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Origini del concetto di dolo: dall’etica di aristotele al diritto penale
romano
Università di
Sassari
Sommario: Premessa – Parte A: IL DOLO
NELLA STORIA E NELLA FILOSOFIA GRECA. 1. La distinzione tra Φόνος
εκούσιος (omicidio volontario) e
Φόνος ακούσιος
(omicidio involontario) – 2. La struttura della Ψυχή. Leggi e sanzioni penali nel pensiero
politico di Platone – 3. La psicologia dell’atto morale in Aristotele
– 4. Il concetto di scelta come essenza della
responsabilità – Parte B: IL DOLO NEL
DIRITTO PENALE ROMANO. 1. Il diritto penale romano – 2. La lex Numae: la distinzione tra omicidio
doloso (“dolo sciens”) e
omicidio colposo (“imprudens”).
Il rilievo dell’elemento intellettivo – 3. La lex Cornelia de sicariis et veneficis:
il dolus malus quale espressione
dell’elemento volitivo – 4. Dalle quaestiones perpetuae alla cognitio extra ordinem. La prassi in
tema di elemento soggettivo:“Delinquitur
autem aut proposito aut impetu aut casu”. Il concetto di animus – 5. Il
significato storico-scientifico delle fonti romane per lo sviluppo del concetto
di dolo. – 5.1. Il dolus malus.
– 5.2. La distinzione tra dolo d’impeto e dolo di proposito.
– 5.3. Il contenuto etico del concetto di dolo. –
5.4. La nozione di
animus. – 5.5. La
fondamentale importanza di alcuni frammenti per l’ampliamento del
concetto di dolo.
Lo studio delle origini
del dolo è tema di indagine intersettoriale. Innanzitutto coinvolge non
solo il diritto penale sostanziale ma anche quello processuale. Il dolo poi non
è mai descritto in una formula legislativa generale e astratta ma
è concetto etico che trova espressione sostanziale e processuale nella
punizione dei delitti di sangue. In quanto concetto etico, lo studio delle
origini del dolo non può procedere disgiunto dalla considerazione
filosofica. Unica forma di responsabilità colpevole, il dolo coincide
con la forma tipica dell’agire umano, la volontarietà cioè
della condotta.
L’identificazione
del male, storicamente precaria, è in origine semplice. Il male è
rappresentato dalle aggressioni alla persona e al patrimonio e pertanto etica,
religione e diritto penale non hanno problemi di convivenza, ma anzi
coincidono.
Nel guardare con gli
occhi di oggi all’elemento soggettivo e in particolare al dolo nelle
civiltà greca e romana, è necessario tenere presente che la
natura delle fonti, spesso non giuridiche ma letterarie, e la mancanza di una
disciplina generale e astratta delle forme dell’atteggiamento
psicologico, rendono possibile la ricerca di modi di sentire piuttosto che di
compiuti concetti. Punto di estrapolazione di questi modi di sentire è
solitamente la repressione dell’omicidio e in genere dei delitti di
sangue, innanzitutto perché generalmente perseguiti e poi perché
soprattutto con riferimento a questi rilevava l’esistenza, la
diversità e la intensità dell’atteggiamento psicologico.
Lo schema classico di
studio del dolo – struttura, oggetto e accertamento – è
frutto della scienza penalistica moderna, così come la ricchezza di
contenuti di ogni singola fase di studio.
a) Sotto il profilo
della struttura, sia nel mondo greco che in quello romano, la distinzione in
tema di atteggiamento psicologico è tra volontarietà e
involontarietà della condotta: la prima è necessaria per
l’affermazione di responsabilità penale, la seconda giustifica al
più rimedi di tipo risarcitorio.
Generalmente non
è la nozione di volontarietà a essere approfondita quanto
piuttosto quella di involontarietà. All’interno del concetto di
involontarietà sono comprese, spesso indistintamente (anche
perchè non vi era l’esigenza di distinguere, data
l’identità di conseguenze), situazioni che i moderni analizzeranno
in maniera differente e più analitica: e dunque cause di esclusione
della coscienza e volontà (caso fortuito e forza maggiore), del dolo
(errore e ignoranza), della colpevolezza (in particolare incapacità di
intendere e di volere), dell’antigiuridicità (stato di
necessità e legittima difesa): involontaria è anche la condotta
imprudente e pertanto sembra non esistano barlumi di considerazione autonoma
della colpa quale forma di responsabilità penale.
Il giudizio sulla
volontarietà o involontarietà della condotta, e dunque sul
carattere lecito o illecito, presuppone poi un rimprovero di tipo etico e
religioso.
b)
L’atteggiamento psicologico viene riferito principalmente alla condotta:
oggetto del dolo – per usare una terminologia di oggi – non è l’intero fatto ma
solo un suo elemento. Parti del fatto possono dunque essere imputate
oggettivamente.
c) Il profilo
dell’accertamento è assai semplificato da un sistema processuale
spiccio, nel quale solitamente vige una presunzione di colpevolezza e non di
innocenza: il fatto in sé parla il linguaggio del dolo e la prova principale
è la confessione dell’accusato, estorta spesso con la tortura.
Nel mondo greco le
fonti strettamente storiche (Erodoto, Senofonte, Tucidide) sono scarne e poco
significative per lo studio dell’elemento soggettivo; meglio riferirsi
alle opere filosofiche di Platone e Aristotele, dove si ritrovano non solo le
definizioni di volontarietà e involontarietà ma anche riflessioni
interessanti sulla questione delle tipologie di comportamento non razionali,
così come sulle cause del comportamento umano sbagliato. In particolare
è utile analizzare i riferimenti alla colpevolezza (in particolare alla
nozione di “scelta”) che si possono trovare nell’Etica Nicomachea di Aristotele,
giacchè costituiscono le basi della filosofia aristotelico-tomistica sul
cui fondamento il Cristianesimo si erige[1]:
ed è indubbio il contributo del Cristianesimo alla categoria della
colpevolezza, sviluppatasi attraverso approfondite elaborazioni nella
Canonistica medievale, nella Scolastica, nei Postglossatori e nel
Giusnaturalismo settecentesco, fino al pensiero giuridico moderno.
Nell’antica
Grecia, comunque, i concetti di volontarietà e involontarietà
trovano riconoscimento normativo nella legislazione di Arconte e nel periodo
aureo di Atene e sembrano corrispondere al senso comune.
Numerose sono invece le
fonti normative nel diritto penale romano: anche in questo, peraltro, la
prospettiva di studio dell’elemento soggettivo deve fare leva non solo
sulle fonti giuridiche, dove spesso prevale il senso obiettivo di fatto
illecito, ma anche sulle fonti letterarie, dove si ritrova lo spirito che
animava la materia penale.
Quanto infine
all’oggetto del nostro studio, non ci soffermeremo sui termini
dell’incontro tra le visuali del giurista, dello storico e del filosofo
del diritto. Ci limitiamo a ricordare le parole di un illustre romanista,
Giuseppe Grosso, secondo il quale «l’apertura storica è
essenziale al giurista per acquistare coscienza del suo stesso lavoro, e
rendere questo più sensibile alla individualità degli elementi
con cui opera»[2],
e quelle di un eminente filosofo del diritto, Michel Villey, il quale scrive
che «la riflessione filosofica è lo strumento insostituibile del
progresso del diritto»[3]; e infine poniamo come base la
precisazione di un maestro delle scienze penalistiche, Giacomo Delitala, sulla
diversa ottica di studio degli storici e dei dommatici: mentre allo storico,
nella valutazione di qualsivoglia dottrina, non è consentito prescindere
dalle condizioni di tempo e di ambiente, se non vuole perdere l’intimo
significato della dottrina che studia, ciò è invece consentito al
dommatico[4].
Ultimo e fondamentale,
non va dimenticato che il dolo è sì un istituto che affonda
profondamente le sue radici in categorie pregiuridiche, ma ciò non
significa che il legislatore sia vincolato a dati o criteri
“ontologici”: «definire il dolo significa porre un criterio
normativo di imputazione dell’illecito»[5],
perché su di esso incidono esigenze preventive e aspetti probatori. Un
criterio normativo che non deve però, d’altro canto, far
dimenticare la natura pregiuridica del concetto.
Le informazioni sulla
fase più risalente dell’antica Grecia possono essere tratte
soprattutto dai poemi omerici[6].
Il cittadino deve ricorrere all’auto-difesa, non risulta vi sia interesse
pubblico alla repressione dei reati e si ottiene giustizia per mezzo della
vendetta, personalmente o attraverso i propri congiunti. La differenza tra
fatti colpevoli e incolpevoli rileva solo di fatto, essendo il giudizio sulla
colpevolezza e sull’eventuale perdono rimesso alla vittima o ai suoi
parenti; ma per attribuire il diritto alla vendetta è sufficiente il
verificarsi dell’evento[7].
Peraltro la vendetta è diretta solo all’autore dell’offesa e
non viene coinvolta la sua famiglia.
Ancora più
scarse sono le informazioni sul periodo che dall’epoca eroica porta
all’epoca aurea di Atene. Si ritiene comunque che si verifichi il
passaggio da una situazione di inerzia (disinteresse) statale al contrario
principio della pena pubblica. Ma come e perché si arrivi a questo
mutamento e quali forze sociali abbiano imposto l’affermazione del
principio della pena pubblica rimane oscuro: si può solo presumere
– secondo la dottrina – l’intervento di fattori religiosi[8].
Sull’assassino grava una macchia (μύσος,
μίασμα),
che come una malattia contagiosa aggredisce chiunque venga in contatto con lui:
è perciò necessario allontanare il reo dal luogo dove risiede
l’anima irata dell’ucciso. Lontano dalla patria l’assassino
deve cercare una purificazione e solo dopo un incerto trascorrere del tempo,
svanito il sangue versato, di nuovo può fare ritorno in patria[9].
Le concezioni del
passato condizionano ancora – seppur parzialmente – il diritto
ateniese[10].
Le azioni “penali” sono riservate ai congiunti dell’ucciso,
che hanno anche il diritto di assistere all’esecuzione della pena di
morte e nel caso di omicidio involontario possono determinare la durata
dell’esilio e possono porvi fine[11].
Il diritto alla vendetta è in alcuni casi riconosciuto legalmente, come
nei confronti del ladro notturno e di chi sia sorpreso a recare disonore alla
famiglia[12].
La pena del taglione, riconosciuta solo sporadicamente nell’epoca
più antica, non trova ancora applicazione nel più tardo diritto
ateniese[13].
Ad Atene, in epoca
storica, la purificazione sacrale a cui si è accennato diventa un
surrogato della pena pubblica e si applica all’autore di un omicidio non
doloso: quando la divinità si dichiara soddisfatta, la comunità
può di nuovo intrattenere rapporti con l’omicida. Lo stimolo del
diritto sacrale è fecondo per il diritto laico di Atene: esso regola in
genere la colpevolezza dal punto di vista dell’interesse pubblico, ma
senza trarne per intero le conseguenze, come dimostra la sussistenza in qualche
raro caso della vendetta privata[14].
I Greci, così
come i Romani, non hanno un concetto generale di dolo: paradigma per
l’analisi è dunque la punizione dell’omicidio[15].
L’ipotesi
più grave è rappresentata dal Φόνος
εκούσιος, l’omicidio
volontario, altrimenti citato come Φόνος
έκ προνοίας, omicidio
cioè intenzionale (i tedeschi traducono προνοία con Absicht)[16].
L’autore doloso viene giudicato dal più antico e
“autorevole” tribunale ateniese, l’Aeropago, e viene punito
con la morte e la confisca dei beni. Egli può peraltro, dopo la prima
udienza e ferma la confisca dei beni, rifiutare il giudizio e scegliere la via
di un esilio senza ritorno.
L’omicidio
involontario (Φόνος
ακούσιος) è di competenza
del tribunale del Palladio, che lo sanziona con l’esilio temporaneo
(forse un anno), esilio a cui può essere posto fine dai congiunti
dell’ucciso. Sotto il Φόνος
ακούσιος rientrano sia casi di
interruzione del nesso causale, sia ipotesi da ricondurre al concetto di colpa,
dato che colpa e causalità non vengono allora distinte[17].
Vi sono peraltro casi (citati in Demostene contro Aristocrate, ma anche da
Platone[18])
in cui la responsabilità è del tutto esclusa: il caso della
uccisione non voluta di un avversario durante una gara di combattimento; il
caso dell’uccisione in guerra del compagno scambiato per il nemico;
l’ipotesi del medico che nell’esercizio della propria
attività, senza volerlo, cagiona la morte del paziente. In questi casi
si è sì in presenza di situazioni involontarie, ma il contesto di
base, lecito e, in particolare nel caso del medico, rilevante socialmente, in
cui le azioni si svolgono, “giustifica” gli esiti indesiderati ed
esclude ogni responsabilità. Non viene dunque in questione la
colpevolezza e la possibile colposità dell’errore, ma si tratta
piuttosto di cause di giustificazione (scriminanti). Certamente a queste ultime
è infine da ricondurre l’indubbia esclusione di ogni sanzione
anche nel caso di uccisione per legittima difesa.
Le “regole”
appena esposte non hanno certamente carattere di inderogabilità
né esiste un sistema processuale garantista in cui possano sempre
imporsi. Ciò è dimostrato da un esempio tratto da un discorso di
Antifonte e relativo a un caso di errore: una donna per avvelenare il proprio
coniuge si avvale di un’ancella la quale in buona fede serve un veleno
mortale al coniuge della donna (presentandolo come e) credendolo un filtro
d’amore. Ebbene in questo caso l’ancella viene condannata a morte
(non importa – osserva Löffler – se ciò sia dovuto alla
particolare disciplina del reato di avvelenamento o al fatto che la servitrice
sia straniera)[19].
I processi psichici che
guidano le azioni umane sono caratterizzati in senso socratico nei dialoghi
giovanili di Platone. Socrate però non rende giustizia al fenomeno del
conflitto interno al volere: i comportamenti eticamente riprovevoli trovano la
loro causa nell’inadeguatezza mentale di individui privi di riflessione,
mentre coloro i quali, grazie alla loro conoscenza, si regolano costantemente
su criteri razionali conducono una vita coerente, esente da critiche e lineare[20].
Tutto ciò in linea con lo scopo, proprio dei filosofi antichi, di fare
della filosofia una vera e propria “arte della vita” (technê tou biou o ars vivendi): «la loro idea di
filosofia – si è detto – mira a formare, non meramente a informare»[21].
Lo «statico
ideale di autoperfezionamento psichico» delineato nei dialoghi giovanili
non è certamente idoneo a rappresentare la realtà della vita[22].
Nel Fedro e nella Repubblica si delinea una svolta nel pensiero di Platone. Ora il
filosofo, pur ponendo al centro dell’opera il problema politico, descrive
la struttura dell’anima (così viene tradotta la parola greca Ψυχή) sul
presupposto che la struttura dell’anima di ogni singolo corrisponda a
quella del suo Stato ideale: lo Stato platonico – si afferma infatti
– non è altro che “l’immagine ingrandita dell’uomo”
e formare il “vero Stato”, per Platone, significa formare il
“vero uomo”[23].
Anche l’anima individuale è dunque composta di tre elementi:
istinto, emotività e ragione. Un uomo è giusto quando ognuna
delle tre parti dell’anima adempie alle sue funzioni e di conseguenza
l’elemento razionale, sostenuto dall’emotività, dirige
l’istinto[24].
L’anima, nella
descrizione che Platone ne dà nella Repubblica
e nel Fedro, appare come una
struttura complessa e organizzata in modo dinamico: è la sede della
lotta della persona umana con sé stessa. La spiegazione delle cattive
azioni si radica saldamente in un aspetto essenziale della struttura
dell’anima e dunque il miglioramento di sé si impernia sul
raggiungimento dell’ordine e dell’armonia nella propria anima. La
ragione deve governare, l’elemento spirituale deve dare forza alle
attività dell’anima, la concupiscenza deve essere guidata verso un
appagamento nobile e degno[25].
Mentre però
nella Repubblica l’elevatezza
morale dei cittadini rende inutili leggi e sanzioni penali, queste sono invece
contenute nelle Leggi, ultima
espressione del pensiero politico di Platone[26].
La stabilità dello Stato che Platone immagina nelle Leggi richiede che i cittadini rispettino la legge e le
obbediscano: alla legge si deve però obbedire perché è
buona e non semplicemente
perché è la legge. Perciò la legge definisce e
“forma” il comportamento; essa impone, ma nello stesso tempo
insegna, la giusta condotta[27].
Platone rimane fermo
nel vecchio insegnamento di Socrate che l’uomo ingiusto non è volontariamente
tale, giacchè nessun uomo vorrebbe accogliere nella sua parte più
preziosa, l’anima, il più grande di tutti i mali,
l’ingiustizia[28].
Per Platone morale e religione sono inseparabili, e dunque l’ingiustizia
è insieme immoralità ed empietà[29].
Un’azione
è giusta o ingiusta a seconda che uno operi o meno in modo onesto e con
rette intenzioni nell’arrecare ad altri qualche beneficio o danno (Leggi, IX, 6, 861-862)[30].
Platone individua tre cause che muovono all’ingiustizia: la collera, il
piacere e l’ignoranza (Leggi, IX,
7, 863-864). Da queste, che rappresentano la spinta all’azione, si
distinguono altre cause, le quali invece rendono esente da
responsabilità l’autore: come diremmo oggi, vi sono “cause
che escludono l’imputabilità”, quali la pazzia, l’influenza
di malattie o la tarda vecchiaia, e altre che invece “escludono
l’antigiuridicità”, come la legittima difesa (“se uno
sorprende di notte un ladro, che si introduce nella sua casa, e lo uccide, sia
immune da colpa”) o il procurare involontariamente la morte durante
l’esercizio dell’attività medica (Leggi, IX, 8, 864-865 e IX, 12, 873-875).
Platone afferma che in
tutti gli Stati e da tutti i legislatori vengono considerate due specie di
ingiustizie, quella volontaria e quella involontaria (Leggi, IX, 6, 861). Particolarmente dettagliata è la
disciplina dell’omicidio (e analogamente delle lesioni), basata
soprattutto sui motivi dell’azione (segnatamente con riferimento alla
collera). Il giudizio negativo sul movente contribuisce ad attribuire la qualifica
di volontaria all’azione e la rende pertanto illecita. La
volontarietà dell’omicidio trova movente o nella cupidigia (il
primo e il più grave tra i moventi), o nell’ambizione o infine
nella necessità di nascondere il compimento di certe azioni (Leggi, IX, 10, 869/870). Le sanzioni
sono le più varie, dalla condanna a morte all’esilio, fino al
semplice risarcimento del danno nei casi di omicidio involontario.
I comportamenti umani
che possono avere rilevanza penale sono dunque valutati in tre modi: a) azioni
volontarie, ingiuste, e insieme immorali ed empie, dove l’ingiustizia
deriva anche e soprattutto dall’immoralità del motivo, e che sono
sanzionate duramente; b) azioni involontarie, non meglio specificate, ma che
devono ritenersi non ingiuste, perché rette da un motivo moralmente
apprezzabile e che trovano rimedio nel risarcimento del danno; c) azioni per le
quali è esclusa ogni responsabilità, o per la mancanza di
imputabilità o per la presenza di una causa di giustificazione o perché dovute al caso.
Platone infine tratta
della discrezionalità dei tribunali, indispensabile data
l’infinità dei casi particolari e delle circostanze. Vi è
un punto in cui riconosce necessario affidarsi in ogni caso a essi, cioè
per decidere se il fatto è stato commesso o no: ma per quanto riguarda
le sanzioni, il metodo è quello di offrire ai giudici, mediante schemi e
formule di pene, modelli ed esempi perché non deviino dal sentiero della
giustizia (Leggi, IX, 14, 875-877).
La sistematica di
Platone rispecchia – come appare dal confronto con quanto enucleabile
dalle scarsissime fonti storiche – le concezioni giuridiche del tempo (le
Leggi sono databili intorno al
Nella classificazione
aristotelica del sapere, l’etica costituisce una “scienza
pratica” in quanto esprime un sapere causale[32]:
negli Analitici Posteriori Aristotele
espressamente afferma che si ha scienza “quando si conosce la causa per
la quale una cosa è, e che proprio di tale cosa è causa” (Anal. Post. I, 2, 71 b 9-12). In quanto scienza
pratica essa rivolge il sapere, cioè la conoscenza delle cause, non
già alla pura contemplazione (come le scienze teoretiche quali
matematica, fisica e filosofia prima) né alla produzione (come le
scienze “poetiche”, vale a dire le arti), ma alla prassi,
cioè all’azione.
L’agire umano
è dunque l’oggetto dell’etica[33].
Conformemente all’impostazione realistica della sua gnoseologia, per
Aristotele la specificità del tipo di sapere espresso da una scienza (la
sua natura) si definisce fondamentalmente dall’oggetto che quella scienza
studia. Così, oggetto dell’etica sono le azioni, le quali sono
“realtà che possono essere diverse da quelle che sono”:
l’etica – in quanto scienza causale – studia le determinazioni
in virtù delle quali l’azione si produce. La mancanza di
“stabilità” della prassi è dovuta al fatto che
l’azione, nella sua specifica individualità, è qualcosa di
irripetibile e singolare, perché irripetibili e singolari sono le
circostanze nelle quali essa si compie: le azioni possono essere tutt’al
più simili fra loro ma mai identiche. Il metodo dell’indagine morale è perciò di tipo
induttivo anziché deduttivo, giacchè l’azione nella sua
individualità non può essere dedotta, in quanto ha sempre da
adattarsi alle circostanze, le quali sono imprevedibili nella loro
particolarità. In campo etico la
verità non attiene all’universale, ma al particolare:
«le azioni infatti hanno per oggetto i particolari e la nostra teoria
deve accordarsi con essi» (Eth.
Nic. II, 7, 1107 b 30-34)[34].
«Nel campo di ciò che è oggetto d’azione la
verità si giudica dai fatti e dalla vita, giacchè in questi
risiede l’elemento fondamentale» (Eth. Nic. X, 9,
Dell’etica, quale
scienza della condotta, esistono due concezioni fondamentali: a) la prima
considera l’etica quale scienza del fine cui la condotta degli uomini
deve essere indirizzata e dei mezzi per raggiungere tale fine, e deduce sia i
fini che i mezzi dalla natura dell’uomo; b) la seconda considera
l’etica come la scienza del movente della condotta umana e cerca di
determinare tale movente allo scopo di dirigere o disciplinare la condotta
stessa[35].
Due concezioni variamente intrecciatesi nell’antichità e nel mondo
moderno, ma profondamente diverse. La prima parla infatti il linguaggio
dell’ideale a cui l’uomo è indirizzato dalla sua natura, e
per conseguenza della “natura” o “essenza” o
“sostanza” dell’uomo. La seconda parla invece dei
“motivi” o delle “cause” della condotta umana o delle
“forze” che la determinano e pretende di attenersi al
riconoscimento dei fatti. L’etica di Aristotele costituirebbe il
prototipo della prima concezione e a questa apparterrebbero anche il pensiero
di Tommaso d’Aquino, Fichte, Hegel, Rosmini. La seconda concezione
fondamentale dell’etica, che si ritrova già in Senofonte e nel mito
di Prometeo e che, assente per tutto il Medioevo, viene ripresa solo nel
Rinascimento, si configura come una dottrina del movente della condotta e si
caratterizza perché in essa il bene non viene definito in base alla sua
realtà o perfezione ma solo come oggetto della volontà umana o
delle regole che la dirigono[36].
Questo riferimento alle regole che dirigono la condotta umana ha fatto ritenere
maggiormente compatibile con il diritto penale proprio questa seconda
concezione[37].
Non ci soffermeremo su questa compatibilità, pur osservando che in
entrambe le concezioni sono trattati aspetti essenziali per il diritto penale,
quali i fini, i mezzi e i moventi della condotta umana. Qui ci si
concentrerà solamente sulla psicologia dell’atto morale nella
filosofia aristotelica giacchè in essa si riscontra quella sequenza di
atteggiamenti psicologici che ancora oggi può costituire fondamento
della responsabilità.
Socrate aveva ridotto
le virtù a scienza e a conoscenza e aveva negato che l’uomo
potesse volere e fare volontariamente il male. Platone aveva condiviso questa
impostazione. Aristotele critica Socrate (Eth.
Nic., III, 7, 1113 b, 15 ss. e VII, 3, 1145 b, 25 ss.) per avere negato
l’esistenza di veri e propri casi di debolezza del volere o di
intemperanza (akrasia) e supera
questa interpretazione intellettualistica del fatto morale aggiungendo – aspetto questo essenziale per la storia della
responsabilità, anche penale – alla
rappresentazione la volizione[38].
Egli, da buon realista, si rende conto che altro è conoscere il bene,
altro è attuarlo e realizzarlo, «farlo, per così dire,
sostanza delle proprie azioni», e dunque cerca di determinare più
da vicino quali siano i complessi processi psichici che l’atto morale
presuppone[39].
L’importanza di
Aristotele nello storia e nello studio dei processi psichici che guidano le
condotte umane viene attestata dai penalisti tedeschi di fine ottocento. In
particolare Löffler rileva come Aristotele sia stato il primo a postulare
l’indeterminismo come presupposto di ogni giudizio etico sulle condotte
umane: la volontà (Wille)
può costituire fondamento di un giudizio di valore etico, solo se libera
(frei). Ad Aristotele viene
riconosciuto un ruolo fondamentale nella storia della colpevolezza: «Eine vollkommene Ausbildung fand die Schuldlehre
jedoch erst in der Ethik des Aristoteles» (“
Aristotele studia il
come e si chiede il perché delle azioni umane: dalla sua etica derivano
gli strumenti non solo per osservare ma anche per comprendere il fenomeno
criminoso[42].
La suitas della condotta, la coazione
morale, l’imputabilità, il momento conoscitivo e volitivo del
dolo, l’intenzionalità del comportamento, la nozione di scelta,
l’errore sul fatto e quello sul precetto sembrano trovare proprio nella
filosofia di Aristotele gli elementi primordiali, ma già raffinatamente
sviluppati, seppure in un’ottica spesso di imputazione morale (e dunque
di biasimo) più che giuridica (e dunque di punizione)[43].
Per Aristotele ogni
oggetto naturale ha un principio interno. Il principio dell’azione
risiede nel soggetto (Eth. Nic., III,
7, 1113 b 30): il che spiega l’efficacia delle leggi, dei premi e dei
castighi. Il funzionamento dell’intelletto è analogo a quello
della sensibilità. L’anima intellettiva riceve le immagini
così come i sensi ricevono le sensazioni: il suo compito è di
giudicarle vere o false, buone o cattive, e, a seconda del modo in cui le
giudica, le approva o le disapprova, le desidera o le sfugge.
L’intelletto è, quindi, la capacità di giudicare le
immagini fornite dai sensi (De an., III,
7,
Aristotele dedica
dunque una dettagliata attenzione alle questioni della responsabilità
morale e giuridica. La nozione che esprime questa attenzione è quella di
“volontà”, conformemente alla tradizione storica, che, come
abbiamo notato, assume come prima distinzione di valore (insieme etico,
religioso e giuridico) quella tra comportamenti volontari e comportamenti
involontari.
Oggi la nozione di
volontà ha un significato differente nelle varie scienze cognitive. Anche
nel diritto penale il riferimento alla volontà è contenuto con
diversi significati in più istituti: in tema di attribuibilità
dell’azione od omissione (la c.d. suitas)
nell’art. 42 comma 1 c.p., a proposito del dolo nell’art. 43 comma
1 c.p. e infine riguardo all’imputabilità nell’art. 85 c.p.
Non potendo qui affrontare il difficile tema della definizione di
volontà nelle diverse scienze cognitive, adottiamo come termine di
confronto con le tesi aristoteliche la nozione che pone a questo riguardo,
confrontandola con la filosofia antica, il filosofo tedesco Horn: «la
volontà indica l’istanza decisionale in base alla quale stabiliamo
la concezione di responsabilità e di imputabilità giuridica e
alla quale facciamo risalire gli adempimenti morali o la colpa. La
volontà è una facoltà che compete all’io, non
irrazionale; ed è una facoltà, che può causare
spontaneamente un evento. Parliamo di una volontà buona e di una cattiva
sempre in riferimento alla bontà della motivazione, che risulta decisiva
in funzione dell’agire; di conseguenza giudichiamo la qualità di
un comportamento in base alla dignità dell’intenzione che a essa
soggiace. Inoltre si tratta di una facoltà che può operare
arbitrariamente. La volontà permette, a prescindere dalla convinzione di
dover accordare la propria preferenza a ciò che è migliore, di
scegliere ciò che è peggiore, o anche di agire, un attimo dopo,
in maniera diversa da come si è fatto. Questo non significa
assolutamente che essa sia irrazionale. Piuttosto si mantiene neutrale rispetto
all’alternativa tra razionalità e irrazionalità. Peculiare
della volontà è solamente la ponderatezza o perfino la coscienza
di un’intenzione, non la sua razionalità»[45].
Questa definizione, che sembra attagliarsi anche alla dimensione volitiva del
dolo in diritto penale[46],
si suppone risalga originariamente alla tradizione giudaico-cristiana[47].
Non sarebbe tuttavia giusto – si afferma – ritenere che
l’antichità non conosca il problema della responsabilità,
della imputabilità giuridica e dell’attribuzione di colpa[48].
Ed è proprio Aristotele ad affrontare il tema della volontà quale
fondamento della responsabilità morale e giuridica.
Nelle opere
aristoteliche per indicare la volontà vengono utilizzati tre concetti: έκούσιον,
προαίρεσις e
βούλησις.
Con il concetto di έκούσιον,
Aristotele indica quei fatti che hanno un agente razionale come principio,
padrone o causa; l’agire è έκούσιον
quando l’autore del fatto avrebbe potuto, altrettanto bene, astenersi
dal realizzarlo, quando cioè non è stato costretto a comportarsi
in quel modo da influenze esterne o interne. Il concetto di έκούσιον
rappresenta, come vedremo, la base dell’agire ingiusto e designa solo
la mancanza di coercizione, non la consapevolezza di un’azione, tanto che
si ritiene che questa espressione richiami il concetto di spontaneità
anzichè quello di volontarietà. Secondo Abbagnano
l’aggettivo spontaneus non
è che la traduzione latina di έκούσιος,
e significa «libero»[49].
Leibniz, che introdusse il termine nel linguaggio filosofico moderno, ne indica
così l’origine e il significato: «Aristotele ha ben definito
la spontaneità dicendo che un’azione è spontanea quando il
suo principio è in colui che agisce. Spontaneum
est cuius principium est in agente. Ed è così che le nostre
azioni e le nostre volontà dipendono interamente da noi» (Théod., III, § 301).
Il concetto di έκούσιον
sembra avvicinarsi alla “coscienza e volontà dell’azione od
omissione” che rappresenta la base minima per l’imputazione
soggettiva (penale) secondo il nostro art. 42 comma 1 c.p. Il codice attuale,
secondo quanto enuncia la sua Relazione (n. 59), recepisce il concetto classico
di azione (inteso qui in senso lato, come sintesi di azione in senso stretto e
di omissione, cioè come condotta) secondo il quale l’azione
sarebbe un comportamento dominato (o dominabile) dalla volontà
dell’uomo (concetto naturalistico o causale di azione)[50].
La nozione aristotelica
che più si avvicina al concetto di volontà come “istanza
decisionale”, di cui parla Horn, è quella di προαίρεσις.
Aristotele distingue la
“deliberazione” (βούλησις)
dalla “scelta” e di questa (προαίρεσις)
analizza per primo in modo esauriente il concetto[51].
L’analisi è contenuta nell’Etica Nicomachea, dove Aristotele considera elemento costitutivo
della definizione di virtù etica la nozione di «scelta»[52].
La virtù – dice infatti Aristotele – «è una
disposizione che orienta la scelta» (Eth.
Nic., II, 6, 1106 b 36)[53].
La nozione di scelta rappresenta l’appartenenza piena dell’atto al
soggetto e presuppone i concetti di volontario (τό έκούσιον) e
involontario (τό
άκούσιον), essendo la scelta un
atto volontario, rientrante quindi nell’ambito di questa nozione, pur
avendo un’estensione minore[54].
Nella filosofia
aristotelica la colpevolezza non costituisce solo presupposto della
responsabilità ma è anche criterio di misura della pena, non
decide solo dell’an ma anche
del quantum della
responsabilità. La distinzione odierna tra colpevolezza come elemento
del reato (Strafbegründungsschuld),
che decide cioè della sussistenza della responsabilità (penale),
e colpevolezza per la commisurazione della pena (Strafzumessungsschuld), che decide invece della misura della pena
nel caso concreto[55],
trova una prima espressione già in Aristotele. La differenza tra atto
volontario e atto involontario incide infatti sul profilo sanzionatorio. La
differenza tra il volontario e l’involontario porta Aristotele a
sottolineare che la giustizia si può realizzare non solo attraverso la
reciprocità ma anche per mezzo della proporzione, di una giustizia cioè
correttiva (Eth. Nic. V, 8, 1132 b
30)[56].
Mentre per i Pitagorici la giustizia si fonda sulla reciprocità
semplice, Aristotele accoglie sì l’idea della reciprocità,
ma asserisce che essa deve fondarsi su una proporzione, deve cioè
consistere in una restituzione proporzionale all’entità di quanto
si è ricevuto. La giustizia correttiva esige dunque che si valuti
– tra gli elementi di commisurazione della sanzione – la
volontarietà o meno dell’atto che ha provocato il danno. Questo
tipo di giustizia corrisponde – osserva lo Stagirita – al comune
modo di intendere degli uomini ed è riscontrabile nella vita della polis[57].
Quanto alla
finalità e all’efficacia della pena, Aristotele fa inoltre una
importante considerazione specialpreventiva: il biasimo e la punizione sono
ritenuti appropriati solo quando, agendo sui desideri della persona, possono
produrre dei cambiamenti nella sua condotta futura[58].
Involontario (τό
άκούσιον) e dunque non ingiusto
– chiarisce poi il filosofo – è ciò che si compie per
costrizione o per ignoranza (Eth. Nic.,
III, 1, 1109 b 34 ss.).
Un atto è
compiuto per costrizione «quando il suo principio è fuori dal
soggetto, tale essendo l’azione nella quale chi agisce o chi subisce non
ha nessun concorso: ad esempio se il vento lo porti da qualche parte, o uomini
lo tengano in loro potere» (Eth.
Nic., III, 1,
La definizione
dell’involontarietà dovuta a ignoranza è più
complessa[60].
In primo luogo richiede la distinzione tra “involontarietà”
e “non-volontarietà”.
Un atto compiuto per
ignoranza è sempre “non-volontario”, in quanto il soggetto
non sa quello che effettivamente fa e cagiona un esito diverso dalle sue
intenzioni; ma per essere “involontario” è necessario che
egli provi dolore per quell’esito, giacchè soltanto a questa
condizione l’estraneità dell’atto all’intenzione
dell’agente è completa (Eth.
Nic., III, 2, 1110 b 17-18).
In secondo luogo va
distinto l’atto compiuto “per ignoranza” (causato cioè
dall’ignoranza) da quello compiuto “nell’ignoranza”.
Ricorrendo alla terminologia odierna: il primo è un errore di fatto e
scusa (esclude il dolo), il secondo è un errore di diritto e non scusa.
Compiuto “per ignoranza” è l’atto
nel quale il soggetto ignora le condizioni particolari in cui si compie: tali
condizioni sono «chi agisce, che cosa compie, l’oggetto e
l’ambito in cui agisce e talvolta anche il mezzo (per esempio con quale
strumento), il risultato (per esempio la salvezza) e il modo (per esempio
dolcemente o con forza)» (Eth.
