N. 4 – 2005 – In Memoriam – Da Passano
Università di Macerata
26 giugno 2005
Caro Antonello (Mattone),
mi dispiace enormemente non essere con voi nel giorno dedicato al
ricordo di Mario Da Passano.
So della presenza di tanti amici, coi quali avrei potuto
parlare di lui, riandare a bei ricordi lontani e vicini, vivere con tutti voi
una giornata che non immagino triste, ma serena e operosa. Un'occasione di
riflessione e di discussione, nel ricordo affettuoso di uno studioso che non
avremo più con noi e di un amico che non dimenticheremo.
Mi dispiace, in particolare, di non poter salutare Maria Grazia e
Andrea, che abbraccio affettuosamente.
Mario ed io eravamo veramente e profondamente amici, ma la
nostra amicizia aveva un carattere tutto suo. Non avevamo avuto vicende comuni,
né assiduità di frequentazione; avevamo storie accademiche diverse e lavoravamo
in due periferie differenti e molto lontane tra loro. Ci conoscevamo da
trent'anni, ma soltanto negli ultimi dieci c'era capitato di incontrarci con
una certa frequenza. Eppure era nata tra noi una consonanza forte, fatta
innanzitutto di stima e di simpatia reciproca; una consonanza sostenuta da una
affinità maturata nel tempo, nell'esperienza culturale di ciascuno di noi, in
modo analogo e, per così dire, parallelo. Ci legò l'impegno politico che
entrambi avevamo avuto negli stessi anni nel Partito comunista guidato da
Enrico Berlinguer, ci legarono l'aver fatto le stesse battaglie e le stesse
letture, l'aver imparato le stesse canzoni, l'aver vissuto, con lo stesso
spirito, un tempo ed un impegno che avevano lasciato un segno sia in lui che in
me.
A lui mi legò l'ammirazione per la sua franchezza, per il
modo che aveva di testimoniare quasi provocatoriamente la sua coerenza. Con lui
stavo bene, per la sua straordinaria simpatia, per l'ironia sarcastica ed
intelligente di cui era capace, per quell'indecifrabile talento che pochi hanno
e che consiste nel saper stare in compagnia. Stavo bene con lui perché aveva
qualità e modi che ho sempre ammirato nelle rare persone che - come lui - ne
facevano e ne fanno un abito autentico, schietto e positivo. Io simbolizzo
tutto questo nel fatto che non ho mai visto Mario mettere una cravatta. C'è,
ineffabilmente, in questo dettaglio, un compendio della sua personalità, del
suo essere band à part: forse una metafora della sua naturale
insofferenza per ogni genere di guinzaglio, ma anche una prova della sua
insopportazione per tradizioni, convenzioni e riti di un certo stampo.
E mi verrebbe da dire, caro Antonello, che in un giorno come
questo, nello scegliere i toni e le maniere della sua
"commemorazione", non bisognerebbe dimenticare che Mario era uno che
non metteva mai la cravatta.
Ci accomunò la scelta del campo privilegiato dei nostri studi:
la storia del penale, nella quale avevamo consonanza di idee, pur nella diversa
articolazione degli approcci. E di qual buona lega fosse la nostra amicizia lo
testimonia il fatto che nessuno di noi due s'è mai sentito "in
competizione" con l'altro: ci scambiavamo idee, materiali, fonti, notizie,
e libri. Lui approfittava ogni tanto della mia fornita biblioteca, io della sua
immensa scienza archivistica. In questi ultimi anni lui mi aveva coinvolto in
più di un convegno e nell'impresa condotta con
Mario ci ha lasciato troppo presto, ma la sua operosità e la
qualità del suo lavoro gli hanno tuttavia consentito di imprimere un segno
importante - che resterà - nei nostri studi storico-giuridici ed anche al di là
di essi: perché i temi che coltivava e l'impostazione che dava alle sue
ricerche fanno di molti suoi scritti un punto di passaggio obbligato anche per
gli storici contemporanei tout court.
So che Vito Piergiovanni ed Ettore Dezza vi parleranno
ampiamente, a da par loro, dell'eredità scientifica di Mario Da Passano. Io
voglio dire solo poche cose sul valore oggettivo, e strategico insieme, della
sua lezione.
