N. 4 – 2005 – In Memoriam – Franciosi

 

 

Gennaro Franciosi

 

L’origine dei gruppi familiari nell’antica Roma

lectio magistralis (*)

 

«Grazie. Grazie anzitutto al Magnifico Rettore, grazie a tutte le Autorità presenti e grazie per l’onore che mi viene concesso di svolgere questa lezione che non sarà una lezione magistrale nella sua accezione tradizionale, ma sarà una lezione tenuta ‘a braccio’ perché meglio si adatta al momento che viviamo che dal punto di vista per lo meno logistico è anche piuttosto, così, ‘arrangiato’ e allora voglio ‘arrangiare’ anche la mia lezione per adeguarmi.

Come dice il titolo stesso che ho indicato non svolgerò una lezione di diritto moderno ma una lezione di storia del diritto e forse in qualche momento di preistoria del diritto. Questo perché il diritto di famiglia così come si è venuto strutturando e svolgendo attraverso i secoli trova le sue origini o nel diritto romano o, addirittura, talvolta in antecedenti del diritto romano. Vorrei ricordare soltanto un elemento. La riforma del diritto di famiglia del 1975 è stata la prima che, tra altre novità, ha abolito due istituti.

Il primo è la patria potestà che non aveva certamente più quel contenuto pregnante che poteva avere nel diritto romano arcaico.

Il secondo, e questo si connette strettamente alla condizione della donna e alle battaglie combattute dai movimenti femministi, l’abolizione del principio patrilocale. Vi era, come sapete tutti, una norma del codice civile la quale diceva che la moglie avrebbe dovuto seguire il marito dovunque a questi fosse piaciuto fissare il proprio domicilio[1].

Per quanto riguarda i minori oggi invece esiste una potestà genitoria esercitata collegialmente e, in caso di dissenso, interviene il giudice. Ma tutto questo è noto e il discorso sui minori verrà attratto ovviamente in un discorso più ampio sulla famiglia romana.

Ora se noi apriamo, non a caso, il libro di uno dei maggiori antropologi viventi, Bronislav Malinowski, troviamo questa definizione della famiglia: la famiglia è un gruppo di persone di cui fanno parte padre, madre, e figli o figlie. Io ci aggiungerei anche i nipoti, e magari i pronipoti, visto che la vita umana si sta allungando. Sembra una definizione banale ma per lunghi secoli banale non lo è stato. Nel diritto romano, per la verità, noi troviamo qualcosa di più variegato rispetto a questa impostazione così lineare. Questo perché il diritto romano ci presenta non un gruppo familiare, ma una serie di gruppi familiari. Questi sono essenzialmente quattro, che poi si riducono nella struttura sostanzialmente a due. Qui ho un passo di Ulpiano dal quale si evince che vi è una familia proprio iure, cioè una famiglia di diritto proprio.

Per intenderci, una famiglia di diritto paterno o di diritto dell’avo[2]. Questo perché a Roma, finché l’avo o il proavo erano in vita, la famiglia restava unita, la potestà era del capostipite e i figli restavano sotto la potestà di questo fino alla morte del padre. Una famiglia quindi proprio iure.

Accanto a questa, Ulpiano pone una famiglia communi iure.

Il giurista dice (mi consentirete tre parole di latino): nam etsi patre familiam mortuo singuli singulas familias habent. Alla morte del pater familias, ognuno dei figli prende il suo settore di eredità, prende i suoi figli e diviene un nucleo familiare autonomo. Tuttavia, aggiunge Ulpiano, qui sub unius potestate fuerunt, cioè coloro che fino a un minuto prima, si sono trovati a vivere sotto la potestà di un solo genitore, recte eiusdem familia appellabuntur, vengono chiamati giustamente appartenenti alla stessa famiglia, qui ex eadem gente et domo proditi sunt, coloro che escono dalla stessa casa e dallo stesso gruppo gentilizio.

E’ un po’ la stessa differenza che facciamo noi, perché anche noi abbiamo questo concetto giuridico che rileva sotto il profilo ereditario. Quando io dico che nel lessico della mia famiglia si usa pronunziare una determinata frase, a un certo punto devo specificare se è il lessico della mia famiglia di origine, familia communi iure, di cui parla Ulpiano, o se è il lessico della famiglia stricto iure, o familia proprio iure, cioè la famiglia composta da me, da mia moglie, e da i miei figli (e da un anno da mio nipote che però non parla ancora).

Poi a questi va aggiunto un gruppo di cui ci parla Gaio in alcuni frammenti scoperti negli anni trenta ad Antinoe in Egitto in cui il giurista dice che alla morte del pater familias rimanevano uniti i fratres in un unico gruppo familiare[3].