Nic., III, 2,
Compiuto invece “nell’ignoranza” è
quell’atto nel quale il soggetto ignora la regola di condotta: siffatta
ignoranza non è causa dell’involontarietà del suo atto,
bensì di malvagità. L’ignoranza della regola inficia
l’intenzione, ma non la decisione di prendere una certa iniziativa:
proprio il carattere ancora volontario dell’atto rende plausibile la sua
colpevolezza. Aristotele non ritiene che l’ignoranza delle regole di
condotta sia una scusante: l’agente può infatti essere punito per
ciò che fa in condizione di ignoranza, se egli stesso è
responsabile della sua ignoranza. E’ pertanto giusto punire coloro
«che ignorano qualcosa prescritto nelle leggi, che si debba e non sia
difficile sapere. Parimenti anche negli altri casi, quando è evidente
che l’ignoranza deriva da negligenza, in quanto è in
facoltà dei colpevoli il non essere ignoranti: essi infatti sono padroni
di prendersene cura» (Eth. Nic., III,
5, 1113 b 30 e
I chiarimenti su
ciò che è “involontario” (τό άκούσιον)
permettono per converso di definire ciò che è
“volontario” (τό
έκούσιον). «Poiché
involontario è ciò che si compie per costrizione e per ignoranza,
si converrà che volontario è ciò il cui principio risiede
nel soggetto, il quale conosce le condizioni particolari in cui si svolge
l’azione» (Eth. Nic., III,
3,
La “scelta”
(προαίρεσις),
come già accennato, è sì infatti qualcosa di volontario,
ma non si esaurisce in questa dimensione[66].
La nozione di volontario (τό
έκούσιον) è cioè
più estesa di quella di scelta, e ne costituisce il genere.
Nell’ambito di questo genere ciò che specifica la nozione di
“scelta” è che essa comporta una deliberazione preventiva,
che di per sé – secondo Aristotele – non appartiene
all’atto volontario in quanto tale; così, egli afferma, «del
volontario partecipano anche i fanciulli, delle scelte deliberate no. Inoltre
le cose che si compiono in modo immediato diciamo che sono involontarie»
(Eth. Nic., III, 4, 1111 b 8-10). Si
possono volere (desiderare) anche cose impossibili, ma non le si può
scegliere, così come si possono volere (desiderare) cose che non
dipendono dal soggetto, ma non le si può scegliere.
La scelta contiene sia
un profilo conoscitivo sia un profilo volitivo. Essa implica sempre un
ragionamento e una riflessione sulle cose e sulle azioni che dipendono da noi e
che sono realizzabili. Questo tipo di ragionamento e di riflessione viene
chiamato da Aristotele βούλευσις
(deliberazione). La differenza aristotelica tra βούλευσις e προαίρεσις
(tra deliberazione e scelta) viene così descritta: «la prima
stabilisce quali e quanti siano le varie azioni e i vari mezzi che bisogna mettere
in atto per raggiungere certi fini: stabilisce cioè tutta la serie delle
cose da realizzare per arrivare al fine, da quelle più remote a quelle
più prossime e immediate; la seconda agisce su queste ultime e le scarta
se irrealizzabili, le mette in atto se le trova realizzabili»[67].
La scelta è dunque l’ultimo
passaggio nella psiche del soggetto (dall’an al quomodo, potremmo
dire), l’essenza della responsabilità.
La deliberazione ha per
oggetto le cose che possono essere diversamente da quello che sono e che sono
oggetto di azione (Eth. Nic., III, 5,
Ulteriori caratteri
della nozione aristotelica di “scelta” si ricavano dalle differenze
con altri concetti. Distinguendo questa nozione dalle forme di
“desiderio” (brama e impulsività), Aristotele indica che
oggetto della brama è ciò che è piacevole o doloroso,
mentre oggetto della scelta è «ciò che è moralmente
utile e bello»; nulla a che vedere neppure con
l’impulsività, perché chi agisce impulsivamente non agisce
per scelta deliberata. Altri elementi del concetto di προαίρεσις si
possono trarre dalla differenza con la nozione di “opinione” (δόξα): oggetto
dell’opinione è ogni realtà, anche quelle eterne e
immutabili, sulle quali non è possibile scegliere, la scelta invece
concerne solo le cose possibili[71];
l’opinione si distingue in vera e falsa, la scelta in buona e cattiva; il
professare opinioni non determina la qualità etica del carattere, lo
scegliere cose buone o cattive sì; l’opinione non concerne il
seguire o il fuggire il bene e il male, ma la conoscenza della loro natura, la
scelta riguarda invece il perseguirli o il fuggirli; infine il valore
dell’opinione è dato dalla verità del suo rapporto con
l’oggetto, il valore della scelta è dato dalla conformità
del suo oggetto al dovere.
Si chiarisce pertanto
la dinamica del compimento dell’atto virtuoso, al quale la scelta
“è cosa molto affine” (Eth.
Nic., III, 4, 1111 b 6) dato che tale atto consiste in una scelta
moralmente buona. Lo stesso vale ovviamente per l’atto vizioso, che ha
luogo quando il fine moralmente malvagio indicato dalla volontà trova
espressamente, nel giudizio della deliberazione, i mezzi per essere conseguito.
L’atto virtuoso è dunque una scelta virtuosa, così come
l’atto vizioso è una scelta viziosa: si tratta di scelte
deliberate per la realizzazione rispettivamente di un fine moralmente buono
oppure malvagio. Fuori di questa strutturale e costitutiva unità di
mezzi e fini l’atto non ha luogo. «Il principio dell’azione morale è la scelta (…)
ed i principi della scelta sono il desiderio e il calcolo indirizzato a un
fine. Per questo la scelta non è senza intelletto e pensiero; né
senza una disposizione morale. Infatti la condotta buona e il suo contrario
nella prassi non esistono senza pensiero e senza carattere» (Eth. Nic., VI, 1,
«Sono dunque tre
– secondo Aristotele – i tipi di danno che possono verificarsi
nella comunità. Quelli che sono accompagnati da ignoranza sono degli
errori, come quando si agisce senza che la persona che subisce l’azione o
ciò che si fa o il mezzo o il fine siano quelli che si supponeva:
infatti o non si credeva di colpire o non con questo strumento o non questa
persona o non con questo scopo, ma le cose sono andate in modo diverso dallo
scopo che si pensava di raggiungere (per esempio, si è colpito non per
ferire ma solo per pungere, e non quest’uomo o con questo strumento). Insomma,
quando il danno ha luogo contro ogni previsione, però senza malizia, si
ha un errore (si commette un errore infatti quando il principio
dell’imputazione risiede nel soggetto; si ha invece una disgrazia quando
risiede fuori del soggetto). Quando poi ha luogo consapevolmente, ma senza una
deliberazione precedente, si ha un’azione ingiusta: ad esempio le azioni
che si compiono per collera o per quante altre passioni, necessarie o naturali,
sopraggiungono all’uomo[72].
Causando infatti questi danni e commettendo questi errori si agisce
ingiustamente, e si tratta di azioni ingiuste, ma tuttavia per esse non si
è ancora ingiusti né malvagi: infatti il danno non è
dovuto a malvagità. Quando invece l’azione deriva da una scelta
deliberata si è ingiusti e malvagi» (Eth. Nic., V, 10, 1135 b 10 ss.)[73].
Aristotele lascia come
eredità il concetto che la virtù e la malvagità dipendono
solo dagli uomini, che l’uomo è responsabile delle proprie azioni,
causa dei suoi stessi abiti morali, che cioè in esso risiede qualcosa da
cui dipende essere buoni o cattivi[74].
Cosa sia questo qualcosa, si ritiene non abbia saputo determinarlo, non abbia
cioè saputo correttamente definire la vera natura della volontà e
del libero arbitrio: «l’uomo occidentale capirà che cosa
siano la volontà e il libero arbitrio solo attraverso il
Cristianesimo»[75].
Il concetto della
volontà come «principio
dell’azione in generale» già prefigurato da Platone e
Aristotele viene esposto compiutamente da S. Agostino, per il quale «la
volontà è in tutti gli atti degli uomini, anzi tutti gli atti
nient’altro sono che volontà» (De Civ. Dei, XIV,6)[76].
Al diritto penale
però interessa, per l’attribuzione della responsabilità,
non solo la volontà come «principio dell’azione in
generale»[77],
quella che nel pensiero aristotelico rientra nel concetto di έκούσιον
e nell’attuale diritto penale nella nozione di coscienza e
volontà della condotta (la c.d. suitas)
ma anche e soprattutto la volontà come «scelta», come
«principio razionale
dell’azione»[78],
quella cioè che Aristotele definisce nel De Anima (III, 10, 433a, 23) «l’appetizione che muove
in conformità di ciò che è razionale» e nell’Etica Nicomachea (III, 3, 1113a, 10)
«l’appetizione volontaria delle cose che dipendono da noi»:
la scelta si inserisce in una sequenza logica e psicologica che parte dal
desiderio, prosegue con la volontà e con la deliberazione e si conclude
con la scelta stessa. Nella nozione di προαίρεσις,
cioè di «scelta»,
si esprime il senso pieno dell’appartenenza dell’atto al soggetto,
il profilo conoscitivo e quello volitivo, e dunque la forma tipica di
responsabilità (di colpevolezza), l’essenza del dolo: la scelta esprime la sintesi tra
deliberazione e azione.
Il pensiero di
Aristotele è la più compiuta espressione e quasi una sintesi
della filosofia classica. Oggi si afferma che chiunque abbia tentato
qualsivoglia asserto di carattere meta-settoriale e meta-empirico, si è
ritrovato (e si ritrova anche oggi) a muovere categorie, che per diretta
filiazione o per dialettica e mediata trasformazione e contrapposizione,
derivano da Aristotele e da quella filosofia classica che in lui trova la forma
più compiuta[79].
Talora forse inconsapevolmente, ciò è avvenuto anche nel diritto
penale, quando dal mero fatto materiale si è risaliti all’autore,
alla coscienza e volontà della sua azione od omissione, alla sua
capacità di intendere e di volere, alle sue motivazioni, alle sue
finalità e in particolare al suo atteggiamento psicologico (dolo ed
errore) nei confronti del fatto stesso: il momento intellettivo e il momento
volitivo trovano la propria cerniera nel momento della scelta (προαίρεσις),
ultimo atto significativo che si compie nella psiche dell’agente prima di
passare all’azione (o all’omissione), concetto che per primo fu
enucleato da Aristotele e che ha segnato il pensiero filosofico.
Gli Stoici aderiscono a
questo concetto della volontà come scelta e la definiscono
«appetizione razionale» (Diogene
Laerzio, VII, 116). A questa nozione si riferisce Cicerone quando sostiene
che «la volontà è un desiderio conforme a ragione, mentre
il desiderio che è opposto alla ragione o troppo violento per essa
è la libidine o la cupidigia sfrenata che si trova in tutti gli stolti»
(Tusc., IV, 6, 12). Lo stesso concetto
della volontà come scelta è proprio di Seneca, e in particolare
della dottrina stoica dell’assenso (synkatathesis),
termine che descrive una sensazione o una disposizione d’animo che
nascono da un impulso (impetus), ma
devono poi essere oggetto di una comprensione concettuale mediante
l’assenso, cioè tramite un atto di giudizio (iudicium). Questo passaggio è descritto così nel de Clementia (II, 2, 2): “ut quod nunc natura et impetus est fiat
iudicium”. Questa dottrina prevarrà per tutto il Medioevo: la
ripetono infatti Alberto Magno (S. Th., I,
q.
La nozione di scelta
come essenza della colpevolezza sembra trasparire anche oggi nella
importantissima sentenza della Corte costituzionale (24 marzo 1988, n. 364),
che ha affermato definitivamente la costituzionalizzazione del principio di
colpevolezza, riconoscendo che responsabilità «personale», a
norma dell’art. 27 comma 1 Cost., è sinonimo di
«responsabilità per fatto proprio colpevole»[83].
Ebbene, in questa sentenza si legge fra l’altro: «Il principio di
colpevolezza è pertanto indispensabile appunto anche per garantire al
privato la certezza di libere scelte d’azione: per garantirgli,
cioè, che sarà chiamato a rispondere penalmente solo per azioni
da lui controllabili e mai per comportamenti che solo fortuitamente producano
conseguenze penalmente vietate»[84].
Disponendo che «nessuno può invocare a propria scusa
l’ignoranza della legge penale», l’art. 5 c.p. sanciva la
responsabilità, tra l’altro, di chi, ignorando senza colpa che la
sua azione avrebbe violato un precetto penale, non era in grado di scegliere
tra il rispetto e la violazione del precetto penale[85].
La decisione della Corte pone invece oggi il principio che l’ignoranza
inevitabile della legge penale esclude il rimprovero di colpevolezza,
perché il soggetto non è in grado di ravvisare quali
comportamenti sono vietati e dunque di orientare la sua azione e compiere una
scelta. La piena, particolare compenetrazione tra fatto e persona implica che
siano sottoposti a pena soltanto quegli episodi che, appunto personalmente,
esprimano il riprovevole contrasto (o indifferenza) con i valori della
convivenza espressi dalle norme penali: l’obbligo di non ledere i valori
penalmente garantiti richiede dunque la partecipazione volitiva del singolo
alla realizzazione del reato[86].
Sempre nella decisione della Corte si legge che «il legislatore
costituzionale intende garantire ai cittadini, attraverso la possibilità
di conoscenza delle norme penali, la sicurezza giuridica delle consentite,
libere scelte di azione»[87].
La possibilità di conoscenza intende dunque
garantire la possibilità di scelta. Non si richiede l’effettiva
conoscenza, per quanto teoricamente sostenibile, perché una simile
pretesa valorizzerebbe unilateralmente il principio di colpevolezza, relegando
in secondo piano le esigenze di prevenzione generale e di tenuta complessiva
dell’ordinamento penale[88].
La conoscibilità del precetto penale, essendo un dato psicologicamente
soltanto potenziale, è dunque strutturalmente estranea al dolo, che
consta di coefficienti psicologici effettivi, e rappresenta invece un requisito
ulteriore e autonomo di colpevolezza. Viene in tal modo accolta la c.d. teoria
della colpevolezza (Schuldtheorie),
la quale assume la coscienza dell’antigiuridicità come elemento a
sé stante della colpevolezza, cosicché vi può essere dolo
(in quanto altro elemento a sé stante della colpevolezza) anche se manca
tale coscienza, in caso di ignoranza o errore evitabile sul divieto[89].
Al dolo non inerisce
dunque la coscienza dell’antigiuridicità: il soggetto può
essere in dolo anche quando non opera alcuna scelta per l’illecito
perché la sua ignoranza dell’illiceità penale è
evitabile, è dovuta cioè a sua colpa.
La «libera scelta d’azione», che
costituisce – secondo questa sentenza – il primo presupposto della
responsabilità (penale) è concetto che può essere riferito
non solo alla scelta per l’illecito, ma anche e prima alla volontà
come “principio dell’azione in generale”, e poi soprattutto
alla rappresentazione e volizione del fatto (tipico)[90],
pur essendo chiaro che quest’ultimo riferimento si attaglia alla forma
originaria di responsabilità penale, a quella cioè dolosa,
piuttosto che a quella colposa. Oggetto di questa libera scelta d’azione
devono essere, perlomeno, gli elementi più significativi della
fattispecie, identificati dalla Corte costituzionale, in un’altra
sentenza (la 1085/88), in quelli che concorrono a contrassegnare il disvalore
della fattispecie[91],
e dalla dottrina in tutti gli elementi significativi, o meglio
“fondanti”, rispetto all’offesa e alla riconoscibilità
del fatto quale illecito[92].
A conferma dell’aggancio della significatività a un dato qualitativo
come l’offesa (lesione o messa in pericolo) dell’interesse protetto
vale la seguente definizione di «fatto», oggetto del dolo:
«il fatto è l’insieme degli elementi oggettivi che
individuano e caratterizzano ogni singolo reato come specifica forma di offesa
a uno o più beni giuridici»[93].
Le decisioni della
Corte costituzionale che affermano il principio di colpevolezza si inseriscono
appieno nella logica del momento rappresentativo del dolo, cioè nel
rimproverare al soggetto di avere avuto ben chiaro dinanzi agli occhi il fatto
antigiuridico e di non essersi lasciato trattenere da quella rappresentazione
ammonitrice[94].
Perché il momento intellettivo si proponga davvero quale “zoccolo
duro del dolo”, quale “filtro razionale senza cui non può
darsi un volere consapevolmente indirizzato”[95],
perché funzioni insomma come elemento per orientare la scelta, è
necessario il rispetto del principio di colpevolezza quale fissato dalla Corte
costituzionale. Se allora si può prescindere dalla scelta per
l’illecito quando il soggetto si è messo colpevolmente in stato di
ignoranza, non è invece possibile prescindere dalla scelta per la
dannosità del fatto, concepita in una dimensione sostanziale-concreta.
Questa libera scelta di
azione si esprime appieno quando il soggetto conosce come certi gli elementi
del fatto e prevede come sicuro che il suo comportamento realizzerà il
fatto di reato, dato che chi agisce in questa situazione vuole la conseguenza
(ritenuta) certa e necessaria della sua condotta; alla cognizione certa deve
poi equipararsi, data l’impossibilità di ogni distinzione, la
rappresentazione del fatto come altamente probabile. La nozione di
responsabilità penale (id est colpevolezza)
legata all’idea di scelta non solo trova naturale e logica conferma nel
dolo diretto e in quello intenzionale (in cui il fatto che costituisce reato
è addirittura preso di mira come scopo dall’agente) ma offre
altresì un criterio di comprensione della forma di dolo dai confini
più incerti[96],
il dolo eventuale, nel quale l’agente si rappresenta come (concretamente
e seriamente) possibili gli elementi del fatto e dunque ritiene solamente
possibile che il suo comportamento realizzerà il fatto di reato.
L’idea del dolo come scelta si può riferire al dolo eventuale a condizione
che lo si intenda però come non come dolo di pericolo ma come accettazione dell’evento: tra
l’agire e il non agire (o comunque tra l’agire così o
l’agire diversamente) si sceglie di
agire, pur consapevoli delle seriamente possibili conseguenze dannose
collaterali ulteriori e accettando pure l’eventualità che tali
conseguenze collaterali effettivamente si realizzino.
Nell’ottica
dell’idea di scelta vengono in considerazione non le teorie che per
definire la struttura del dolo eventuale accentuano il momento rappresentativo,
ma quelle che a tal fine puntano sul momento volitivo. La struttura del dolo
eventuale non è diversa da quella delle altre forme di dolo. Il momento
conoscitivo consta della previsione da parte dell’agente della concreta
possibilità del verificarsi dell’evento lesivo. Questo è
però il requisito che fa da base all’essenziale momento volitivo e
non è sufficiente ai fini della configurabilità del dolo
eventuale, come invece ritiene la teoria della possibilità, secondo la
quale agisce già dolosamente chi prevede la concreta possibilità
di provocare la lesione di un bene giuridico e ciononostante agisce ugualmente,
e la teoria della probabilità (che rappresenta una variante della
prima), secondo cui sarebbe necessaria nell’agente una rappresentazione
della verificazione dell’evento in termini di probabilità.
Possibilità e probabilità di verificazione dell’evento
sono, oltre che requisiti-base per la volizione, elementi essenziali in sede di
accertamento dell’elemento volitivo, ma non possono descrivere
l’essenza del dolo, costituita dal momento volitivo e in particolare, per
noi, dalla scelta. Questa indagine quantitativa è utile per fornire
indizi sulla presenza del dolo, così come a tal fine sono utili altri
criteri pure proposti come indicativi dell’essenza del dolo eventuale:
così per la teoria della operosa volontà di evitare, dove la
predisposizione o meno di misure volte a ostacolare l’evento può
fungere da orientamento in sede di accertamento, e così anche per le
c.d. formule di Frank[97].
A maggior ragione
insufficienti per descrivere il dolo eventuale sono le c.d. teorie emozionali,
incentrate su un atteggiamento interiore dell’agente espresso in varianti
terminologiche quali “approvazione”, “consenso”,
“indifferenza”, “fiducia”, “speranza”,
“desiderio”, ecc. Tutte queste espressioni indicano atteggiamenti
psicologici ancora lontani da quella scelta consapevole per l’offesa del
bene giuridico che rappresenta l’oggetto del rimprovero di colpevolezza:
si tratta di elementi interni alla psiche dell’agente che semplicemente
possono contribuire a fondare la scelta stessa, possono cioè “far
muovere la volontà” ma non sono essi stessi
“volontà”.
Il dolo eventuale non
può fare a meno del momento volitivo: anzi, esso è ancor
più necessario, dato che la verificazione dell’evento non è
il fine immediato dell’agente e che egli non si rappresenta come certa la
realizzazione del fatto. E’ necessaria un’appropriazione del fatto
e questa appropriazione si ha con una presa di posizione, con una decisione,
con una volizione, insomma con una scelta. Nella dottrina italiana
l’attenzione sul momento volitivo nel dolo eventuale è comunemente
affermata e talora questo momento viene espresso proprio con il termine
“scelta”. Già Delitala affermava che «l’atto di volontà è atto
di elezione, atto di scelta, e in tale scelta i risultati non desiderati sono
stati, se previsti, sicuramente messi in conto, poiché rappresentano il
costo del conseguimento del fine perseguito dall’agente»[98].
E ancora oggi nei manuali di diritto penale si afferma che «è necessario … che
l’atteggiamento interiore manifestato dal soggetto si avvicini il
più possibile ad una presa di posizione della volontà capace di
influire sullo svolgimento degli accadimenti»[99],
oppure si parla di una “presa di
posizione”, di una “scelta
di volontà”, orientata nel senso della lesione del bene
tutelato[100],
o ancora, ultimamente, si ritiene sussistente il dolo (eventuale) in tutti e
soli i casi in cui la rappresentazione dell’evento come possibile pone
l’agente in una condizione psicologica tale per cui la scelta di agire per la realizzazione del
proprio obiettivo possa ritenersi consapevolmente fatta “a costo”
della realizzazione dell’evento delittuoso, effettivamente
(ancorché in termini di mera possibilità) rappresentato come
connesso alla propria scelta d’azione[101].
Nell’ottica della scelta come fondamento
della responsabilità dolosa, va segnalato che, dopo che già
Engisch aveva evidenziato la «presa
di posizione dell’agente rispetto al mondo dei beni giuridici»[102],
la teoria che consente la «collocazione del dolo nel più intimo
del soggetto agente» viene ritenuta (da Hassemer) quella del dolus eventualis come «decisione a favore della possibile offesa di
un bene giuridico» («Entscheidung
für die mögliche Rechtsgüterverletzung»)[103].
La migliore sintesi tra consapevolezza, volontà e decisione (e un
richiamo espresso alla «scelta»)
è offerta da chi ritiene che la maggiore meritevolezza di pena del dolo
rispetto alla colpa non dipenda soltanto dalla circostanza che il reo doloso
abbia considerato le eventuali conseguenze della propria condotta, ma in
più e soprattutto dalla sua «ponderata
scelta di agire» in seguito a tale valutazione[104].
Nella dottrina italiana
un riferimento espresso al momento della scelta è contenuto
nell’opera di Prosdocimi sul dolo eventuale. Secondo l’Autore,
posto che sia nelle ipotesi di dolo eventuale che di colpa con previsione si
é in presenza di un evento (non perseguito intenzionalmente dall'agente
e) previsto come possibile, la distinzione tra queste due forme di colpevolezza
andrà ricercata non già sul piano della previsione ma sul piano
della volizione. Così, si avrà dolo eventuale quando il rischio
viene accettato a seguito di un’opzione,
di una deliberazione con la quale l'agente consapevolmente subordina un
determinato bene ad un altro, cioè, possiamo aggiungere, di una scelta:
vi é la chiara prospettazione di un fine da raggiungere, di un interesse
da soddisfare, e la percezione del nesso che può intercorrere tra il
soddisfacimento di tale interesse e il sacrificio di un bene diverso; l'agente
compie anticipatamente (sia pure in modo rapido) un bilanciamento degli
interessi (suoi e altrui) in gioco e l'evento collaterale viene considerato
come prezzo (eventuale) da pagare per il raggiungimento di quel determinato
risultato[105].
In questo modo anche il dolo eventuale diventa espressione di una “volontà pianificatrice”
coerente con la definizione del delitto doloso (“secondo
l’intenzione”) fornita dall’art. 43 c.p.[106].
Il diritto penale
romano pone anzitutto il problema dell’autonomia concettuale e
scientifica della materia. Già Mommsen nella prolusione zurighese del
1852 osserva che il diritto penale è, per sua stessa natura, più
di ogni altro diritto soggetto alle leggi del mutamento secondo i tempi[107].
Ciò induce Mommsen a una scelta metodologica in cui sistema e storia
cercano faticosamente di trovare un giusto equilibrio: il diritto penale assume
pertanto una posizione mediana (Zwischenstellung)
tra storia e sistema[108].
Nell’elaborazione
giurisprudenziale romana non trova mai riconoscimento un complesso di norme e
di istituti unitariamente raccolto dalla scienza giuridica romana sotto la categoria
“diritto penale”, separato da altri sistemi di riferimento (ius civile, ius honorarium, ius privatum,
ius publicum)[109].
Tanto meno appaiono formulati dai giuristi e dai legislatori princípi
generali – per esempio in tema di elemento soggettivo – che possano
portare alla costruzione di quella che oggi definiremmo una “parte
generale” del diritto penale[110].
I giuristi romani dedicano sì attenzione ai profili penalistici, i
legislatori egualmente pongono norme specifiche e complessi normativi
(relativamente elaborati) per la repressione dei fatti illeciti: tuttavia mai
viene raggiunta l’autonomia scientifica del profilo penale rispetto
all’insieme del ius[111].
Secondo la dottrina romanistica ciò dipende in prevalenza dalla vicenda
storica per cui i giuristi non sono chiamati in materia penale a esercitare
quell’attività di consulenza interpretativa, che li rende
viceversa ineguagliati artefici della elaborazione scientifica del diritto
privato: il complesso delle norme penali pubbliche è considerato a Roma
quale strumento ed emanazione diretta della funzione repressiva delle
autorità cittadine e statuali[112].
Questa vicenda storica
spiega perché nell’esperienza romana è assai difficile
distinguere tra diritto penale sostanziale e diritto penale processuale[113].
L’individuazione, infatti, dei comportamenti da vietare e reprimere
è per molto tempo così intimamente connessa con
l’attività punitiva che la dottrina romanistica riconosce arduo, e
storiograficamente distorsivo, trattare separatamente delle fattispecie dei
reati (e di quanto attiene alla previsione dell’assoggettabilità a
pena) e dell’applicazione giudiziale delle sanzioni[114].
Un altro elemento
caratterizzante il diritto penale romano (soprattutto dell’età
più antica) è il carattere di “sacralità” che
assumono sia le previsioni normative che le sanzioni[115].
Il diritto penale
romano si trascina ancora i pesanti e autorevoli giudizi di Mommsen (che pure
dedicò al diritto penale romano la prima grande ricostruzione storica
moderna) che lo qualifica “pessimo e in parte veramente infame”[116]
e di Carrara, che sostiene che i romani sono stati giganti per quanto attiene
alla costruzione del ius privatum,
pigmei nella repressione criminale e che dunque “il giure romano non
è sempre sicura guida nelle materie penali”[117].
Prima ancora Beccaria definisce “uno scolo de’ secoli i più
barbari” anche “leggi” dell’antica Roma[118].
Peraltro anche oggi, in uno dei più autorevoli manuali italiani di
diritto penale, si legge che nel diritto penale romano «mancò una
elaborazione scientifica paragonabile, sia pure lontanamente, a quella del
diritto civile»[119].
Andare alla ricerca
della nozione di dolo nel diritto penale romano è reso ancora più
difficile dal fatto che mai i giuristi romani assurgono a concezioni astratte
nel diritto penale né mai formulano teorie generali, secondo il tipico
stile romano, che “costruisce senza formulare”[120].
Una teoria generale sul
dolo – che dunque non ci è trasmessa dai Romani[121]
– viene ricostruita poi dai romanisti e dai penalisti con riferimento ai delitti
di sangue, per i quali solamente si pongono i problemi della sua esistenza (per
il riconoscimento di responsabilità penale) e della sua
intensità.
Seguiremo ora la
nozione di dolo nelle diverse età, ponendo come base in ciascuna epoca
storica l’espressione normativa più rilevante e non trascurando di
descriverne – data l’intima connessione – il sistema
processuale. A proposito della connessione col sistema processuale va segnalato
che lo spazio di tempo nel quale il concetto di dolo può emergere con
più facilità dalla prassi è soprattutto il periodo tra il
IV secolo a.C. e il I secolo d.C.: dopo, i regimi sempre più
scopertamente autocratici e arbitrari rendono ardua la ricerca di sistemi di
garanzia del cittadino, nonostante i tentativi della giurisprudenza antonina e
severina di porre qualche argine[122].
Nell’età
più antica il rilievo limitato della legislazione penalistica e
l’ampiezza della discrezionalità del potere magistratuale
rappresentano fattori che si riflettono sulla concezione che i Romani avevano
della materia penale: essa non assurge a vera autonomia. Si afferma infatti che,
mentre il diritto privato merita il nome di ius,
per la materia penale ci si trova di fronte a un complesso di atti repressivi e
non di istituti o situazioni oggetto di elaborazione dottrinale e autonomia
tecnica[123].
Nonostante tali limiti
è comunque possibile indagare la rilevanza che i Romani attribuiscono
all’elemento soggettivo, perlomeno – come già detto –
con riferimento all’omicidio, dato che altri illeciti (anche affini
all’omicidio) rilevano oggettivamente (il membrum ruptum o l’os
fractum) mentre altri ancora non possono non essere dolosi (così il furtum e il malum carmen incantare)[124].
Il più antico
diritto penale romano è dominato dalla cosiddetta lex Numae, il cui celebre
precetto è: “si quis hominem
liberum dolo sciens morti duit paricidas esto”[125].
Questa disposizione, della quale subito chiariremo il senso, trova un
precedente nel mondo greco – come altre del più antico diritto
romano – nella legge di Draconte, che distingue, come osservato, tra
omicidio volontario (Φόνος
εκούσιος) e omicidio involontario (Φόνος
ακούσιος). La norma romana,
attribuita a Numa, sembra che imponga ai congiunti dell’ucciso di
uccidere (o far uccidere) l’omicida, magari assicurato alla
“giustizia” e messo a loro disposizione dalla comunità[126]:
tutto ciò allo scopo di impedire, come nella legge di Draconte in
Grecia, che nella situazione di impurità derivante dal sangue versato,
essi si accontentino della composizione pecuniaria[127].
La complementare statuizione sull’omicidio colposo “si quis imprudens occidisset hominem, pro
capite occisi agnatis eius in contione offerret arietem” impone
invece all’autore del crimine di consegnare, alla presenza del popolo, un
ariete ai parenti dell’ucciso, affinché sia sacrificato in sua
vece[128].
Secondo la tradizione un’eco della regolamentazione sacrale dell’omicidio
colposo si troverebbe anche nelle dodici tavole, con ciò confermando, a
contrario, il regime dell’omicidio doloso[129].
La distinzione numana
rileva in primo luogo sotto il profilo della repressione criminale,
perché apre la strada all’avocazione allo “Stato”
della persecuzione dell’omicidio e al superamento quindi della vendetta
con una pena pubblica[130]:
«Mirabile che Roma abbia fatto così presto un simile passo!»
esclamava Ferrini.
Pena
“pubblica”, con significato di espiazione religiosa, è anche
quella riservata all’omicidio colposo, dato che la consegna
dell’ariete avviene alla presenza del popolo. Sia nell’omicidio
doloso che in quello colposo, è dunque il coinvolgimento della
comunità ad attribuire il carattere di pubblicità alla sanzione.
E’ bene precisare che è necessario astrarre da quella che è
oggi la comprensione dell’ordinamento statuale: si può scorgere la
configurazione di quella società politica che noi chiamiamo
“Stato”, ma insieme la dottrina romanistica sottolinea i limiti
originari segnati dalla genesi e dalla funzione, in rapporto alla coesistenza
degli organismi minori, che conservano il carattere di organismi politici[131].
In secondo luogo, sotto
il profilo sostanziale, la rilevanza attribuita all’elemento soggettivo
significa il superamento dell’arbitrio prima vigente, quando cioè
la vendetta dei familiari veniva esercitata indiscriminatamente, anche in caso
di omicidio colposo, preterintenzionale o “legittimo”[132].
Sul significato storico
della lex Numae non vi è
accordo tra i due massimi cultori del diritto penale romano, Mommsen e Ferrini.
Alla lex regia viene attribuito da
Mommsen un significato storico fondamentale, giacchè essa contiene il
primo barlume di considerazione soggettiva dell’atto delittuoso[133].
A questa considerazione si oppone Ferrini a parere del quale in tutta la
civiltà indoeuropea si hanno chiari segni, anche antichissimi, della
punizione del crimine sempre in base a una volizione cagionante. La norma
sull’omicidio presenta dunque «il carattere di una tradizione
formante parte del patrimonio morale e giuridico più vetusto»[134].
Comunque sia di
ciò, con questa lex è
fissato un limite all’indiscriminata reazione dei parenti, nel senso che
viene considerato omicida, e sottoposto alla controversa sanzione (“paricidas esto”)[135],
solo chi commette il fatto – si dice – “con prava intenzione
e consciamente” (“dolo sciens”)[136].
La terminologia
variamente usata (sciens, sciens
prudensque, sciens dolo malo) per indicare la responsabilità dolosa porta
a concludere che solo il momento conoscitivo venga preso in considerazione,
dato inoltre che non risulta alcuna indicazione che espressamente richiami il
momento volitivo in relazione all’evento. Inoltre si ritiene non troppo
ardito (gewagt) pensare che nei casi
più gravi sia sufficiente il dolo eventuale[137].
In realtà il
significato dell’espressione “dolo
sciens” è assai controverso. E’ dubbio innanzitutto che
lo “sciens” sia
originario, così come si dubita che la formula contenga anche
l’aggettivo “malo”[138].
Ma soprattutto i dubbi
sorgono dall’etimologia. Nel greco antico δόλος significa “esca per i
pesci” (così nell’Odissea, XII, 52); il corrispondente dolus latino esprime sostanzialmente il
concetto di astuzia, inganno[139].
L’uso di dolus per qualificare
l’elemento soggettivo del reato porta Binding ad accomunare il concetto
di dolo del diritto romano a quello del diritto criminale greco e a quello del
diritto germanico primitivo: non l’agire cosciente e volontario, ma
l’uso di astuzia e inganno nel compimento della condotta delittuosa[140].
Questo concetto di dolo viene giudicato però un fraintendimento, dovuto
all’origine lessicale del termine e a un’analisi incompleta delle
fonti. Il termine dolus, certamente
acquisito a Roma o direttamente dalla Grecia o attraverso la civiltà
italiota, attribuisce sì il massimo significato possibile
all’elemento intellettivo nella condotta criminosa ma non induce
certamente a limitare la punizione ai fatti commessi con frode: «dove e
come infatti si punirebbe l’omicidio solamente intenzionale?»[141].
A partire
dall’età repubblicana nel sistema giuridico-religioso romano si
distinguono due ordini di fatti illeciti, i crimina
e i delicta; entrambi illeciti
penali nel senso che ambedue danno origine a una sanzione punitiva per il reo,
ma distinti quanto alla forma di persecuzione processuale, che nel caso dei crimina si attua con le forme della
repressione pubblica, mentre nei delicta con
le forme del processo privato[142].
In questa fase il
diritto penale sostanziale – riferito d’ora in poi ai crimina – non riceve nuovi impulsi fino
all’emanazione della lex Cornelia
de sicariis et veneficis.
Allo sviluppo e al
possibile approfondimento del significato di dolus contribuisce invece – nel passaggio dall’epoca
regia alla Roma repubblicana – il diritto processuale, con il superamento
dell’arcaico sistema formalmente sacrale della repressione criminale e la
successione al rex, nell’esercizio
della persecuzione, dei magistrati della respublica
(quaestores, duumviri e, con
importanza sempre crescente, tribuni della plebe). Questi promuovono
d’ufficio i giudizi davanti alle assemblee popolari, che decidono
attraverso una procedura complessa, che impegna il magistrato e il popolo per
più giorni.
Data la
complessità dei iudicia populi
accanto a essi esistono altre forme di repressione. Gli illeciti più
comuni, furto e ingiuria, vengono sanzionati da pene di carattere privato,
perseguite dall’offeso mediante il processo civile ordinario; altri
illeciti di poco conto, come la piccola delinquenza di strada, sono oggetto di
amministrazione più che di giurisdizione, di polizia più che di
persecuzione, e danno luogo a una semplice castigatio
in via di polizia. Ma anche con riguardo agli illeciti più gravi, e
rispetto ai quali si prospetta un problema di accertamento
dell’intenzionalità, come l’omicidio, operano i tresviri capitales. Questi svolgono
un’attività complessa e articolata: da alcuni accenni di Cicerone
nella pro Cluentio si apprende che
essi ricevono la denuncia del crimine, procedono all’interrogatorio
dell’accusato, ne dispongono la custodia in carcere, fanno ricercare i
mandanti, organizzano i confronti; insomma svolgono un’attività di
investigazione e istruzione sommaria, il cui scopo precipuo è di evitare
l’instaurazione di processi inutili e di preparare materiale vagliato per
i processi invece da instaurare[143].
