ambito del non cognitivismo
etico, del cosiddetto emotivismo radicale, rappresentato
dall’opera di A.J. Ayer (Linguaggio
verità e logica ,1936, tr. it. Feltrinelli Milano 1961), un
indirizzo in seguito stemperato dalla teoria dell’emotivismo moderato
elaborata da C.L. Stevenson (Etica
e linguaggio, 1944, tr. it. Longanesi, Milano 1962). Ma non bisogna
dimenticare che l’antesignano delle posizioni emotiviste è David
Hume, il “fondatore” dell’empirismo moderno, il quale nel Trattato
sulla natura umana (II,III,III) espone i limiti della ragione nel campo
della norme che regolano la condotta umana. Sulla metaetica non-cognitivistica
cfr. E. Lecaldano, Etica e
significato: un bilancio, in C.A.
Viano (a cura di ), Teorie etiche contemporanee, Bollati
Boringhieri, Torino 1990, 59-86.
[19] M. Weber, L’«oggettività»
conoscitiva della scienza sociale e della politica sociale (1904), in Il
metodo delle scienze storico-sociali, cit., 53-141. Sul tema Weber ritorna,
sviluppandolo, ne Il significato della «avalutatività» delle
scienze sociologiche e economiche, cit., e in La scienza come
professione (1919), in Il lavoro intellettuale come professione,
tr.it. Einaudi, Torino 1966, 5-43.
[20] R.M. Hare, Il pensiero morale (1981), tr. it. Il
Mulino, Bologna 1989, 135 ss., 223 ss. Id.,
Come decidere razionalmente le questioni morali, in L. Gianformaggio-E. Lecaldano (a cura
di), Etica e diritto. Le vie della giustificazione razionale, Laterza,
Roma-Bari 1986, 53 ss. Sulla nozione di «prescrizione universalizzabile
soverchiante», cfr. E. Lecaldano,
La ragione e l’etica, in «La ragione pratica», 1993,1,
20-31. Per una critica puntuale della posizione di Hare, cfr. A. Ross, Critica del diritto ed
analisi del linguaggio, tr. it., Il Mulino, Bologna 1982, 157-75.
[21] Solleva alcune fondate
obiezioni all’argomento kantiano N.
Bobbio, Pro e contro un’etica laica, ora in Elogio della
mitezza e altri scritti morali, Linea d’Ombra, Milano 1994, 176 ss.
Su alcuni limiti sul piano applicativo del principio kantiano della
«legge universale», cfr. anche S.
Blackburn, Essere Buoni. Breve introduzione all’etica
(2001), tr. it., Pratiche Editrice, Milano 2003, 143-152.
[23] L. Ferrrajoli, Diritti fondamentali, Laterza, Roma-Bari
2001, 340-341, ritiene che il relativismo morale sia «una dottrina etica
inconsistente logicamente ancor prima che eticamente, dato che equivale
all’indifferentismo morale e all’accettazione di qualunque morale,
pur se fondate sulla disuguaglianza e sull’oppressione, e quindi alla
negazione di qualunque morale». Analoga posizione esprime G. Zagrebelsky, Imparare la
democrazia, Gruppo Editoriale l’Espresso SpA, Roma 2005, 25, il
quale, dopo aver ribadito la validità della correlazione kelseniana fra
relativismo e democrazia, inopinatamente sostiene che «dal punto di vista
del singolo, invece, relativismo significa che ‘tutto è
relativo’, che una cosa vale l’altra, cioè che nulla ha
valore. In questo senso – insisto, dal punto dei vista dei singoli
– relativismo equivale a nichilismo o scetticismo». Ugualmente
recisa è la condanna di B.
Williams, La moralità. Un’introduzione all’etica
(1993), tr. it., Einaudi, Torino 2002, 21, il quale considera il relativismo
«l’eresia dell’antropologo, forse l’opinione più
assurda che sia stata mai avanzata in filosofia morale».
[24] H. Kelsen, I fondamenti della democrazia (1955-56), in
I fondamenti della democrazia e altri saggi, Il Mulino, Bologna 1966,
194.
[25] Ivi, 193. Richiama l’attenzione
su questa posizione kelseniana come carattere precipuo della democrazia Zagrebelsky, op. cit., 25 ss.
[27] E. Scalfari (a cura di), Dibattito sul laicismo,
Gruppo Editoriale l’Espresso, Roma 2005. Ma sul laicismo, cfr. anche il
recentissimo G. Preterossi (a
cura di), Le ragioni dei laici, Laterza, Roma-Bari 2005.
[28] N. Bobbio, Libertà e potere (1955), in Politica
e cultura, Einaudi, Torino 1955, 281 (nuova edizione, a cura e con
introduzione di Franco Sbarberi, Einaudi, Torino 2005, 240).
[29] C. Magris, Laicità e religione, in «Il
Corriere della Sera», 6 dicembre 1998 (ora in Le ragioni dei laici,
cit., 110).
[31] Su questi temi, cfr. la
documenta analisi di D. Zolo, Cosmopilis.
La prospettiva del governo mondiale, Feltrinelli, Milano 1995.
[32] La più completa,
articolata e argomentata disamina del problema dei diritti universali è
quella di L. Ferrajoli, Diritti
fondamentali, cit., 1-40, 120-175, 278-370.
[34] Cfr. in proposito J. Eibl-Eibesfeldt, Etologia della
guerra (1979), tr. it., Bollati Boringhieri, Torino 1990.