Vi è poi una testimonianza dell’antiquario Servio che ci dice che fino ad un certo punto vi era una societas inseparabilis, cioè non vi era il diritto di divisione ereditaria. E ciò avveniva per quelle che sono le condizioni socio economiche della Roma arcaica, ma anche per un motivo tecnico, dato che l’azione per la divisione del patrimonio ereditario, l’actio familiae erciscundae, è stata introdotta solamente dalle XII tavole. Quindi, prima di quell’epoca non vi era un mezzo tecnico per procedere alla divisione del patrimonio ereditario.

Però le fonti ci dicono che anche nei secoli successivi, almeno fino al secondo secolo a.C., che è il secolo in cui Roma si trasforma, vi è uno sviluppo edilizio, si apre ai commerci, comincia a mutare anche la condizione dei figli e delle donne, i fratelli, anche se non avevano più l’obbligo di rimanere uniti come consortes, lo facevano comunque. E lo facevano a mio avviso per un duplice motivo. Per un motivo di carattere economico, cioè per non frammentare l’azienda domestica. Non viviamo all’epoca in un mondo eccessivamente sviluppato e non esiste ancora il latifondo.

E poi lo facevano anche per un motivo di carattere politico perché la costituzione data da Servio Tullio a Roma era una costituzione timocratica. Vi erano otto classi di censo e a seconda che si appartenesse ad una di queste categorie, il voto valeva, in base a un calcolo complesso che non sto a ripetervi, di più o di meno. Allora, la divisione della famiglia poteva significare in senso economico: «si sparte la ricchezza e diventa povertà» e, in senso sociale, poteva significare anche la calata brusca di rango sociale per questi gruppi familiari.

Ulpiano alla fine del passo che vi sto descrivendo accenna alla gens in termini che dimostrano quanto questo sia ormai un gruppo familiare diverso dalla famiglia e unico rispetto agli altri. Perché, se vogliamo, tutti questi gruppi familiari in sostanza si riducono ad essere o una famiglia con un capostipite unico longevo; o una famiglia che si è divisa, ma che conserva i rapporti di agnazione, e cioè di parentela, con il capostipite. E questo soprattutto a fini ereditari; oppure si riduce ad essere un gruppo di fratelli che potrebbero scindersi ad una certa età e che restano invece uniti volontariamente.

Accanto a questo, vi è la gens che Ulpiano, che è un giurista dell’età dei Severi (siamo a cavallo tra il secondo e il terzo secolo d.C.), non riesce a definire bene perché, la gens è un istituto arcaico di cui, all’epoca di Ulpiano, si sono ormai perdute le tracce.

E’ possibile ricostruire le differenze che esistono tra la famiglia e la gens. La famiglia ha un capostipite reale, vivo, il pater; o defunto, l’avo o il proavo (quello che ha tirato le cuoia lasciando l’eredità finalmente ai suoi). La famiglia, inoltre, ha un carattere potestativo nel senso che tutto ruota intorno alla patria potestas del pater e arriva fino all’esercizio, in casi estremi, del ius vitae ac necis, cioè dell’uccisione dei figli, come anche della donna/moglie, naturalmente. E poi vi sono anche altre differenze che per motivi di tempo non è possibile enumerare.

Dall’altro lato, la gens si presenta invece come un gruppo che ritiene di discendere da un capostipite mitico e allora, attraverso l’industria delle origini, si tira fuori la saga omerica. Quella gens discende da Ascanio, figlio di Enea, quell’altra da Diomede e così via. E si possono individuare degli elementi propri della gens. Per esempio un elemento territoriale che è il pagus o il vicus che la famiglia non ha. Un ordinamento della gens, i iura gentilicia, che la famiglia non ha perché basa tutto sulla potestas del pater familias. Mentre questa gens è composta da una serie di famiglie legate dalla memoria di una discendenza comune ma che già i Romani hanno ignorato nella sua struttura.

I caratteri della famiglia romana sono invece essenzialmente tre. La famiglia romana ha un carattere potestativo, ha un carattere patriarcale e un carattere agnatizio. Un carattere patriarcale nel senso di dominio dell’uomo sulla donna e vedremo fino a che punto arriva. Un carattere potestativo perché tutto ruota intorno alla potestas del pater familias che è il tessuto connettivo di tutta la famiglia romana. E un carattere agnatizio perché la parentela romana vede un’adgnatio che è la parentela per linea maschile e una cognatio che è la parentela per linea femminile. L’unica parentela rilevante per molti secoli è l’adgnatio, cioè la discendenza per linea maschile. L’erede è solo il maschio e la cognatio, la parentela per linea femminile, ha una sola funzione negativa, di stabilire, parallelamente all’altra, dei divieti matrimoniali tra consanguinei.