Vari fattori spingono
verso un procedimento più duttile e più snello: la crescente
espansione territoriale e urbana che si ha tra la fine del III e gli inizi del
II secolo, la complessità delle questioni portate davanti alle
assemblee, il meccanismo processuale eccezionalmente prolisso, la
proletarizzazione delle masse urbane, che rende i comizi sempre più
facilmente vulnerabili dalle influenze demagogiche suscitando
l’ostilità dell’aristocrazia senatoria[144].
Reati di massa, che minacciano la sicurezza pubblica e in genere
l’autorità dello Stato, come congiure, delitti commessi da bande,
associazioni per delinquere diramate in più città, vengono
portati, solitamente ad opera di delatores,
davanti al senato, che esamina i casi e, se ne ravvisa
l’opportunità, istituisce una cognizione straordinaria (quaestio extra ordinem). I magistrati
incaricati della quaestio sono
investiti del compito di cognoscere et
statuere, cioè non solo di accertare i fatti ma anche di pronunciare
il giudizio. Quaestiones analoghe
sono in seguito disposte anche dal popolo su iniziativa dei tribuni della plebe
(soprattutto per reprimere gli abusi perpetrati da magistrati romani a danno
delle popolazioni soggette)[145].
Ai fattori che portano
alla istituzione di quaestiones extra
ordinem, si aggiunge la creazione – dovuta alla complessità
che viene assumendo lo Stato romano con la sua espansione – di nuove
fattispecie di illecito che abbisognano di indagini accurate. L’antico
processo davanti ai comizi e le repressioni straordinarie cedono
progressivamente il passo alle quaestiones
perpetuae[146],
tribunali stabili, istituiti per legge, che diventeranno l’organo
ordinario della repressione criminale dell’ultima età repubblicana
e dei primi tempi dell’impero.
La fattispecie che
diede origine al movimento di riforma e il cui approfondimento concorse ad
attribuire al diritto penale una sua propria consistenza e autonomia fu il crimen repetundarum, cioè la
concussione dei magistrati provinciali[147].
Sull’esempio della lex Calpurnia,
altre nuove quaestiones e dunque
altre figure di illecito pubblico vengono create con apposite leges[148].
La creazione con legge
di nuovi tribunali per nuovi reati attribuisce al diritto penale romano dell’età classica – ancora
più chiaramente rispetto all’età arcaica – una
caratteristica particolare, la preminenza
cioè dell’aspetto
processuale. Così come il diritto privato appare come un insieme di
azioni giudiziarie, pur essendovi anche le situazioni e i negozi giuridici, la
mentalità concreta dei Romani fa sì che il diritto penale sia
l’insieme dei iudicia publica,
dato che la sfera sostanziale trova attuazione (o meglio
“espressione”) nel processo. I crimina
e le leggi che li regolano, appaiono, sul piano tecnico e formale, come
sistemi di procedimenti[149].
Il carattere casistico del diritto penale romano, il suo originario e
caratteristico aspetto processuale, impediscono la formazione
dell’ipotesi tipica, astratta o “normale”, di reato, e
consentono tuttalpiù la classificazione delle modalità concrete
delle forme di realizzazione dell’illecito in funzione delle loro
ricadute pratiche sulla variazione della pena. «Il concetto di delitto
– si ritiene – è assorbito, per un verso, dall’actio con la quale lo si accerta e si
persegue in processo, per altro verso dalla pena con cui viene
sanzionato»[150].
In un tale sistema,
l’accertamento del fatto (e a maggior ragione dell’elemento
soggettivo) non è connotato da alcuno dei requisiti legalistici e
garantistici propri della nostra moderna mentalità giuridica.
«Legum servi sumus ut liberi esse possimus»,
stando a Cicerone. Ma questa è
un’aspirazione più che la realtà normativa a Roma. Infatti
sul rispetto del principio di legalità e dei suoi sottoprincipi non vi
è accordo nella dottrina romanistica. Alla tesi di Mommsen, che ravvisa
in certi momenti dell’esperienza criminalistica romana un’etica di
garanzia dei diritti di libertà individuali[151],
si contrappone già ai suoi tempi l’opinione di von Jhering per cui
“è nel diritto criminale che l’impero della legge si
è meno manifestato”, proprio in quel settore del diritto, spiega
von Jhering, “in cui le nostre idee lo reclamano di più”[152].
Anche più recenti posizioni, analizzando complessivamente e
realisticamente il sistema, giungono a conclusioni opposte a quelle di Mommsen[153].
Basti pensare ai principi di irretroattività e di determinatezza. Quanto
al primo, le disposizioni colpiscono spesso attività già
compiute. Quanto al secondo, la descrizione dei fatti punibili è
imprecisa e attribuisce all’interprete una discrezionalità
amplissima: seppure in età più tarda, ma esprimendo un concetto
comune, Modestino (allievo di Ulpiano) scrive che i reati si individuano non
solo “ex scriptura legis”
ma anche “ad exemplum legis”.
A proposito di altri
principi di garanzia, questa volta di tipo processuale, propri della nostra
mentalità e del nostro tempo, la situazione è parimenti ben diversa
da quella di oggi. Innanzitutto la terzietà del giudicante non è
assolutamente assicurata. Di fatto, poi, non vige la presunzione di innocenza,
quanto piuttosto – come fa intendere Cicerone nell’esordio
dell’oratio pro Cluentio –
una sorta di presunzione della colpevolezza dell’accusato: vi è un
capovolgimento del ruolo delle parti per quanto attiene alla prova, ed è
il prevenuto a doversi scagionare dall’accusa, anche quando
l’accusatore non adduce prove risolutive. Fino al primo Principato, manca
un vero e proprio secondo grado di giudizio. Infine le sentenze non hanno
motivazione, essendo costituite da una sommatoria di voti pro o contra[154].
Seppure con i limiti
segnalati nell’accertamento processuale, nuovo e decisivo impulso al
diritto penale romano, nell’ottica dell’elemento soggettivo, viene
conferito dalla lex Cornelia de sicariis
et veneficis[155].
Questa legge, che unifica due distinte quaestiones
operanti in tema di omicidio in epoca presillana, deferisce ad apposito
tribunale gli omicidi commessi con uso di armi o di sostanze venefiche (non
esistendo armi da fuoco, il veleno era il mezzo più usato): accanto
all’omicidio sono punite tutta una serie di altre condotte (il portare
armi in luogo pubblico allo scopo di compiere assassini o saccheggi, l’incendio
doloso e le attività intese a ottenere, in un processo capitale, la
pronuncia di una condanna ingiusta) che possono sì portare alla morte di
altri uomini (e in questo senso sono atti preparatori), ma che vengono punite
per sé stesse e non quali atti di tentativo[156].
Per la dottrina
penalistica tedesca di fine ottocento – non solo Löffler, ma anche
Klee, von Bar e Binding – questa legge rappresenta un punto di svolta
nella considerazione dell’elemento soggettivo. La volontà malvagia
(böse Wille), che nella
precedente legislazione non rilevava, assume un ruolo preminente. Per il
diritto romano classico vale da ora il principio che il fondamento della
responsabilità penale risiede nella volontà[157].
Si sostiene addirittura che questa trasformazione della concezione di
responsabilità, operata dalla lex
Cornelia e dalla successiva giurisprudenza, rappresenta un fatto tra i
più importanti della storia umana. La nuova concezione della
responsabilità porta la giurisprudenza romana a una tale altezza da costituire
un “luminoso esempio” nei secoli bui del medioevo[158].
I motivi di questa
trasformazione della concezione di responsabilità vengono ravvisati
nella nuova struttura statale e nell’influsso della filosofia greca[159].
Riguardo all’influsso della filosofia greca, nel complesso
Quanto alla nuova struttura
statale, essa ben presto limita il diritto di vendetta. Ad arginare
l’eccitamento degli animi serve la valvola di sfogo rappresentata dal
sistema delle pene private, nel quale a lungo si perpetuano gli antichi modi di
vedere. In cambio l’elemento della vindicta
privata viene espulso dal settore della giustizia penale, dove ora assume
un ruolo di primo piano l’interesse pubblico.
Sotto l’influsso
soprattutto di Platone e Aristotele[161],
l’essenza dell’interesse pubblico a punire viene descritta nelle opere
di Cicerone (pro Rab., 3,10) e di
Seneca. L’idea della pena come vendetta viene respinta e trova invece
posto il problema della umanizzazione della pena. Quando Seneca nel de Clementia (I, 22) indica le
finalità della pena, così si esprime: “Transeamus ad alienas iniurias, in quibus vendicandis haec tria lex
secuta est, quae princeps quoque sequi debet: aut ut eum, quem punit, emendet,
aut ut poena eius ceteros meliores reddat, aut ut sublatis malis securiores
ceteri vivant”[162].
Con la dichiarazione
dell’interesse pubblico alla punizione, si crea lo spazio nel quale
può svilupparsi, sempre sulla scia dell’etica aristotelica, il
principio di colpevolezza[163].
Ma questo nuovo fondamento della responsabilità criminale non si esprime
formalmente: esso piuttosto rappresenta un postulato etico autonomo, che
influenza in vario modo legislazione, dottrina e giurisprudenza romane, in
primo luogo e in generale nel dolo, poi nella teoria del tentativo e infine
nell’escludere la punizione del delitto non voluto[164].
La dottrina penalistica
tedesca sostiene che con questa legge si imprime nuovo e decisivo impulso al
diritto penale sostanziale romano poiché si passa da una concezione
dell’illecito centrata essenzialmente sulla causazione dell’evento
a una considerazione più attenta del momento soggettivo, e dunque anche
della volontà[165].
La dottrina romanistica non condivide questo rilievo
eccezionale attribuito alla Lex Cornelia.
La ipervalutazione di questa legge – che peraltro non menziona
esplicitamente il requisito del dolo di omicidio[166]
- nello studio dell’elemento soggettivo, deriverebbe probabilmente da un
frammento del Digesto:
D. 48,8,7 – Paulus libro singulari de publicis iudiciis:
In lege Cornelia dolus pro facto accipitur. neque in hac lege culpa lata pro
dolo accipitur. quare si quis alto se praecipitaverit et super alium venerit
eumque occiderit, aut putator, ex arbore cum ramum deiceret, non praeclamaverit
et praetereuntem occiderit, ad huius legis coercitionem non pertinet[167].
Questo frammento e in particolare il celebre inciso “In lege Cornelia dolus pro facto accipitur”
è inteso come un’allusione alla circostanza che il dolo è
presunto nella lex Cornelia in alcuni
fatti non equivoci, come per esempio andare armati in città allo scopo
di commettere aggressioni: ma in realtà la frase del Digesto si ritiene
frutto dell’accentuata valutazione dell’elemento intenzionale
propria delle dottrine allora vigenti; inoltre si reputa necessario tenere
conto del particolare periodo storico in cui la lex Cornelia è emanata e dunque del clima di disordine
dell’età sillana[168].
La legge sillana è infatti una legge di ordine pubblico, volta
precipuamente alla restaurazione dell’ordine e della sicurezza pubblica
dopo i convulsi anni della guerra civile e solo in via secondaria alla persecuzione
dell’omicidio[169].
Ecco dunque il motivo dell’affiancamento in un’unica legge di fatti
diversi, alcuni in senso lato preparatori di altri, ma comunque puniti
autonomamente.
Il differente rilievo
attribuito alla lex Cornelia dai
romanisti da una parte e dai penalisti (tedeschi di fine ottocento)
dall’altra deriva probabilmente dalla diversa ottica di studio: forse
più attenta al contesto storico quella dei romanisti, invece più
orientata al confronto con l’attualità quella dei penalisti, ai
quali inoltre non sfugge che quando nel medioevo si riprende a meditare sulla
dimensione soggettiva dell’illecito, è proprio la lex Cornelia a rappresentare la base
“nobile” per questa rinascita.
Insieme a quanto
previsto dalla lex Cornelia, i
termini e le formule che in generale nelle fonti sembrano esprimere il concetto
di dolo sono: dolo, sciens dolo, dolo
malo, sciens dolo malo, sciens, sciens prudensque, voluntas, data opera,
consulto, sponte, consilium, adfectu, proposito[170].
I due massimi cultori (romanisti) del diritto penale romano ritengono queste
espressioni perfettamente equivalenti: per Mommsen, che parte dal presupposto
che la nozione di delitto esiga nella persona capace di agire una
volontà contraria alla legge, queste circonlocuzioni sinonime si
specificherebbero poi nell’animus
proprio di ogni singola figura delittuosa[171];
per Ferrini, nessuna distinzione è possibile, e dolo è
«né più né meno, che la consapevolezza del torto che
si vuole commettere»[172].
Queste espressioni del
concetto di dolo si inseriscono in un quadro che riflette la mentalità
dei Romani e quindi il carattere delle loro fonti giuridiche:
l’affermazione, l’esclusione o l’attenuazione della
responsabilità non sono legate a uno schema logico generale. Non esistendo
dunque una teoria generale della colpevolezza, le ipotesi sono esposte
confusamente e a quelle in cui si delinea una responsabilità dolosa si
trovano affiancate altre che noi definiremmo (secondo gli schemi odierni) di
esclusione della coscienza e volontà dell’azione od omissione, di
esclusione della colpevolezza (scusanti), di esclusione
dell’antigiuridicità e di esclusione
dell’imputabilità[173].
Non di rado poi il dolo è parafrasato con parole che accennano piuttosto
alla malvagità dell’impulso, e pare confondersi pertanto con il
motivo dell’azione[174].
E’ plausibile
sostenere che questa vaghezza di significato derivi dal sistema processuale. Le
semplificazioni probatorie e l’assenza di principi garantistici (in
particolare dell’obbligo di motivazione delle sentenze) rendono
sostanzialmente inutile l’elaborazione (scientifica e/o
giurisprudenziale) di un concetto più preciso[175].
Una definizione del
dolo come quella di Labeone secondo cui “dolum malum esse omnem calliditatem fallaciam machinationem ad
circumveniendum fallendum decipiendum alterum adhibitam”, è
propria del diritto civile e di quello processuale (actio doli). Tale formula viene ritenuta inapplicabile – con
l’eccezione dello stellionatus[176] – nel diritto penale romano[177].
Al concetto romano di dolo meglio si attaglia un profilo etico, peraltro non
rigidamente definibile[178].
Così quando in Ulpiano (D. 47,12,3,1) si esclude la
responsabilità dei malati di mente e dei minori di età,
ciò viene motivato proprio con la incapacità di dolo (personae igitur doli non capaces)[179].
Egualmente quando in Gaio si vuole escludere la responsabilità penale di
chi abbia agito nell’esercizio di un diritto si usa la formula “nullus videtur dolo facere, qui suo iure
utitur” (D. 50,17,55). Ancora a proposito di chi agisca in stato di
necessità, Ulpiano afferma “si
tamen vi metuque compulsus fuit hic qui distractus est, dicemus eum dolo carere”
(D. 40,12,16,1). Infine una eccezione alla regola “error iuris nocet” (riguardo alla violazione di un divieto di
apertura del testamento posto da un senatoconsulto) dovuta alla presenza di imperitia o rusticitas viene ricostruita in Ulpiano dal punto di vista del
dolo: “Et si sciens, non tamen dolo
aperuit, aeque non tenebitur, si forte per imperitiam vel per rusticitatem
ignarus edicti praetoris vel senatusconsulta aperuit” (D. 29,5,3,22):
l’ignoranza dovuta a colpa esclude il dolo[180].
L’accento morale
nel concetto romano di dolo sembra confermato poi dall’attenzione
prestata ai motivi dell’agire e dall’insistenza sul dolo
d’impeto, ritenuto eticamente meno riprovevole di quello di proposito.
Pur condividendo che il
concetto di dolo nel diritto penale romano riveste un contenuto etico[181],
la dottrina penalistica non rinuncia però a ravvisarvi anche un
significato tecnico-giuridico. I termini e le formule che esprimono il concetto
di dolo segnalerebbero un uso linguistico “aperto” del termine dolus: accanto a un significato
tecnico-giuridico da riportare al concetto di absicht (“intenzione”) ne esisterebbe un altro
più generico, non ben precisato dalla giurisprudenza romana[182].
Questo significato più generico potrebbe essere riferito sia al dolo-circumventio-vizio del consenso, come
nello stellionato, sia al dolo quale designante l’illiceità del
fatto, come nella locuzione “nullus
videtur dolo facere, qui suo iure utitur”[183].
Il concetto
tecnico-giuridico di dolo nel diritto penale romano dell’età
classica si ritiene contrassegnato dall’idea fondamentale che la
responsabilità giuridica (e morale) è fondata sulla
volontà. Questo sarebbe confermato dall’uso di termini quali voluntas, animus, consilium, consulto, data
opera, sponte, proposito, vulneravit “ut occidat”; ma
ciò varrebbe anche nell’uso di termini più antichi, quali sciens, sciens prudensque, sciens dolo malo,
dove si presuppone comunque che chi realizza coscientemente una fattispecie,
l’abbia anche voluta. Sarebbe un significato riferibile all’antico dolus directus, l’absicht della dottrina tedesca: è
voluto l’evento, non solo il movimento corporeo[184].
La prospettiva di
studio dell’elemento soggettivo in diritto romano non è solo
quella che fa leva sulle fonti giuridiche, dove prevale spesso il senso
obiettivo di fatto illecito e che non offrono di solito che una stringata
terminologia, ma anche quella che poggia sulle fonti letterarie, dove si
ritrova lo spirito che anima la materia penale. E proprio nelle opere retoriche
di Cicerone troviamo tracce di come viene “sentita” nella prassi la
responsabilità dolosa[185].
Come già in
Platone e Aristotele, oggetto di particolare attenzione sono i casi di reati
commessi per impetus, cioè per
moto o perturbamento dell’animo, per provocazione, per violenta passione
o sotto i fumi dell’alcool. Come osserva Ferrini, «finché si
può dire che egli ha voluto
uccidere, rimane intatta l’ipotesi della legge»[186].
La circostanza che l’autore del fatto sia stato mosso da impetus non vale giuridicamente a
escludere il dolo e dunque la responsabilità, ma rappresenta dal lato
morale un’attenuante. Cicerone nel De
officiis (1,8,27) afferma che «Laeviora
enim sunt ea, quae repentino aliquo motu accidunt quam ea, quae meditata et
praeparata inferentur». Ma, di principio, ciò non vale a
scusare in un regolare processo l’autore del fatto: l’impetus può rappresentare una
difesa solo nelle libere dispute (dove cioè, senza che il giudizio sia
vincolato al testo di una legge, si può discutere sulla maggiore o
minore gravità morale di un fatto). Pertanto Cicerone nelle Partitiones oratorie (12,43) dice:
«Nam quae motu animi et
perturbatione facta sine ratione sunt, ea defensionem contra crimen in
legitimis iudiciis non habuit, in liberis discreptationibus habere possunt».
Sempre Cicerone però ammette (in De
inventione, 2,28) che, di fatto, in casi estremi l’abilità
oratoria può portare i giurati, posti di fronte all’alternativa di
una piena condanna o di un’assoluzione e senza dovere rendere conto in
motivazione, a un verdetto di assoluzione: «criminatio … laevabitur … si eiusmodi demonstrabitur
iniuria, ut non modo viro bono, verum homini libero non fuisset toleranda»[187].
Quando si passa dalle quaestiones perpetuae alla cognitio extra ordinem le
possibilità di influire sulla discrezionalità del giudicante
diminuiscono sempre più. Il sistema delle quaestiones perpetuae non può incontrare il favore del nuovo
regime: il compito di giudicare è attribuito a privati cittadini, le
liste sono troppo ampie per consentirne un controllo, sorgono nuove figure di
reato per cui è troppo dispendioso creare appositi tribunali.
Così, pur essendo testimoniate ancora per tutto il secondo secolo d.C.,
le corti permanenti cedono progressivamente il passo a nuovi organi di giustizia.
L’intera questione viene ora affidata all’imperatore (o a un suo
delegato) il quale è investito in modo completo del giudizio, dalla sua
introduzione alla sua decisione. Tale procedura è definita correntemente
come cognitio extra ordinem,
perché sorge e si sviluppa al di fuori del sistema processuale e
criminale dell’ordo iudiciorum,
e quindi senza i vincoli e le restrizioni formali della giurisdizione ordinaria[188].
Per quanto riguarda le
fattispecie criminose, il diritto penale del principato presenta una
compenetrazione reciproca delle figure di delitto previste nelle leggi
istitutive delle quaestiones e delle
innovazioni apportate dagli interventi imperiali e dall’attività
giudiziaria extra ordinem[189].
Nel complesso le figure di reato rimangono le stesse della tradizione
tardo-repubblicana e vengono invece aggravate radicalmente le pene.
Se da un lato
diminuiscono le possibilità per le parti di influire sulla
discrezionalità del giudicante, dall’altro aumentano il proprio
potere discrezionale gli organi che giudicano extra ordinem. Mentre le corti permanenti delle quaestiones si pronunciavano sulla
responsabilità dell’accusato senza possibilità di
commisurare le sanzioni immutabilmente previste dalle leggi istitutive delle quaestiones, nella procedura extra ordinem gli organi giudicanti
hanno la possibilità di adeguare la pena alla gravità del fatto,
muovendosi in un ambito di discrezionalità delimitato da generiche
istruzioni imperiali e dalla prassi instauratasi in precedenti decisioni[190].
Tale discrezionalità, non libera ma vincolata al potere assoluto del
principe, permette comunque di tenere conto dei diversi gradi di colpevolezza
dell’accusato, oltre che delle circostanze aggravanti e attenuanti,
dell’età, del sesso e della condizione personale del reo[191].
Influenzata dalle
dottrine platoniche e aristoteliche, la prassi instauratasi in tema di elemento
soggettivo è descritta nel noto frammento di Marciano (D. 48,19,11,2)
dove è in qualche modo accennata una sistematica della colpevolezza: «Delinquitur autem aut proposito, aut impetu
aut casu. Proposito delinquunt latrones, qui factionem habent: impetu autem,
cum per ebrietatem ad manus aut ad ferrum veniunt: casu vero, cum in venando
telum in feram missum hominem interfecit»[192].
Col tramonto delle quaestiones perpetuae e
con l’affermarsi della cognitio
extra ordinem diventa ora possibile la considerazione di “attenuanti
soggettive”, quale la situazione di chi agisce impetu. Così non solo in Marciano, ma prima in Papiniano e
poi in un rescritto di Antonino Pio, nel caso tipico dell’uccisione della
moglie colta nell’infedeltà si prevede una mitigazione di pena.
Nel rescritto di Antonino Pio si parla esplicitamente dell’impetus (“impetu tractu doloris interfecerit”) e della remissione della
pena capitale, “cum sit difficillimum
iustum dolorem temperare” (D. 48,5,39,8)[193].
Nel passo di Marciano
come esempio di reato di impeto viene indicato quello commesso in stato di
ubriachezza. Per fatto avvenuto casu
si prospetta l’ipotesi del dardo indirizzato contro la fiera e che invece
colpisce un uomo. In realtà in questo comportamento potrebbe ravvisarsi
– secondo gli schemi odierni – una responsabilità colposa
(per imprudenza o negligenza o imperizia), e del resto sono numerosi i testi in
cui si parla di casus e nei quali non
sempre il termine si può intendere come caso fortuito[194].
La considerazione secondo gli schemi attuali di casus e impetus non trova
d’accordo la dottrina romanistica, e l’ipotesi del comportamento
colposo viene ricondotto sia alla nozione di impetus[195],
sia invece a quella di casus[196].
Nella dottrina penalistica solleva ugualmente dubbi la collocazione sistematica
di fatti commessi in stato di lascivia,
luxuria, cupiditas, e in generale in situazione di “euforia”:
in questi casi si ritiene presente nel soggetto una rappresentazione, seppur
talora minima, delle conseguenze lesive, sufficiente per la
responsabilità dolosa[197].
Meno dubbi rispetto a
quelle di casus e impetus solleva la nozione di propositum, che invece esprime la piena
intenzionalità, come nell’esempio di Marciano dei latrones che si riuniscono in banda
proprio allo scopo e con deliberato proposito di commettere crimini.
In generale si
può affermare che la procedura extra
ordinem consente maggiore flessibilità nel giudizio sul fatto e
nella commisurazione della pena. Quanto all’elemento soggettivo –
si è osservato – rimane fermo che è richiesto il dolo,
inteso come volontarietà (intenzionalità); nella fase più
tarda del principato vengono tuttavia sanzionate anche condotte involontarie
(non intenzionali), sempre che sussista almeno un alto grado di colpa[198].
Proprio alla
intenzionalità si richiamano le definizioni del concetto di dolo fornite
dalla dottrina italiana, così come all’analogo concetto di Absicht si rifà la dottrina
tedesca[199].
Pertanto, il massimo cultore del diritto penale romano, Contardo Ferrini,
definisce il concetto romano di dolo molto più angusto, ma anche molto
più sicuro di quello del diritto penale moderno (si ricordi che Ferrini
così scriveva tra la fine del diciannovesimo e i primi anni del
ventesimo secolo). Del dolo eventuale, ad esempio, nulla saprebbe il diritto
penale romano, considerato che il giurista non si ferma a indagare se
l’agente ha potuto prevedere la possibilità del male arrecato:
ciò che conta è se lo ha o no direttamente voluto arrecare. Animus occidendi, animus (adfectus) furandi,
animus violandi sepulcri, animus inuriae faciendae, sono dunque –
secondo l’Autore – altrettanti modi di esprimere il dolo e insieme
designano “l’elemento intenzionale diretto”: «Tutto quello
che avviene fuori dell’intenzione è designato come casus»[200].
Le conclusioni di
Ferrini sono condivise anche da Delitala: pur non avendo, il diritto romano,
approfondito il concetto di dolo, «il significato non equivoco delle
espressioni comunque utilizzate lascia però concludere che si
consideravano come dolosi solo i delitti commessi con dolo diretto, quelli
cioè nei quali l’attività dell’agente è
intenzionalmente indirizzata a produrre l’evento consumativo del
reato»[201].
Nella dottrina
penalistica tedesca si afferma (Klee, von Bar e Dahm) che il concetto di dolo
del diritto romano si basa sull’accento della volontà
antigiuridica[202].
Binding ritiene che nell’ambito dell’illecito ciò che
caratterizza il dolus come speciale
forma di colpevolezza è “das
Wollen schlechthin”: solo il delitto doloso è voluto, quello
colposo è invece non voluto[203].
Il riferimento alla volontà è condiviso da Löffler: “Ihnen war das dolose Delikt das gewollte
Delikt”. Al di là di ciò che era direttamente voluto, i
Romani non pensavano più al dolus:
“dass man auch ungewollte Erfolge
wollen könne, hatten sie noch nicht herausgebracht!”[204].
Come detto, al concetto tecnico-giuridico di dolus malus si riconosce il significato odierno di “Absicht” (intenzione) e quello di
diritto comune di dolus directus[205]. Proprio Löffler aggiunge
però che l’uso linguistico giuridico presenta spesso un carattere
atecnico e dunque la nozione di dolo ha un contenuto molto più ampio.
Esempi di tale allargamento nozionistico si trovano – secondo
Löffler – nella Lex Cornelia de sicariis et veneficis,
dove è contenuta una pluralità di definizioni di omicidio e
veneficio, che comprendono in parte anche delitti colposi, atti preparatori ed
esecutivi di tentativo, e nella Lex Julia
de vi publica vel privata (che si ritrova poi anche, come vedremo, nel Codex Theodosianus), dove
l’uccisione avvenuta durante una rimozione violenta del possesso viene
punita con la pena di morte[206].
Nella procedura extra ordinem del tardo impero, infine,
il più alto grado di colpa (culpa
lata) è criterio di imputazione soggettiva anche nei casi in cui
viene richiesto il dolus malus[207].
Secondo Binding, «il necessario complemento del dolo» sarebbe la culpa lata (lascivia, luxuria), che si
ha quando l’agente agisce con coscienza e volontà ma senza
ostilità verso il diritto. Per l’Autore la nozione di culpa lata verrebbe elaborata per
l’insufficienza dello stretto concetto di dolus di fronte a casi che pure reclamano la punizione[208],
per esigenze cioè politico-criminali. I Romani dicono all’agente
– scrive Binding[209]
– «noi crediamo che tu non hai agito per uccidere e pertanto senza dolus malus, ma tu hai mostrato piena indifferenza per il buono o
cattivo esito della tua azione, e quindi sei stato in culpa lata»; e aggiunge in nota a commento: «Also dolus eventualis im heutigen Sinn»
(«Dunque dolo eventuale nell’odierno senso»)[210].
Il ravvicinamento
operato da Binding tra dolus malus e culpa lata, e dunque
l’inquadramento dogmatico del dolo eventuale nel diritto penale romano,
non è condiviso da Ferrini, che ravvisa nella culpa lata, conformemente alla tradizione giuridica orientale e
occidentale, una specie qualificata di negligenza. Afferma l’Autore:
«Che in materia di diritto privato la culpa
lata si reprima, quando si reprime il dolo nell’adempimento di un’obbligazione preesistente, è noto:
ma ciò nulla ha a che vedere col diritto penale. Per questo viene
esplicitamente escluso che la lata culpa possa
sostituire il dolo»[211].
I frammenti citati da Binding a sostegno del suo assunto sarebbero tutti relativi
al diritto privato: «Ma in diritto penale le cose procedono ben
diversamente. Qui non vi è un rapporto obbligatorio preesistente, di
fronte al quale la lata culpa possa
considerarsi come un voluto inadempimento. Qui è proprio la visione di
quel danno e la positiva volontà di arrecarlo, che rappresentano il
pericolo sociale e quella massima infrazione della norma, che richiede la
reazione della pena»[212].
Pertanto, contrariamente a ciò che pensa Binding, secondo Ferrini
«Di un dolo eventuale nulla sa il diritto penale romano»[213].
I due illustri Autori
peraltro concordano nella conclusione che con lo sviluppo preso dalla cognitio extra ordinem a partire da
Adriano assuma rilevanza penale anche l’omicidio colposo[214]:
ma che non si tratti di ravvicinamento e di medesimo trattamento di dolus malus e culpa lata è dimostrato dalla espressa esclusione
dell’applicazione proprio della lex
Cornelia. Quando infatti Paolo nelle Sentenze parla del putator, il quale fa cadere un ramo
tagliato sulla pubblica via senza dare avviso e così uccide un viandante
che passa, si esprime così: «etsi
in legem Corneliam non incurrit, in metallum datur» (PS 5,23,12).
Che poi il concetto
romano di dolo sia molto più sicuro di quello del diritto penale
moderno, come ritiene Ferrini, è negato ormai già dalla
più recente dottrina romanistica[215].
In via di principio si afferma – e ciò può valere come
critica alle analisi “audaci” dei penalisti - che non solo i Romani
non hanno idee chiare sull’elemento soggettivo del reato, ma che anche
noi non riusciamo ad avere idee chiare su quale fosse il loro pensiero
generalizzato, e ciò non solo per la nostra difficoltà a
immedesimarci negli antichi, ma per lo stato delle fonti[216].
Vi sono testi che paiono fare enunciazioni generali in materia di elemento psicologico,
ma che in realtà acquistano ai nostri occhi questo valore perché
estrapolati dai compilatori giustinianei dal contesto originario e presentati
come proposizioni teoriche, quando invece frutto delle loro tendenze
spiritualistiche[217].
Non rimane dunque – si afferma – che cercare di desumere la
concezione e la natura del dolo avendo riguardo al sistema criminale romano in
generale, facendo tesoro di tutti i sinonimi, e tenendo presente come i
giuristi romani non riescano a “purificare” interamente il dolo
dall’elemento etico[218].
Si può ritenere d’altro canto che ai giuristi romani non
interessasse operare una tale “purificazione”, data la stretta,
costante, ineliminabile interconnessione tra religio e ius.
Un caso classico di
estrapolazione per una studiata sopravvalutazione dell’elemento
intenzionale – utilizzato invece dai penalisti tedeschi come prova che il
dolus comprende la voluntas antigiuridica – è
il frammento del Digesto 48,8,14: Divus
Hadrianus in haec verba rescripsit: ‘in maleficiis voluntas spectatur non
exitus’ (Callistratus libro sexto de cognitionibus)[219].
Questo frammento si presta a due interpretazioni. Secondo la prima,
l’Imperatore descriverebbe un’ipotesi in cui, pur non essendo
seguito l’evento, vi è però la prova del disegno criminoso
e dunque dichiarerebbe la punibilità del tentativo. La seconda
interpretazione rappresenta l’ipotesi contraria, in cui cioè si
è verificato l’evento, ma questo non è voluto e dunque ci
si deve attenere alla valutazione dell’intenzione e non del fatto[220].
Entrambi i significati sono prospettati nella Collatio legum mosaicarum et romanarum[221].
Non potendo affrontare
qui il tema del tentativo in diritto romano, è però da dire che
una parte della dottrina avanza forti dubbi sull’interpretazione secondo
cui il rescritto adrianeo renderebbe possibile la repressione di ogni ipotesi
di tentato omicidio. Viene infatti giudicato poco ragionevole che la
cancelleria imperiale decida di affermare un principio di così vasta
portata affrontando un caso concreto che riguardava un omicidio commesso in rixa per mezzo di un ferrum, quando già in passato la lex Cornelia era stata applicata per
casi di tentato omicidio o, per meglio dire, a ipotesi di lesioni non seguite
dall’evento morte. La problematica relativa alla voluntas occidendi dovrebbe dunque essere piuttosto inquadrata
nell’ambito del primo caput della
lex Cornelia, laddove si puniscono
quali titoli autonomi di reato appunto l’omicidio e il porto di un telum con intenzione omicida[222].
La seconda interpretazione
del rescritto, in cui cioè si è verificato l’evento, ma
questo non è voluto e dunque ci si deve attenere alla valutazione
dell’intenzione e non del fatto, offre dimostrazione della non
perseguibilità – a titolo di dolo – del delitto preterintenzionale[223].
E’ la voluntas occidendi a
costituire l’omicidio[224].
Nel rescritto 1,6,4 della Collatio legum
mosaicarum et romanarum si cita il caso di Epafrodito che con una percossa
recata mediante un arnese di ferro uccide una persona; benché sia certo
che la percossa è volontaria, l’Imperatore dice che «et qui hominem occidit absolvi solet, si non
occidendi animo id admisit». Pertanto, quando non sia dimostrabile la
volontà dolosa, si può giungere all’assoluzione, a meno che
il colpevole non abbia dato prova di evidente leggerezza, la quale può
essere provata, tra l’altro, dalle modalità del fatto o dalla
particolare responsabilità che l’autore, per la professione che
esercita, debba assumersi: in questi casi di colpa si ricorre a una pena extra ordinem[225].
Nell’epoca del
principato l’idea del dolo conosce la massima
interiorizzazione. Si aggiungono i concetti – di ascendenza
filosofica (spesso i giureconsulti erano conoscitori anche della filosofia[226])
– di animus e voluntas, che ricorrono spesso nei testi; e che
insieme pongono il problema del loro accertamento[227].
Già nella prima epoca imperiale, allorquando la lex Cornelia diviene da legge sul banditismo legge
sull’omicidio comune, l’ambulare
cum telo viene inteso – sotto l’influenza della filosofia
stoica – quale esempio di voluntas omicida,
moralmente esecrabile e giuridicamente punibile anche se l’omicidio non
viene consumato (homicidium imperfectum)[228].
In una delle sue Declamationes il retore Quintiliano
tratta il seguente caso. Un figlio scacciato dal padre si imbatte, armato di gladius, nel padre e lo invita a
ritirare l’abdicatio,
costringendolo a giurare. Il padre giura e poi accusa il figlio di parricidium. Il primo punto da chiarire
è – continua il retore – se il figlio fosse occisuri habitu, avesse cioè
intenzione di (disposizione a) uccidere. Il modo in cui l’animus parricidae viene accertato
è estremamente significativo: abdicatus
in solitudine est; locus opportunus insidiis; habet gladium: instrumentum
parricidii. Nella difficoltà in cui sempre ci si imbatte di
individuare con sicurezza un atteggiamento interiore, in questo caso come in
tanti altri citati nei rescritti, si inferisce l’animus occidendi dal mezzo impiegato per colpire[229].
