Università di Craiova
La mancipatio
nei trittici della Transilvania
Sommario: 1. Preliminari. – 2. Le persone nella Dacia Romana.
Presentazione generale. – 3. Breve
descrizione dei trittici della Transilvania. – 4. Presentazione dei trittici che
hanno come oggetto i contratti di compravendita. – A. Contratto di compravendita di una
bimba-schiava, del 17 marzo 139. – B. Contratto di compravendita di un
bimbo-schiavo, del 16 maggio 142. – C. Contratto di compravendita di una
schiava, del 4 ottobre 160. – D. Contratto di compravendita di una
metà di casa (concluso il 6 maggio 159). – 5. Lo statuto giuridico delle persone
che partecipano alla conclusione dei contratti di compravendita. – 6. Natura giuridica degli atti
conclusi. – 7. Natura
giuridica degli atti conclusi (continuazione). – 8. Conclusione.
Nell’anno 106 d.C., in seguito a due campagne militari condotte
dall’imperatore M. Ulpio Traiano, il più importante conquistatore romano dopo
Cesare[1], il regno daco fu sciolto,
la maggior parte di esso diventando provincia romana, che si estendeva, come
mostra, dopo quattro decenni da questo avvenimento, il celebre geografo
Ptolemeo, fra i Carpazi a Nord, il Danubio a Sud, il Tibisco ad Ovest e lo
Hierasos (il Siret o il Prut?) a Est. La nuova provincia imperiale Dacia allargò,
quindi, i confini dell’Impero a nord del Danubio, costituendo un vero baluardo
del mondo romano nel quadro dei territori “barbari” con cui confinava; per la
sorveglianza dei confini l’Impero mantenne nella provincia, in alcuni momenti,
un esercito di 50.000 uomini[2].
Per più di un decennio, la Dacia costituì una sola provincia nell’ambito
dell’Impero Romano. Necessità di natura amministrativa e militare determinarono
l’imperatore Adriano a riorganizzarla, per primo, fra il 118 e il 119 d.C., in
due province (Dacia superiore e Dacia inferiore), e dal 123 in tre province,
per il distacco dalla Dacia superiore della provincia Dacia porolissense.
L’ultima riorganizzazione fu opera dell’imperatore Marco Aurelio, il quale,
nell’anno 168 d.C., unificò la Dacia inferiore e la Dacia superiore nella
provincia Dacia Apulensis, da cui, nel 169, si distaccò la Dacia Malvensis. Le tre
province daciche – Dacia Apulensis, Dacia Porolissensis e Dacia Malvensis – si trovavano sotto l’autorità
di un governatore supremo dell’ordine senatoriale e di rango consolare chiamato
legatus Augusti pro praetore trium
Daciarum, con la residenza nella città di Ulpia Traiana Sarmizegetusa[3]. Dunque, per “Dacia
Romana” intendiamo, secondo il caso, una, due o tre province, che esistettero
nell’ambito dell’Impero Romano nel periodo 106-275 d.C. a nord del Danubio, su
una parte dei territori abitati dai daci.
Subito dopo la conquista della Dacia, lo Stato romano incominciò un
processo di colonizzazione massiccia della provincia[4]. Così come nota nel IV
secolo lo storico Eutropio, «Traiano, dopo che conquistò la Dacia, portò qui da
tutto l’Impero molte persone, affinché coltivassero i campi e popolassero le
città»[5]. Come in tutto l’impero,
la provincia di Dacia era organizzata dal punto di vista amministrativo in
località urbane (municipia e coloniae) e rurali (vici seu pagi).
Degno di ricordo, per la conoscenza della capacità giuridica degli abitanti
della Dacia, è il fatto che il numero dei municipi e delle colonie era di 44,
come sostiene Tolemeo[6]; ma il numero attestato
ufficialmente era di 11 colonie, di cui, come attesta Ulpiano, 5 godevano dello ius italicum[7].
Le colonie erano abitate, per la maggior parte, da cittadini romani (cives), mentre la maggior parte degli
abitanti dei municipi avevano la condizione giuridica di latini fittizi. Le
località rurali erano popolate, in generale, con peregrini – autoctoni o coloni
– senza escludere però la presenza di cittadini e di latini.
Durante tutto il II secolo, cioè nella prima metà del periodo in cui la
Dacia si trovò sotto il dominio romano, la delimitazione fra le diverse
categorie di uomini liberi della provincia, cittadini, latini e peregrini, era
molto chiara, nel senso che a ogni categoria di persone corrispondeva un
determinato statuto giuridico[8].