Noi abbiamo molti motivi per ritenere che la gens sia più antica della famiglia, che purtroppo, per motivi di tempo devo restringere al massimo. Per esempio, se noi vediamo la gens, questa finisce per dividersi in più famiglie, ma all’origine è un insediamento che ha un proprio territorio, il pagus. Tutti i sepolcri più antichi, e quelli menzionati dalle fonti scritte, e quelli che possiamo vedere noi come ad esempio il sepolcro degli Scipioni sulla via Appia, sono sepolcri gentilizi. E tutta la storia di Roma arcaica è storia di gentes. Le storie dei Fabi, dei Claudi, dei Valeri, non sono storie di famiglie ma storie di gentes. Gli Scevola, i Cethegi, gli Scipioni, giungono molto più tardi, non prima della fine del terzo secolo a.C.

Ora questa ipotesi, o teoria, della precedenza di questo gruppo più vasto rispetto alla famiglia cozza con idee che ci hanno inculcato fin da bambini. Cozza con quella che è la teoria patriarcale che vede come nucleo di partenza basilare della famiglia, e quindi della famiglia romana, quella di Bronislaw Malinowski: costituita semplicemente da madre, padre e figli.

Dall’allargamento dovuto alla generazione o anche a forme di affratellamento, di afflatomia o ad esempio per adozione, etc., questi gruppi finiscono per allargarsi. E poi gioca la suggestione del Pentateuco, cioè dei primi libri della Bibbia che ci mostrano la famiglia monogamica, Adamo ed Eva. Io non voglio toccare la coscienza di nessuno, ma ormai anche i teologi leggono la Bibbia in senso storico. Quando Giosuè dice: «Fermati sole». Nessun prete crede più che Giosuè abbia fermato il sole.

Noi facciamo gli storici, non i teologi o gli antiteologi.

Senonché questa teoria patriarcale che vedeva come cellula primordiale la famiglia monogamica nucleare (padre, madre e figli) cominciò a perdere i primi colpi da parte della storiografia dell’800. Non voglio sciorinare nomi e quindi mi fermo a due: uno è Johann Jacob Bachofen, un giurista e studioso svizzero che sulla base di molte testimonianze delle fonti relative ad alcune popolazioni antiche come, non so, i Lici, i Lidi, gli abitanti delle isole Baleari, ipotizzò che in origine non vi erano dei matrimoni individuali, ma matrimoni di carattere collettivo e che in origine non vi era una supremazia dell’uomo sulla donna nel senso potestativo della famiglia romana, ma una superiorità sociale della donna sull’uomo. Questi studi furono ripresi poi da Henry Lewis Morgan che non era un giurista teorico, ma un avvocato che ebbe l’incarico da parte di certe tribù indiane di difenderle contro il Governo americano.

Il Governo federale americano, parlo dell’800, voleva violare le riserve che aveva attribuito a questa tribù indiana per dei motivi di carattere contingente ed allora si aprì questa vertenza. Vertenze come questa si aprivano spesso durante la ‘conquista del west’. Siamo di fronte ad uno dei più grandi genocidi che la storia ricordi.

Ad ogni modo gli indiani si rivolsero al più famoso avvocato di New York che era appunto il Morgan. Il quale si recò sul posto e si trattenne un paio di anni presso questa popolazione per vedere come stavano effettivamente le cose e da giurista non potette non notare certe stranezze.

La più importante era questa. Il padre di famiglia indicava col termine di figli, non solo i propri figli, ma anche i figli dei fratelli. E la madre di famiglia, indicava come figlie, non soltanto le proprie figlie, ma anche le figlie delle sorelle. E, viceversa, questi piccoli indiani, dieci o più a seconda dei casi, indicavano come padre non solo il proprio padre naturale, ma anche il fratello del padre. E lo stesso, per quanto riguarda la madre, indicavano come tale non soltanto la madre, ma anche le sorelle della madre.

Allora il Morgan ebbe un’intuizione. Probabilmente questo sistema che si basa sulla coppia monogamica, che è il nostro sistema descrittivo di parentela, ha avuto un precedente. E’ nato in una società in cui il matrimonio non era individuale: uomo/donna, ma per serie di fratelli e serie di sorelle. Non quindi fratelli e sorelle tra di loro – il concetto di incesto, più precisamente di esogamia, era tenuto fuori –, ma una serie di fratelli che venivano da un certo clan, da una certa gens, o da una certa famiglia (come vogliamo esprimerci per semplificare) che si univano con una serie di sorelle che venivano da un altro clan, da un’altra gens, o da un’altra famiglia.