In altri frammenti del Digesto (D. 48,6,11,2 e D. 48,19,16,8) l’instrumentum non viene invece ritenuto
decisivo per l’accertamento della voluntas,
dovendo a esso aggiungersi l’indagine sulle qualità morali (o
meglio sullo status sociale)
dell’agente: così se l’uomo clementissimus sia stato trovato armato, dovrebbe ritenersi che lo
fosse tutandae salutis causa e non occidendi causa (Paul. Sent. 5,23,7[230]).
Peraltro questa ricerca dell’elemento intenzionale non è costante.
Si afferma infatti che gli operatori giuridici pratici sembra ritenessero che
il crimen dovesse essere normalmente
caratterizzato da “dolo”; sennonché, costretti in un
“letto di Procuste” da formule legislative e da decisioni imperiali
incontestabili, avallano poi l’indirizzo secondo cui “il dolo si
prova dal fatto stesso”[231].
Si finisce così con il ritenere, tautologicamente, che l’autore di
un fatto punibile a titolo di reato doloso abbia agito “sciens dolo malo” solo per averlo
commesso[232].
Vi sono poi due
rescritti imperiali che confermano l’essenzialità, quale
fondamento della responsabilità, dello spirito (voluntas, animus) con cui
un’azione viene compiuta. I due rescritti rivestono un significato
storico importante, perché sono stati assunti come sostegno per la
dottrina del dolus generalis[233].
Entrambi rappresentano un “ammaestramento” giuridico ai richiedenti.
Essi sono (Mos. et Rom. Leg. Collatio I, 8 e 9):
Imperator
Antoninus Augustus A. Aurelio Herculaano et aliis militibus. Frater vester
rectius fecerit, si se praesidi provinciae optulerit; cui si probaverit, non
occidendi animo Iustam a se percussam esse, remissa homicidii poena, secundum
disciplinam militarem sententiam proferet[234].
Imperator
Alexander A. Aurelio Flavio et aliis militibus. Si modo pro quo libellum
dedistis, non dolo praestitit mortem, minime perhorrescat: crimen quippe ita contrahitur,
si et voluntas occidendi intercedat. Ceterum ea, quae ex improviso casu potius,
quam fraude accidunt, fato plerumque non noxae imputantur[235].
Il dolus necessario per affermare la più grave
responsabilità è rappresentato dalla voluntas occidendi. Questo
dolus è richiesto in tutti i
giudizi pubblici: perlomeno non risultano a Löffler casi in cui a esso si
fosse rinunciato. Si può quindi dire – secondo l’Autore
– che «al più tardo diritto romano la volontà
delittuosa si è manifestata come base della responsabilità
criminale»[236].
Provando a porre alcuni
punti fermi, sulla base delle osservazioni della dottrina italiana e tedesca,
possiamo affermare:
a)
L’unica graduazione di intensità del dolo nel diritto
penale romano è quella – risalente a Platone (Leggi, IX, 7, 863-864) e Aristotele (Eth. Nic., V, 10, 1135 b 10 ss.) – che fa leva sulla distinzione
tra dolo d’impeto e dolo di proposito, distinzione propria in particolare
dei delitti di sangue, per i quali in definitiva il problema dell’elemento
soggettivo si pone.
b)
Il concetto di dolo nel diritto penale romano mantiene sempre un
contenuto etico-religioso, all’interno del quale la dottrina penalistica
ravvisa anche un significato tecnico-giuridico.
c)
Il dolo assume talvolta un significato generico, da riferirsi sia
al dolo-circumventio-vizio del
consenso, come nello stellionato, sia al dolo quale designante
l’illiceità del fatto, come nella locuzione “nullus videtur dolo facere, qui suo iure
utitur”.
d)
Il significato tecnico-giuridico è riconducibile al nostro concetto
di dolo intenzionale.
e)
E’ estranea ai Romani la (per noi comune) idea che Absicht e Vorsatz non possono essere lo stesso concetto, perché si
danno casi al di là dell’intenzione, che non appartengono alla
colpa, ma per la loro forma psichica sono di regola analoghi
all’intenzione dal punto di vista dell’imputazione penale.
f)
L’elaborazione dogmatica delle diverse forme di dolo non
è dunque riproponibile nel diritto penale romano. In primo luogo la
differente sfumatura tra dolo intenzionale (o dolo diretto di primo grado) e
dolo diretto (o dolo diretto di secondo grado) non emerge mai, e dunque la
nozione di dolus parimenti comprende
i casi in cui la realizzazione del fatto illecito costituisce l’obiettivo
finalistico che dà causa alla condotta e i casi in cui la realizzazione
del reato non è l’obiettivo che dà causa alla condotta, ma
costituisce soltanto uno strumento necessario perchè l’agente
realizzi lo scopo perseguito[237].
g)
Del dolo eventuale non vi è menzione nelle fonti[238].
Già abbiamo detto della differente valutazione del concetto di culpa lata in Binding e Ferrini.
Peraltro, quanto ipotizzato da Löffler per la lex Numae, che cioè non
sia troppo azzardato (gewagt) pensare
che nei casi più gravi di fatto fosse sufficiente il dolo eventuale[239],
si può pensare accadesse – sempre di fatto – anche
più avanti.
h)
Nel più tardo diritto penale romano risulta decisivo per
l’affermazione della responsabilità dolosa lo spirito (voluntas, animus) con il quale l’azione viene compiuta. Attraverso la nozione
di animus, che Binding definisce come
il fine di provocare l’evento antigiuridico come tale, il momento volitivo rimane impresso
completamente nel concetto di dolus malus[240].
Con l’idea di animus si
verifica cioè la massima
interiorizzazione del concetto di dolo.
i)
Il diritto penale romano da un lato porta come eredità il
concetto di dolo intenzionale, ma dall’altro lascia come base normativa
una legge di ordine pubblico (la lex
Cornelia de sicariis et veneficis) che già contiene gli strumenti
per il suo superamento.
j)
Non è estranea ai Romani la consapevolezza del problema
dell’accertamento. La presenza del dolo viene inferita dalle circostanze
del fatto, in particolare dallo strumento utilizzato. Nelle fonti troviamo non
solo il riferimento alle circostanze del fatto, ma anche quello alla
personalità dell’autore.
k)
Ultimo e fondamentale, l’elaborazione dogmatica della nozione
di dolo penale nel diritto romano non trova mai modo di esprimersi pienamente
per la mancanza di un sistema processuale che ne consenta
l’approfondimento. Struttura del dolo e suo accertamento sono
realtà interdipendenti. Il momento dell’accertamento è,
oggi come ieri, banco di prova della validità di ogni teoria sul dolo.
Dall’età
costantiniana in poi la repressione criminale diviene esclusivamente imperiale
e inquisitoria[241].
Si verifica una moltiplicazione dei tribunali che comporta una fitta rete di
competenze concorrenti. La nuova concezione del potere (sempre più
autocratico e ormai a fondamento divino) non può non comportare la
riduzione ai minimi termini dei poteri di valutazione dei tribunali. In questo
quadro ben si comprende l’involuzione del senso giuridico in tema di
colpevolezza, che si manifesta – per quanto a noi interessa –
nell’affermazione di forme di responsabilità oggettiva, dunque
senza dolo né colpa, e di responsabilità collettiva[242].
Si chiude qui la
parabola storica del dolo nel diritto romano. Caduto l’impero romano, la
considerazione dell’elemento soggettivo seguirà una evoluzione
storica assai simile a quella delle origini greche e romane[243].
La riscoperta del diritto romano, l’influsso del diritto canonico e la
rinascita della scienza giuridica con i Glossatori e soprattutto con i
Commentatori segneranno la riaffermazione dell’elemento soggettivo: ma
questa sarà soprattutto la storia dell’allargamento del concetto
di dolo. La base ideale, nobile e spesso mitizzata, rimarrà sempre il dolus malus romanistico.
Il contributo storico e
scientifico del diritto penale romano per lo sviluppo del diritto penale e, per
quanto a noi interessa, in particolare per la formazione del concetto di dolo
è controverso. La controversia può ritenersi derivare dalla
diversa ottica di studio degli storici e dei dommatici: mentre allo storico,
nella valutazione di qualsivoglia dottrina, non è consentito prescindere
dalle condizioni di tempo e di ambiente, se non vuole perdere l’intimo
significato della dottrina che studia, ciò è invece consentito al
dommatico[244].
Come traspare
dall’analisi, la dottrina romanistica svaluta dunque in genere questo
apporto, perché utilizza una chiave d’approccio improntata al
relativismo storico e dunque lega strettamente i concetti alla realtà
storica in cui operano e li giudica pertanto inutilizzabili in altre ottiche
storiche e giuridiche.
La dottrina penalistica
solitamente non si cura del diritto penale romano, forse influenzata dal
giudizio negativo degli illuministi, e con riferimento all’Italia dalle
severe critiche prima di Beccaria e poi di Carrara[245].
Solo in Germania tra la fine dell’ottocento e l’inizio del
novecento si studia il significato delle fonti romane per il concetto di dolo.
In particolare Löffler e Binding – come visto – dedicano ampio
spazio all’analisi del dolus (romanistico);
il secondo addirittura utilizzando come schema la divisione tra momento
conoscitivo (Bewusstseins-Moment) e
momento volitivo (Willens-Moment). Lo
stesso Binding definisce «die klare
Auffassung der bewussten Schuld» il capolavoro (Meisterstück) dei Romani sul terreno della teoria del reato[246].
E anche in uno dei più autorevoli manuali tedeschi di diritto penale
– pur senza approfondire il tema – si riconosce oggi che il concetto di dolo del moderno diritto
penale risale al tardo diritto romano e rappresenta uno dei massimi
contributi di esso[247]. Nella dottrina italiana solo nel
più volte citato scritto di Delitala dedicato al dolo eventuale e alla
colpa cosciente si tratta brevemente della nozione di dolo nel diritto romano.
Volendo tentare una
conciliazione tra le rispettive posizioni, lo studio dell’apporto
dommatico delle fonti romane deve procedere con la cautela consigliata dalla
dottrina romanistica nell’utilizzo delle fonti. Innanzitutto bisogna
evitare paragoni tra la nostra esperienza e quella romana per trarne (solo)
giudizi di valore. Va poi tenuto ben presente che i concetti del diritto penale
sostanziale romano (peraltro elaborati dalla dottrina successiva e non fissati
dagli stessi Romani[248])
vivono in stretta simbiosi con il diritto processuale: nell’esperienza
romana è assai difficile infatti distinguere tra diritto penale
sostanziale e diritto penale processuale[249].
Oggi come ieri, i concetti “respirano” solo attraverso la loro
applicazione processuale[250].
E se una qualche attinenza il concetto sostanziale di dolo nel diritto romano
può avere con l’attuale elaborazione concettuale, è
però indiscutibile che il sistema processuale penale romano è ben
lontano dai moderni sistemi e non svolge certamente una funzione di garanzia
individuale: basti pensare alla presenza, in sostanza, di una presunzione di
colpevolezza anzichè di non colpevolezza e alla mancanza di altri
principi quale il nemo tenetur se
accusare; all’inesistenza dell’obbligo di motivazione e del
doppio grado di giudizio e in tema di prove al fatto che la confessione
può essere estorta anche con la tortura (tormenta). Il principio del libero apprezzamento della prova (freie Beweiswürdigung), secondo
Mommsen conosciuto dal diritto romano[251],
ha dunque tutt’altro significato che quello di garanzia per
l’accusato.
Pur con le cautele
segnalate, studiare il concetto di dolo che traspare dalle fonti romane
è dunque necessario non tanto e non solo per la sua validità
scientifica, quanto per capire l’evoluzione storico-dommatica del concetto.
L’eredità
storica delle fonti romane è innanzitutto la loro nozione di dolus malus, ricondotta da Delitala alla
struttura del dolo intenzionale, e che si rifà, seppur in forma meno
raffinata, agli schemi mentali già elaborati dalla filosofia greca e in
particolare da Aristotele nell’Etica
Nicomachea.
Quando, superata la
prima fase del diritto penale germanico nella quale la considerazione del
delitto si fermava all’elemento oggettivo, inizia a riproporsi la
distinzione tra fatti volontari e involontari, è proprio il
“modello” di dolo del diritto romano, insieme ai richiami
all’elemento interiore propri del diritto canonico, a fungere da spinta e
da criterio ispiratore per la definizione del concetto di colpevolezza dolosa.
Già abbiamo riportato come – secondo Löffler – la
trasformazione della concezione della responsabilità dovuta alla lex Cornelia rappresenti «eine der wichtigsten Thatsachen der
Weltgeschichte», che eleva la giurisprudenza romana a una tale
altezza da costituire «in die Nacht
mittelalterlicher Barbarei versunkenen Jahrhunderten ein leuchtendes Beispiel»[252].
Pur senza l’entusiasmo di queste parole, il ruolo essenziale del dolus romanistico per la riscoperta e la
valorizzazione dell’elemento soggettivo viene riconosciuto dagli storici
del diritto[253],
fino a giungere all’affermazione di Kantorowicz secondo cui i primitivi
passi della scienza penal-processualistica sono consistiti in una pura esegesi
romanistica[254].
E storicamente sempre, quando, di fronte a tentazioni oggettivistiche
nell’attribuzione della responsabilità, si è voluta invece
riaffermare l’essenzialità dell’elemento interiore, il
modello assunto (forse al di là della sua effettiva consistenza)
è stato proprio il dolus malus romanistico.
Il contributo del
diritto romano è limitato alla forma fondamentale di dolo, quella nella
quale si esprime la piena intenzionalità del comportamento: risulta
infatti estranea ai Romani – o perlomeno non traspare dalle fonti –
l’idea per noi comune che intenzione e dolo non possono essere lo stesso
concetto, perché si danno casi al di là dell’intenzione,
che non appartengono alla colpa, ma per la loro forma psichica sono di regola
trattati nello stesso modo dell’intenzione dal punto di vista
dell’imputazione penale.
Un tentativo di
riportare in termini dogmatici moderni questo ristretto significato viene
intrapreso dallo stesso Löffler. Esisterebbero tre diverse relazioni
giuridiche rilevanti fra la psiche del colpevole e i risultati della sua
azione: a) dolo se l’agente ha voluto il risultato; b) semplice
consapevolezza se il risultato è stato previsto ma non voluto; c) colpa
se il risultato non è stato né previsto né voluto. Nel
primo caso l’agente agisce per produrre il risultato, nel secondo
nonostante la previsione del risultato, nel terzo senza previsione.
L’ipotesi di cui alla lettera b) è quella sulla quale si sono
maggiormente soffermati i postglossatori perché è qui che si
manifesta l’insufficienza del dolus
malus romanistico: essa rappresenterebbe una terza forma di colpevolezza,
per consapevolezza secondo alcuni, per volontà o dolo di pericolo
secondo altri. La base della teoria è proprio la restrizione del
concetto di volontà: se l’agente non ha avuto di mira il risultato
delittuoso non si può, per Löffler, parlare di volontà,
neppure se il risultato è stato previsto. In definitiva l’autore
tedesco trae dalla sua ricostruzione storica delle forme di colpevolezza la
conclusione della necessità del ritorno alla forma originaria di dolo,
quella propria dei Romani.
A questa tesi replica
la più autorevole dottrina italiana, con argomenti ancora decisivi,
sostenendo che nel fuoco della volontà non rientrano solamente i
risultati avuti di mira, ma anche tutti quegli altri che sono previsti accanto
a essi come certi o come possibili, a meno che l’agente non creda di
poterli evitare e non si adoperi per evitarli: la base del ragionamento
è dato dalla nozione stessa di volontà, che è atto di elezione,
di scelta, nel compimento della quale i risultati non desiderati sono stati, se
previsti, sicuramente messi in conto, poiché sono intimamente legati al
conseguimento del fine perseguito dall’agente[255].
La nozione di
volontà come atto di scelta rappresenta la vera essenza del dolo: di
origine aristotelica, solo essa esprime il concetto di volontà
colpevole. Questa nozione, che non emerge tanto dalla prassi giurisprudenziale
quanto piuttosto dalle opere letterarie, nelle quali troviamo tracce di come
è “sentito” l’elemento soggettivo nel diritto penale
romano, rappresenta la vera e utile eredità concettuale. E’ una
traccia che prima in Aristotele, poi nello Stoicismo, poi nel Cristianesimo e
in particolare in Sant’Agostino segnerà l’etica e il diritto.
Nel mondo romano la più compiuta esposizione si ha in Cicerone e in
Seneca, e in particolare nella nota dottrina stoica dell’assenso (synkatathesis), cioè una
sensazione o una disposizione d’animo che nasce da un impulso (impetus), ma deve poi essere oggetto di
una comprensione concettuale mediante l’assenso, cioè tramite un
atto di giudizio (iudicium). Questo
passaggio è descritto così nel de Clementia (II, 2, 2): “Ut
quod nunc natura et impetus est fiat iudicium”. La comprensione
concettuale mediante l’assenso, quella cioè che Seneca chiama iudicium, rappresenta la sostanza della
volontà colpevole, l’actus
electivus di cui parleranno poi i medievali. Nelle fonti giuridiche romane
invece non si va oltre il dolo intenzionale o di proposito, e non è
avvertita l’esigenza di ulteriori approfondimenti: innanzitutto
perché il sistema processuale difficilmente consente ai concetti di
esprimersi e poi perché alla nozione di dolus malus si affianca, almeno stando a Binding, la nozione di culpa lata, valvola di sfogo per i casi
di dolo eventuale, non strettamente riconducibili al dolus malus.
Con chiare ascendenze
platoniche e aristoteliche, la distinzione tra dolo d’impeto e dolo di
proposito trova espressione e applicazione nel diritto penale romano e si trova
conservata oggi (seppur non espressamente) nella gradazione di intensità
del dolo ai fini della commisurazione della pena (art. 133 c.p.). La minore
complessità e durata del processo deliberativo, propria del dolo d’impeto,
costituiva un’attenuante soggettiva che portava a una diminuzione di pena
e in genere all’esclusione della pena capitale. I Romani consideravano
presente il dolo (d’impeto) anche nel caso di reati commessi in stato di
ubriachezza[256]:
il classico passo di Marciano secondo cui «Delinquitur autem aut proposito aut impetu aut casu» reca
come esempio di reato di impeto proprio quello commesso in stato di
ubriachezza. Oggi si afferma (anche se la questione è dibattuta) che il
dolo dell’ubriaco, come in genere quello del soggetto non imputabile,
equivale a un impulso psicologico volontario, non a quella volontà
veramente consapevole che integra il dolo autentico. A questa esatta
considerazione non si attiene il trattamento sanzionatorio oggi riservato al
soggetto non imputabile, dato che l’ubriachezza volontaria o colposa non
fa scemare né esclude l’imputabilità (art. 92 comma 1): il
rigorismo del codice penale italiano (ancora) vigente comporta una
“finzione di imputabilità” che finisce per tradursi - si
sostiene - in una “finzione di elemento soggettivo” e nella
sostanza in una ipotesi di responsabilità oggettiva occulta o mascherata[257].
In un contesto quale quello romanistico non influenzato da esigenze
politico-criminali di lotta a una piaga sociale quale l’alcolismo, la differente
intensità di dolo d’impeto e dolo di proposito – seppure non
sviscerata con gli argomenti delle scienze moderne – giustifica il
trattamento meno severo riservato al dolo d’impeto. Questo trattamento
non fa che confermare che la vera forma di dolo romanistica e dunque il dolo
delle origini è il dolo di proposito, in quanto solo esso esprime la
piena intenzionalità del comportamento.
Secondo Löffler e
Binding, per i Romani il dolo è un concetto più etico che
strettamente giuridico[258].
Ebbene, il contenuto di disvalore etico-religioso e sociale della nozione di
dolo è un altro essenziale attributo che si è mantenuto nel tempo[259].
Nella più recente dottrina si riafferma che il diritto romano avrebbe
instaurato una chiave per la conoscenza della nozione giuridica di dolo che,
passando per il diritto medievale e intermedio, avrebbe dominato fino alla
metà del 1800[260].
Questa chiave per la conoscenza – diffusissima fin quasi a suonare come
un luogo comune – sarebbe sempre stata di natura irrazionale, ossia
emozionale. Si distingue tra dolus bonus e
dolus malus, e per dolus malus – non già per
secoli ma per millenni – si continua a intendere l’animus nocendi, nelle sue infinite
varianti di animus occidendi, furandi,
injurandi, decipiendi, diffamandi, lucrifaciendi, laedendi, e via dicendo.
Espressioni successive, impiantate su questa struttura emozionale di origine
romanistica, quali astus animus, iniquus
animus, iratus animus, animosus animus (nell’editto di Rotari), dolosus animus (nel Capitulare italicum), animadversio,
pravitas, mala fides, prava voluntas, ecc., sono per lungo tempo
all’ordine del giorno in tutte le aule dei tribunali in cui si giudica
secondo le regole e i criteri derivati dal diritto romano. Per la dottrina
italiana, la spiegazione razionalistica, ossia la razionalizzazione del
fenomeno del dolo, può essere attribuita soprattutto a Carrara, nel
quadro della sua innovatrice concezione del reato come «ente
giuridico», anziché, sic et
simpliciter, come fatto etico-sociale giuridicamente rilevante. Ancora oggi
però, nelle varie codificazioni di tipo occidentale e nelle relative
dottrine, quando si cercano gli elementi indicatori della nozione di dolo,
è facile imbattersi in espressioni “emozionalmente
pregnanti” quali
Abbiamo citato il
parere di Binding, per cui il momento volitivo rimane impresso completamente
nel concetto di dolus malus
attraverso la nozione di animus,
cioè di scopo che provoca l’evento antigiuridico come tale[264],
e abbiamo rilevato come attraverso questa nozione si arrivi alla massima
interiorizzazione del concetto di dolo.
Nella dottrina italiana,
solo chi nel dolo esplorando l’atteggiamento interiore dà di esso
una nozione psicodinamica arriva a sostenere che non esiste nessun reato nel
codice penale, il quale possa essere compreso in astratto, e neppure
individuato in concreto, prescindendo dal relativo animus: si fa l’esempio del chirurgo il quale incide con il
bisturi il corpo del paziente: egli avrebbe sia la volontà che la
finalità di farlo, ma non potrebbe essere imputato del reato di lesioni
perché agisce senza l’atteggiamento interiore di chi vuol nuocere,
ossia senza l’animus nocendi.
In questa impostazione il disvalore della condotta assume il ruolo centrale;
è il modo in cui la lesione del bene giuridico viene cagionata a dare il
significato all’illecito penale e questo modo dipende interamente
dall’atteggiamento interiore del soggetto attivo del reato: «il
modo della condotta altro non è che espressione diretta e immediata del
dolo inteso come malafede criminosa, o animus
nocendi»[265].
Sotto un profilo
generale, però, l’idea dell’animus come elemento strutturale del dolo, non trova oggi
riconoscimento. Solo per specifiche figure criminose si sono sviluppate teorie
incentrate sulla considerazione di un peculiare animus in capo al soggetto agente[266].
Già Carrara, richiamandosi a Ulpiano, riteneva che tra gli elementi
della «forza fisica soggettiva» del delitto di ingiuria rientrasse
la «intenzione maligna» dell’agente, e che dunque l’animus iniuriandi rivestisse un ruolo
assolutamente centrale nella «essenza di fatto di questo maleficio»[267].
Con riferimento poi all’art. 395 del codice Zanardelli, in dottrina si
credeva che un requisito dell’ingiuria sarebbe stato rappresentato dal
c.d. animus iniuriandi, con il
corollario dell’irrilevanza penale di ingiurie compiute con animus jocandi, defendendi, consulendi,
corrigendi, narrandi o retorquendi[268].
Infine, seppure raramente, la tesi dell’insussistenza del dolo nei
delitti contro l’onore in mancanza dell’animus iniuriandi vel diffamandi nel soggetto attivo, è
stata sostenuta in dottrina anche sotto il codice penale del 1930[269].
E’ ormai evidente però in dottrina e in giurisprudenza che
è arbitrario richiedere la sussistenza di un particolare motivo o scopo
o animus del soggetto agente per la
configurabilità del dolo ove la norma non ne faccia menzione[270].
Tuttavia, un giudizio
di valore sull’autore del fatto o sul suo animus sembra proporsi oggi, talora, in sede di accertamento. In
dottrina, già Ludwig von Bar, proprio uno degli autori tedeschi che
approfondisce il significato del dolo nel diritto romano, afferma che la teoria
del dolo eventuale può dissimulare un giudizio di valore in base al
quale la volontà offensiva viene riconosciuta in capo a un “uomo
cattivo” e negata in un “uomo buono”[271].
La suggestione esercitata dall’impressione di una natura malvagia o
benevola dell’«anima dell’autore»[272]
- oggi si osserva - si porrebbe dunque come ‘agente oscuro’
nell’economia del giudizio sulla natura dolosa o colposa del fatto, senza
che si possa direttamente assegnarle una fisionomia riconoscibile e
controllabile[273].
Il parametro del dolo
come approvazione interiore dell’evento trapela nella giurisprudenza, sia
italiana che tedesca[274].
Le sezioni unite della Cassazione, per potere accertare il dolo, richiedono
(perlomeno in relazione al tentato omicidio) un approfondimento del processo
motivazionale dell’autore. Questo approfondimento conduce a risultati
sostanzialmente favorevoli al soggetto agente (esclusione della
responsabilità dolosa) quando questi agisca in un contesto lecito di base,
ovvero punti alla realizzazione di un obiettivo guardato con favore
dall’ordinamento; laddove invece l’autore realizzi il fatto in un
contesto di illiceità penale, la giurisprudenza è portata a
ravvisare il dolo (eventuale o addirittura diretto) non tanto considerando
l’effettivo grado di adesione psichica al fatto, quanto piuttosto
incentrando l’attenzione sul motivo a delinquere propriamente inteso,
ovvero sullo scopo perseguito dal reo, oggetto qui di riprovazione da parte
dell’ordinamento[275].
Attraverso questo parametro, diventerebbe decisivo, per esprimere la condanna,
il giudizio sull’autore, in tal modo convalidando una più generale
tendenza a ricostruire un significato oggettivo del fatto, per applicare a esso
l’etichetta del dolo o della colpa[276].
Si può però ipotizzare che in questo orientamento della
giurisprudenza vada piuttosto ravvisato un particolare accento sull’animus dell’autore al momento del
fatto, più che sulla sua persona, dato che il giudizio non investe
complessivamente la persona (non importa che sia “buona” o
“cattiva”) ma solo “lo scopo che provoca l’evento
antigiuridico come tale”, per ricorrere alla terminologia di Binding per
descrivere l’animus romanistico,
e dunque la finalità, questa sì buona o cattiva, che anima
l’autore.
Questa impostazione
giurisprudenziale (peraltro non dichiarata espressamente) in tema di dolo
eventuale non è condivisa in dottrina, dove si ribatte che la
valutazione dolosa o colposa della condotta a partire dalle sue motivazioni non
avrebbe un preciso fondamento tecnico, dato che la teoria dei motivi va
sviluppata nella prospettiva della graduazione della gravità del reato e
della necessità di una pena corrispondente (ai sensi degli artt. 61 n.
1, 62 n. 1 e 133 comma 2 n. 1 c.p.) e non nella ben diversa prospettiva
dell’ascrizione del fatto a un certo titolo[277].
Il raffronto tra il fine perseguito e l’atteggiamento assunto rispetto
all’evento non può dunque avere rilevanza strutturale ma valere
unicamente come indice di accertamento[278].
Abbiamo visto come il
concetto di dolus malus esprima la
forma di adesione psicologica al fatto oggi viene ritenuta più forte, il
dolo intenzionale. Ma le fonti romane, oltre
a questo ruolo essenziale per l’identità del concetto di dolo, ne
assumono (involontariamente) un altro e opposto: in particolare alcuni
frammenti del Digesto costituiscono la base per la elaborazione delle forme
meno intense di dolo, al confine con la colpa.
Per primo Löffler
pone in rilievo, infatti, il grande significato storico di tre frammenti, non
particolarmente importanti per il diritto romano, ma che servono ai pratici
italiani e poi fino al diciannovesimo secolo per fornire una giustificazione
conforme alle fonti della doctrina
Bartoli e delle teorie del dolus
generalis, del dolus indirectus e
poi del dolo eventuale[279].
In questi frammenti l’evento non voluto, che si aggiunge a
un’azione di per sé riprovata dal diritto, gioca un ruolo
essenziale. Tuttavia tali passi descrivono casi eccezionali, dai quali non
è possibile trarre alcuna indicazione sul concetto romanistico di dolo.
In due di questi frammenti l’estraneità del dolo alle vicende
trattate è anzi dichiarata espressamente.
La fondamentale
importanza storica di questi frammenti è confermata da illustri
esponenti della scienza penalistica, tedesca e italiana.
Secondo Schaffstein,
sulla scia di Löffler, assumono rilievo essenziale per lo sviluppo del
concetto di dolo non solo i passi delle fonti che contengono il più
ristretto concetto tecnico-giuridico di dolo, ma soprattutto tre altri
frammenti (quelli che subito vedremo) nei quali in via eccezionale
l’autore di un fatto viene punito per un evento sì non previsto ma
la cui realizzazione è da ritenere
probabile[280].
Anche Schaffstein indica che sebbene palesemente questi tre passi descrivano
casi straordinari, tuttavia i giuristi italiani su di essi fondano la regola.
Nel diritto comune tedesco, in particolare per Carpzov, servono invece come
sostegno alla dottrina del dolus
indirectus.
Anche la dottrina
italiana richiama questi frammenti del Digesto e li considera ipotesi nelle
quali vengono ritenuti come dolosi, ai fini dell’equiparazione della
sanzione, anche casi nei quali l’evento delittuoso, pur essendo una
conseguenza prevedibile della sua azione, non è direttamente preso di
mira dal colpevole[281].
Non si tratta però – riconosce Delitala – di una tarda
estensione del concetto di dolo, quanto piuttosto di una equiparazione per
ragioni di ordine pratico; una considerazione di opportunità: quia mali exempli res est. Peraltro la
sanzione non è più la pena capitale: humiliores in metallum, honestiores in insulam relegantur. Rimane
pertanto confermato – secondo l’Autore – che la forma di dolo
del diritto penale romano è quella del dolo diretto. Invece i giuristi
del medioevo (in primis Cino da
Pistoia), formalmente ossequiosi alle fonti romane, ma audacemente innovatori,
proprio facendo leva su questi passi del Digesto e trascurando le ragioni di
ordine pratico che le giustificano, ravvisano in quei casi una vera e propria
forma di dolo, da considerarsi accanto e alla stregua del dolo diretto.
I frammenti in
questione sono i seguenti.
Il primo è D.
48,8,3,2, Marcianus libro quarto decimo
institutionum:
Adiectio
autem ista “veneni mali” ostendit esse quaedam et non mala venena.
Ergo nomen medium est, et tam id, quod ad sanandum, quam id, quod ad occidendum
paratum est, continet, sed et id, quod amatorium appellatur. Sed hoc solum
notatur in ea lege, quod hominis necandi causa habet. Sed ex Senatusconsulto
relegari iussa est ea, quae non quidem malo animo, sed malo exemplo
medicamentum ad conceptionem dedit, ex quo ea, quae acceperit, decesserit[282].
Il secondo frammento
è D. 48,19,38,5, Paulus libro
quinto sententiarum:
Qui
abortionis aut amatorium poculum dant, etsi dolo non faciant, tamen, quia mali
exempli res est, humiliores in metallum, honestiores in insulam amissa parte
bonorum relegantur; quodsi mulier, aut homo ferierit, sommo supplicio
adficiuntur[283].
Da questi due primi
frammenti Bartolomeo Cipolla (1420-1475), seguendo Bartolo da Sassoferrato
(1314-1357), ricava la regola: «Ubi
committens delictum minus voluit delinquere et plus delinquit: si verisimiliter
potuit cogitare, quod ex minori delicto, quod intendebat, verisimiliter poterat
sequi majus, tenetur de majori delicto, quod est secutum, et non de minori,
quod ipse intendebat». Insomma, il giudizio oggettivo sulla seria
possibilità della
verificazione dell’evento più grave è sufficiente
per accertare il dolo[284].
Così ancora Covarruvias (1512-1577) cita questi frammenti come
precedenti storici della sua dottrina della voluntas
indirecta: egli sostiene che chi dà una pozione abortiva o amatoria
la quale cagiona poi la morte di chi la assume, deve venire condannato a morte
“quod ille actus ex propria vi ac
natura maxime tendat in periculum mortis aut gravissimae laesionis”[285].
L’idea fondamentale del dolus
indirectus – come riportata da Engelmann – è che “im Wollen der Ursache mittelbar das Wollen
der Wirkung liegt”, cioè
“nella volontà della causa risiede indirettamente la
volontà dell’effetto”. Ma solo la volontà
dell’effetto che è solito
normalmente seguire (eintreten) la
causa[286].
Nei due frammenti
citati, in realtà, il motivo della punizione è contenuto
nell’inciso “quia mali
exempli res est” ed è dunque di tipo preventivo[287].
Pertanto non vi è nessun allargamento del concetto di dolo, la cui
presenza viene anzi espressamente esclusa con le espressioni “non quidem malo animo” nel primo,
ed “etsi dolo non faciant”
nel secondo. Si potrebbe replicare dubitando che il riferimento sia alla
mancanza di dolo in senso tecnico; ma è plausibile invece trovare
conferma del fatto che il termine dolus
nell’uso linguistico ha spesso significato atecnico ed è
espressione di un disvalore etico: appare infatti piuttosto sottolineata
l’assenza di “malvagità” nelle azioni, come sembra
più chiaramente dedursi dall’inciso del primo passo (“non quidem malo animo”). La morte,
poi, costituisce evento aggravante di un comportamento – vendere pozioni
amatorie o abortive – punibile anche quando in concreto non
rimproverabile moralmente. Non è richiesto alcun nesso psichico tra il
comportamento punibile e la morte, che viene accollata a titolo di
responsabilità oggettiva. In questi passi, in cui vengono descritti delitti aggravati dall’evento, la
moderna dottrina penalistica, contrariamente all’interpretazione datane
dai postglossatori, trova esattamente conferma che al concetto romano di dolo
appartiene solo la diretta volontà dell’evento[288].
Il terzo frammento, che
compare in diverse fonti, è D. 48,6,10,1, Ulpianus libro sexagensimo octavo ad edictum:
Hac lege tenetur et qui convocatis hominibus vim fecerit,
quo quis verberetur et pulsetur, neque homo occisus sit[289].
L’interpretazione
di questo terzo frammento è più difficile. Il tema che
diventerà oggetto anch’esso dell’attenzione dei giuristi
medievali è quello dello spossessamento violento, con la relativa
evoluzione storica e giuridica.
Lo spossessamento
violento può essere considerato crimen
vis e venire dunque punito secondo la lex
Julia de vi publica: di tale crimen
vis si rende infatti colpevole (“Hac
lege tenetur”) anche “qui
convocatis hominibus vim fecerit, quo quis verberetur et pulsetur”.
La sanzione è l’interdictio
aquae et ignis. Anche se la pena per il crimen
vis subisce un successivo aumento, ciò non viene ritenuto ancora
sufficiente per lo spossessamento violento. Un senatoconsulto stabilisce
pertanto di punire secondo
Nel 317 d.C. seguirono
due editti dell’imperatore Costantino. Con il primo Costantino
stabilisce:
Qui in
iudicio manifestam detegitur commisisse violentiam, non iam relegatione aut
deportatione insulae plectatur, sed supplicium capitale excipiat, nec
interposita provocatione sententiam, quae in eum fuerit dicta, suspendat,
quoniam multa facinora sub uno violentiae nomine continentur, cum aliis vim
inferre tentantibus, aliis cum indignatione repugnantibus verbera caedesque
crebro deteguntur admissae. unde placuit, si forte qui vel ex possidentis parte
vel ex eius qui possessionem temerare tentaverit, interemtus sit, in eum
supplicium exseri, qui vim facere tentavit, et alterutri causam malorum
praebuit” (CT. 9,10,1)[292].