I cittadini provenivano, soprattutto, dalle decine di migliaia di militari
che sostarono in permanenza in Dacia o dai veterani che, nel caso non fossero
cittadini, ricevevano la cittadinanza, assieme ai membri delle loro famiglie,
dopo aver compiuto per 25 anni il servizio militare. La maggior parte dei
veterani continuavano a vivere in Dacia, dove erano resi proprietari di un
lotto di terreno, come risulta anche dal fatto che dei 32 diplomi militari
(veri atti di identità della cittadinanza e nello stesso tempo autentici
libretti militari) provenienti dai militari che si congedarono nella Dacia, 28
sono stati scoperti proprio sul territorio della provincia[9].
In base allo ius civile, i
cittadini godevano della pienezza dei diritti politici e civili, cioè di ius honarum, ius suffragii, ius militiae,
ius commercii e ius connubii; però, essendo la Dacia una provincia imperiale il cui
territorio era stato trasformato in ager
publicus, la sola limitazione nell’esercitazione dei diritti dei cittadini
riguardava il diritto di proprietà fondiaria, fatta eccezione per i cittadini
delle cinque località che godevano dello ius
italicum, motivo per cui erano esentati del pagamento dell’imposta sulla
terra.
Come abbiamo mostrato, i latini abitavano soprattutto nei municipi e nelle
località rurali. Nel periodo in cui la Dacia appartenne all’Impero romano non
si può parlare né di latini prisci (veteres) né di latini coloniari, ma solo di latini
aeliani e di latini iuniani,
provenienti soprattutto dalle emancipazioni e che godevano di un ius commercii limitato.
Dunque, per quanto riguarda la capacità giuridica dei cittadini e dei latini
della Dacia Romana, non ci sono problemi speciali, essendo qui applicate le
stesse norme di diritto che si applicavano nell’Impero romano, motivo per cui
crediamo che non sia più il caso di insistere.
Il problema della capacità giuridica dei peregrini è però più delicato[10]. Come regola generale,
sappiamo che i peregrini avevano una condizione inferiore a quella dei
cittadini e dei latini, non godendo né di diritti politici né di diritti
civili. A loro si applicavano, in genere, soltanto le norme dello ius gentium. In particolare però la
categoria dei peregrini non era omogenea nel quadro del sistema del diritto
romano. Quando facciamo questa affermazione, non pensiamo alla divisione dei
peregrini in due categorie, e cioè quella dei peregrini ordinari e quella dei
peregrini dediticii (tutte e due le
categorie essendo presenti anche nella Dacia), ma al fatto che le norme che
regolavano lo statuto dei peregrini erano diverse da una provincia all’altra.
Così i peregrini erano sottomessi alle norme di diritto stabilite sia con la
legge costitutiva della provincia (lex
provinciae), sia con gli editti che i governatori delle province emettevano
alla loro entrata in carica. Come dice Cicerone[11], questo editto aveva due
parti: una riguardante i cittadini romani dalla provincia che, di solito,
riproduceva l’editto del pretore urbano, e una che costituiva edictum provinciale in senso stretto,
che riguardava i provinciali e che conteneva anche disposti di diritto locale[12].
Sfortunatamente, nel caso della Dacia non si conoscono né “la legge
organica” con cui l’imperatore Traiano fondò questa provincia, né le leggi
seguenti con cui gli imperatori Adriano e Marco Aurelio riorganizzarono la
provincia; né alcuno degli editti dei governatori emessi in occasione del loro
insediamento nella funzione. Aggiungiamo che, tranne il riferimento di Ulpiano
alle località della Dacia, alle quali era stato accordato lo ius italicum, neanche nelle opere dei
giureconsulti romani o di altri autori antichi troviamo alcuna menzione
riguardante il diritto applicato nella Dacia romana. Ecco perché la scoperta ad
Alburnus Maior nella Dacia superiore (Apulensis)
delle tavolette cerate, conosciute sotto il nome di “trittici della
Transilvania”, che contengono diversi contratti in cui le parti, i garanti e i
testimoni sono – come indicano i nomi – cittadini romani e peregrini, suscitò
un enorme interesse, essendo, finora, il solo documento riguardante
l’applicazione del diritto romano in Dacia.
Fra gli anni 1786-1855, in seguito ad alcuni lavori di scavatura fatti
nella zona aurifera della località Roşia Montană (che si trova sul
luogo dell’antica Alburnus Maior), in una miniera abbandonata, sono
state scoperte 25 tavolette cerate, di cui 22 realizzate sotto forma di
trittici. Però, dal punto di vista fisico hanno resistito, totalmente o quasi
totalmente leggibili, soltanto 14 tavolette. Esse contengono quattro contratti
di compravendita, tre contratti di affitto del lavoro (locatio operarum), due contratti di prestito, un contratto di
società, un contratto di deposito, un verbale per cui si constata lo
scioglimento di un’associazione funeraria, l’elenco delle spese per
l’organizzazione di un banchetto e una ricevuta che conferma l’obbligo di una persona
di pagare un debito. Tutti questi atti giuridici furono realizzati negli anni
131-167. Per la ricchezza delle informazioni di ordine filologico-linguistico,
economico-sociale, demografico e, soprattutto, giuridico, le tavolette cerate
della Transilvania hanno suscitato un interesse speciale fra i romanisti e gli
epigrafisti. Publicate integralmente per la prima volta a Berlino, nel 1873, da
Theodor Mommsen, nel monumentale Corpus
Inscriptionum Latinarum[13], vol. III, parte II, pp.