Senonché proprio in quegli anni, alcuni esploratori delle isole Hawaii, le isole Sandwich, per l’esattezza, scoprirono in atto un matrimonio collettivo di questo genere, che con termine indigeno chiamarono ‘punalua. Termine che probabilmente nel linguaggio indigeno significava fratello, consorte, o qualcosa del genere. Quindi videro sul terreno quello che il Morgan aveva ipotizzato. Però qui rileva un’altra particolarità. E cioè che il termine di genitore e di figlio veniva esteso reciprocamente anche e non soltanto agli zii paralleli, cioè ai fratelli del padre e alle sorelle della madre, ma anche agli zii incrociati. Cioè ai fratelli della madre e alle sorelle del padre. E allora Morgan ipotizzò che vi sarebbe stato uno stadio anteriore della famiglia in cui il matrimonio era endogamico, cioè promiscuo.

Questo coincideva sostanzialmente con quello che il Bachofen aveva chiamato ‘Sumpfzeugung’, cioè la ‘generazione palustre’, una generazione, in cui le forme istituzionali come i matrimoni non esistevano ancora. E da questi gruppi familiari collettivi, che abbiamo indicato con il termine ‘punalua per ripetere il linguaggio di questi primi esploratori, ricaviamo perfettamente la spiegazione dei caratteri della gens. Perché la gens romana ha una parentela senza gradi mentre la famiglia ha una parentela scandita per gradi (primo, secondo e terzo) essenzialmente per ragioni successorie. Non vi era quindi una parentela scandita in gradi perché questa generazione era collettiva e allora la scansione in gradi non poteva trovare posto. Se il fratello di mio padre non è mio zio (parente di terzo grado) ma è mio padre (parente in primo grado) salta quello che è il sistema nostro che sarà anche il sistema di parentela dei Romani in età classica, cioè il sistema descrittivo di parentela per lasciare spazio a quello che gli antropologi hanno definito il sistema classificatorio di parentela in cui si va per classi di persone: la classe dei fratelli, la classe dei genitori, la classe dei figli, se vogliamo operare questa che per l’età antica è un’importantissima distinzione. Una distinzione, cioè, in classi di età.

Dopo aver superato il pregiudizio patriarcale ora noi dobbiamo superare un altro pregiudizio. E’ il pregiudizio che alcuni autori hanno opposto contro questa forma di matrimonio collettivo. E allora io partirei da questo. Noi sappiamo benissimo che vi sono ancora oggi alcune popolazioni che praticano matrimoni non individuali, ma poligamici, poliginigi, oppure poliandrici.

Per esempio, presso gli Stati Arabi, ancora al giorno d’oggi esiste una forma di poligamia. Sono state scoperte inoltre forme cosiddette di poliandria nel Tibet ma, ci tengo a fare questa precisazione, non è possibile, visto in genere l’equilibrio esistente tra la popolazione considerare questo fenomeno come un fenomeno frequente. La composizione demografica di una popolazione non presenta mai uno squilibrio numerico tale a favore della donna, o a favore dell’uomo, da determinare come istituzione che l’uomo abbia un numero cospicuo di mogli oppure che la donna abbia (parlo del Tibet) un numero cospicuo di uomini. Questi sono evidentemente fenomeni di elite che riguardano principalmente uomini molto ricchi, come gli sceicchi. Tra l’altro nei Paesi Arabi la donna si compra ancora, così come si comprava anche a Roma attraverso la coemptio matrimonii causa. E quindi soltanto le fasce elitarie della popolazione possono praticare questo tipo di matrimonio. Per il resto vige necessariamente la monogamia che vedrà il divorzio, il ripudio, le cause di scioglimento, ma resta sempre un istituto monogamico.

E allora, se noi accettiamo la poligamia, se noi accettiamo la poliandria, perché non dobbiamo accettare quell’anello di congiunzione che è dato dal matrimonio collettivo? Eppure di questo matrimonio collettivo le fonti sono piene. Io ne cito qualcuna. Erodoto parla di quattro popolazioni. Ci tengo a dirlo, di stirpe indoeuropea, i Massageti[4], i Macli[5], i Nasamoni[6], gli Agatirsi[7], che praticano questa forma di matrimonio collettivo e i figli sono allevati assieme con i figli dell’intero gruppo. Cesare dice esplicitamente nel de bello Gallico che i Britanni usano sposarsi tra di loro in gruppi di dieci o dodici, ‘deni duodenique’, e per lo più, ‘plerique, fratres et sorores[8]. Cioè ci dice esplicitamente quello a cui era giunto per intuizione non conoscendo il testo di Cesare, il Morgan. Tacito ci dà la stessa testimonianza per molte popolazioni germaniche tra cui per i Venedi che poi sono gli antenati dei nostri Veneti che hanno una storia diversa da quella degli altri popoli italici[9]. E infine una testimonianza di Teopompo, riportata da Aristotele, il quale ci dice che alcune popolazioni italiche e precisamente i Sanniti, i Messapi, gli Etruschi praticavano il matrimonio collettivo[10].