Con il secondo editto
l’imperatore dispone:
Si quis
per violentiam alienum fundum invaserit, capite puniatur. et sive quis ex eius
parte, qui violentiam inferre tentaverit, sive ex eius, qui iniuriam
repulsaverit, fuerit occisus, eum poena adstringat, qui vi deiicere possidentem
voluerit (CT. 9,10,2)[293].
Negli editti è
posto il principio che ogni manifesta
violentia, da intendere in senso ampio, è di per sé sola
punita con la pena capitale. Il fatto che tali atti di violenza sono spesso
commessi verbera caedesque lascia
trasparire la spiegazione che l’autore abbia ben previsto anche la
possibilità dell’esito letale. Che l’imperatore comunque non
intenda ancora come dolose le uccisioni, risulta dal tenore del passo, dove la
situazione descritta non viene sussunta sotto la lex Cornelia ma crea un nuovo, singolare, diritto. La ratio di questa singolarità
– ritiene Löffler – è la medesima dei primi due passi: quia mali exempli res est[294].
Per Costantino però l’intera questione è di scarsa
rilevanza, dato che in realtà l’imperatore sanziona con la pena di
morte già la manifesta violentia.
Nel Codex giustinianeo il primo editto
appare in forma completamente mutata. Ora reca:
Quondam
multa facinora sub uno violentiae nomine continentur, cum aliis vim inferre certantibus,
aliis cum indignatione resistentibus verbera caedesque crebro deteguntur
admisse, placuit, si forte quis vel ex possidentis parte vel eius qui
possessionem temerare temptaverit interemptus sit, in eum supplicium exerceri,
qui vim facere temptavit et alterutri parti causam malorum praebuit: et non iam
relegatione aut deportatione insulae plectatur, sed supplicium capitale
excipiat nec interposita provocatione sententiam quae in eum fuerit dicta
suspendat (C. 9,12,6)[295].
Il modello originale
è snaturato: la pena capitale è ora limitata ai casi in cui alla
violenza si unisce la morte dell’aggredito. L’evoluzione segnalata
dai passi successivi porta a ipotizzare che Triboniano nel primo passo citato
in tema di spossessamento, D. 48,6,10,1 (come nell’equivalente D.
48,7,2), abbia aggiunto alla frase “Hac
lege” (cioè Julia de vi) “tenetur et qui
convocatis hominibus vim fecerit, quo quis verberetur et pulsetur”
l’inciso “neque homo occisus
sit” per salvaguardare la coerenza e l’unitarietà della
codificazione[296].
In ogni caso da questi
frammenti non si ricava alcunché sul concetto romanistico di dolo: essi
segnano piuttosto la nascita dei delitti aggravati dall’evento. Si
può però facilmente comprendere la loro utilità quando, di
fronte al ristretto concetto di dolus ricavabile
dalle fonti (e perlopiù interpretato come dolo intenzionale o diretto),
la dottrina del diritto comune ha ricercato con “brama” questi casi
di eccezione, ingannando (sé stessa e gli altri) sul fatto che essi
racchiudano il concetto romanistico di dolo, mentre in realtà di questo
concetto si superano i limiti[297].
Così Bartolo da
Sassoferrato, dal frammento del Codex
che punisce severamente (ma eccezionalmente) una vicenda delinquenziale
frequente come quella dello spossessamento violento, trae la regola generale (doctrina Bartoli) che domina fino al
sedicesimo secolo: «Si delinquit in
plus incidendo in aliam speciem delicti hoc adverte: si quidem delictum, quod
principaliter facere proposuerat, tendit ad illum finem, qui secutus est, et tunc
inspicimus eventum. Si vero ad hoc non tendebat delictum, quod principaliter
facere proposuerat, tunc non tenetur». L’idea fondamentale di
questa teoria è cioè che l’autore risponde di ogni evento
che si delinea con una certa probabilità al momento della sua azione[298]:
e risponde dell’intero accaduto a titolo doloso[299].
Una relazione oggettiva di pericolo, dunque, che rappresenta un’idea ben
lontana dal dolus malus dei Romani,
ma utile per rispondere alle esigenze preventive e repressive e per superare le
difficoltà probatorie, sempre attuali, del dolo intenzionale.
[1] Così Karol
Wojtyla in una lettera del
[4] DELITALA G., Dolo eventuale e colpa cosciente, in Annuario dell’Università
Cattolica del Sacro Cuore, 1932, ora in Diritto
penale. Raccolta degli scritti, vol. I, Milano 1976, 436. Nella dottrina penalistica il tema
dell’elemento soggettivo nel diritto penale romano non risulta
particolarmente approfondito. L’argomento è trattato solo da
alcuni tra i maggiori penalisti di fine ottocento e della prima parte del
novecento: in particolare nella dottrina italiana – seppur
incidentalmente – da Impallomeni e Delitala e nella dottrina tedesca da
Löffler, Klee, von Bar e Binding, e poi da Schaffstein e Dahm.
[6] CANTARELLA E., Norma e sanzione in Omero. Contributo alla
protostoria del diritto greco, Milano 1979.
[7] LÖFFLER A., Die Schuldformen
des Strafrechts. In vergleichend-historischer und dogmatische Darstellung,
Leipzig 1895, 51-53. Questa conclusione
è pressoché unanimemente condivisa. Löffler cita però
( 57-58) l’opinione di LEIST B.W. (Gräko-italische
Rechtsgeschichte, ora Neudruck der Ausgabe 1884, Aalen 1964, 347) secondo il quale la differenza tra
fatto volontario e fatto involontario è ben conosciuta in epoca eroica e
da essa derivano differenze di trattamento. In particolare Leist ritiene che le
ipotesi di omicidio in stato di eccitazione siano già nell’epoca
più antica ricondotte al concetto di Φόνος
ακούσιος (omicidio involontario). A
sostegno di queste affermazioni Leist riporta brani di Cicerone e passi
omerici.
[8] LÖFFLER A., Die Schuldformen
des Strafrechts, cit., 54. L’intervento di
fattori religiosi – come ipotizzato da Löffler – non deve fare
pensare che questi già non dominino nella fase primordiale, in cui vige
il semplice potere privato di vendicare l’offesa. Tutto è sacro,
nella sfera privata e in quella pubblica. Le regole di condotta sono dettate
dalla religione: la distinzione tra diritto e religione non appartiene alle
culture giuridiche antiche. La svolta epocale nella storia del diritto penale
moderno è segnata proprio dalla sua secolarizzazione, cioè dal
passaggio dall’equazione “reato = peccato”
all’equazione “reato = fatto dannoso per la società”.
Questa svolta, preparata dall’opera pionieristica dei giusnaturalisti,
che caldeggiano uno Stato secolarizzato, guardiano della pace esteriore, viene
consolidata dall’Illuminismo. É grande merito di Cesare Beccaria (Dei delitti e delle pene, edizione a
cura di Franco Venturi, Milano 1991, che riproduce la quinta edizione, detta di
Harlem, 1766), avere integralmente distinto il concetto di delitto da quello di
peccato. Sulla secolarizzazione del diritto penale, MARINUCCI G. –
DOLCINI E., Corso di diritto penale, 1, Milano 2001, III ed., 429 ss. Sulla connessione, esistente fin
dai primordi, tra ermeneutica giuridica e teologica, DAHM G., Zur Rezeption des romisch-italienischen
Strafrechts, Darmstadt 1955,
28.
[9] Su questa sanzione,
FIORI R., Homo sacer. Dinamica
politico-costituzionale di una sanzione giuridico-religiosa, Napoli 1996.
Secondo PERTILE A., Storia del diritto
italiano, II ed., vol. V (Storia del
diritto penale), rist. anast. Bologna 1966, 1, «Due sentimenti connaturali
all’uomo formarono la base del diritto penale nella prima età
d’ogni popolo: il sentimento della vendetta e quello dell’espiazione».
[11] Nell’Atene
classica in generale la dimensione inquisitoria pubblica appare
pressoché inesistente. Perfino quando la parte presumibilmente lesa
è lo Stato, sono pur sempre dei cittadini a prendere l’iniziativa.
I giudici devono quasi sempre stare alle valutazioni delle parti, a tal punto
che sono le parti stesse a dover produrre le leggi ritenute rilevanti per la
sentenza.
[15] Nella dottrina penalistica, LÖFFLER A., Die Schuldformen des Strafrechts, cit., 55-56 e in quella romanistica, PERNICE
A., Der verbrecherische Vorsatz im
griechisch-römischen Rechte, in Zeitschrift
der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte, 17 Band, 1896, 235 ss., che accenna anche al
danneggiamento, il cui risarcimento era doppio quando doloso. Parla brevemente della
punizione dell’omicidio in Grecia e specialmente nell’Attica,
IMPALLOMENI G.B., L’omicidio nel
diritto penale, II ed., Torino 1900,
243-245, che assume a sua volta come fonte THONISSEN J.J., Le droit pénal de
In generale sul tema,
CANTARELLA E., Studi sull’omicidio
in diritto greco e romano, Milano 1976.
[16] A questa varia
terminologia non risponde comunque – secondo Löffler – una
differenza di trattamento.
[17] PERNICE A., Der verbrecherische Vorsatz
im griechisch-römischen Rechte, cit., 242, sulla base di esempi tratti da
Demostene.
[20] HORN C., Antike Lebenskunst:
Glück und Moral von Sokrates bis zu den Neuplatonikern, München
1998, ed. it. a cura di E. Spinelli,
L’arte della vita
nell’antichità. Felicità e morale
da Socrate ai neoplatonici, Roma 2004, 154.
[21] HADOT P., La philosophie comme manière de
vivre. Entretiens
avec J. Carlier et A.I. Davidson, Paris 2001, 95 e 148.
[22] La tradizione socratica
risponde alla questione relativa agli ostacoli a una condotta di vita ben
riuscita con il biasimare i difetti nella razionalità di una persona.
Osserva dunque HORN C., Antike
Lebenskunst, cit., 138, che
«al giorno d’oggi, al posto di uno statico ideale di
autoperfezionamento psichico, si è certamente più inclini a un
modello che concepisce la condotta di vita come un processo aperto.
All’interno di tale processo agiscono esperienze di vita mutevoli, casi fortunati
e disgrazie, incontri e scoperte, influenzandolo in maniera del tutto
imprevedibile; la ragione è dunque solo un attore fra i tanti».
[24] La tripartizione
dell’anima (psyche) è
rappresentata nel Fedro (246 a-b)
attraverso il mito della biga alata, tirata da due cavalli, uno bianco (anima
irascibile o emotività) e uno nero (anima concupiscibile o istinto), e
guidata da un auriga (anima razionale). Sui tre aspetti dell’anima, “facoltà
razionale”, “facoltà appetitiva” e
“facoltà passionale”, SEVERINO E.,
[26] Nel prosieguo si fa
riferimento a PLATONE, Tutte le opere, a
cura di G. Pugliese Carratelli, Firenze 1974.
[27] ABBAGNANO N., Storia della filosofia, vol. I: La filosofia antica, IV ed., Torino
1993, par. 60.
[28] La mancanza di
autocontrollo (akrateia) viene
indicata nelle Leggi (734b) come
“involontaria”; è vero che si può pur sempre
“soccombere” a piacere e dolore, così come ad altre
passioni, ma anche qui si tratterebbe, in modo immutato, di una carenza di
carattere cognitivo (Leggi, 863b ss.
e 902a ss.).
[29] Sulla concezione di giustizia,
di recente, AA.VV., L’idea di
giustizia da Platone a Rawls, a cura di S. Maffettone e S. Veca,
Torino-Bari 1997.
[30] Platone prosegue nello
stesso passo dicendo che «il legislatore deve guardare appunto a questo e
avere l’occhio attento a queste due cose, all’ingiustizia e al
danno; e questo deve, per quanto è possibile, ristorare mediante le
leggi, recuperando il perduto, rilevando ciò che da qualcuno è
stato abbattuto, riparando le uccisioni o le ferite; e così mediante le
compensazioni deve sempre cercare nelle leggi di volgere dal dissidio
all’amicizia colui che fa e colui che patisce un danno». Ulpiano
secoli dopo dirà (D. 1,1,10,1): «Iuris praecepta sunt haec: honeste vivere, alterum non laedere, suum
cuique tribuere». Questa regola suprema della Roma pagana – che
si ispira alla tradizione filosofica che va da Platone a Seneca e trova punti
di contatto con l’etica cristiana – non comporta peraltro per i
Romani una valutazione morale intrinseca della norma positiva. Paolo, nell’unico
passo del Digesto che si occupi della distinzione tra diritto e morale,
avverte: “non omne quod licet
honestum est” (D. 50,17,144). Vedi sul punto, ALBERTARIO E., Etica e diritto nel mondo classico latino,
in Studi di diritto romano, V, Milano
1937, 3 ss.
[33] Sulla filosofia
dell’azione in Aristotele, ACKRILL J. L., Aristotle the Philosopher, Oxford 1981, traduzione italiana di
Paolo Crivelli, Bologna 1993, 220
ss. Ackrill è membro della “Aristotelian Society” di Oxford,
nella quale hanno lavorato i maggiori filosofi inglesi del novecento, trattando
di qualsiasi argomento filosofico, nella convinzione che tutta la filosofia
abbia a che fare con Aristotele.
[34] Ci si riferirà
di qui in avanti sempre all’edizione dell’Etica Nicomachea con introduzione, traduzione e commento di M.
ZANATTA, Milano 2002.
[36] ABBAGNANO N., voce Etica, cit., 363 ss., riconduce a tale concezione il
pensiero di Epicuro, Hobbes, Spinosa, Locke, Leibniz, Hume e Kant.
[37] CERQUETTI G., La rappresentazione e la volontà
dell’evento nel dolo, Torino 2004, 293 ss. Sul
tema KARGL W., Der strafrechtliche
Vorsatz auf der Basis der kognitiven Handlungstheorie, Frankfurt am Main
1993, 32 ss.
[38] Per
“intellettualismo morale” si intende la tesi che la
razionalità sia sufficiente, già di per sé, a realizzare
una condotta di vita felice e virtuosa. Nel mondo moderno - afferma HORN C., Antike Lebenskunst, cit., 167 – sussiste un fondamentale
scetticismo riguardo alla possibilità di far fronte razionalmente a
eventi fortuiti, desideri e passioni, a meno che non si paghi il prezzo di una
radicale autoimmunizzazione.
Sempre HORN C., Antike Lebenskunst, cit., 154, osserva che il tema del conflitto
psicologico, sviluppato in particolare da Aristotele, si trova anche nella
tragedia, in particolare in Euripide. Nella Medea,
Euripide fa dire al suo protagonista: «Il male mi vince. Conosco il
misfatto che sto per compiere. Ma il furore dell’animo (bouleumata) che spinge i mortali alle
più grandi colpe è più forte di me e di ogni altro volere
(thymos)».
[39] REALE G., Storia della filosofia greca e romana, vol.
4: Aristotele e il primo Peripato,
Milano 2004, 189.
[41] Per descrivere la
reputazione di cui Aristotele godeva, è sufficiente ricordare la
definizione che di lui dà Dante, nel canto XI dell’Inferno (vv.
79-84): il “maestro di color che sanno”.
Quanto poi
all’influsso in tema di elemento soggettivo
[42] Aristotele è il
primo a riconoscere e ad apprezzare l’importante contributo che elementi
extrafilosofici forniscono all’educazione alla virtù, in particolare
la famiglia, le predisposizioni naturali, le tradizioni culturali e
l’ambiente sociale. Così HORN C., Antike Lebenskunst, cit.,
144, che cita a conforto della tesi anche altri Autori (Sherman e
Nussbaum).
[43] Valutazione morale,
valutazione religiosa e valutazione giuridica hanno del resto proceduto
affiancate, quando non compenetrate, per lunghi periodi storici. Sarà
solo il pensiero illuministico-liberale (a partire da Cesare Beccaria) a
perseguire lo scopo politico-criminale di distinguere nettamente tra
imputazione morale e imputazione giuridica, tra religione e diritto. Per
un’introduzione al tema dell’evoluzione della responsabilità
penale e della concezione di colpevolezza, MANTOVANI F., Diritto Penale. Parte generale, IV ed., Padova 2001, 293 ss.
[44] L’anima è
sostanza che informa e vivifica un determinato corpo: essa è definita
come «l’atto primo di un corpo che ha la vita in potenza».
Sul concetto di anima (psyche) in
Aristotele, ABBAGNANO N., Storia della
filosofia, cit., par. 80. Sull’impostazione del problema mente-corpo
e sui modi in cui i fatti fisici si collegano con le attività
psicologiche, ACKRILL J. L., Aristotle
the Philosopher, cit., 98 ss.
[45] HORN C., Antike Lebenskunst, cit., 168. Le filosofie morali antiche e moderne si distinguono
innanzitutto perché nell’antichità l’attenzione
è focalizzata principalmente sul soggetto agente, mentre i filosofi
moderni si concentrano sul giudizio morale di determinati comportamenti. Nella
terminologia di ANNAS J., Ancient Ethics
and Modern Morality, in Philosophical
Perspectives, 6, 1992, 124,
l’etica antica procede «incentrata sul soggetto agente» (agent-centred), mentre l’etica
moderna è progettata per essere «incentrata
sull’azione» (act-centred).
[46] Osserva EUSEBI L., Il dolo nel diritto penale, in Studium Juris, 2000, 1072, che il rilievo attribuibile al
dolo nella teoria del reato ha come presupposto la peculiarità tipica
delle azioni umane coscienti e volontarie, che si sostanzia nel loro essere
psicologicamente cagionate dalla prospettiva di realizzare un certo risultato,
cioè nel loro orientarsi in senso finalistico. L’Autore aggiunge
che «Una condotta, infatti, può dirsi dolosa agli effetti penali
quando si realizza il caso per così dire ordinario in cui la medesima
abbia dato luogo alla conseguenza in vista della quale sia stata posta in
essere, sempre che tale conseguenza, ovviamente risulti significativa
nell’ambito di una norma incriminatrice … Fattore identificativo
della responsabilità dolosa è quindi il volere che abbia avuto
per oggetto, proiettandosi al di là della condotta, l’accadimento
antigiuridico da quest’ultima cagionato». Per un approccio alla
problematica del dolo anche dal punto di vista del più recente dibattito
scientifico, EUSEBI L., Il dolo come
volontà, Brescia 1993 e CERQUETTI G., La rappresentazione e la volontà dell’evento nel dolo, cit.,
passim.
[47] DIHLE A., The Theory of Will in
Classical Antiquity, Berkeley 1982; HORN C., Augustinus und die Entstehung des philosophischen Willensbegriff,
in Zeitschrift für philosophische
Forschung, 50, 1996, 113 ss.
[50] Di questo concetto
naturalistico e causale sono considerati “fondatori” Beling e von
Liszt, anche se già in Carrara esso vi si trova espresso. Su di esso e
sugli ulteriori concetti, finalistico e sociale, elaborati dalla dottrina
penalistica, ROMANO M. (Commentario
sistematico del codice penale, I (art. 1-84), III ed., Milano 2004, 418 ss.).
L’Autore, di fronte alle impostazioni nichilistiche e rinunciatarie di
parte della dottrina, ritiene (soluzione largamente dominante) un concetto
superiore unitario di azione, prima che utile, fondato e legittimo, e lo
ricostruisce partendo dalla considerazione che l’azione e
l’omissione, l’azione e l’omissione dolose e colpose, prima
ancora che essere valutate come dolose o colpose, sono qualificabili come
comportamento umano (actus humanus non
semplicemente actus hominis) se e in
quanto siano dominate o almeno dominabili dalla volontà. Propone dunque
un’integrazione-superamento del concetto classico con una dimensione
esterna, obiettiva e in questo senso sociale: «una definizione di esso
come concetto penale-costituzionale di azione è in grado di segnalarne a
un tempo l’aspetto normativo-positivo, non ontologico, e la rispondenza
al “quadro dell’uomo” voluto dalla nostra Costituzione
(soprattutto art. 2, 25, 27)». La conclusione dell’Autore è
che nel codice vigente la coscienza e volontà di cui all’art. 42
comma 1 esprime in forma ridondante (la volontà presuppone sempre la
coscienza) il “coefficiente di umanità” minimo perché
un fatto fuoriesca dal novero dei fenomeni naturali e il diritto penale lo possa
prendere in considerazione.
[51] Il concetto di scelta
– osserva ABBAGNANO N. (Dizionario
di filosofia, cit., voce Scelta, 766) – in termini più
generici, è continuamente presente a Platone che, nel mito di Er, fa
dipendere il destino dell’uomo dalla scelta che ciascuno opera del
proprio modello di vita: «Non c’era nulla di necessariamente
preordinato per l’anima perché ciascuna doveva cambiare secondo la
scelta che essa faceva» (Rep. X,
15, 618 b). Platone accenna all’idea che solo l’autonomia di una
scelta comportamentale è quella a cui si può collegare la
responsabilità di chi agisce, ma il mito di Er non contiene però
un concetto di volontà avvicinabile a quello di origine
giudaico-cristiano abbozzato nel testo. Anche il Platone della vecchiaia non
pare abbia affrontato il problema morale e giuridico della
responsabilità: ritiene HORN C., Antike
Lebenskunst, cit., 170, che
è vero che Platone nelle Leggi distingue
tra delitti volontari e involontari ma resta inspiegato il motivo per cui si
è autorizzati ad attribuire a qualcuno la responsabilità del suo
comportamento sbagliato.
[52] Per Aristotele le
virtù si distinguono in virtù
dianoetiche, che riguardano l’esercizio dell’intelligenza, e virtù etiche, che invece
riguardano il rapporto dell’intelligenza con la sensibilità e con
gli affetti. In quanto sensitiva, e dunque in quanto non è di per
sé stessa razionale, l’anima può obbedire o disobbedire a
quella parte di sé che è l’attività razionale. Vi
è allora – conformemente alla filosofia platonica – una
“virtù etica”, che consiste nel sottomettere le tendenze
sensitive e appetitive alla tendenza razionale dell’anima, e una
“virtù dianoetica” che consiste nel portare e mantenere
l’anima razionale al culmine delle sue possibilità. Questo culmine
è costituito dalla saggezza (phronesis).
Al riguardo, SEVERINO E.,
[53] La virtù morale
deve unirsi – secondo Aristotele – alla saggezza pratica (phronesis), virtù della ragion
pratica. Questa consente all’uomo, in ogni situazione, di deliberare
intorno a cosa sia onesto, gentile o generoso, insomma che cosa sia giusto
fare. Sul tema e in particolare sui criteri in base ai quali l’uomo che
possiede la saggezza pratica può deliberare, ACKRILL J. L., Aristotle the Philosopher, cit., 215 ss.
[54] «Essendo le cose
giuste e ingiuste quelle che noi abbiamo descritto, si commette ingiustizia e
si agisce giustamente quando si compiono quelle azioni volontariamente; ma
quando si agisce involontariamente, non si compie né un atto di
ingiustizia né un atto di giustizia, se non per accidente, nel senso che
si compiono azioni cui accade di essere giuste o ingiuste. Ma che un atto sia
definito ingiusto e giusto dipende dal fatto che sia volontario o involontario:
quando infatti è volontario, viene biasimato, e nello stesso tempo, ma
allora solamente, è anche un atto di ingiustizia. Cosicché
sarà qualcosa di ingiusto ma non ancora un atto di ingiustizia, se non
si aggiunge la volontarietà» (Eth.
Nic., V, 10,
[55] Afferma DOLCINI E., Responsabilità oggettiva e principio
di colpevolezza, in Riv. it. dir.
proc. pen., 2000, 865, che
«il principio di colpevolezza rappresenta, a garanzia del cittadino, uno
dei principi cardine di ogni sistema penale moderno e a tale principio
ricollega una duplice esigenza, relativa non solo all’an ma anche al quantum della responsabilità: nessuno deve essere punito in
assenza di colpevolezza, né deve essere punito con una pena eccedente la
misura della colpevolezza».
Sul punto, ancora DOLCINI E., La
commisurazione della pena, Milano 1979, 258 ss., e nella letteratura tedesca,
ACHENBACH H., Historische und dogmatische
Grundlagen der Strafrechtssystematischen Schuldlehre, Berlin 1974, 4 e 10 ss.
[56] ABBAGNANO N., Storia della filosofia, cit., par. 81.
L’Autore osserva che in Aristotele sulla giustizia è fondato il
diritto. «Aristotele distingue il diritto privato dal diritto pubblico che concerne la vita associata degli
uomini nello stato e distingue il diritto pubblico in diritto legittimo (o positivo), che è
quello stabilito nei vari stati e il diritto naturale, che conserva dappertutto
il suo valore, anche se non è sancito da leggi. Dal diritto egli distingue l’equità, che è una correzione della legge mediante il
diritto naturale, resa necessaria dal fatto che non sempre nella formulazione
delle leggi è stato possibile contemplare tutti i casi, onde la loro
applicazione risulterebbe talvolta ingiusta.»
[57] Si è parlato a
proposito dell’effetto che discende dalla differenza tra fatto volontario
e involontario di una sorta di “diritto penale binario” (“zweigliedrige Strafrecht”) in Aristotele
(DEBRUNNER M.K., Das zweigliedrige
‘Strafrecht’ des Aristoteles: Geschlagene Amtsträger und
unfreiwillige Rechtsbeziehungen, in ZSS,
105, 1988, 680-694) . Ciò anche in relazione a
un’altra distinzione posta da Aristotele in rapporto al soggetto attivo e
a quello passivo: «Se infatti è chi detiene una magistratura ad
avere inferto colpi, non si deve colpirlo di contraccambio, e se si ha percosso
un magistrato non soltanto si deve essere percossi, ma anche puniti» (Eth. Nic. V, 8, 1132 b 30).
[58] ACKRILL J. L., Aristotle the Philosopher, cit., 237. Secondo Ackrill, meno felice pare
Aristotele sulla questione più profonda della giustificazione del
biasimo e della punizione, di contro alla loro efficacia.
[59] Aristotele non si
sofferma particolarmente sulla forza maggiore, sui casi di costrizione fisica,
perché qui è in realtà già fuori luogo la nozione
stessa di un “agente” e di una “azione”. Si sofferma
invece sull’analisi di “azioni miste”, situazioni cioè
in cui minacce, compensi o pressioni di vario genere possono influenzare
l’agente e scusare o addirittura giustificare ciò che fa, come per
esempio nel caso del capitano della nave nel mare in tempesta che per salvare
l’equipaggio ordina di gettare dalla nave il carico. Queste azioni sono
– secondo Aristotele – più simili alle azioni volontarie che
a quelle involontarie. Sono volontarie, per quanto in senso assoluto forse
sarebbero involontarie: “nessuno infatti di per sé vorrebbe
compiere nessuna di esse” (Eth.
Nic. III, 1,
[60] Secondo Arth. KAUFMANN, Die
Parallewertung in der Laiensphäre. Ein
sprachphilosophischer Beitrag zur allgemeinen Verbrechenslehre, München 1982, 4-5, affermare, così come si fa
tradizionalmente, che Aristotele avrebbe posto la regola “error iuris nocet, error facti non nocet”
è nella sua assolutezza inesatto. Con il termine άκούσιον («d.h. nicht
zurechenbar», dice Arthur Kaufmann) Aristotele indica infatti sia i casi
di error facti, nei quali cioè
l’agente agisce non conoscendo esattamente le concrete circostanze di
fatto, sia le ipotesi di error iuris:
tuttavia a questa ignoranza del precetto l’agente non può
appellarsi quando essa è evitabile, quando cioè si tratta di
disposizioni la cui conoscenza è generalmente supposta. Una soluzione
non dissimile – come vedremo nel testo - da quella accolta nella sentenza
364/88 della nostra Corte costituzionale. Cfr. sul tema dell’errore di
diritto nell’ottica aristotelica, WELZEL H., Naturrecht und materiale Gerechtigkeit, 4. aufl., Göttingen
1962, 35 ss. e SCHROTH U., Vorsatz und Irrtum, München
1998, 14.
[61] Ritiene oggi MORSELLI
E., Il ruolo dell’atteggiamento
interiore nella struttura del reato, Padova 1989, 73 (e nota 110) che il problema della
rilevanza o meno dell’errore di diritto si riduca in definitiva a un
problema di accertamento della buona o della mala fede criminosa nel soggetto
agente; in sostanza il problema della rilevanza della coscienza
dell’antigiuridicità, e del correlativo errore di diritto, si
riassume, secondo l’Autore, in un problema di accertamento della
sussistenza dell’animus nocendi,
o malafede criminosa. Un concetto non dissimile dalla
“malvagità” dimostrata attraverso l’ignoranza di cui
parla Aristotele.
[62] «E intendo per
volontario, come si è detto anche prima, quell’atto, tra gli atti
che dipendono da lui, che uno compie in piena avvertenza, e cioè non ignorando
né la persona, né il mezzo, né il fine: ad esempio, chi
percuote o con che cosa o a quale fine; e ciascuno di questi aspetti
dell’azione non è né accidentale né forzato (per
esempio, se qualcuno prende la mano di un altro e picchia un terzo, il secondo
non agisce volontariamente, perché l’atto non dipende da lui).
Può capitare che l’uomo picchiato sia suo padre, e che egli sappia
sì che è un uomo ed è uno di quelli che gli stanno
intorno, ma ignori che è suo padre. Una distinzione simile si può
fare anche nel caso del fine e nel caso dell’intero svolgimento
dell’azione.» (Eth. Nic., V,
10,
[63] Oggi nella dottrina
penalistica si afferma, a proposito dell’oggetto del dolo, che
l’agente doloso vuole realizzare un fatto, del quale si rappresenta tutti
gli elementi necessari e sufficienti a fondarne la corrispondenza alla
fattispecie criminosa. PULITANO’, Diritto
penale, cit., 350, osserva,
richiamando il passo aristotelico citato nel testo, che la conoscenza delle
“circostanze particolari nelle quali e in relazione alle quali si compie
l’azione” è criterio di identificazione dell’azione
volontaria già nella riflessione sull’etica del maggior filosofo
dell’antichità.
[64] Questo concetto si
ritroverà poi, in chiave teologica, in Tommaso d’Aquino, che
chiamerà actio humana quella
specifica per l’uomo, in quanto modalità cosciente
dell’essere attivo (Sth., I-II,
1, 1). Vedi SCHÖNBERGER R., Thomas von Aquin zur Einführung, Hamburg 1998, trad. italiana
a cura di P. Kobau, Bologna 2002,
125.
[65] Peraltro si osserva
oggi che sul terreno del reato commissivo doloso l’azione è sempre
caratterizzata dalla partecipazione effettiva della coscienza e volontà:
anzi, in questo senso, i presupposti dell’esistenza di un’azione
cosciente e volontaria finiscono col rimanere assorbiti da quelli
normativamente richiesti per la configurazione del dolo: «azione
cosciente e volontaria» e azione «dolosa» finiscono, dunque,
col coincidere. Così FIANDACA G.- MUSCO E., Diritto penale. Parte generale, IV ed., Bologna 2001, 192-193. Sul punto, fondamentale
MARINUCCI G., Il reato come azione.
Critica di un dogma, Milano 1971,
200 ss. e 239 ss.
[66] LÖFFLER A., Die Schuldformen des Strafrechts,
cit., 70, rende in tedesco il
termine προαίρεσις
con überlegt Vorsatz
(“dolo di proposito“). Chi agisce invece con dolo d’impeto
compie sì un’azione ingiusta ma non è egli ingiusto e
malvagio.
[68] Osserva ACKRILL J. L., Aristotle the Philosopher, cit., 224, che questa affermazione non implica
necessariamente che alcuni obiettivi non possano assolutamente essere oggetto
di deliberazione (e quindi scelti o rifiutati), ma implica soltanto che ogni
caso particolare di deliberazione deve dare per scontato qualche scopo, fine o
principio. Non posso cioè deliberare allo stesso tempo su come
arricchirmi e se adottare come obiettivo la ricchezza.
[69] Riassume così
ABBAGNANO N., Dizionario di filosofia, cit.,
voce Deliberazione, 217: «La deliberazione è la
considerazione delle alternative possibili che una certa situazione offre alla
scelta. Questo vuol dire Aristotele quando parla dei limiti della deliberazione
ed esclude dall’ambito di essa non solo il necessario (che non può
non essere) ma anche il fine. Infatti, osserva Aristotele, il medico non si
domanda se si propone o non di guarire il malato né l’oratore si
domanda se si propone o non di persuadere o l’uomo politico di istituire
una buona legislazione. Piuttosto, una volta posto il fine, si esamina come e
per quali vie si potrà attingerlo; e su queste vie o mezzi, per
conseguenza, verterà la deliberazione. La deliberazione si conclude e
culmina nella scelta». Conclude Abbagnano che queste determinazioni
aristoteliche sono rimaste classiche.
[70] La deliberazione o
ragionamento pratico dovrebbe concludersi con una scelta razionale e
un’azione appropriata al fine. La deliberazione permette all’uomo
di vedere che cosa deve fare per conseguire i propri obiettivi. Di regola egli
fa proprio questo: se non lo fa occorre una spiegazione. L’akrasia è il non fare ciò
che si sa di dover fare o il fare ciò che si sa di non dover fare.
L’agire contro ragione è un problema che già era stato
posto da Socrate e Platone e che Aristotele tratta con una certa ampiezza. Lo
Stagirita si chiede se e in che modo l’uomo acratico “sa” che
ciò che sta facendo è male. A questo proposito traccia alcune
distinzioni che danno conto dei meccanismi - ancora oggi attuali - che portano
al compimento delle azioni biasimevoli o punibili. In primo luogo distingue il
sapere disposizionale (cioè un sapere che l’uomo acritico possiede
ma a cui non sta pensando) dal sapere attualizzato. Poi differenzia due tipi
diversi di akrasia: la debolezza (non
attenersi alla conclusione o alla decisione raggiunta) e
l’impetuosità (non fermarsi affatto a riflettere). Sul concetto di
akrasia in Aristotele, ACKRILL J. L., Aristotle the Philosopher, cit., 224 ss.
[71] Osserva ABBAGNANO N. (Dizionario di filosofia, cit., voce Scelta, 766) che la determinazione secondo la quale
la scelta concerne solo le cose possibili viene poi esplicitamente sottolineata
da S. Tommaso, che ripete sostanzialmente l’analisi aristotelica. Sul punto anche SCHÖNBERGER R., Thomas
von Aquin zur Einführung, cit.,
130 ss.
[72] Aristotele esamina e
caratterizza, tra le altre, passioni quali desiderio, ira, paura, ardimento,
invidia, gioia, affetto, brama, gelosia e pietà (Eth. Nic., II, 4, 1105 b, 20ss.). L’ampiezza e la precisione
della presentazione è motivata – ad avviso di HORN C., Antike Lebenskunst, cit., , cit., 143 – dal suo volere analizzare e
differenziare il contesto situazionale e l’elemento cognitivo di ciascuna
delle passioni. Secondo la concezione aristotelica, aggiunge Horn ( 144), le
emozioni sono una parte irriducibile della personalità morale.
[73] Sull’importanza
di questa distinzione e sull’influsso attraverso lo stoicismo nel diritto
penale romano, LÖFFLER A., Die
Schuldformen des Strafrechts, cit.,
71 ss.
[74] ABBAGNANO N., Storia della filosofia, cit., par. 81.
Aristotele chiama libero ciò che ha in sé il principio dei suoi
atti o è «principio di sé stesso» (Eth. Nic., III, 5, 1112b, 15-16). L’uomo è libero proprio in
questo senso: in quanto è «il principio e il padre dei suoi atti
come dei suoi figli» (Eth. Nic., III,
7, 1113b, 10 ss.); e sia le virtù che i vizi sono manifestazioni di
questa libertà.
[75] REALE G., Aristotele e il primo Peripato,
cit., 192-193 e 289-290. Nello stesso senso, KAHN C., Discovery
of the Will: from Aristotle to Augustine, in J.M. DILLON, The Question of Eclecticism, Berkeley
1988, 234 ss.