921-966: Instrumenta Dacica in tabulis
ceratae conscripta, il contenuto delle tavolette è stato riprodotto o
interpretato finora in più di cento lavori scientifici[14].
I trittici della Transilvania sono realizzati nella modalità utilizzata più
spesso in quell’epoca, rispettivamente da tavolette cerate (tabulae ceratae), composte da più
targhette di legno, leggermente scavate all’interno e legate fra loro. Secondo
il numero delle tavolette, questi “libri in legno” si chiamavano duplices, triplices, quinquiplices
ecc.[15].
Delle 25 tavolette cerate scoperte ad Alburnus Maior, 22 appartengono alla
categoria dei trittici, essendo dunque composte da tre targhette di legno, di
cui per la scrittura erano sistemate soltanto quattro “pagine”, e cioè le parti
interne, dunque la seconda pagina della prima tavoletta, ambedue le parti della
seconda tavoletta (rispettivamente la terza e la quarta pagina) e la prima
pagina della terza tavoletta (la quinta pagina); le superficie esterne (la
prima e la sesta pagina) non erano unte con cera, giocando esse il ruolo di
copertine.
Il testo era scritto due volte: un testo interiore (scriptura interior), scritto sulla seconda e la terza pagina, e un
testo esteriore (scriptura esteriore),
scritto sulla quarta e la quinta pagina; nella parte destra della quarta pagina
erano indicati i nomi dei testimoni e dei garanti che avevano assistito alla
conclusione dell’atto giuridico, ed i loro sigilli.
La seconda e la terza pagina, che contenevano il testo interiore, erano
legate in un modo speciale, per un filo che aveva le estremità fissate nella
quarta pagina, sotto i sigilli dei testimoni, mentre un altro filo legava le
tre tavolette così che quello che voleva sapere il contenuto dell’atto leggeva
il testo dalla quarta e la quinta pagina (scriptura
exterior). Per quanto riguarda il testo interiore, questo poteva essere
consultato soltanto in modo eccezionale, se esistesse un litigio riguardante il
rispettivo atto giuridico; allora erano rotti i sigilli dei testimoni e il filo
che legava le tavolette che contenevano il testo interiore, per essere letto e
comparato con il testo esteriore.
Questa modalità di redazione di due testi identici, di cui uno (scriptura interior) poteva essere letto
soltanto con la violazione dei sigilli, era obbligatoria nel diritto romano nel
caso degli atti giuridici conclusi inter
vivos, cominciando con l’anno 61 d. C., quando fu emesso Senatusconsultum Neronianum (adversos
falsorios)[16],
che aveva come scopo la preveggenza della falsificazione dei contratti.
Dei 22 trittici realizzati con la modalità descritta sopra, presenteremo in
seguito i quattro contratti di compravendita, essendo quelli che hanno generato
più discussioni fra i romanisti e gli storici del diritto, per quanto riguarda
la capacità giuridica dei peregrini della provincia romana della Dacia.
Exempli interioris, pagina prior (tab. 1’)
Maximus Batonis puellam nomine
Passiam, sive ea quo alio nomine est, an-
norum / circiter p(lus) m(inus) sex empta sportelaria /
emit mancipioque accepit[18]
de Dasio Verzonis Piruesta ex Kaviereti[o],
(denariis) ducentis quinque.
Iam[19] puellam sanam esse a furtis
noxisque
solutam, fugitiuam erronem non esse
praestari. Quot si quis eam puellam
partemve quam ex eo[20] quis evicerit,
quominus Maximum Batonis quo-
ve ea res pertinebit habere possi-
dereque recte liceat, tum quanti
ea puella empta est, tam pecuniam
Exempli interioris, pagina posterior (tab. 2 r)
et alterum tantum dari fide rogavit
Maximus Batonis, fide promisit Dasius
Verzonis Pirusta ex Kaviereti.
Proque ea puella, quae s(upra) s(cripta) est (denarios)
ducen-
tos quinque accepisse et habere
se dixit Dasius Verzonis a Maximo Batonis.
Actum Karto XVI k(alendas) Apriles
Tito Aelio Caesare Antonino Pio II et Bruttio
Praesente II co(n)s(ulibus).