Mario à stato il più grande storico della legislazione
penale che l'Italia abbia avuto. Lo è stato non soltanto per la quantità e la
qualità dei suoi studi sui codici preunitari, sulla legislazione del Regno
d'Italia e sul codice del 1889 o per quanto ci ha fatto sapere sui giuristi che
sono stati coinvolti in quelle produzioni legislative. Lo è stato per il
disegno generale che ha posto a fondamento del suo lavoro e per le chiavi
interpretative sulle quali lo ha principalmente fondato.
Il lavoro di ricostruzione del processo di codificazione
penale - dalla Francia all'Italia della rivoluzione e dell'Impero, dai singoli
Stati preunitari fino al Regno d'Italia - è stato un lavoro enorme che ha dato
risultati straordinari. Un lavoro di archivio diffuso, costante, attento e
approfondito ha messo a sua disposizione una quantità senza precedenti di dati
di base, sui quali egli ha saputo delineare un percorso storico del tutto
convincente, che durerà. In particolare gli studi sulla legislazione in
Toscana, dalla Leopoldina alla fine del Granducato, sono un modello di
storiografia in progress, e ci hanno lasciato risultati che possiamo considerare
definitivi.
Ma egli non si è limitato a queste attente e documentate
ricostruzioni. Ha scelto due chiavi interpretative di particolare rilievo - la
pena di morte e il carcere - con le quali ha dato senso e arricchimento critico
alla sua storia legislativa. Così come certe figure di giuristi - penso a
Mancini in particolare, ma potrei dire di altri - hanno fatto da tratto di
unione tra diverse esperienze legislative, dando alle sue ricostruzioni un
senso ed una continuità che le rende organiche ed a loro modo sistematiche.
C'è un'altra chiave che, nei lavori di storia penale
generale, ricorre costantemente e rappresenta in un certo senso la cifra
distintiva della sensibilità di storico di Mario Da Passano. E' l'attenzione al
rapporto saliente tra il penale ed il mondo dei subalterni, i primi destinatari
storici della repressione. Un'attenzione che è evidentissima nel suo ultimo
lavoro inedito sul "Delitto di Regina Coeli", fondato su una
documentatissima ricostruzione e attraversato da una tensione politica forte e
appassionata. Ma Mario andava al di là della evidenza che poggia sui documenti.
Il suo ragionamento storico dava senso agli avvenimenti mettendoli in un
contesto culturale più largo: a questo gli servivano i ragionamenti sui modi e
sulla funzione della repressione nelle pratiche dello Stato 'liberale' del XIX
secolo, le considerazioni sull'uso che si faceva delle polizie lasciando loro
spazi arbitrari molto larghi, lo svelamento delle contraddizioni dello Stato
detto di diritto. Avvenimenti che sembrano (o sembravano) straordinari, tanto
da stare alla stregua di quelli che si sarebbero detti faits divers, acquistano
tutt'altro senso se messi nella logica di un'analisi più vasta e generale che
ne dimostra la storica 'ordinarietà', o quanto meno la totale plausibilità
politica.
Ultima, tra le pochissime cose che posso richiamare in
questo breve messaggio, un'altra cifra distintiva del lavoro di storico di
Mario Da Passano. E' una cifra più difficile da cogliere e della quale è più
arduo afferrare l'importanza perché solo uno sguardo capace di sofisticazione
ne coglie l'esistenza e la singolare funzione. Voglio dire l'ironia: un'ironia
che percorre larghi tratti di certi suoi scritti, a suo modo 'seria' e del
tutto funzionale alla sua esposizione.
Un'ironia fatta di riecheggiamenti e di silenzi, di
impliciti e di taciti rinvii, di allusioni paradossali e di irresistibili
citazioni letterali. Mario aveva la virtù di esprimersi senza dire, suscitando
retropensieri di pura marca ironica o sarcastica al lettore smaliziato che
avesse con lui una qualche affinità di orientamento culturale.
Tutto questo, credo, perché Mario metteva nel suo lavoro
passione e fede. Non era uno storico accademico, né uno che faceva la storia -
come si dice, e voi mi intendete - per mestiere. Tanto meno era uno storico routinier,
di quelli che pensano che gli storici devono essere obiettivi e poi
scambiano quella che a loro sembra obiettività con la più sterile freddezza.
Mario Da Passano, al contrario, era uno storico appassionato. Uno
che, nel suoi scritti, metteva in epigrafe i versi dei poeti e dei musicisti
che amava.