[76] ABBAGNANO N., Dizionario di filosofia, cit., voce Volontà,
[77] Il rapporto tra
colpevolezza e libertà del
volere è posto in questi termini, oggi, da ROMANO M., Commentario sistematico del codice penale, cit., 327: «la colpevolezza presuppone
una libertà di agire dell’uomo, una libertà del volere; non
necessariamente un libero arbitrio inteso come a-causale, a-motivata spontaneità
e creatività, sì invece una libertà come capacità
dell’uomo, seppure entro certi limiti, di autodeterminarsi, di assumere
decisioni, di optare tra più alternative, di scegliere se adeguarsi o
ribellarsi al diritto». Per una interessante rivisitazione del tema alla
luce delle acquisizioni delle moderne scienze cognitive, LAMPE E.J., Willensfreiheit und strafrechtliche
Unrechtslehre, in ZStW (118),
2006, 1 ss. Cfr. dal punto di vista
delle neuroscienze, GAZZANIGA M.S., The
Ethical Brain, New York – Washington, D.C.,
[78] Secondo ABBAGNANO N., Dizionario di filosofia, cit., voce Volontà, 924, entrambi questi significati del
termine “volontà” sono propri sia della filosofia
tradizionale sia della psicologia ottocentesca, perché sono collegati
con la nozione di facoltà o poteri originari dell’anima che si
combinerebbero assieme per produrre le manifestazioni dell’uomo. Ma
né la filosofia né la psicologia contemporanee interpretano in
questo modo la condotta dell’uomo. Le nozioni di
“comportamento” e di “forma” nonché
l’indirizzo “funzionalistico” della psicologia non consentono
– conclude l’Autore – di parlare di “principi”
dell’attività umana e pertanto la classificazione
intelletto-volontà o quella intelletto-sentimento-volontà hanno
perso il loro significato letterale. Abbagnano riconosce comunque che il
termine volontà viene conservato, ma per indicare certi tipi di condotta
o certi aspetti della condotta. Così deve ritenersi avvenga – sia
consentito osservare – nel diritto penale, dove il termine
“volontà” ancora oggi viene usato per identificare e
definire la vera essenza del dolo. Il richiamo a questo contenuto del dolo,
contro le tentazioni oggettivistiche nella definizione e soprattutto
nell’accertamento di esso, è esplicito già nel titolo di
uno dei più significativi recenti contributi in tema di dolo: EUSEBI L.,
Il dolo come volontà, cit.
[83] Corte cost. 24 marzo
1988, n.
[84] Corte cost. 24 marzo
1988, n. 364, cit., 699.
Pulitanò ( 691) rileva come fra le funzioni di fondamento e di limite
della reazione punitiva, che nel dibattito dottrinale vengono proposte per il
principio di colpevolezza,
[86] Corte cost. 24 marzo
1988, n. 364, cit., 711-712.
Osservano FIANDACA G.- MUSCO E., Diritto
penale, cit., 360, che anzi la
compenetrazione psicologica fatto-autore cresce quanto più
l’agente sia in grado di cogliere la carica antigiuridica del fatto
commesso.
[87] Corte cost. 24 marzo
1988, n. 364, cit., 713. Il riferimento
espresso alla libertà come presupposto della responsabilità
è tradizionale nel diritto penale italiano. Già secondo PESSINA
E., Elementi di diritto penale, Napoli
1880, 159-160 e 313- 314, il dolo
è volizione del maleficio («voluntas
sceleris»). Requisiti di struttura del dolo sono che «il
fenomeno della negazione del Diritto sia stato preveduto dall’essere
operante e come negazione del Diritto e come conseguenza, sia certa o sia
probabile, di un movimento spontaneo del suo organismo» e che
«l’essere operante abbia voluto quel movimento del suo organismo,
dal quale come effetto da cagione, deriva il fenomeno della negazione del
Diritto». Il dolo, dunque, in quanto volizione del maleficio, è
opera di intelligenza e di libertà: «maleficio è dunque
l’azione della libertà umana che infrange il Diritto». Ne
deriva ( 29-30) che la società «deve incriminare tutte quelle
azioni che, movendo dalla libertà umana, violano un’attenenza
giuridica in maniera da rendere impossibile l’attrazione in forma positiva,
relativamente al fatto che si è compiuto». Sul dolo (e in
particolare sul rapporto con l’imputabilità) nel diritto penale
dell’ottocento, SANTAMARIA D., Interpretazione
e dommatica nella dottrina del dolo, Napoli 1961, ora in Scritti di diritto penale, a cura di
[89] Alla c.d. teoria della
colpevolezza si contrappone la c.d. teoria del dolo (Vorsatztheorie), secondo la quale la coscienza
dell’antigiuridicità si pone invece accanto alla rappresentazione
e volizione quale elemento fondamentale del dolo. La contrapposizione tra
[90] La stessa Corte
costituzionale nella sentenza citata ( 705) segnala come in tutti i lavori
preparatori relativi al primo comma dell’art. 27 Cost. il termine
“fatto” venisse sempre usato come comprensivo anche di un minimo di
requisiti subiettivi, oltre a quelli relativi alla coscienza e volontà
dell’azione.
[91] Corte cost. 13 dicembre
1988, n.
[94] Così individuano
la logica che sta alla base di questo requisito del dolo, MARINUCCI G. –
DOLCINI E., Manuale di Diritto Penale, cit., 184, i quali aggiungono che, per
converso, la rilevanza dell’errore sul fatto discende proprio
dall’impossibilità che il soggetto venga trattenuto
dall’agire.
[96] «Eine der schwierigsten und
umstrittensten Fragen des Strafrechts», definisce WELZEL H. (Das Deutsche Strafrecht. Eine systematische Darstellung, 11 Aufl., 1969, 69) la delimitazione dei confini tra
dolo eventuale e colpa cosciente.
[97] FRANK R., Das Strafgesetzbuch
für das deutsche Reich, 18 Aufl., Tübingen 1931, 190. Con la prima formula, si afferma
l’esistenza del dolo eventuale quando si accerti che l’agente,
qualora avesse previsto come sicuro il verificarsi dell’evento, avrebbe
agito ugualmente; con la seconda formula si ritiene presente il dolo eventuale
se l’agente si è detto: le cose possono stare o andare in questo
modo o altrimenti, in ogni caso io agisco.
[102] ENGISCH K., Untersuchungen über
Vorsatz und Fahrlässigkeit im Strafrecht, Berlin 1930 (rist. Aalen
1964), 177.
[103] ROXIN C., Zur Abgrenzung von
bedingtem Vorsatz und bewuβter
Fahrlässigkeit, cit., 53 ss.; ID., Zur Normativierung des dolus eventualis und zur Lehre von der
Vorsatzgefahr, in Festschrift
Rudolphi, Neuwied 2004, 255
ss.; ID., Strafrecht. Allgemeiner Teil.
Band I. Grundlagen. Der Aufbau der Verbrechenslehre, 4 Aufl., München
2006, 445 ss.; HASSEMER W., Einführung in die Grundlagen des
Strafrechts, München 1981,
206 ss.; ID., Kennzeichen
des Vorsatzes (in Armin
Kaufmann – GS, 1989), trad. it. di Canestrari S., in Indice pen., 1991, 488-489; PHILLIPS L., Dolus eventualis als Problem der
Entscheidung unter Risiko, in ZStW, 1973, 27 ss.; KÖHLER M., Die bewusste Fahrlässigkeit. Ein strafrechtlich-rechtsphilosophische
Untersuchung, Heidelberg 1982,
330 ss.; FRISCH W., Vorsatz und
Risiko. Grundfragen des tatbestandsmäβigen Verhaltens und des
Vorsatzes. Zugleich ein Beitrag zur Behandlung aussertatbestandlicher
Möglichkeitsvorstellungen, Köln – Berlin – Bonn
– München 1983, 46 ss.; ZIEGERT U., Vorsatz, Schuld und Vorverschulden, Berlin 1987, 84 ss. e 142 ss.; RUDOLPHI H.J., in SKStGB, 5 aufl., 1988, § 16, n. 39;
BRAMMSEN J., Inhalt und Elemente des
Eventualvorsatzes – Neue Weg in der Vorsatzdogmatik?, in JZ, 1989, 79; STRATENWERT G., Strafrecht. Allgemeiner Teil. I, Die Straftat, IV ed., Köln
– Berlin – Bonn – München 2000, 145 ss.
[104] SCHMIDHÄUSER E., Die Grenze
zwischen vorsatzlicher und fahrlässiger Straftat («dolus
eventualis» und «bewusste Fahrlässigkeit»), in Jus, 1980, 250; CANESTRARI S., Dolo eventuale e colpa cosciente. Ai confini
tra dolo e colpa nella struttura delle tipologie delittuose, Milano 1999, 71.
[105] PROSDOCIMI S., Dolus eventualis. Il dolo eventuale nella
struttura delle fattispecie penali, Milano 1993,, 32-33. Concorda con la posizione di
Prosdocimi, CERQUETTI G., La
rappresentazione e la volontà dell’evento nel dolo, cit.,
[106] PROSDOCIMI S., Dolus eventualis, cit., 33.
[107] LIBERATI G., Mommsen e il diritto romano, in Materiali per una storia della cultura
giuridica, 6, 1976, 283. Sul
tema GNOLI F., voce Diritto penale nel diritto romano, in Dig. disc. pen., IV, Torino 1990, 46-47. Sull’inadeguatezza degli
schemi dogmatici e concettuali odierni per la comprensione del diritto penale
romano, BASSANELLI SOMMARIVA G., Proposta
per un nuovo metodo di ricerca nel diritto criminale (a proposito della
sacertà), in BIDR,
1986, 327. Pone in guardia da
possibili schematismi e genericità, ARCHI G.G., Introduzione al Congresso “Il problema della pena criminale tra
filosofia greca e diritto romano”, in Atti del Deuxième Colloque de Philosophie Pénale, Cagliari, 20-22 aprile
[109] Scrive MOMMSEN in una
pagina della prefazione all’Abriss
des römischen Staatsrecht, citata da MASIELLO T., Mommsen e il diritto penale romano, cit., 28: «Se un ordine acconcio
è la chiave di ogni intelligenza delle cose, qui ci si parano dinnanzi
difficoltà straordinarie. In una misura ancora più grande di quel
che non avvenga nel diritto privato noi siamo qui abbandonati a noi stessi; nel
diritto pubblico non è a noi pervenuto dall’evo antico una
esposizione che ci dia approssimativamente idea del sistema. Ma anche nella
materia stessa insorgono ostacoli. I singoli istituti sono germogliati sul
terreno storico, quindi “illogici”; ogni istituto si deve così
abbracciare nella sua individualità, come dichiarare nelle sue funzioni
politiche spesso assai varie». Nel Römisches
Strafrecht, Mommsen avverte perciò con chiarezza che “la
costruzione di un diritto penale romano, concetto che la scienza giuridica
romana stessa non ha stabilito, non può essere realizzata senza un certo
arbitrio“ (MOMMSEN Th., Römisches
Strafrecht, Leipzig 1899, rist. Aalen 1990, 525).
[110] Riguardo alla
possibilità di individuare categorie sistematiche nel diritto penale
romano, secondo ZUCCOTTI F., «Furor» e «eterodossia» come categorie sistematiche della
repressione criminale romana, in Il
problema della pena criminale tra filosofia greca e diritto romano, cit., 276, non sembra potersi utilmente negare
che il diritto penale romano, pur nella sua spiccata contingenza fattuale e
nella pressoché caratteristica assenza di precise teorizzazioni
costruttive, potesse tuttavia strutturarsi implicitamente secondo certune
“categorie sistematiche”, intendendole quantomeno come schemi
classificatori mediante i quali la mentalità antica individuava e
provvedeva a impedire determinati comportamenti ritenuti illeciti.
L’Autore ritiene peraltro (281-282) che nel campo dell’ordinamento
criminalistico romano sembra quasi mancare qualunque virtuale comunanza di
concetti costruttivi che permetta di collocare gli istituti repressivi antichi
nei possibili quadri classificatori propri della sistematica del diritto penale
moderno. Cfr. GIOFFREDI C., I principi
del diritto penale romano, Torino 1970, 26-27, per il quale i giuristi romani
conoscono gli istituti di parte generale dell’attuale diritto penale
(come il dolo) ma li trattano casisticamente, non costruendovi intorno un
sistema. L’Autore afferma che la lettura delle opere dei giuristi romani
suggerisce anzi l’idea di un diritto penale progredito, soprattutto
quando in età più tarda essi creano un’articolazione di
norme connettendo leges, costituzioni
imperiali e senatoconsulti. Gioffredi segnala infine un tentativo (peraltro
modesto) di sistemazione generale che si trova in un lungo frammento del
giurista Claudio Saturnino (probabilmente del II sec. d.C) tratto
dall’opera De poenis paganorum e
conservato in Digesto 48,19,16.
[112] GNOLI F., Diritto penale nel diritto romano,
cit., 46. Viene infatti osservato
da PUGLIESE G., Diritto penale romano,
in Il diritto romano. La costituzione.
Caratteri, fonti. Diritto privato. Diritto criminale (Guide allo studio della
civiltà romana, 6), Roma
1980, 249, che essendo il potere
punitivo una “manifestazione del potere politico di guida e di
governo”, gli organi della repressione e le forme di essa furono a Roma
nettamente influenzati dalla organizzazione politica della collettività.
[113] Afferma MOMMSEN nel Vorwort al Römisches Strafrecht: “Strafrecht ohne Strafprozess ist ein Messergriff ohne Klinge und
Strafprozess ohne Strafrecht eine Klinge ohne Messergriff” (“Il
diritto penale senza il processo penale è un [manico di] coltello senza
lama e il processo penale senza il diritto penale è una lama senza
[manico di] coltello”). Secondo MASIELLO T., Mommsen e il diritto penale romano, cit., 40-41, la nota metafora esprime
efficacemente l’idea di uno stretto intreccio tra la realtà
normativa rappresentata dal reato e quella istituzionale rappresentata dal
tribunale corrispondente. L’interconnessione, prosegue Masiello, è
resa esplicita da Mommsen con l’affermazione che la legge istitutiva di
una quaestio (tribunali stabili,
creati con legge, che diventeranno l’organo ordinario della repressione
criminale dell’ultima età repubblicana e dei primi tempi
dell’impero) istituisce anche
il reato e il tasso di pena.
Il fondamento
processuale dello sviluppo del diritto criminale romano è affermato
anche da BRASIELLO U., Note introduttive
allo studio dei crimini romani, in Studia
et Documenta Historiae et Iuris, 1946,
149-150. Brasiello sostiene
che lo studio del diritto penale romano, essendo uno studio storico, è
uno studio non di semplice costruzione ma di ricostruzione: esso pertanto deve
procedere in modo diverso da quello del diritto penale odierno. I vari campi
vanno valutati dunque in quest’ordine: 1) il processo, 2) le pene; 3) i
crimini; 4) la parte generale; 5) infine si potrà tentare di assurgere a
una valutazione del pensiero latente dei romani su singoli aspetti di teoria
generale, come per esempio il dolo.
[114] GIUFFRE’ V., La repressione criminale
nell’esperienza romana, Napoli 1998, XII dell’introduzione. Nello
stesso senso GIOFFREDI C., I principi del
diritto penale romano, cit.,
26. Secondo BRASIELLO U., voce Delitti
(dir. romano), in Enc. dir., XII,
Milano 1964, 6-7, il carattere
eminentemente processuale del diritto penale romano è più
evidente in età classica, perché «l’unità del
crimine istituito dalla legge è data non tanto dalla sua natura
sostanziale, quanto dal fatto che tutte le ipotesi sono da assoggettarsi alla
stessa procedura, e sboccano nella stessa pena»; la situazione muta,
peraltro solo parzialmente, in epoca imperiale, dato che con la cognitio extra ordinem «si ha un
diritto penale di contenuto sostanziale, con figure criminose che vengono
represse con un tipo di processo più semplice ed elastico».
[116] Questo giudizio di
Mommsen, espresso nella prolusione zurighese del 1852, deve però
ritenersi superato al momento della pubblicazione del Römisches Strafrecht nel 1899, quando invece ravvisa in taluni
momenti dell’esperienza criminalistica romana, «un’etica di
garanzia dei diritti di libertà individuali»: così MASIELLO
T., Mommsen e il diritto penale romano,
cit., 75. Sulle motivazioni
politiche sottese a un tale cambiamento di opinione, GIUFFRE’ V., La repressione criminale, cit., 73.
[117] CARRARA F., Programma del corso di diritto criminale,
Parte speciale, vol. I, Lucca 1891, VI ed., 99. Carrara in un’altra parte del Programma (Parte generale, vol. II, Del giudizio criminale, VIII ed., Firenze
1897, 498-
[118] Così Cesare
Beccaria, nella premessa “A chi legge” del Dei delitti e delle pene, descrive l’eredità normativa
dei secoli passati: «Alcuni avanzi di leggi di un antico popolo
conquistatore fatte compilare da un principe che dodici secoli fa regnava in
Costantinopoli, frammischiate poscia co’ riti longobardi, ed involte in
farraginosi volumi di privati ed oscuri interpreti formano quella tradizione di
opinioni che da una gran parte dell’Europa ha tuttavia il nome di leggi;
ed è cosa funesta quanto comune al dì d’oggi che una
opinione di Carpzovio, un uso antico accennato da Claro, un tormento con
iraconda compiacenza suggerito da Farinaccio, sieno le leggi a cui con
sicurezza obbediscono coloro che tremando dovrebbero reggere le vite e le
fortune degli uomini.» Come osserva Franco Venturi (curatore
dell’edizione Mondadori del Dei
delitti e delle pene, Milano 1991,
27 nota 2), la polemica contro il diritto romano, contro
l’imperatore Giustiniano, che
dodici secoli fa regnava in Costantinopoli, contro la tradizione degli
interpreti medievali, è fondamentale in Beccaria, così come
è largamente diffusa in tutto il nostro Settecento. Ancora più
dura la condanna della giurisprudenza romana e del medioevo da parte degli
Illuministi francesi (in particolare Voltaire e Condorcet), nel quadro della
complessiva condanna da essi affermata della storia, di tutta la storia, in
nome degli ideali di libertà e di uguaglianza insopprimibili nella
natura umana. Sul punto, CALASSO F., Medioevo
del diritto. I. Le fonti, Milano 1954,
9-10, il quale riporta come agli occhi di Condorcet anche l’unica
scienza di cui l’umanità si sentiva debitrice, la giurisprudenza
romana, aveva origini impure, perché nata in funzione dell’astuzia
dei detentori del potere e avrebbe approfittato del rispetto del popolo per le
istituzioni allo scopo di imbrigliarne la volontà: di qui la stridente
contraddizione in cui cadde – secondo l’Illuminista francese - la
giurisprudenza romana, di affermare da un lato l’esistenza di un diritto
naturale, dall’altro di impedirne il trionfo con i suoi formalismi
tirannici.
[120] L’espressione
è di ARCHI G.G., Scritti di
diritto romano, Milano 1981-1995, III,
1496 n. 20. Così DAHM G., Deutsches
Recht, Stuttgart und Köln 1951,
99 (e anche in ID., Zur Rezeption
des romisch-italienischen Strafrechts, cit., 24): «Die Römer waren nicht Systematiker, sondern Empiriker des Rechts»
e prosegue sostenendo che nel diritto ravvisavano non una scienza ma
un’arte di vita («eine
Lebenkunst»).
[122] Su questa involuzione
dei sistemi di garanzia del cittadino romano, GIUFFRE’ V., La repressione criminale, cit., 69 e 155 ss. L’Autore riporta (
129) le seguenti osservazioni di SCHULZ F. (Storia
della giurisprudenza romana, Firenze 1968): «Alla fine del II secolo
si verificò una accentuata decadenza delle quaestiones, e il diritto e la procedura penale al di fuori delle quaestiones erano così
indefiniti, arbitrari e autoritari, che ogni costruzione giuridica di concetti
e di principi sarebbe stata priva di significato pratico».
[123] GIOFFREDI C., I principi del diritto penale romano,
cit., 14-15. Per il diritto penale
strettamente inteso – afferma l’Autore - non si può pertanto
parlare di giurisdizione: anche nei casi in cui il magistrato amministra la
giustizia da solo (coercitio), egli
non pone in essere una regola di diritto (come invece avviene nelle questioni
private), ma una sanzione (o una assoluzione); quando poi è il populus a decidere, è ancora
più difficile parlare di ius
dicere, perché la sua non è una pronuncia formale e solenne, ma
una votazione. Lo stesso Autore ritiene peraltro – in contrasto con
l’impostazione di Mommsen prima citata e dominante in dottrina –
che il profilo penalistico raggiunge, a un certo punto dello sviluppo storico,
autonomia scientifica: ciò sarebbe avvenuto verso la fine della
repubblica, quando l’istituzione delle quaestiones perpetuae testimonierebbe come il diritto penale si
stesse avviando in direzione di una certa autonomia. Sugli inizi della
repressione criminale, SANTALUCIA B., Diritto
e processo penale nell’antica Roma, II ed., Milano 1998, 1 ss.
[127] SANTALUCIA B., Diritto e processo, cit., 15. Secondo LÖFFLER A., Die Schuldformen des Strafrechts,
cit., 66, l’originario
sviluppo del diritto romano nel campo della colpevolezza ha luogo sotto la
spinta del diritto sacrale.
[128] MELIS C.A., ‘Arietem offerre’. Riflessioni
attorno all’omicidio involontario in età arcaica, in Labeo, 38, 1988, 135 ss.
[129] LÖFFLER A., Die Schuldformen des Strafrechts,
cit., 64, ritiene che la
bipartizione dell’omicidio in doloso e non doloso – posta da queste
antiche leggi – risponda a uno stadio di sviluppo del diritto penale
comune anche agli altri popoli. All’interno dell’omicidio non
doloso ricadono ancora ipotesi da riferire, come in seguito avviene, più
correttamente al casus.
[130] LÖFFLER A., Die Schuldformen
des Strafrechts, cit., 60-61;
IMPALLOMENI G.B., L’omicidio,
cit., 245-246.
[131] GROSSO G., Storia del diritto romano, V ed., Torino
1965, 28. Più che con le
astrazioni – aggiunge Grosso a proposito poi della costituzione
repubblicana (232-233) – gli antichi operano con termini concreti,
incarnazioni vive dei problemi e dei concetti giuridici: essi assurgono alla
rappresentazione e personificazione dello Stato, della res publica, come ordinamento sovrano, attraverso il populus romanus, cioè lo stesso
ordine dei cittadini, incarnato nella comunità organizzata. Di qui
l’uso di populus romanus là
dove noi tradurremmo come “Stato”.
[132] GIOFFREDI C., I principi del diritto penale romano,
cit., 65.
Questo non significa
peraltro l’abbandono del diritto di vendetta, ancora presente in tarda
epoca repubblicana, in particolare nei confronti di adulteri e ladri scoperti
in flagranza.
[134] FERRINI C., Diritto penale romano. Esposizione storica e
dottrinale, in Enciclopedia del
diritto penale italiano, a cura di E. Pessina, vol. I, Milano 1905, 40. Gli esempi di esili per omicidio
involontario trovano ragione in una sorta di espiazione verso la collera della
divinità, comunque offesa dalla soppressione di un essere umano.
[135] Molto si è disputato
sul significato della formula “paricidas
esto”. Messa da parte l’interpretazione che paricidas indichi l’autore
dell’omicidio, giacchè appare più verosimile che una norma
concreta si riferisca alla sanzione, l’interpretazione può
oscillare – ad avviso di GROSSO G., Storia
del diritto romano, cit.,
149-150 – tra un significato passivo, nel senso che
l’uccisore deve essere parimenti ucciso, e un significato attivo, nel
senso che deve esservi un vendicatore, un paricidas.
Secondo entrambe le interpretazioni la norma afferma il valore religioso della
vendetta, che deve appunto gravare sul gruppo familiare.
L’interpretazione che attribuisce significato passivo alla formula
è già proposta da CARRARA F., Programma
del corso di diritto criminale, Parte speciale, vol. I, cit., 181 ss. Vedi anche TONDO S., Leges regiae e paricidas, Firenze
1973, 186 ss.
[137] LÖFFLER A., Die Schuldformen
des Strafrechts, cit., 66. L’Autore poi (nota
33, 66-67) riporta e contesta la tesi
di un autore, Brunnenmeister, secondo la quale dolus malus e Vorsatz
sono per natura concetti diversi. Secondo Brunnenmeister il concetto di dolus malus reca l’impronta
dell’immoralità e della riprovevolezza sotto il profilo etico,
mentre al concetto di Vorsatz è
connaturale la coscienza dell’antigiuridicità. Löffler
ritiene invece che l’immoralità dei motivi non rappresenti
elemento concettuale del dolus malus.
[138] Sull’origine
della formula, CANCELLI F., voce Dolo
(dir. rom.), in Enc. dir., XIII,
Milano 1964, 718. Osserva FERRINI
C., Dir. pen. rom. Esposizione,
cit., 42, che l’epiteto
“malo” può essere
venuto in uso poi, nella fioritura pleonastica della terminologia repubblicana.
Secondo CORDERO F. (Criminalia. Nascita
dei sistemi penali, Roma – Bari 1986,
[139] CANCELLI F., Dolo, cit., 716. Peraltro tale derivazione –
stando a PECORARO ALBANI A., Il Dolo,
Napoli 1955, 3, nt. 1 – non è scontata: alcuni filologi
moderni infatti ipotizzano, attraverso lo studio di antiche radici
linguistiche, che l’originario significato del termine sia quello di
“intenzione”, “prendere di mira”.
[140] BINDING K., Die Normen und ihre
Übertretung. Eine Untersuchung über die rechtmäßige
Handlung und die Arten des Delikts, II, 2, 2. Aufl., Leipzig
1916, 640 ss. Più
precisamente Binding ( 644-645) distingue due differenti concetti di dolo: il
primo originario e più ristretto da ricondurre alla nozione di astuzia
diretta all’illecito; il secondo concetto, proprio specialmente del diritto
penale dell’età classica, identifica invece l’aspetto
volontario del comportamento malizioso e della vis. Sul tema, peraltro, già PERNICE A. Der verbrecherische Vorsatz im griechisch-römischen Rechte,
cit., 205, il quale segnala in
particolare l’influsso greco sulla nozione di dolo come “bewusste Absicht“.
[141] Per la critica alla
concezione di Binding, CANCELLI F., Dolo,
cit., 719-721. L’Autore oltre
a fornire prove testuali, rileva ( 720) che «è noto che per i
primitivi nel più si contiene il meno: la malizia, l’astuzia,
l’artificio non escludono pur l’atto volontario quando questo fosse
indirizzato ad un’azione comunque riprovata dal costume, dalla religione
e dal diritto».
Ciò che il
concetto di dolus rappresenta nel
settore degli illeciti privati, è riprodotto nel campo del diritto
criminale dalla figura – repressa extra
ordinem – dello stellionatus
(da stellio, specie di rettile),
consistente in qualsiasi comportamento truffaldino, che già non rientri
in una specifica previsione di reato. Nel Digesto si citano a titolo di esempio
la vendita come beni liberi di cose vincolate in garanzia, oppure gli inganni (imposturae) e le collusioni a danno di
altri, o ancora la fraudolenta sostituzione di cose vendute.
[142] La distinzione tra crimina e delicta non coincide in nessun momento dell’evoluzione del
diritto romano con la distinzione moderna tra “illecito penale” e
“illecito civile”. Nell’ottica romana anche la
responsabilità che deriva dal danno aquiliano è
responsabilità penale, perché per i giuristi romani
l’azione è penale in quanto miri a una sanzione e
indipendentemente dalle forme in cui questa sanzione è irrogata o in cui
la responsabilità è accertata. Sul tema VOCI P., Risarcimento e pena privata nel diritto
romano classico, Milano 1939,
94 ss.
[145] SANTALUCIA B., Diritto e processo, cit., 98 ss. Osserva l’Autore che le questiones disposte per plebiscito,
essendo istituite con il voto dell’assemblea, non pongono quel problema
di legalità costituzionale che invece sollevano quelle per senatusconsulta: queste ultime infatti
– che non suscitano problemi quando riguardano la persecuzione di socii italici – iniziano a
riguardare anche cittadini romani, violando così il principio che
l’unico giudizio legittimo contro un cittadino romano accusato di un
delitto capitale è quello del popolo riunito in assemblea centuriata.
Così quaestiones come quella
relativa allo scandalo dei Baccanali e quella contro i seguaci di Tiberio
Gracco devono ritenersi vere e proprie usurpazioni dal punto di vista
costituzionale, e in particolare l’ultima dà luogo a una decisa
reazione popolare che conduce all’abolizione di tutte le questiones che non siano stabilite per
atto legislativo.
[146] Il termine quaestio, che originariamente designa l’attività del magistrato
investito del compito di indagare (quaerere),
passa poi a indicare, con l’introduzione delle corti permanenti, anche il
procedimento davanti alla giuria, per contrassegnare infine lo stesso tribunale
presieduto dal magistrato.
Anche di altri termini
è interessante analizzare l’etimologia (GIOFFREDI C., I principi, cit., 16). Il termine reatus ha in principio valore processuale e designa la condizione
di accusato (reus) e passa poi a
indicare il titolo dell’accusa e perciò il fatto criminoso. Reus è termine che si riferisce
anche alla materia civile (da res,
oggetto della controversia), indicando sia l’attore che il contenuto del
processo, e, fuori del processo, chi è obbligato. La parola crimen, essendo imparentata con cerno, si rifà al concetto di
discernere e decidere. Infine delictum (etimologicamente
“mancamento”) designa (così FERRINI C., Diritto penale romano. Esposizione, cit., 18-19) la mancanza eticamente
riprovevole: forse in origine l’omissione di quanto è doveroso
fare in contrapposizione all’atto colpevole positivo (maleficium, facinus). Più
semplicemente, secondo CARRARA F. (Programma
del corso di diritto criminale. Parte generale, vol. I, Del delitto, della
pena, VIII ed., Firenze 1897,
61, riprendendo BUCCELLATTI, Guida
allo studio del diritto penale, Milano 1865) la parola delitto viene comunemente ricondotta a derelinquere, abbandonare: e cioè “abbandono” di
una legge.
[147] Per la persecuzione di
tali abusi non esiste in origine una via ben definita. Vi sono punti di
contatto con le cause private per danni patrimoniali, ma per la qualità
di chi ha commesso il fatto (il magistrato) e per la particolare posizione del
danneggiato (gli abitanti delle province) queste cause non possono essere
affidate alla giurisdizione privata del praetor
né sottoposte alla coercitio del
console o del pretore. Si giunge dunque alla lex Calpurnia (
[149] GIOFFREDI C., I principi, cit., 18. Nello stesso senso BRASIELLO U., Note introduttive allo studio dei crimini
romani, cit., 163, il quale
– così come afferma MOMMSEN Th., Römisches Strafrecht, cit., 667, per il falso – ritiene possa
dirsi che il contenuto del diritto penale delle quaestiones sia processuale. «I dieci o dodici crimini che
costituiscono la repressione repubblicano-augustea, sono dieci o dodici
processi, sia pure in gran parte simili; le leggi istitutive sono tutte, come
la lex Acilia, che possediamo, leggi
processuali». Le leggi regolano dettagliatamente la procedura da seguire,
fanno l’elenco dei fatti punibili, ma non distinguono in materia di
sanzione; la pena, in sostanza, ha una parte secondaria, è considerata
una delle tante determinazioni relative alla procedura (aestimatio litis): il che comprova, secondo Brasiello (
[151] MOMMSEN Th., Römisches
Strafrecht, cit., 55 ss. Il principio di
legalità – afferma Mommsen ( 523 ss.) – perderà
terreno sotto il principato, per il lento affermarsi dell’arbitrio del
sovrano.
[152] VON JHERING R., Geist des
römischen Rechts auf den verschiedenen Stufen seiner Entwicklung, II,
1894, 45 ss., citato da MASIELLO
T., Mommsen e il diritto penale romano,
cit., 62-63.
[153] GIUFFRE’ V., La repressione criminale, cit., 73 ss. In particolare quanto ai dubbi
sulla natura della provocatio ad populum, 79. L’Autore sostiene però
( 83 ss.) che le carenze di legalità e garantismo (secondo la nostra
mentalità) della repressione criminale romana non costituiscono
deviazioni, ma sono invece insite nel sistema stesso e sono da mettere in
rapporto con la configurazione che i romani hanno in generale del ius publicum (nell’ambito del
quale si inserisce in qualche modo il diritto penale) sino all’inoltrato
principato: «lasciato alla capacità delle iniziative e dei gesti
imperiosi delle autorità di imporsi ed avere
‘effettività’; affidato a ‘precedenti’ che non
erano sempre mos o divenivano consuetudo; solo sporadicamente ed
eccezionalmente regolato da prescrizioni legislative; insomma, affidato ai
‘fatti’. Sicché, da questa angolazione, può dirsi che
il “ius (publicum romanorum) ex
facto oritur”».
[154] GIUFFRE’ V., La repressione criminale, cit., 76-79. Il passo ciceroniano riportato
dall’Autore è il seguente: “Voi (giurati), nel sentire
trattare di crimini, siete abituati a pretendere dal difensore la loro totale
confutazione, nel senso cioè che ritenete di non dover concedere
all’accusato per la sua salvezza più di quanto il suo difensore
avrà potuto dimostrare per scrollargli di dosso i crimini e convincere
con la sua parola”. A mitigare questa situazione contribuiscono comunque
– secondo Giuffrè – le gravi sanzioni che colpiscono chi
propone una accusatio infondata e
più in generale una serie di fattori sociali e latamente politici che
fungono da ammortizzatori tra il civis
e una repressione criminale arbitraria: la fiera concezione repubblicana della libertas, il controllo costante da parte
dell’opinione pubblica, il rispetto per la tradizione e la constantia, che – secondo il
giudizio di SCHULZ F. riportato da Giuffrè ( 87) – avrebbe
“creato in fatto quella sicurezza del diritto che giuridicamente
mancava”.
[155] Il testo della legge
Cornelia ci viene riferito, tra gli altri, da Marciano in D. 48.8.1 pr. (14 inst.): “Lege Cornelia de sicariis et veneficis tenetur, qui hominem occiderit:
cuiusve dolo malo incendium factum erit: quive hominis occidendi furtive
facendi causa cum telo ambulaverit: quive, cum magistratus esset publicove
iudicio praeesset, operam dedisset, quo quis falsum indicium profiteretur, ut
quis innocens conveniretur condemnaretur. Praeterea tenetur, qui hominis
necandi causa venenum confecerit dederit: quive falsum testimonium dolo malo
dixerit, quo quis publico iudicio rei capitalis damnaretur: quive magistratus
iudexve quaestionis ob capitalem causam pecuniam acceperit, ut publica lege
reus fieret.”
Si potrebbe tradurre
così: «È tenuto in base alla Legge Cornelia sui sicari e
gli avvelenatori chi uccide un uomo: o chi provoca dolosamente un incendio:
ovvero chi, per commettere un omicidio o un furto, va armato: o chi, essendo
magistrato o presiedendo ad un pubblico giudizio, opera in modo che qualcuno
faccia false dichiarazioni per condannare chi è innocente. Inoltre è
tenuto [scil. in base alla legge
Cornelia] chi prepara o somministra veleno per uccidere un uomo: ovvero chi
dolosamente dica falsa testimonianza, così da far condannare qualcuno
alla pena capitale in un pubblico processo: ovvero chi, magistrato o giudice
per una causa capitale accetti denaro per far accusare taluno per legge
pubblica».
[156] Nella lex Cornelia vengono punite - osservava
FERRINI C., Diritto penale romano.
Esposizione, cit., 94 -
«siccome reati formalmente perfetti … varie forme di reato
materialmente imperfetto». L’opinione di Ferrini - già
propria di CARRARA F., Programma del
corso di diritto criminale, Parte speciale, vol. I, cit., 336 – è condivisa anche da
IMPALLOMENI G.B., L’omicidio,
cit., 247.
[158] LÖFFLER A., Die Schuldformen
des Strafrechts, cit., 68-69. Non solo però nei
secoli bui. Le prime lecturae di ius criminale sono organizzate secondo
lo stile del commento di alcuni titoli del Digesto o del Codice: esempio tra i
più importanti il corso sulla lex
Cornelia de sicariis tenuto da Ippolito Marsili nel
[159] LÖFFLER A., Die Schuldformen
des Strafrechts, cit., 68 ss. Secondo TALAMANCA M., Lo schema ‘genus-species’ nelle
sistematiche dei giuristi romani, in La
filosofia greca e il diritto romano, Atti del colloquio italo-francese,
Roma 14-17 aprile 1973, II, Roma 1977,
3, nell’ambito della letteratura romanistica il rapporto tra la
filosofia greca e il diritto romano si risolve più concretamente nei
rapporti tra il pensiero filosofico greco e le singole personalità
scientifiche dei giuristi romani. La filosofia greca entra in Roma con il sorgere
della letteratura latina (seconda metà del III sec. a.C.): sul tema,
GARBARINO G., Roma e la filosofia greca
dalle origini alla fine del II secolo A.C., I, Torino 1973, 1 ss.