Quando parliamo dell’Etruria, noi non parliamo dell’Etruria civilizzata, costiera, ma dell’Etruria interna, che era ancora legata alla cosiddetta civiltà sub-appenninica e che quindi viveva in uno stadio più arcaico di sviluppo. Credo di dover sottolineare che questi popoli, come gli Etruschi e i Sanniti (la popolazione Sabellica è unica, ma i Sabini sono un po’ gli antenati dei Sanniti), entrarono nella composizione etnica originaria di Roma. In altre parole, due delle etnie che compongono Roma, se prescindiamo dai Latini, hanno praticato (non praticano certamente nella Roma di età storica) queste forme di matrimonio collettivo. Per quanto riguarda l’elemento latino, noi lo troviamo indirettamente sotto due forme. Nelle forme religiose e di folclore, ma anche, e questo ci tengo a metterlo in evidenza, perché è una mia scoperta, nei nomi latini di parentela. Questi corrispondono esattamente ai nomi che scoprì il Morgan presso gli Irochesi del nord America.

E allora, come si spiega questa evoluzione che porta da un’organizzazione, diciamo così, genericamente, matriarcale, per seguire il Das Mutterrecht di Bachofen, ad un’organizzazione rigidamente patriarcale come quella della famiglia romana e come è stata quella della famiglia anche in secoli di molto successivi? E come si spiega il passaggio da forme non monogamiche di matrimonio (chiamiamole poligamiche genericamente) a forme monogamiche?

Ora, finché le popolazioni primitive vissero di raccolta, raccolta spontanea dei frutti del suolo e del sottosuolo, caccia, pesca e via di questo passo, non esistettero degli elementi aggreganti, delle istituzioni familiari. Pensate che i giuristi Romani, ancora dopo le riforme di Augusto, descrivono il matrimonio come una res facti. Cioè, come un’unione di fatto tra un uomo e una donna cui l’ordinamento ricollega delle conseguenze.

Un po’ come il possesso.

Il possesso è un rapporto di fatto cui l’ordinamento ricollega delle conseguenze. Ebbene, i giuristi Romani nell’istituto del postliminium equiparano il matrimonio al possesso. Il soldato che torna dalla guerra (post liminium da ‘oltre il limite’) torna in Roma, riacquista tutte le sue situazioni giuridiche, la patria potestà, il patrimonio, i debiti, i crediti, tutto quello insomma che può riacquistare in termini economico-patrimoniali, ma anche potestativi; tranne però due istituti, che non riacquista: il possesso e il matrimonio. Perché sono considerati res facti, la cui interruzione non porta alla ripresa di tale diritto.

Gli altri diritti restano quiescenti, questi che non sono diritti, ma situazioni di fatto non vengono riacquistati.

E allora si spiega come, noi troviamo una più antica importanza sociale della donna. Anzitutto ce la mostra l’archeologia preistorica, poi quelle fonti di cui parlavo prima, studiate dal Bachofen, i Lici, i Lidi, gli abitanti delle Baleari, dove si svolgeva anche il rito della couvade (che è stato rappresentato da un documentario di Folco Quilici) come ancora in atto presso alcune popolazioni primitive.

E poi la religione.

Nelle religioni primitive, prendiamo ad esempio l’area Egeo-cretese, cosiddetta minoica, lì noi abbiamo il culto della Dea Madre, la Potnia mediterranea, mentre la divinità maschile comincia a spuntare solo dopo, secondariamente, esclusivamente in funzione di paredro. La divinità è la Dea Madre Potnia. Ora, quali possono essere state, stringo un discorso che richiederebbe ore ed ore di conversazione, le cause di questa superiorità sociale della donna sull’uomo?

Anzitutto la riproduzione della specie. Di fronte ad un’umanità primitiva acquista un carattere mistico, sacro, inspiegabile. Anche perché il tempo che passa tra l’accoppiamento e la generazione è abbastanza lungo perché le popolazioni primitive abbiano ricordo di certi fatti. Poi l’allevamento della prole inetta. La prole dell’uomo è una prole inetta, lo sappiamo tutti.

Poi anche una serie di altre attività. Ad esempio la mantica, cioè l’arte del profetizzare, è propria dell’elemento femminile. Le Sibille, la Pizia e così via. Mentre a Roma l’arte del profetizzare è vietata perché si ritiene che la donna con le sue profezie possa mettere in pericolo la struttura rigidamente patriarcale che oramai ha assunto la società romana. In Grecia invece è praticata.

E poi lo stesso ciclo mestruale, siamo tutti adulti e vaccinati, viene visto presso le popolazioni primitive col suo legame con le fasi lunari, come un carattere quasi sovraumano della donna. Questo collegamento con le fasi lunari è importante soprattutto se teniamo presente che presso tutte le cosmogonie primitive, la Luna, attraverso un’anticipazione che oggi gli scienziati tendono a corroborare, è vista come un frammento della Terra-madre. Vi è quindi un legame tra la donna-Luna e le prime divinità femminili.