[160] LÖFFLER A., Die Schuldformen
des Strafrechts, cit., 73. Per Löffler non tutti
gli elementi aristotelici assumono però la stessa importanza: infatti
non è la nozione di “scelta” (προαίρεσις, che
l’Autore traduce propositum) ad
assumere il ruolo principale, ma il concetto di voluntas, sviluppato in particolare da Seneca.
In realtà la
nozione latina di voluntas non ha
nella lingua greca un corrispettivo che ricopra la stessa area concettuale
(REALE G., Storia della filosofia greca e
romana, vol. VI: Scetticismo,
eclettismo, neoaristotelismo e neostoicismo, Milano 2004, 305). Max POHLENZ (
Diverso dal concetto di voluntas è in Seneca quello di iudicium. Secondo la nota dottrina
stoica dell’assenso (synkatathesis),
una sensazione o una disposizione d’animo nascono da un impulso (impetus), ma devono poi essere oggetto
di una comprensione concettuale mediante l’assenso, cioè tramite
un atto di giudizio (iudicium).
Questo passaggio è descritto così nel de Clementia (II, 2, 2): “ut
quod nunc natura et impetus est fiat iudicium”. La comprensione
concettuale mediante l’assenso, quella cioè che Seneca chiama iudicium, è nozione che pare
dunque richiamare la προαίρεσις
aristotelica.
[161] In generale sull’influenza aristotelica sul diritto romano, VILLEY
M.,
[162] Il più esteso ed
esplicito riferimento al tema della funzione della pena che sia dato
riscontrare nella riflessione latina è contenuto nelle Noctes Atticae di Aulo Gellio. Sul tema
DILIBERTO O., La pena tra filosofia e
diritto nelle Noctes Atticae di Aulo
Gellio, in Il problema della pena
criminale tra filosofia greca e diritto romano, cit., 121 ss. L’Autore al termine
dell’analisi delle fonti gelliane trae alcune conclusioni. In primo luogo
egli constata come il dibattito sulla funzione della pena sia abbastanza
radicato nell’ambiente intellettuale romano: a tale dibattito partecipano
sia filosofi che giuristi. In questa discussione sembra coesistano differenti causae poeniendis peccatis, correlate
funzionalmente – ciascuna nel proprio ambito – a differenti
tipologie criminali. Nonostante tale coesistenza sembra – secondo
Diliberto – che gli autori interessatisi al tema tendano a far prevalere
sulle altre la concezione preventiva e intimidatoria della pena, ritenuta, in
definitiva, la più utile per la tutela degli interessi della
collettività. Con riferimento al pensiero di Seneca, BONGERT Y., La philosophie pénale chez
Sénèque, in Il problema
della pena criminale tra filosofia greca e diritto romano, cit., 95 ss. Sullo stato della letteratura
romanistica in materia di funzioni della pena, BONINI R., Alcune considerazioni sulle funzioni della pena nelle Novelle
giustinianee, in Il problema della
pena criminale tra filosofia greca e diritto romano, cit., 400.
[163] In termini moderni e
nell’attuale quadro costituzionale, il rapporto tra finalità della
pena e principio di colpevolezza è posto tra gli altri da MARINUCCI G. e
DOLCINI E., Manuale di Diritto Penale,
cit., 7 e 10. Gli Autori sostengono
che il principio di colpevolezza è strettamente legato alla funzione
generalpreventiva della pena. Se il fine della comminatoria legale è
quello di orientare le scelte di comportamento dei consociati, questi effetti
motivanti possono essere raggiunti solo se il fatto vietato è il frutto
di una libera scelta dell’agente. Quanto allo stadio giudiziale,
qualsiasi prospettiva di rieducazione del condannato risulterebbe in parte
frustrata se il condannato avvertisse la pena che gli viene inflitta come
un’incomprensibile vessazione: ciò che inevitabilmente accadrebbe
se gli venisse applicata una pena sproporzionata per eccesso rispetto alla
propria colpevolezza.
[164] Secondo LÖFFLER
A., Die Schuldformen des Strafrechts,
cit., 67, suona come un cosciente
risalto del contrasto tra passato e presente il passo delle Pauli Sententiae, V, 23,3: “Qui hominem occiderit, aliquando absolvitur,
et qui non occidit, ut homicida damnatur: consilium enim uniuscuiusque, non
factum puniendum est. Ideoque qui, cum vellet occidere, id casu aliquo
perpetrare non potuit, ut homicida punitur: et is, qui casu iactu teli hominem
imprudenter ferierit, absolvitur.” Questo frammento potrebbe essere
tradotto così: «Chi uccide un uomo, talvolta è assolto e chi
non uccide è condannato come omicida: si deve infatti punire
l’intenzione di ciascuno non il fatto. Perciò chi, volendo
uccidere, e per una qualche ragione non ha potuto farlo, viene punito come
omicida: e chi invece per caso ferisce con un dardo [una arma da getto]
involontariamente un uomo, viene assolto».
[165] LÖFFLER A., Die Schuldformen
des Strafrechts, cit., 67. L’Autore porta a
sostegno di ciò (oltre al passo – già citato - delle Pauli Sententiae, V, 23,3, riprodotto
anche nella Collatio legum mosaicarum et
romanarum, 1,7,1) il noto rescritto adrianeo (Digesto 48,8,14) secondo il
quale “in maleficiis voluntas
spectatur non exitus”. Di questo rescritto analizzeremo in seguito il
dubbio significato.
[166] Ciò porta a
sostenere – sembra isolatamente - che la legge sillana avrebbe colpito
“il fatto materiale della morte di un uomo”: così POLARA G.,
Marciano e l’elemento soggettivo
del reato. Delinquitur aut proposito aut impetu aut casu, in BDR, 1974,
[167] Si potrebbe tradurre
così: «Nella legge Cornelia il dolo è assunto nel fatto. In
questa legge una colpa grave non rientra nel dolo. Perciò se uno si
butta dall’alto e cade su un altro e lo uccide, o un potatore, facendo
cadere un ramo da un albero, non avvisa e uccide un passante, non è
soggetto alla repressione di questa legge».
[168] GIOFFREDI C., I principi, cit., 78-79. Sulla base di analoghe esigenze
di ordine pubblico il portare armi in pubblico rappresenterà crimen vis anche nelle disposizioni
statutarie del medioevo. La genericità della categoria del crimen vis è in quell’epoca
egualmente funzionale a una sua applicazione elastica contro i comportamenti
pericolosi per la pace e la sicurezza della comunità. Così SCHAFFSTEIN F., Vom
Crimen vis zur Nötigung. Eine Studie zur Tatbestandbildung im Gemeinen
Strafrecht, 1976, ora in Abhandlungen
zur Strafrechtsgeschichte und zur Wissenschaftsgeschichte, Aalen 1986, 156-166.
[170] CANCELLI F., Dolo, cit.,
[171] MOMMSEN Th., Römisches
Strafrecht, cit., 85 ss. Mommsen parlando del
dolo in senso lato ( 87) sottolinea che questa nozione comprende la frode
consapevole alla legge, la fraus legi,
e aggiunge che in questo concetto di dolo, che risale agli albori della
Repubblica, si rivela per la prima volta con precisione tecnica il fondamento
morale sia del diritto in generale che del diritto penale in particolare.
Questa concezione normativa della volontà intenzionale, che poi si
specializza come animus (relazione
naturalistica tra volontà e fatto) nei singoli delitti, viene ritenuta
da MASIELLO T., Mommsen e il diritto
penale romano, cit., 116-117,
non si attagli bene al momento soggettivo del reato, meglio espresso dalla
causalità naturalistica tra volontà, fatto ed evento.
L’insistenza di Mommsen sulla fraus
legi come elemento soggettivo del reato si fonda sia sul rilevante valore
che egli attribuisce alla legge come fondante il reato (“il reato
è la violazione della legge penale” si legge nel Römisches Strafrecht, 4) sia sull’esigenza di
giustificare la punizione di fatti moralmente indifferenti. L’avere
incardinato il sistema legale su quello morale costringe Mommsen, dal momento
che una corrispondenza perfetta tra i due sistemi non è possibile, a
rivestire di sostanza morale, la fraus
legi appunto, ciò che, essendo moralmente indifferente, potrebbe
legittimare, come ultima istanza, la disobbedienza civile. L’impostazione
normativa condiziona logicamente anche la riflessione di Mommsen ( 95) sul
fatto come elemento costitutivo del reato: se il fatto è la
manifestazione della volontà delittuosa e quest’ultima è
quella contraria alla legge, anche il fatto deve essere contrario alla legge,
deve cioè avere una sia tipicità normativa (“gesetzwidrige That”).
[172] FERRINI C., Diritto penale romano. Esposizione, cit., 45. Anche nella dottrina romanistica
recente (GIOFFREDI C., I principi, cit., 75-76) si riconosce difficile assegnare
significati diversi a questi termini: «essi vogliono in vario modo
indicare la cosciente volontà dell’atto, il proposito,
l’intenzione, il desiderio, la consapevolezza, il sentimento, la
disposizione, la deliberazione, il disegno, il divisamento, opponendosi a
quanto viene compiuto per ignoranza, per passione, irriflessivamente o
addirittura senza colpa». In senso parzialmente diverso dall’idea
livellatrice del Ferrini, CANCELLI F., Dolo,
cit., 722, ritiene che, siccome
l’elemento intenzionale si compone di vari aspetti, che sono la
volontà criminosa, la risoluzione, l’intenzione, le varie
espressioni utilizzate dai Romani designano or l’uno or l’altro di
questi aspetti dell’elemento soggettivo del reato. Peraltro lo stesso
Autore riconosce che, sul piano meramente giuridico, è difficile
stabilire quali conseguenze ne derivassero, data la ampia
discrezionalità del funzionario giudicante.
[173] GIOFFREDI C., I principi, cit., 76.
Quanto all’errore
di fatto, GIOFFREDI C. (I principi, cit., 87-88) indica come esso sia noto –
e per i crimina e per i delicta – alle fonti giuridiche
classiche, come già lo è, su imitazione del pensiero greco, alle
scuole di retorica. Non risponde di adulterio la donna che, credendo morto, per
errore scusabile, il marito passi a nuove nozze (D. 48,5,12,12); né di
rapina chi credendo propria la cosa se ne impadronisca con violenza (Inst.
Iust. 4,2,1); né si risponde di incesto, se ciò avvenga per
errore (Coll. Leg. Mos. rom. 6,5,1); non risponde di furto chi, come erede, si
appropri di cosa di persona che creda morta (D. 47,2,84) o chi faccia propria
la cosa che ritiene cedutagli dal proprietario (D. 47,2,46,7); né di iniuria chi colpisca un uomo libero
ritenendolo proprio schiavo (D. 47,10,3,4).
Il problema
dell’errore di diritto è più complesso (GIOFFREDI C., I principi, cit., 88-90). Il diritto classico sembra
ammettere l’ignoranza del diritto solo quando sia dimostrata la buona
fede e si tratti di norme del tutto particolari che possono non essere
conosciute dal trasgressore: mancano però fonti che si riferiscano
specificamente al diritto penale. Nel diritto postclassico e in quello giustinianeo,
data la struttura autoritaria dell’ordinamento, il problema è
più sentito e non mancano enunciazioni generali, che si riferiscono sia
al diritto privato sia al diritto penale, le quali affermano che non è
lecito ignorare le leggi.
Sul tema dell’errore,
nella dottrina romanistica, VOCI P., L’errore
nel diritto romano, Milano 1937; ID., voce Errore (Diritto romano), in Enc.
dir., XV, Milano 1966, 229 ss.;
ZILLETTI U., La dottrina
dell’errore nella storia del diritto romano, Milano
Nella dottrina
penalistica, compie brevi annotazioni sulla distinzione tra error facti ed error iuris nel diritto romano, con riferimento particolarmente a
Cicerone, Arth. KAUFMANN, Die
Parallewertung in der Laiensphäre, cit., 5: secondo Arthur Kaufmann, Cicerone
riprende la dottrina di Aristotele sull’irrilevanza dell’errore sul
diritto naturale, in quanto errore su un’idea connaturata nello spirito
di ogni uomo; chi pertanto non dovesse essere a conoscenza di un precetto del
diritto naturale meriterebbe la qualifica di “iniustus” (Cicerone, De
legibus, I,15,42). Sul punto anche WELZEL H., Naturrecht und materiale Gerechtigkeit, cit., 45 ss. Un breve cenno alla disciplina
dell’errore di diritto nel diritto romano è contenuto nella
sentenza 364/88 della Corte costituzionale: dopo avere affermato che la storia
del principio dell’irrilevanza dell’ignoranza di diritto coincide
con la storia delle sue eccezioni, si cita il caso del diritto romano classico,
per il quale era consentito alle donne e ai minori di venticinque anni di
«ignorare il diritto».
[174] Cfr. FERRINI C., Diritto penale romano. Esposizione, cit., 54, il quale ritiene peraltro che
comunque mai si esca dal concetto tradizionale di dolo.
[175] Secondo CANCELLI F., Dolo, cit., 722, «questa materia fu, se altra
mai, oggetto di assai povera riflessione scientifica: e per la natura stessa
che governa il diritto criminale, poco si poteva fare, prima sotto il rigido
sistema delle questiones perpetuae e
poi sotto il regime più o meno assoluto dell’arbitrio del principe
e indi del dominus».
[176] Pone tale eccezione, data
la particolare natura dello stellionatus,
BINDING K., Die Normen und ihre
Übertretung, cit., 649. Su
di esso, GAROFALO L., La persecuzione
dello stellionato in diritto romano, Padova 1992.
[177] Tra i tanti autori per
i quali ai Romani è ben chiara la distinzione tra il dolus del diritto civile e il dolus del diritto penale, PERNICE A., Der verbrecherische Vorsatz im
griechisch-römischen Rechte, cit.
205 e FERRINI C., Diritto penale
romano. Teorie generali, Milano 1899,
77 ss. Secondo PECORARO ALBANI A., Il
dolo, cit., 4-5 nt. 2, alla
confusione dei due concetti contribuisce forse la mancanza di un vero e proprio
diritto penale presso i Romani. Inoltre va tenuto presente, prosegue
l’Autore, che l’actio doli introdotta
da Aq. Gallo a tutela dei raggiri nel commercio giuridico civile ha
originariamente natura penale e che si giunge a una equiparazione tra dolo
contrattuale e delictum; questo
potrebbe portare a sostenere che è il concetto penalistico di dolo a
venire esteso al campo civile e non viceversa, nel senso che l’actio doli ripete il nome dolus nel suo significato di
volontà cattiva di ledere, e l’inganno non rappresenta altro che
il mezzo dell’azione del deceptor.
«Che poi questo mezzo sia giunto a identificarsi con l’idea stessa
del dolo - determinando la confusione accennata – è da
attribuirsi, a nostro modesto criterio, alla prevalente fioritura che ebbe nel
diritto romano l’jus privatum».
Cfr. dal punto di vista civilistico, VITA A., voce Dolo (Diritto romano e diritto moderno), in N. Dig. It., V, Torino 1938,
141 ss.
[178] LÖFFLER A., Die Schuldformen
des Strafrechts, cit., 74 ss. Anche per BINDING K., Die Normen und ihre Übertretung,
cit., 639, il dolo per i Romani
è più un concetto etico che un concetto strettamente giuridico.
[179] Il passo completo
è il seguente: “Prima verba
ostendunt, eum demum ex hoc plecti, qui dolo malo violavit. Si igitur dolus
absit, cessabit edictum. Personae igitur doli non capaces, ut admodo impuberes,
item omnes, qui non animo violandi accidunt, excusati sunt”. Nello
stesso senso, per indicare la capacità di discernimento (dolus come animus violandi), un passo delle Istituzioni di Gaio (III, 208):
“Plerisque placet, quia furtum ex
adfectu consistit, ita demum obligari eo crimine impuberem, si proximus
pubertati sit, et ob id intellegat se delinquere”.
[180] LÖFFLER A., Die Schuldformen des Strafrechts,
cit., 78, fa comunque presente che
spesso con eguale significato viene invece adoperato nelle fonti il termine malitia. Cfr.
BINDING K., Die Normen und ihre
Übertretung, cit., 672
ss. (in particolare 688).
[181] PERNICE A., Der verbrecherische
Vorsatz im griechisch-römischen Rechte, cit. 206 ritiene l’espressione dolus malus (e le altre equivalenti)
un’espressione artistica (Kunstausdruck),
che significherebbe “intenzione, malevola, immorale“ (die böswillige, unsittliche Absicht).
[184] LÖFFLER A., Die Schuldformen
des Strafrechts, cit., 78-79. Osserva CORDERO F., Criminalia, cit., 224-225 (in nota), che, nel senso
accresciuto (rispetto al dolo come circumventio)
dolo malo denoti un evento psichico
definibile ‘intenzione’, risulta dai sinonimi proposito, consilio, consulto, prudens, data opera, sciens prudensque,
e che riferimenti ancora più netti emergono dal sintagma animus …, dove un gerundio evoca
l’atto delittuoso, ad esempio occidendi,
furandi, violandi sepulchri, iniuriae facendae.
[186] FERRINI C., Diritto penale romano. Esposizione, cit., 46. Osserva l’Autore che i retori
comprendono sotto il nome di “impetus”
i casi in cui è turbato il giudizio e “precipitata la
risoluzione”, in cui cioè “la parte affettiva prevale su
quella cogitativa”. Nello stesso senso LÖFFLER A., Die Schuldformen des Strafrechts,
cit., 80 ss., secondo il quale
l’impetus non caratterizza il
rapporto tra rappresentazione e volizione e l’evento ma rappresenta uno
stato d’animo del quale tenere conto in sede di commisurazione della
pena.
[187] Oltre le opere di
Cicerone, la principale fonte in tema di elemento soggettivo è
costituita, verso l’ultimo secolo della Repubblica, dalla Rhetorica ad Herennium. L’Auctor ad Herennium precisa in
più passi della sua opera, che ci si può difendere da
un’accusa non negando il fatto, ma negando che di essa si debba
rispondere per avere ricevuto un ordine legittimo, per avere agito in stato di
necessità, perché ricorre un caso fortuito o perché si è
in errore. Su queste citazioni, GIOFFREDI C., I principi, cit.,
74-75.
[188] Riguardo a questo
passaggio, GROSSO G., Storia del diritto
romano, cit., 411 ss.;
GIUFFRE’ V., La repressione
criminale, cit., 93 ss.;
SANTALUCIA B., Diritto e processo, cit.,
213 ss. Fatta eccezione per la limitata (ai senatori e alle persone di
pari rango) cognitio senatus – la
quale segue nelle grandi linee le regole in uso nei processi ordinari (salva la
possibilità di ripetute intromissioni da parte del princeps), ed è formalmente condizionata da un’accusa,
presentata ai consoli e da questi rimessa al consesso – la procedura extra ordinem finisce con
l’acquisire un carattere inquisitorio. Quanto alle prove, il funzionario
non deve attenersi – come invece i giudici delle quaestiones – soltanto a quelle fornite dall’accusatore
e dall’accusato, ma può ricercarle e assumerle liberamente;
può citare tutti i testi ritenuti necessari e disporre
l’interrogatorio con tortura non solo nei confronti degli schiavi, ma
anche delle persone libere di bassa origine.
[190] GNOLI F., Diritto penale nel diritto romano,
cit., 60-61. Per quanto riguarda le
sanzioni, nel rito delle quaestiones la pena applicata in seguito al giudizio
di responsabilità – espresso con votazione della giuria –
è per la maggior parte dei reati la pena capitale, di solito
ineseguita e sostituita dall’interdictio aquae et ignis. Con la
repressione extra ordinem la pena di
morte viene effettivamente applicata, graduandone le modalità di
esecuzione alla condizione sociale del condannato e alla gravità del
fatto: oltre alla decapitazione, compaiono la crocifissione, la damnatio ad bestias, la vivicombustione.
Vengono poi introdotte nuove pene, come la damnatio
in metallum, la damnatio in opus
publicum, i combattimenti gladiatori, la deportazione in insulam, la relegazione, l’interdizione del soggiorno in
determinate località e l’esilio.
[191] Secondo una parte della
dottrina in questa fase e in questa prospettiva di discrezionalità si viene
enucleando la figura del tentativo: GENIN J. C., La répression des actes de tentative en droit criminel roman. Contribution à
l’etude de la subiectivité répressive à Rome, Lyon 1968, 243 ss.
[192] Che, nel tracciare
questa ripartizione, Marciano sia stato influenzato dalle dottrine platoniche e
aristoteliche è opinione di LÖFFLER A., Die Schuldformen des Strafrechts, cit., nota 71 80-81. Secondo IMPALLOMENI G.B., L’omicidio, cit., 250, i Romani chiamavano delitti ex proposito “quelli commessi con
la intenzione diretta ad una determinata infrazione, e richiedente uno stato di
coscienza normale” e delitti ex
impetu “quelli che importavano una intenzione di nuocere
indeterminata e dipendentemente da uno stato di coscienza anormale (per ebrietatem)”.
Un’altra
affermazione generale è contenuta nel frammento D. 47,2,54pr. (Paulus libro trigesimo nono ad edictum):
Qui iniuriae causa ianuam effregit,
quamvis inde per alios res amotae sint, non tenetur furti: nam maleficia
voluntas et propositum delinquentis distinguit (si potrebbe tradurre:
«Chi ha abbattuto una porta per recare offesa, anche se di là da
altri siano stati portati via i beni, non è tenuto per furto: infatti la
volontà e il proposito di chi delinque distinguono i delitti»).
L’affermazione viene ritenuta probabilmente glossematica; l’ipotesi
formulata è quella della non attribuibilità di un furto, avvenuto
a opera di terzi, a chi aveva semplicemente (e non in concorso) buttato
giù iniuriae causa la porta
dalla quale il ladro si era introdotto: caso questo che conferma piuttosto
– secondo GIUFFRE’ V., La
repressione criminale, cit.,
146 - che la problematica del nesso causale era ignota ai Romani.
[193] Imperator Marcus Antoninus et Commodus filius rescripserunt: ‘Si
maritus uxorem in adulterio deprehensam impetu tractus doloris interfecerit,
non utique legis Corneliae de sicariis poenam excipiet.’ nam et divus
Pius in haec verba rescripsit Apollonio: ‘Ei, qui uxorem suam in
adulterio deprehensam occidisse se non negat, ultimum supplicium remitti potest,
cum sit difficillimum iustum dolorem temperare et quia plus fecerit, quam quia
vindicare se non debuerit, puniendus sit. sufficiet igitur, si humilis loci
sit, in opus perpetuum eum tradi, si qui honestior, in insulam relegari.’
[194] GIOFFREDI C., I principi, cit., 80: per esempio in caso di incendio (D.
47,9,9) si ha la conferma che casus sta
appunto a indicare non il caso fortuito, ma quello che noi consideriamo fatto
colposo. Secondo CORDERO F., Criminalia, cit., 224 (in nota), nella sfera del casus, antipode di dolus, ricadono gli atti incolpevoli, essendo fortuito
l’evento, e i colposi. CARRARA
F., Programma del corso di diritto
criminale, Parte speciale, vol. I, cit., 99, dopo aver detto che “il giure
romano non è sempre sicura guida nelle materie penali”, aggiunge
che “i romani ebbero idee varianti anche sul significato della parola caso” e che ( 100)
“grandissima è la confusione che regna nel giure romano in
proposito della teorica della colpa e
del caso”. Infatti “la
formula caso fortuito si trova usata
talvolta nei frammenti Romani in senso di negligenza”. Carrara condivide
il dubbio “se mai si stabilissero dai Romani penalità nello interesse pubblico contro i fatti
colposi”. Sul pensiero di Carrara sul dolo, DE FRANCESCO G., La concezione del dolo in Francesco Carrara,
in Riv. it. dir. proc. pen., 1988, 1351 ss.
[195] Così
GIUFFRE’ V., La repressione
criminale, cit., 145, secondo
il quale l’impetus si colloca
nel mezzo tra casus e propositum ed è sinonimo di
“imprudentia” e “negligentia”, ovvero più
tardi di culpa, nel senso proprio
moderno di imprudenza e negligenza, ma anche di imperizia e dell’agire
non secondo leggi, regolamenti, ordini o discipline. Già FERRINI C., Diritto penale romano. Esposizione, cit., 47, giudica però un errore
assumere l’impetus sotto la
nozione della mera colpa, rappresentando esso, insieme al propositum, una forma di dolo. In quest’ultimo senso anche
LÖFFLER A., Die Schuldformen des
Strafrechts, cit., 82.
[196] FERRINI C., Diritto penale romano. Esposizione, cit., 47 e 51, il quale
osserva inoltre che l’equazione “casus idest neglegentia” si trova anche nei Digesti. In senso
contrario LÖFFLER A., Die
Schuldformen des Strafrechts, cit.,
83, ritiene che il diritto penale romano classico ripartisca le azioni
umane sotto due concetti, dolus e casus; in quest’ultimo settore
rientrano di volta in volta azioni la cui mancata punizione pone dubbi sotto un
profilo politico-criminale e vengono pertanto perseguite in via straordinaria.
L’Autore conclude anzi che il diritto romano non conosce mai una pena
pubblica per i casi più lievi di colpa (se non in rari casi in tema di
disciplina militare). Una sintesi del problema è
tracciata da GIOFFREDI C., I principi,
cit., 80, per il quale casus è quanto avviene per
disavventura, il che non esclude però l’imprudenza, e quindi in
teoria attenua ma non elimina la responsabilità, anche se può
talvolta portare all’assoluzione (cfr. Coll. leg. mos. et rom. 1, 7, 1: … et is qui casu iactu teli hominem
imprudenter ferierit, absolvitur). Casus
– prosegue l’Autore - è quanto si oppone, insieme ad
altre ipotesi, al determinato proposito: con esso insomma i Romani più
che indicare la componente di colpevolezza che è nel fatto colposo,
indicano la componente di fortuità
e disavventura. Sul punto già BINDING K., Die Normen und ihre Übertretung, cit., 650 ss., afferma che la
spontaneità della decisione non è per i Romani necessaria per
l’esistenza del dolo ma della colpevolezza: la necessitas che spinge un soggetto a fare od omettere qualcosa
esclude la colpevolezza. Necessitas e
vis major sono forme del casus.
[197] LÖFFLER A., Die Schuldformen des Strafrechts,
cit., 83 ss. A proposito dei fatti
dettati da lascivia, BINDING K. (Die Normen und ihre Übertretung,
cit., 369 e 752 ss.) sostiene che la conseguenza
messa in conto dall’autore di un’azione di per sé illecita
è contrassegnata dalla presenza del dolus
eventualis. Cfr. LÖFFLER A., Die Schuldformen des Strafrechts, cit., 103-104.
[199] Così definisce la nozione penalistica di dolus, PERNICE A., Der
verbrecherische Vorsatz im griechisch-römischen Rechte, cit., 205: „die bewuste Absicht bei der verbrecherischen That, welche die
eigentliche Unsittlichkeit der rechtswidrigen Handlung ausmacht“.
[201] DELITALA G., Dolo eventuale e colpa cosciente, cit., 434. Poche pagine dopo ( 437), peraltro,
l’Autore definisce la limitata concezione romanistica del dolo come
“dolo di proposito”. In realtà le odierne sfumature
concettuali di dolo intenzionale, dolo diretto e dolo di proposito non sono
riproponibili nel pensiero romano, la cui nozione di dolo ricomprende tutte
queste varianti.
[202] KLEE K., Der dolus indirectus als
Grundform der vorsätzlichen Schuld, Berlin 1906, 4; VON BAR L., Gesetz und Schuld im Strafrecht, Bd. 2, Berlin 1907, 275-276; DAHM G., Das Strafrecht Italiens im ausgehenden Mittelalter, Berlin-Leipzig
1931, 258 („Nötig war ein unmittelbares Wollen der
Rechtswidrigkeit“) . Che i Romani col termine
dolus – peraltro usato anche
nella vita non giuridica – intendessero riferirsi alla volontà
antigiuridica, alla intenzione di cagionare un’offesa, è sostenuto
nella dottrina italiana anche da PECORARO ALBANI A., Il dolo, cit., 3 nt. 2,
il quale osserva peraltro, sulla scia di THONISSEN J.J. (Études sur l’histoire du droit criminel des peuples
anciens, Bruxelles 1869) che i diritti antichi non hanno avuto una chiara
nozione della volontà colpevole.
[205] LÖFFLER A., Die Schuldformen
des Strafrechts, cit., 78-
[206] A ben vedere, i Romani
non pensano questi casi come forme di allargamento del dolo, ma - senza porsi
il problema dell’elemento soggettivo - li puniscono per motivi di ordine
pubblico. Dunque, più che di un allargamento del concetto di dolo si
tratta di una estensione della sfera di responsabilità. Sono stati
proprio i casi in cui la nozione di dolo appariva meno nitida a costituire la
base nel medioevo per lo sviluppo delle teorie del dolo generale, del dolo
indiretto, del dolo indeterminato e del dolo eventuale. Su
ciò infra (5.5).
[207] LÖFFLER A., Die Schuldformen
des Strafrechts, cit., 86;
BINDING K., Die Normen und ihre
Übertretung, cit., 720 ss.
[210] BINDING K., Die Normen und ihre
Übertretung, cit., 757 nt.
10. Ancora
recentemente, per una valorizzazione del concetto di Gleichgültigkeit (“indifferenza”), JAKOBS G., Gleichgültigkeit als dolus indirectus,
in ZStW (114), 2002, 584 ss.
[211] FERRINI C., Diritto penale romano. Esposizione, cit., 55. Tale esplicita esclusione è
contenuta nel già citato frammento D. 48,8,7 (Paulus libro singulari de publicis iudiciis) in cui si trova
affermato che “In lege Cornelia
dolus pro facto accipitur. neque in
hac lege culpa lata pro dolo accipitur. quare si quis alto se praecipitaverit
et super alium venerit eumque occiderit, aut putator, ex arbore cum ramum
deiceret, non praeclamaverit et praetereuntem occiderit, ad huius legis
coercitionem non pertinet.”.
[214] BINDING K., Die Normen und ihre Übertretung,
cit., 720 ss.; FERRINI C., Diritto penale romano. Esposizione, cit., 52.
[215] E già prima tra
i penalisti da PECORARO ALBANI A., Il
dolo, cit., 3, nt. 2, secondo
il quale «L’indagine sullo svolgimento storico del dolo nel diritto
romano, malgrado si siano ad essa dedicati forti intelletti, presenta non poche
confusioni e incertezze».
[216] GIUFFRE’ V., La repressione criminale, cit., 147.
La chiave di lettura che
emerge dalle osservazioni finora compiute potrebbe però essere
un’altra: semplicemente i Romani non hanno avvertito l’esigenza di
precisare meglio le categorie, innanzitutto per la loro mentalità
concreta e poi perché di fatto le sfumature concettuali non avrebbero
avuto modo di esprimersi nel sistema processuale a quei tempi vigente.
[217] GIOFFREDI, I principi, cit., 76-77. E’ da ritenere pertanto un
proprio approccio interpretativo moderno e non lo schema proprio dei Romani
quello adottato da BINDING K., Die Normen
und ihre Übertretung, cit.,
650 ss. e 669 ss., basato sulla struttura attuale del dolo e dunque
sulla distinzione tra Willens-Moment e
Bewusstseins-Moment. Più in
generale Binding ( 638) distingue tre forme di colpevolezza: il dolus malus, la culpa dolo proxima e la culpa
“schlechthin” (semplicemente); l’Autore riconosce
però che all’interno del concetto di culpa tout court si può distinguere una forma levis e una lata e che solo il dolus
malus e la culpa levis hanno
ricevuto una elaborazione concettuale compiuta.
[219] I rescripta sono direttive elastiche o disposizioni di carattere vincolante,
che rappresentano lo strumento più duttile con cui i giuristi del consilium principis e della cancelleria
imperiale, che ne sono i veri ispiratori, lentamente adeguano il sistema
dell’ordo iudiciorum publicorum alle
nuove esigenze della cognitio,
introducendo importanti innovazioni circa la graduazione delle pene, la
configurabilità di nuove fattispecie criminose, la rilevanza delle
circostanze e la valutazione dell’elemento intenzionale. Su queste
statuizioni e sulle altre poste dall’imperatore (edicta, mandata, epistulae e decreta),
GROSSO G., Storia del diritto romano, cit., 387 ss.
[221] I passi che contengono
questi significati sono i seguenti.
Il primo è 1,6,1:
Distinctionem casus et voluntatis in
homicidio servari rescripto Hadriani confirmatur. Verba rescripti: ‘Et
qui hominem occidit absolvi solet, sed si non occidendi animo id admisit: et
qui non occidit, sed voluit occidere, pro homicida damnatur’.
Potrebbe tradursi così: «E’ certo che la distinzione tra
caso e volontà nell’omicidio è tenuta in considerazione nel
rescritto di Adriano. Parole del rescritto: “è ammesso che venga
assolto colui che uccida un uomo ma solo se non c’è intenzionalità
nell’uccidere: e chi non ha ucciso ma voleva uccidere sia condannato come
omicida”».
Il secondo è 1,7,1: Qui
hominem occidit, aliquando absolvitur et qui non occidit ut homicida damnatur:
consilium enim uniuscuiusque, non factum puniendum est. Ideoque si cum vellet
occidere, casu aliquo perpetrare non potuit, ut homicida punitur: et is, qui
casu iactu teli hominem imprudenter ferierit, absolvitur. La traduzione potrebbe essere questa:
«Chi uccide un uomo, talvolta è assolto e chi non uccide è condannato
come omicida: si deve infatti punire l’intenzione di ciascuno non il
fatto. Perciò, se volendo uccidere, per una qualche ragione non ha
potuto farlo, viene condannato come omicida: e quello stesso che per caso
ferisce con un dardo [una arma da getto] involontariamente un uomo, viene
assolto».
[222] SPERANDIO M.U., Dolus pro facto, cit., 106 ss. L’Autore porta a sostegno
della sua tesi altri testi, tra cui Inst.
4,18,5, dove è contenuta una lunga digressione dedicata alla
definizione di telum, comprensiva di
tutto ciò che può essere lanciato con la mano (et lapis, et lignum et ferrum), e che
lascia chiaramente intendere la rilevanza della fattispecie (in termini
moderni, di pericolo) contenuta nella lex
Cornelia di qui hominis occidendi
causa cum telo ambulant, vale a dire di quanti si aggirano armati con
l’intenzione di uccidere.
Già FERRINI C., Diritto penale romano. Esposizione, cit.,
98, sostenitore della tesi della punizione in diritto romano del solo
reato consumato, segnala un uso “strumentale” del primo caput della lex Cornelia da parte di retori, filosofi e anche giureconsulti che
vogliono trovarvi una riprova delle loro teorie etiche, per cui la
“malizia” sta nella volontà peccatrice e non nel fatto
esteriore. Un altro esempio, indicato alla dottrina (GIOFFREDI C., I principi, cit., 79), di accentuata valutazione
dell’elemento intenzionale, frutto delle dottrine allora vigenti,
è il passo del Digesto 48,8,7 (Paulus
libro singulari de publicis iudiciis) in cui si afferma che “In lege Cornelia dolus pro facto accipitur”
e con cui forse si vuole alludere alla circostanza che il dolo è
presunto in questa legge in alcuni fatti non equivoci. Già nel testo si
è però rilevato come non si tratti di presunzione di dolo quanto
piuttosto di autonoma punizione per motivi di ordine pubblico di alcune
condotte “pericolose”. Sull’interpretazione
dell’espressione dolus pro facto
accipitur, SPERANDIO M.U., Dolus pro
facto, cit., 146-147.
[223] Secondo CARRARA F., Programma del corso di diritto criminale,
Parte speciale, vol. I, cit.,
529, i Romani, che non conoscono la distinzione tra omicidio
preterintenzionale e omicidio colposo, annoverano l’omicidio
preterintenzionale «non tra gli omicidii dolosi ma tra quelli colposi».