E poi le prime scoperte, se vogliamo utilizzare un termine un po’ anticipatorio, tecnologiche, sono opera femminile.

La medicina. Mentre l’uomo va a caccia e a pesca, in branco, la donna resta presso la propria abitazione, la caverna, la capanna, a seconda che ci riferiamo al paleolitico o al neolitico. In seguito verrà la domus, in epoca più recente, quando la donna resterà in casa ed oltre ad accudire alle faccende domestiche, alcune delle quali sono molto importanti, con un bastone da scavo, un oggetto ritrovato a livello archeologico, comincierà a studiare le erbe e i tuberi. Anche l’invenzione della cottura dei cibi è un’invenzione femminile, si sviluppa una medicina embrionale, nel senso che studiando le erbe, la donna si accorge di quale erba è tossica e quale non lo è, di quale è commestibile e di quale non lo è. Quale ha certe proprietà farmaceutiche (farmacos) e quale queste proprietà non le ha. Inoltre anche la tessitura, come la ceramica, sono invenzioni femminili.

Però a questo punto avviene la svolta, e mi avvio verso la fine sperando di non avervi tediato, perché una battuta di caccia felice compiuta dal gruppo maschile, porta un quantitativo di carne per l’intero gruppo che è notevole.

Senonché, dopo uno, due giorni, la materia organica si decompone. Quindi le carcasse di animali che solo due giorni prima sarebbero state commestibili devono essere sepolte. E allora qui si ha un’intuizione geniale dell’uomo, del maschio per intenderci. Se io, anziché ammazzare l’oggetto di caccia, l’animale, lo catturo vivo mediante tagliole, mediante il laccio, insomma in tutte le forme possibili, e lo richiudo in recinti, io posso ammazzarlo alla abbisogna. Non solo, ma questo significa porre le condizioni per un salto economico, per la prima forma di accumulazione capitalistica; cioè l’allevamento del bestiame che poi porta con sé altri frutti indotti come i nati dagli accoppiamenti, la lana e via discorrendo.

A questo punto, il rovesciamento della situazione tra i sessi che abbiamo descritto prima è avvenuto. Si tendono a dissolvere gli ordinamenti comunitari, vedremo perché, e si tende verso la monogamia. Quello che io riesco ad ottenere, esponendomi al rischio, come nel caso della cattura di animali grossi come i bisonti, voglio che sia consumato dai miei figli veri, non dai figli del gruppo.

E questa privatizzazione che riguarda il consumo, finisce per riguardare in breve anche i consumatori. Nasce in poche parole la necessità di avere dei figli certi a cui lasciare il patrimonio zootecnico accumulato in anni di rischi di lavoro e di sacrifici. Poi, un po’ alla volta, questa proprietà privata tende ad estendersi alla terra come area di pascolo e anche al proprio simile, cioè all’uomo. L’uomo catturato in battaglia in scontri bellici, ora non si ammazza più, perché ora è in grado di produrre un surplus rispetto al suo mero sostentamento, e quindi lo si riduce a prigionia di guerra. Anche a Roma, come in tutto il mondo antico, l’origine della schiavitù (a parte fenomeni marginali come la pirateria) è essenzialmente la prigionia di guerra. Gli effetti sono quelli che ho detto. Il rovesciamento del rapporto tra i sessi cioè la supremazia maschile, e la dissoluzione tendenziale degli ordinamenti comunitari. Cioè in poche parole, una tendenza a privatizzare in vita e in morte i consumatori di queste ricchezze accumulate che, nel corso del tempo, si istituzionalizza.

Quindi nascono esigenze di prole certa e noi abbiamo nelle fonti dei tentativi di attribuire la paternità più o meno certa (non è certa mai: mater semper certa est, pater numquam oppure pater est ei qui nuptiae demonstrant).

Presso due popolazioni, una di cui parla Erodoto, i Macli, l’altra di cui parla Cesare, i Britanni, come si procede? Presso i Macli, il terzo mese dalla nascita del bambino, si riuniscono tutti i membri maschi adulti, solo i maschi beninteso, e si vede in base alla somiglianza fisica a chi possa essere attribuita la paternità. Invece, presso i Britanni, si faceva ricorso ad un altro criterio presuntivo. Cioè, si considerava padre del figlio colui che per primo aveva posseduto la donna. Sul presupposto che in una canzone può sfociare nel detto il primo amore non si scorda mai, ma molto più seriamente, sul presupposto che vi sia stata una maggiore frequenza sessuale tra questa coppia, rispetto ad altre. E così scatta questa sequenza: proprietà privata, eredità, certezza della prole, che in un primo momento è presuntiva.

Per averla non presuntiva, ma istituzionale che cosa occorre? Occorre la monogamia. Quindi il passo ulteriore è la monogamia. Un uomo sposa una donna, una donna sposa un uomo e la monogamia si assicura con la repressione dell’adulterio femminile che viene punito con la morte come avviene presso tutti i popoli dell’antichità. Roma compresa, fino a tutta l’età augustea almeno. Repressione dell’adulterio solo femminile perché l’uomo è sempre stato libero di avere etére e di praticare la maggiore libertà sessuale senza nessuna conseguenza negativa.

Io qui ho il passo di un discorso di Catone che sintetizzo e poi l’affermazione di un oratore attico (il parallelismo è scelto da me). Dice Catone che il marito è il giudice della moglie, se questa commette delle manchevolezze, la punisce. Se commette adulterio la condanna a morte[11]. E usa queste parole: de iure autem occidenti ita scriptum in adulterium uxorem tuam si prendidisset sine iudicio impune necare. Se hai scoperto tua moglie in adulterio, la puoi impunemente uccidere, senza cioè che vi sia alcuna reazione dell’ordinamento giuridico. E senza che ciò comporti alcuna responsabilità, o che sia comminata alcuna pena. Illa, (la moglie), te, si tu adulterares sive tu adulterarere (o hai commesso adulterio perché hai preso tu l’iniziativa, oppure per iniziativa di altra donna, insomma, comunque sia stato commesso adulterio), digito non auderet contingere neque ius est (tua moglie non osi toccarti neppure con un dito perché non ne ha il diritto).

Il brano dell’oratore attico dice: «abbiamo etére per il nostro piacere, concubine per i bisogni quotidiani del nostro corpo, e mogli perché ci tengano la casa e ci diano figli legittimi»[12]. Mi sembra di sentir parlare un signore di cinquanta, cento, anni fa, ma forse anche di oggi, parliamoci chiaro, e direi a questo punto, chi meglio di loro, se dovessi fare un commento di carattere strettamente maschilista. Difatti il matrimonio romano per quanto riguarda i figli legittimi è orientato liberorum quaerendorum causa. Cioè al fine di avere dei figli legittimi. Ora tutto questo sviluppo ha un duplice approdo uno è ideologico ed è quello che vi ho letto. L’altro è pratico e consiste nella struttura della famiglia romana e nella lunga conservazione, con perdita molto graduale, dei sui caratteri. Cioè il carattere, come dicevamo, potestativo patriarcale e agnatizio. L’eredità è soltanto maschile, la parentela è vista solo in linea maschile, la donna comincia ad essere ammessa solo nel secondo secolo a.C., ed entro limiti molto ristretti all’eredità solo dei congiunti più stretti e quando leggiamo del suus heres in Gaio nelle XII tavole, il suus heres è soltanto l’erede maschio.

Di questi episodi cosmici che hanno mutato profondamente i rapporti tra i sessi e quindi la struttura della famiglia, anche in rapporto ai minori, noi abbiamo degli echi. Uno è nella saga di Amata, nell’opera virgiliana in cui, quando Latino si impone e rompe le nozze con Turno e dà Lavinia in sposa ad Enea destinato a fondare Roma, etc., che cosa fa Amata, la moglie di Latino? Si ribella. Corre urlando per le foreste in preda al furore bacchico e invita le donne latine a seguirla usando queste parole: si iuris materni cura demordet, se avete a cuore il diritto delle madri (il Mutterrecht di Bachofen), solvite crinales vittas capite orgia meum. Cioè, fate questa orgia in onore di Dioniso che è il dio della libertà femminile e sciogliete le capigliature, queste crinales vittas, perché la donna sposata aveva un’acconciatura particolare i seni crines: tre treccine a destra e tre treccine a sinistra come potete vedere nell’iconografia romana. Ebbene, quando è che si strappavano queste treccie? Quando moriva il marito. Ed è un gesto che noi vediamo soprattutto nelle contrade dell’Italia meridionale ancora oggi ripetuto perché certi atteggiamenti antropologici sono duri ad estinguersi.

Poi vi è il processo ad Oreste che io ho qui nella traduzione bellissima di Pier Paolo Pasolini, ma che vi risparmio, vi tiro le conclusioni.

Come sapete quando Agamennone torna in patria trova che la moglie si è sposata. Si tratta di un vero matrimonio, anche se non posso spiegarvi qui le ragioni dell’obbligo del levirato. Dell’obbligo cioè per la vedova di sposare il fratello del marito oppure il parente prossimo per linea agnatizia. E poiché erano arrivati molti messaggi che dicevano che Agamennone era morto, Clitennestra si unisce con Egisto, con il quale, fra l’altro, vi è anche un legame di sangue abbastanza stretto.