[224] FERRINI C., Diritto penale romano. Esposizione,
cit., 48. Peraltro altra parte
della dottrina riconosce vero questo assunto per le ipotesi del rescritto e in
generale solo con l’affermarsi della cognitio
extra ordinem, mentre per quanto riguarda la lex Cornelia de sicariis sembra doversi concludere per la punizione
anche dell’omicidio preterintenzionale, perché essa intende il
dolo «solo come volontarietà dell’atto, anziché come
volontarietà dell’evento», sicché è da presumersi
che, se la morte della vittima si fosse verificata quale conseguenza non voluta
di un’azione criminosa consapevole e volontaria, essa sarebbe egualmente
addossata alla responsabilità dell’agente. In questo senso
PUGLIESE G., Linee generali
dell’evoluzione del diritto penale pubblico durante il principato, in
Scritti giuridici scelti, II, Napoli
1985, 761; CANCELLI F., Dolo, cit., 723; SPERANDIO M.U., Dolus pro facto, cit., 138-139.
[225] GIOFFREDI C., I principi, cit., 83. La punizione dell’imperizia
del medico è citata nel frammento D. 1,18,6,7 (Ulpianus libro primo opinionum): Sicuti medico imputari eventus mortalitatis non debet, itaque quod per
imperitiam commisit imputari ei debet: praetextu humanae fragilitatis delictum
decipientis in periculo homines innoxium esse non debet.
[226] Già Cicerone (De legibus, I,5,15) afferma, contro la
tendenza del suo tempo a ridurre il ius a
una disciplina praticistica, che la scienza del diritto deve trarsi dal cuore
della riflessione filosofica: «penitus
ex intima philosophia hauriendam iuris disciplina».
[227] BINDING K., Die Normen und ihre Übertretung,
cit., 667, ritiene che il momento
volitivo rimane impresso completamente nel concetto di dolus malus proprio attraverso la nozione di animus, cioè di scopo che provoca l’evento
antigiuridico come tale.
[228] Afferma POHLENZ M.,
In generale, lo
stoicismo pone tra i suoi capisaldi la dottrina che come l’animale
è guidato infallibilmente dall’istinto, l’uomo è
guidato infallibilmente dalla ragione. Con Aristotele lo stoicismo condivide la
nozione di volontà come scelta, definendola (Diogene Laerzio)
“appetizione razionale”. Così Cicerone (Tusc. 4,6,12) riferendosi a queste dottrine afferma: «la voluntas è un desiderio conforme
a ragione, mentre il desiderio che è opposto alla ragione o troppo
violento per essa è la libidine o cupidigia sfrenata che si trova in
tutti gli stolti».
La dottrina stoica,
accanto a quella aristotelica, è la filosofia che ha avuto maggiore
influenza nella storia del pensiero occidentale (ABBAGNANO N., Dizionario di filosofia, cit., voce Stoicismo, 836).
[229] Cfr. CORDERO F., Criminalia, cit., 226 (nota 48). Secondo CARRARA F., Programma del corso di diritto criminale,
Parte speciale, vol. I, cit.,
66-67, i Romani avevano idee confuse in tema di prova del fatto. In
particolare “confusero la prova del materiale dell’omicidio con la
prova dello speciale”, cioè che “di questa morte sia stato causa volontaria il fatto ingiusto
dell’uomo” ( 60). Peraltro Carrara afferma ( 88-89) che al fine di
dichiarare doloso l’omicidio, l’animo
di uccidere può essere sia esplicito (“dolo
determinato”) che anche implicito (“dolo indeterminato”),
“cioè quando si usarono mezzi che per loro natura dovette
prevedersi che avrebbero potuto recare la morte, quantunque questa non si
volesse come resultato necessario dei proprii atti”.
[230] «Qui telum tutandae salutis causa gerit, non
videtur hominis occidendi causa portare. tel, autem appellatione non tantum
ferrum contineturi sed omne quod nocendi causa portatum est.» La
possibile traduzione è: «Chi porta un’arma per difendersi
non sembra che la porti per uccidere una persona. Ma non soltanto il ferro
è contenuto ma tutto ciò che si porta per fare del male».
[231] Nella dottrina penalistica tedesca, HRUSCHKA J., Über Schwierigkeiten mit dem Beweis des Vorsatzes, in
Gössel-Kaufmann (Hrsg.), Strafverfahren
im Rechtsstaat. Festschrift für
Theodor Kleinknecht, München 1985,
195-196, cita altri significativi esempi di come le circostanze esterne,
e in particolare i mezzi utilizzati, siano elementi decisivi per
l’accertamento del dolo. Essenziale D. 48,8,1,3: «Divus Hadrianus rescripsit eum, qui hominem
occidit, si non occidendi animo hoc admisit, absolvi posse, et qui hominem non
occidit, sed vulneravit, ut occidat, pro homicida damnandum: et ex re
constituendum hoc: nam si gladium strinxerit et in eo percusserit, indubitate
occidendi animo id eum admisisse: sed si clavi percussit aut cuccuma in rixa,
quamvis ferro percusserit, tamen non occidendi animo. leniendam poenam eius,
qui in rixa casu magis quam voluntate homicidium admisit”. Dallo strumento utilizzato, una spada o
un paiolo si induce la presenza o meno dell’animus occidendi. L’inciso “ex re” che si ritrova nel frammento descrive la tecnica di
accertamento del dolo che dalle circostanze esterne risale direttamente allo
stato psichico. Essa è confermata in altri frammenti citati da Hruschka,
come D. 44,4,1,2 («An dolo quid
factum sit, ex facto intellegitur») e C. 2,20,6 («Dolum ex indiciis perspicuis probari
convenit»). L’Autore afferma ( 196) che questo sistema di prova
del dolo è stato professato fino al XIX secolo. A questi frammenti si
ispirò Von WEBER, (Ueber die
verschiedenen Arten des Dolus, in Neues
Archiv des Criminalrecht, Bd. 7, 1825,
549 ss.) per la sua figura del dolus
ex re.
[233] Con il concetto (di
origine canonista) di dolus generalis si
allarga il concetto di dolo, cosicché esso non richiede più il
riferimento della volontà a un determinato particolare evento, ma
diviene sufficiente che l’autore “in genere” abbia agito con dolo, potendo il dolo essere
diretto anche a un evento non consentito diverso da quello verificatosi. Così SCHAFFSTEIN F., Die
Allgemeinen Lehren vom Verbrechen. In
ihrer Entwicklung durch die Wissenschaft des gemeinen Strafrechts – Beiträge zur Strafrechtsentwicklung von
der Carolina zur Carpzov, Darmstadt 1973, Neudruck der Ausgaben Berlin
1930-1932, 110, seguendo ENGELMANN
W., Die Schuldlehre der Postglossatoren,
cit., 74 e 103-104.
[234] Si potrebbe tradurre:
«L’Imperatore Antonino Augusto ad Aurelio Herculano e agli altri
soldati. Vostro fratello farà bene se si metterà a capo della
provincia; se gli sarà possibile dimostrare di non aver ucciso
intenzionalmente, rigettata l’accusa di omicidio, si pronuncerà un
giudizio secondo la disciplina militare».
[235] Così la
possibile traduzione: «L’Imperatore Alessandro ad A. Aurelio Flavio
e agli altri soldati. Se, nel modo in cui si è reclamato nel libello, ha
causato una morte senza dolo non tema affatto. Infatti si commette un crimine
se c’è anche la volontà di uccidere. Del resto ciò
che capita per caso improvviso piuttosto che per cattiva azione, è da
imputare alla fatalità e non alla colpa».
[237] La differenza tra le
diverse forme di dolo è così espressa da MARINUCCI G. –
DOLCINI E., Manuale di Diritto Penale.
Parte generale, Milano 2004, 188 ss.: “Il dolo intenzionale si
configura quando il soggetto agisce allo scopo di realizzare il fatto”;
“Il dolo diretto si configura invece quando l’agente non persegue
la realizzazione del fatto, ma si rappresenta come certa o come probabile al
limite della certezza l’esistenza di presupposti della condotta ovvero il
verificarsi dell’evento come conseguenza dell’azione”;
“Il dolo eventuale si ha infine quando il soggetto si rappresenta come
seriamente possibile (non come certa) l’esistenza di presupposti della
condotta ovvero il verificarsi dell’evento come conseguenza
dell’azione e, pur di non rinunciare all’azione e ai vantaggi che
se ne ripromette, accetta che il fatto possa verificarsi”.
[238] Anche CORDERO F., Criminalia, cit., 224 (in nota), osserva che nelle fonti
troviamo modelli a cui sfuggono fenomeni importanti come il dolo eventuale.
[240] In questo concetto
sembra presente un’ascendenza platonica, dato che per Platone il giudizio
negativo sul movente contribuisce ad attribuire la qualifica di volontaria
all’azione e la rende pertanto illecita (Leggi, IX, 10, 869/870).
[241] GROSSO G., Storia del diritto romano, cit., 462-463. Nella dottrina penalistica,
già CARRARA F., Programma del
corso di diritto criminale. Parte generale, vol. II, Del giudizio criminale, cit., 293 Il metodo inquisitorio trae il suo
nome dai quaesitores, che sono in
origine cittadini incaricati eccezionalmente dal senato di investigare certi
speciali delitti. Le basi del processo inquisitorio come forma ordinaria vengono
però gettate – secondo Carrara - da Diocleziano.
Nella dottrina
romanistica si preferisce talvolta parlare anziché di sistema
inquisitorio e di sistema accusatorio, di sistema unilaterale e di sistema
bilaterale, per rimarcare l’esigenza di evitare fraintendimenti con altre
esperienze storiche estranee alla realtà romana, e per sottolineare che
l’inquisitore è anche giudice (sul punto GIUFFRE’ V., La repressione criminale, cit., 48). L’Autore osserva peraltro (
52) che il sistema accusatorio, che in altre esperienze giuridiche ha dato
buona prova, nella Roma repubblicana non si rivelò affatto una garanzia
per il prevenuto (a meno che – aggiunge Giuffrè – non fosse
assistito dal Perry Mason dell’epoca: come dire, un Marco Tullio
Cicerone).
[242] In questo quadro
nemmeno Giustiniano apporta un progresso. Sulla compilazione giustinianea, in
generale, GROSSO G., Storia del diritto
romano, cit., 489 ss., e con
riferimento specifico agli aspetti penalistici, GIUFFRE’ V., La repressione criminale, cit., 173 ss.; in particolare sulla
comprensione delle figure tradizionali che si ritrovano nel diritto
giustinianeo, BRASIELLO U., Note
introduttive allo studio dei crimini romani, cit., 171-172.
Quanto ai Digesta, essendo compilazione di iura, non possono contenere di per
sé rilevanti e nuove aperture o sistematiche originali. La materia
criminale è collocata in due libri della parte finale (il
quarantasettesimo e il quarantottesimo, i c.d. libri terribiles), e si è rilevato come gli interventi dei
compilatori siano decrescenti (forse per stanchezza) a mano a mano che ci si
avvicina alla fine. Nel nuovo ordinamento degli studi giuridici, il diritto
penale non ha grande spazio: conosciamo un solo autore di opere penalistiche,
l’antecessor Kobidas, mentre
gli esperti in diritto civile sono numerosissimi. E’ ovvio dunque che il
quarto e ultimo libro delle Institutiones
dedichi solo una asciutta appendice ai publica
iudicia e rinvii al Digesto. Quanto alla riedizione del Codex, esso riserva l’intero libro
nono al diritto e alla procedura penale: ma mentre molta attenzione viene data
ai problemi processuali, assai meno rilevante è la parte dedicata al
diritto sostanziale, con qualche novità solo in tema di concorso di
persone. Le Novellae dedicano sì più spazio
al diritto sostanziale, ma nel senso dell’introduzione di nuove
fattispecie ( es. la bestemmia o la celebrazione di cerimonie religiose in
luoghi inadatti al culto) e non nell’approfondimento di temi di teoria
generale. Viene notato che in realtà le compilazioni non hanno grande
incisività, come appare dalla loro scarsissima risonanza nelle opere
coeve e che forse anche per ciò, subito dopo l’opera di
compilazione e nonostante essa, si manifesta, in tutta la sua entità,
una generalizzata disfunzione del sistema della repressione penale.
[243] CALISSE C., Svolgimento storico del diritto penale in
Italia dalle invasioni barbariche alle riforme del secolo XVIII, in Enciclopedia del Diritto Penale Italiano, a
cura di E. Pessina, II, Milano 1906,
243.
[245] Peraltro Carrara (nei
prolegomeni al Programma del corso di
diritto criminale. Parte generale, vol. I, Del delitto, della pena,
cit., 42) del quale abbiamo sopra riportato i giudizi negativi sul
“Giure romano”, attribuisce con orgoglio alla “scuola
italiana” il merito che traspare da queste parole: «La scuola
italiana, che bevendo ai sommi principii della latina filosofia
nell’argomento penale, seppe col presidio del cristianesimo appurarli dalla
nebbia pagana, e rivendicarli dal guasto delle ferocie orientali e dei nordici
pregiudizi, che li avevano con successiva guerra manomessi e corrotti».
[246] BINDING K., Die Normen und ihre Übertretung,
cit., 783 e in generale sul
decisivo influsso delle fonti romane sulla concezione tedesca di
colpevolezza, 781 ss.
[247] JESCHECK H.H. – WEIGEND
T., Lehrbuch des Strafrechts. Allgemeiner Teil, 5. Aufl. Berlin 1996, 292.
[248] Osserva infatti DAHM
G., Zur Rezeption des
romisch-italienischen Strafrechts, cit., 24, che i concetti non sono espressi
nella decisione dei casi ma rimangono in certo qual modo latenti. A tale
proposito l’Autore cita il frammento del Digesto (D. 50,7) che reca:
«non ex regula ius sumatur, sed ex
iure quod est, regula fiat».
[250] Con riferimento alla
realtà odierna, “i problemi probatori decidono della stessa
sopravvivenza del dolo, come forma di colpevolezza distinta dalla colpa”:
così MARINUCCI G., Finalismo,
responsabilità obiettiva, oggetto e struttura del dolo, in Riv. it. dir. proc. pen. 2003, 377. Sull’intreccio tra aspetti
strutturali e probatori del dolo, HASSEMER W., Kennzeichen des Vorsatzes, cit., 481.
[252] LÖFFLER A., Die Schuldformen
des Strafrechts, cit., 68. Forse più
esattamente DAHM G., Zur Rezeption des
romisch-italienischen Strafrechts, cit., 27 riconosce ai Romani il grande merito
di avere affermato il principio di colpevolezza, ma riserva invece ai
Commentatori quello di avere sviluppato una teoria finita del concetto di
colpevolezza, distinguendo le diverse forme di essa.
[253] PERTILE A., Storia del diritto italiano. Dalla caduta
dell’impero romano alla codificazione, II ed., vol. V: Storia del diritto penale, rist. anast.
Bologna 1966, 61 (il quale peraltro
dà per scontata la mancanza di sistematicità del diritto penale
romano, affermando a pag. 75 che «il diritto romano non ha nella materia
penale massime uniformi per tutti i reati»); DEL GIUDICE P., Diritto penale germanico rispetto
all’Italia, in Enciclopedia del
Diritto Penale Italiano, a cura di E. Pessina, I, Milano 1905, 463; CALISSE C., Svolgimento storico del diritto penale in Italia dalle invasioni barbariche
alle riforme del secolo XVIII, cit.,
243.
[254] KANTOROWICZ H., Il
«Tractatus criminum», in Per
il cinquantenario della «Rivista penale» fondata e diretta da Luigi
Lucchini, Città di Castello, 1925, ora in Rechtshistorische Schriften, Karlsruhe 1970, 273 ss.
[256] E’ utile
ricordare che secondo IMPALLOMENI G.B., L’omicidio,
cit., 250, i Romani chiamavano
delitti ex proposito «quelli
commessi con la intenzione diretta ad una determinata infrazione, e richiedente
uno stato di coscienza normale» e delitti ex impetu «quelli che importavano una intenzione di nuocere
indeterminata e dipendentemente da uno stato di coscienza anormale (per ebrietatem)».
[258] LÖFFLER A., Die Schuldformen
des Strafrechts, cit., 74 ss.;
BINDING K., Die Normen und ihre
Übertretung, cit., 639.
[259] Oggi come sempre i
criteri di attribuzione della responsabilità, adottati dagli ordinamenti
penali, derivano da schemi di valutazione del comportamento ricorrenti nella
vita quotidiana, elaborati da una data cultura, e acquisiti dai normali
processi di socializzazione degli individui in quella data cultura. Il problema
della colpevolezza, del “rimprovero”, non è dunque esclusivo
del diritto, ma pervade l’intera dimensione “normativa”
dell’esistenza: etica, religiosa, del costume. Fermo questo assunto,
PULITANO’ D., Diritto penale, cit., 332-333, ritiene necessario distinguere
il problema della giustificazione morale dei precetti legali, dal problema
della giustificazione dei criteri del rimprovero di colpevolezza, in sé
considerati. Per una concezione “secolarizzata” del diritto, qual è
quella odierna, la distinzione tra colpevolezza etica e giuridica è
fondamentale, ed è fondata sul riferimento ai diversi sistemi normativi,
rispettivamente giuridico ed etico: il giudizio giuridico non è dunque
legittimato a caricarsi di significati etici che vadano oltre la riaffermazione
dell’ordinamento positivo di comportamenti e rapporti sociali.
L’eticità del giudizio di colpevolezza può essere
però assunta sotto un altro profilo: con riguardo cioè al
fondamento del criterio di attribuzione di responsabilità penale, sul piano
dei valori o ragioni ispiratrici del sistema giuridico. Questa visione consente
di dare una struttura “moralmente corretta”, “giusta”,
ai presupposti del rimprovero su cui poggia l’attribuzione di
responsabilità penale: la “morale”, qui, non significa altro
che istanza critica o ricostruttiva del diritto.
Nella prospettiva
accennata dall’Autore la “moralità” dei criteri della
colpevolezza diventa una esigenza fondamentale sul piano della politica del
diritto penale anziché implicare un giudizio morale definitivo sui casi
di responsabilità penale. Va però ricordato che
l’identificazione tra colpevolezza penale e colpevolezza morale, propria
delle origini del concetto di colpevolezza e in particolare del dolo,
riguardava fatti (“delitti naturali”) il cui rimprovero anche oggi
non può ritenersi proprio del solo diritto ma investe
«l’intera dimensione normativa dell’esistenza», e
dunque anche la sfera etica, religiosa e del costume.
[260] MORSELLI E., L’elemento soggettivo del reato nella
prospettiva criminologica , in Riv.
it. dir. proc. pen., 1991,
97-98. Agli inizi del diciannovesimo secolo si parla
in Germania (BORST, Über den Beweis
des bösen Vorsatzes, in Neue
Archiv des Criminalrechts, 2, 1818, citato da VOLK K., Begriff und Beweis subjektiver Merkmale, in 50 Jahre Bundesgerichtshof. Festgabe aus der Wissenschaft - Bd. IV,
Strafrecht, Strafprozessrecht, München 2000, 744) di un böse Vorsatz, che può essere inferito solo da un bösen Tat e dalle circostanze di
esso. Per
un riferimento anche oggi alla “cattiva volontà”, HASSEMER
W., Kennzeichen des Vorsatzes, cit., 484.
[261] ANTOLISEI F., Manuale di diritto penale. Parte generale, XVI
ed., a cura di L. Conti, Milano 2003,
360. MORSELLI E., L’elemento
soggettivo del reato nella prospettiva criminologica, cit., 106, significativamente conclude il suo
lavoro citando un antico brocardo dei canonisti: «in maleficiis animus et voluntas spectatur, non autem exitus».
[262] MORSELLI E., L’elemento soggettivo del reato nella
prospettiva criminologica, cit.,
98 e per la sua concezione dell’atteggiamento interiore, o animus nocendi, quale elemento
costitutivo del fatto tipico, Il ruolo
dell’atteggiamento interiore nella struttura del reato, Padova
1989, 55 ss. L’Autore (L’elemento soggettivo del reato, 99) ritiene giunto il momento per la
dogmatica giuridico-penalistica di non fare più affidamento né
sul senso comune, né sul comune uso del linguaggio, né sulla
psicologia c.d. empirica, per la ricostruzione dei concetti e degli istituti
giuridici. Oggi le scienze psicologiche e sociali vertenti sul fenomeno della
criminalità avrebbero raggiunto secondo Morselli uno sviluppo tale da
fornire quelle risposte univoche che invece un tempo negavano ai numerosi
interrogativi sollevati dalla dogmatica. In questo quadro, egli ritiene che in
tema di elemento soggettivo meriti di essere privilegiata, e pertanto seguita
sul terreno prettamente dogmatico, la risposta offerta dalla psicologia c.d.
dinamica, o del profondo, che ha per matrice la psicoanalisi di ortodossa
derivazione freudiana. Attraverso questa scienza è possibile individuare
nel dolo «un atteggiamento interiore di cosciente adesione ai propri
meccanismi intrapsichici antisociali», che altro non sarebbe che
quell’aspetto affettivo o emozionale del fenomeno del dolo che i classici
– e ancora oggi una buona parte delle legislazioni e delle dottrine dei
vari paesi, e persino la giurisprudenza – usavano mettere in evidenza
sotto i termini, già visti, di animus
nocendi, prava voluntas, mala fides criminosa, ecc. (L’elemento soggettivo del reato, 100). Per dolo dunque – ad avviso
di Morselli – si deve intendere non già la formale, razionale e
anodina «previsione e volizione dell’evento», bensì
l’atteggiamento interiore antisociale esternato dal soggetto nella sua
condotta delittuosa; esattamente quello che in seno alla dottrina tedesca si
suole connotare col pregnante termine Gesinnung,
sul quale fece leva Franz von Liszt (maestro di Löffler) per fondare su di
esso la teoria della colpevolezza. L’Autore conclude (Il ruolo dell’atteggiamento interiore,
53) che «mentre nei reati
colposi il soggetto realizza l’evento in buona fede, in quelli dolosi si
verifica esattamente quella situazione emozionale che, nell’uso corrente,
si è soliti, volta per volta, denominare: malafede, malanimo,
animosità, cattiveria d’animo, animadversione, cattiva intenzione,
cattiva volontà, malevolenza, gravità, malvagità,
ostilità, etc.; peraltro con la doverosa avvertenza che, per assumere carattere di disvalore
rilevante per il diritto penale, tali stati affettivi devono rivestire la
qualifica della “criminosità” (quindi malafede
criminosa, etc.)».
[264] BINDING K., Die Normen und ihre
Übertretung, cit., 667. Secondo l’Autore,
l’animus rappresenta «Die Ausprägung (“la
coniatura“) des Willens-Momentes bei dem dolus malus».
[265] MORSELLI E., L’elemento soggettivo del reato nella
prospettiva criminologica, cit.,
104-105. Secondo l’Autore, un dolo inteso come atteggiamento
interiore potrebbe svolgere in seno alla teoria generale del reato un triplice
ruolo: a) la funzione di tramite tra la dogmatica e la criminologia; b) la
funzione di portatore del significato antisociale del fatto, e quindi di nucleo
centrale e indice-base del disvalore personalistico della condotta, e quindi
del fatto delittuoso; 3) la funzione di criterio fondamentale per la
individuazione della fattispecie e della conformità a essa del fatto
concreto. Morselli ritiene che questa impostazione valga a risolvere numerosi
problemi di teoria generale, e tra questi ne elenca principalmente tre: 1) il
problema della distinzione tra autore e partecipe, da risolvere con la teoria
degli animus; 2) il problema
dell’inizio dell’attività punibile nel tentativo; 3) il
problema dell’errore sulla legge penale, risolto dalla Corte
costituzionale (sent. 364/88) proprio facendo leva sulla «intrinseca
natura del dolo». A quest’ultimo riguardo, l’Autore, precisa,
in un altro contributo (Il ruolo
dell’atteggiamento interiore nella struttura del reato, cit., 77 ss.), che la duplice soluzione della
irrilevanza dell’errore di diritto nei c.d. delitti naturali da un lato,
e la escusabilità dello stesso nei reati di mera creazione legislativa
dall’altro, trovano il loro unico fondamento psicologico in un dolo
sganciato dalla colpevolezza, appartenente al fatto, e concepito, in chiave
assiologica, come dolus malus. Per
[267] CARRARA F., Programma del corso di diritto criminale,
Parte speciale, vol. III, V ed.,
Lucca 1888, 90 ss.
[268] CRIVELLARI G. –
SUMAN G., Il Codice Penale per il Regno
d’Italia, vol. VII, Torino-Milano-Roma-Napoli, 1896, 1096.
[269] FLORIAN E., La teoria psicologica della diffamazione.
Studio psicologico-giuridico, II ed., Torino 1927, 18 e ID., Ingiuria e diffamazione, in Sistema
dei delitti contro l’onore secondo il codice vigente, Milano
1939, 232 ss.; ALTAVILLA E., Delitti contro la persona. Delitti contro la
integrità e la sanità della stirpe, in Trattato di diritto penale, coordinato da E. Florian, IV ed.,
Milano 1934, 291 ss.
In tema di diffamazione,
[270] Per tutti, GALLO M., Il dolo. Oggetto e accertamento, in Studi urbinati, Milano 1951-1952, 267-268 e BRICOLA F., Dolus in re ipsa, Milano 1960, 18-19. VENEZIANI P., Motivi e colpevolezza, cit., 152, dopo avere dimostrato come anche la
giurisprudenza si sia attestata su posizioni analoghe a queste dottrinali,
afferma: «Quando il dolo è generico e non risulta tipizzato un
motivo, ovvero uno scopo ulteriore rispetto ai riflessi subiettivi del fatto
materiale – come può avvenire, in particolare elevando a fine
della condotta incriminata il motivo o scopo soggettivo, oppure ricorrendo a
una tecnica di formulazione che renda necessaria la presenza del dolo
intenzionale – andare alla ricerca di atteggiamenti ulteriori non
contemplati dal dettato normativo, nel convincimento che solo in presenza dei
medesimi possa dirsi integrata la fattispecie criminosa, è operazione in
buona sostanza arbitraria».
[273] MASUCCI M., ‘Fatto’ e ‘valore’
nella definizione del dolo, Torino 2004, 25. Cfr. MORSELLI E., Il ruolo dell’atteggiamento interiore
nella struttura del reato, cit.,
103, ad avviso del quale anche quando dell’animus nocendi non venga per nulla fatto cenno in sede giudiziale,
in effetti ogni istruttoria e ogni dibattimento ruotano, in primis, intorno all’indagine sull’atteggiamento
interiore.
[274] Pronunciandosi sulla
vicenda di un soggetto che, nel tentativo di arrestare alcune persone che
avevano cercato di introdursi nella sua abitazione, le aveva inseguite sparando
in aria una serie di colpi di arma da fuoco, e, infine ne aveva colpito una
alla testa,
[275] VENEZIANI p., Dolo
eventuale e colpa cosciente, in Studium
Juris, 2001, 78. Anche secondo PULITANO’ D., Diritto penale, cit.,
359, al fine di accertare se vi sia stata o no
“l’accettazione dell’evento” – formula che
l’Autore ritiene adeguata a caratterizzare il dolo come volontà
del fatto tipico – occorre avere riguardo al contesto in cui la scelta di agire si colloca.
Pulitanò spiega in questo modo e ritiene in gran parte fondate le
applicazioni giurisprudenziali che ascrivono all’ambito della colpa
violazioni anche consapevoli e molto gravi di regole di diligenza, se relative
ad attività lecite (come la circolazione stradale), mentre ascrivono
tendenzialmente al dolo eventuale i casi in cui il rischio accettato si iscrive
in un contesto d’azione radicalmente illecito (come nei casi giurisprudenziali
citati dall’Autore relativi alla morte della persona sequestrata, a chi
per sfuggire all’arresto si faccia scudo di un ostaggio rappresentandosi
l’eventualità che questo venga colpito a morte dalla reazione
della forza pubblica, al riconoscimento del dolo eventuale di omicidio in capo
al venditore di eroina verosimilmente tagliata con sostanze venefiche, e al
lancio di sassi dal cavalcavia su automobili con esito mortale per i conducenti
di esse). Sul fatto che nel giudizio di responsabilità incide l’esito
fausto o infausto dell’azione, vedi recentemente SUMMERER K., Contagio sessuale da virus HIV e
responsabilità penale dell’Aids-carrier, in Riv. it. dir. proc. pen., 2001, 319-320.
[276] MASUCCI M., ‘Fatto’ e ‘valore’
nella definizione del dolo, cit.,
28. Secondo l’Autore questo processo potrebbe assimilarsi a un
“labelling approach”,
temperato da criteri di giustizia sostanziale di cui il giudice si rende
interprete, così potenzialmente garantendo l’equa misura di un
“fair labelling”. Sulla
presenza di sentenze che imputano il medesimo evento a soggetti diversi ora a
titolo di dolo eventuale ora di colpa cosciente sulla base della
personalità del reo, anche BRAMANTE G., Sviluppi giurisprudenziali in tema di dolo eventuale, in Indice pen., 1995, 735.
[278] Così ancora
MASUCCI M., ‘Fatto’ e
‘valore’ nella definizione del dolo, cit., 26, che considera questa posizione
frutto della riflessione della più autorevole dottrina italiana (in
particolare di Delitala). Per evitare la sovrapposizione tra dolo e moventi,
VENEZIANI P., Motivi e colpevolezza,
cit. 147-148, propone di non
considerare il motivo isolatamente ma in una prospettiva più ampia. Egli
sostiene che dovrebbe essere l’analisi del momento psicologico (in
termini sia di rappresentazione che di volontà) interno al coefficiente
soggettivo a sorreggerne la qualificazione sub
specie di dolo, ma detta analisi andrebbe compiuta mettendo a confronto e
operando una sorta di bilanciamento tra, da un lato, la ragione che spinge ad
agire (accettando il rischio della verificazione dell’evento lesivo, nel
caso del dolo eventuale), e, dall’altro, i fattori motivanti di segno
opposto. Solo così – prosegue l’Autore – potrà
emergere l’effettivo disvalore della decisione potenzialmente contraria
al bene giuridico, disvalore che emergerà attraverso il ricorso a
parametri esterni, riconducibili a due possibili coordinate, che paiono porsi
come punti di riferimento costanti in rapporto al giudizio sui motivi: da un lato
un criterio di osservazione che fa leva sulla maggiore o minore
intensità del dato psichico, e dall’altro lato un criterio
incentrato sul valore etico-sociale, da riempire di contenuto, in definitiva,
in base alle “norme di cultura” rinvenibili nel contesto sociale di
riferimento.
[281] DELITALA G., Dolo eventuale e colpa cosciente, cit., 434-435. Peraltro Delitala non concorda
con Schaffstein e con altri autori tedeschi sull’interpretazione data da
Bartolo ai passi citati.
[282] La lex Cornelia de sicariis et veneficiis punisce chi per togliere la
vita a un uomo avesse fatto, o venduto, o avuto presso di sé veleno. Il
paragrafo 1, che precede quello di cui al testo recita: “Viene applicata
la pena della medesima legge a colui che avesse venduto pubblicamente cattivi
medicamenti o li avesse avuti presso di lui al fine di uccidere
qualcuno”. La traduzione del paragrafo 2 potrebbe essere la seguente:
«Questa aggiunta poi di ‘cattivo veleno’ dimostra che vi sono veleni [= medicinali] anche non cattivi.
Dunque è un nome [quello di veleno] neutro entro il quale si comprende
sia ciò che serve per curare, sia ciò che serve per uccidere, e
anche ciò che è definito come amatorio. In quella legge si
accenna soltanto a colui che lo ha per uccidere un uomo. Tuttavia in forza del
Senatoconsulto è stato ordinato di relegare colei che, non con cattiva
intenzione, ma a cattivo esempio ha dato un medicamento per concepire, a causa
del quale colei che lo abbia preso sia morta».
[283] Così la
possibile traduzione: «Coloro che danno pozioni abortive o amatorie,
anche se non lo facciano con dolo, tuttavia, poiché la cosa è di
cattivo esempio, se di umile condizione vengono condannati alla miniera, e se
di condizione elevata vengono relegati in un’isola, con la perdita di una
parte dei beni. Se poi la donna o l’uomo morì, essi vengono puniti
con sommo supplizio».
[284] ENGELMANN W., Die Schuldlehre der
Postglossatoren und ihre Fortentwiklung, 2. Auf. (Leipzig 1885), rist.
Aalen 1965, 85-86.
[285] ENGELMANN W., Die Schuldlehre der
Postglossatoren, cit., 109.
[288] LÖFFLER A., Die Schuldformen des Strafrechts,
cit., 88; DELITALA G., Dolo eventuale e colpa cosciente, cit., 434. Già FERRINI C., Diritto penale romano. Esposizione, cit.,
53, peraltro sostiene l’estraneità del frammento D.
48,19,38,5 al tema dell’elemento soggettivo del reato.
[289] Potrebbe tradursi:
«In base a questa legge è tenuto anche colui il quale, radunati
degli uomini, abbia usato violenza in modo che alcuno venisse battuto o
percosso, benché [l’uomo] non sia rimasto ucciso».
[290] La possibile traduzione
è: «Parimenti [sarà condannato] colui i cui servi,
cosciente egli di ciò, presero le armi per ottenere o recuperare il
possesso».
[291] “Legis Corneliae de sicariis et veneficis
poena insulae deportatio est et omnium bonorum ademptio, sed solent hodie
capite puniri, nisi honestiore loco positi fuerint, ut poenam legis sustineant:
humiliores enim solent vel bestias subici, altiores vero deportantur in insulam”
(D. 48,8,3,5, Marcianus libro quarto
decimo institutionum). Si potrebbe tradurre in questo modo: «La pena
della legge Cornelia sui sicari e gli avvelenatori è la deportazione in
un’isola e la confisca di tutti i beni; ma oggi si suole punire con pena
capitale, se non sono di nobile condizione, per cui siano dispensati dalla pena
della legge; quelli di più umili condizioni si suole esporre alle fiere
e quelli di più elevata condizione vengono deportati in
un’isola».
[292] La traduzione potrebbe
essere questa: « Chi durante un processo risulta avere commesso una
violenza manifesta, sia punito non più con l’esilio o la
deportazione in una isola, ma subisca la pena capitale, né, concesso un
appello, si sospenda la condanna che contro di lui è stata pronunciata,
poiché molte azioni sono racchiuse sotto l’unico nome di violenza,
come nel caso di chi tenta di usare violenza, o di chi respinga con sdegno le
percosse e le uccisioni spesso risultano ammesse. Per cui si è deciso
che se qualcuno, o dalla parte del possessore o dalla parte di chi ha tentato
di violare il possesso, sia stato ucciso, è condannato al supplizio chi
ha tentato di fare violenza e si offre all’altra parte il bene oggetto
della controversia (la causa dei mali) [il risarcimento del danno]».
[293] Si potrebbe intendere
così: «Se qualcuno con violenza ha occupato il fondo altrui, sia
condannato a morte. E se qualcuno o dalla parte di chi tenta di usare violenza
o dalla parte di chi cerca di respingere l’offesa, viene ucciso, sia
condannato colui che con violenza voleva privare l’altro del
possesso».
[295] Si potrebbe tradurre
così: «Poiché molti misfatti sono compresi sotto
l’unico nome di violenza, volendo gli uni fare violenza, altri resistendo
con sdegno, spesso sono inflitte percosse e uccisioni, si è del parere
che, se mai sia stato ucciso qualcuno o da parte del possessore o da parte di
colui che temerariamente cercò di ottenere per sé il possesso,
sia inflitto il supplizio a colui che tentò di fare violenza e diede a
una delle parti occasione del male e non sia più punito colla
relegazione o deportazione in un’isola, ma sia stabilito un supplizio
capitale e non sia sospesa la sentenza, che contro di lui sia stata
pronunziata, per interposto appello (provocatio)».
[296] Così
LÖFFLER A., Die Schuldformen des
Strafrechts, cit., 89, sulla
scorta dell’interpretazione data dai romanisti tedeschi ivi citati nella
nota 90.
[298] ENGELMANN W., Die Schuldlehre der
Postglossatoren, cit., 79-80;
SCHAFFSTEIN F., Die allgemeinen Lehren
vom Verbrechen, cit., 109.