Quando Oreste, che è fuggito via con Pilade, per paura torna in patria, incontra Elettra che amava molto il padre «il lutto si addice ad Elettra». E questa lo spinge, per vendicare il padre, a uccidere la madre. Oreste uccide la madre ma subito dopo (colto da quello che avverto un poco anche io, perché sono venuto in non perfette condizioni di salute), la testa comincia a vacillargli, comincia a vacillargli perché è preda delle Erinni, le furie, che sono le custodi e vindici del diritto materno. Queste gli dicono: «Tu hai commesso il più inespiabile dei delitti».

Allora si ha questo schieramento. Le Erinni come accusatrici del matricidio. Apollo come difensore di questo matricidio e tutti si rivolgono ad Atena. E qui la scena si sposta da Micene ad Atene.

Atena dice di non poter giudicare un delitto commesso per ispirazione di una divinità. Noi divinità siamo pari, tranne colui che comanda, quindi io istituisco l’Aeròpago, questo tribunale di uomini che sta poi a indicare l’origine delle strutture giuridiche. L’evoluzione dalla società tribale attica allo Stato ateniese e attribuisce a questi giudici, che sono uomini, scabini del tribunale di Atene, il compito di votare e di decidere se Oreste dev’essere assolto o condannato.

Scrutinio: metà dei voti saranno per l’assoluzione, metà per la condanna.

Allora Atena, che poi corrisponde all’etrusco/latina Minerva, esercitando il suo calculus Minervae, cioè il suo voto di presidentessa, proscioglie Oreste.

A questo punto le Erinni si lasciano convincere, diventano Euménidi, cioè divinità buone, e accettano questa nuova realtà del patriarcato e però lanciano un’invettiva: «queste nuove divinità del patriarcato ci hanno sconfitto». Finché si tratta di Apollo il discorso è chiaro. Apollo è maschio, Apollo è una divinità del patriarcato, è definito patrios nelle fonti, ma Atena, Atena è donna, perché si schiera dalla parte maschile? Voi ricorderete, da un celebre dialogo di Luciano, che Atena non è nata da utero materno, ma è nata dalla testa di Zeus. Atena è vergine, rifiuta la maternità, e la rifiuta sia in senso maschile che in senso femminile. Atena veste abbigliamenti guerreschi, danza la Pirrica che è una danza di guerra, è armata. Insomma anche il look mostra che Atena è donna soltanto perché è tale a livello biologico, fisiologico, ma in realtà ideologicamente è tutta dalla parte del genere maschile.

Ecco come (e termino) da quelli che sembrano miti (ciò che sembra più lontano dalla nostra mentalità), noi arriviamo a comprendere quella che è la struttura della società romana, quella che è la struttura della famiglia romana, quella che è la condizione della donna, quella che è la condizione dei figli, miti che hanno permeato di sé tutta l’età di mezzo, fino all’età recente. Ripeto, all’inizio dicevo che solo nel 1975, sono state abolite la patria potestà, sia pure con un contenuto diluito, ma quello che era forte era il principio patrilocale. La storia e la preistoria questo ci insegnano.

Credo di aver aperto una finestra sulla storia della famiglia.

 

 



 

(*) Lectio magistralis svolta da Gennaro Franciosi il 20 febbraio 2004 nell’aula Massimo D’Antona della Facoltà di Giurisprudenza della Seconda Università degli Studi di Napoli, per l’inaugurazione del “Corso di perfezionamento in diritto dei minori e della famiglia”. Si ringraziano Antonio De Rosa e Angelo De Angelis che hanno registrato e custodito con scrupolo la Lectio magistralis del loro Preside.

 

[1] L’art. 131 del Codice Civile in un’edizione del 1905 [Raccolta dei Cinque Codici annotati col testo completo delle principali leggi di uso ordinario nelle udienze civili e penali e delle minori che vi hanno riferimento (Torino, Milano, Roma, Napoli 1908) 18] recita: «Il marito è capo della famiglia: la moglie segue la condizione civile di lui, ne assume il cognome, ed è obbligata ad accompagnarlo dovunque egli creda opportuno di fissare la sua residenza».

 

[2] D. 50.16195.2-4 (Ulp. 46 ad ed.).

 

[3] Gai. 3.154 a, 154 b.

 

[4] Erod. 1.216.1-3 (Müller 71).

 

[5] Erod. 4.180.6 (Müller 233).

 

[6] Erod. 4.172.2-3 (Müller 231).

 

[7] Erod. 4.104 (Müller 213).

 

[8] Caes. de b. Gall. 5.14.4-5.

 

[9] Tacit. Germ. 46.3.

 

[10] Teopomp. frg. 22 (Müller 315).

 

[11] Cato in Gell. 10.23.4-5.

 

[12] Ps. Demost. 59.122.