Exempli exterioris, pagina prior (tab. 2’)
Maximus Batonis puellam Maximi
Ve-
nomine Passiam, sive ea neti
princi-
quo alio nomine est, anno- pis
rum circiter p(lus) m(inus) sex, emp- Masuri Messi
ta sportellaria, emit man- dec(urionis)
cipioque accepit de Anneses
An-
Dasio Verzonis Pirusta dunocuetis
ex Kavieretio (denariis) ducen-
tis et quinque. Plani
Verzo-
Eam puellam sanam esse, furtis no- nis Sclaietis
xaque solutam, fugi- Liccai
Epicadi
tivam erronem non Marciniesi
esse praestari. Quot Epicadi
Plaren-
si quis eam puellam tis qui-
partemve quam ex eo[21] et Mico
quis evicerit, quo Dasi
Verzonis
minus Maximum Ba- ipsius
vendi-
tonis quove ea re[s] toris
(la continuazione del
testo si trovava sulla
pagina posteriore,
sparita)
Traduzione: Massimo di Bato compra e acquisisce – con 205 denari – per mancipazione,
da Dasio di Verzo; (di origine) pirusto di Kavieretium,
una bimba (schiava) dal nome di Passia o di un altro nome, in età di circa sei
anni, presa (cioè entrata nella proprietà del venditore) come bimba trovata (“empta sportellaria”).
Si dà garanzia (per il fatto) che questa bimba è sana, che non ha commesso
nessun furto o danno (a qualcuno), che non è latitante, né vagabonda. E se
qualcuno evincesse quella bimba o parte di lei, così che a Massimo di Bato o a
quello a cui apparterà quella cosa (rispettivamente, la bimba schiava) gli sia
permesso meno di averla o di possederla di diritto, allora, con quanto è stata
comprata quella bimba, tanta somma di denaro e ancora una volta questa ha chiesto
Massimo di Bato che gli si desse in buonafede (e) nella (sua) buonafede ha
promesso (di dare) Dasio di Verzo Pirusto di Kavieretium.
E per quella bimba, che è scritta sopra, Dasio di Verzo ha detto che ha
ricevuto e ha 205 denari da Massimo di Bato.
Concluso a Kartum, 16 giorni
prima delle calende del mese di aprile, (nell’anno quando) Tito Aelio Caesare
Antonino Pio e Bruttio Praesens sono consoli per la seconda volta.
(Le firme dei testimoni): di Massimo Venetus,
appuntato; di Masurio Messus,
decurione; Annesses Andunocnetis, di Planus Verzonius Sclaies, di Liccaius
Epicadi Marciniesus, di Epicadus
Plarentis detto anche Mieus e di
Dasio di Verzo, il venditore.
Exempli interioris, pagina prior (tab. 1’)
Dasius Breucus emit mancipioque accepit
puerum Apalaustum, sive is quo alio nomine
est, n(atione) Grecum[23], apocatum pro uncis duabus
(denariis) DC de Bellico Alexandri, f(ide) r(ogato)
M(arco) Vibio Longo.
Eum puerum sanum traditum esse furtis noxaque
solutum, erronem fugitium[24] caducum non esse
prestari[25]: et si quis eum puerum,
q(uo) d(e) a(agitur)
partenve[26] quam quis ex eo
evicerit, q(uo) m(inus)
emptorem s(upra) s(criptum) eunve[27] ad q(uem) ea res pertinebit
uti frui habere possidereq(ue) recte liceat:
tunc quantum id erit quod ita ex eo evic-
tum fuerit
Exempli interioris, pagina posterior (tab. 2 r)
t(antam) p(ecuniam) duplam p(robam) r(ecte) d(ari) f(ide)
r(ogavit) Dasius
Breucus, d(ari) f(ide) p(romisit)
Bellicus Alexandri. Id(em) fide sua esse
iussit Vibius Longus.
Proque eo puero, q(ui) s(upra) s(criptus) est, pretium
eius (denarios) DC accepisse et habere se dixit
Bellicus Alexandri ab Dasio Breuco.
Act(um) kanab(is) leg(ionis) XIII g(eminae) XVII
kal(endas) Iunias
Rufino et Quadrato co(n)s(ulibus).
Exempli exterioris, pagina prior (tab. 2’)
Dassius Breucus [emit man-] Appi Procli vert(erani)
cipioque accepit [pu]e[rum] leg(ionis) XIII g(eminae)
Apalaustum, sive is quo ali[o] Antoni Celeris
nomine est, n(atione) Grecum[28], a[po-] Iul(i) Viatoris
chatum pro uncis duabus, Ulp(i)
Severi-
(denariis) DC de Bellico Alexandri ni
f(ide) r(ogato) M(arco) Vibio Longo L(uci) Firmi Primiti-
Eu(m puer]um sanum traditum vi
[esse] furtis noxaque so- M(arci)
Vibi Longi
[lutu]m, erronem fugiti- fideiussor(is)
vum kaducum non esse Bellici
Alex[a]n-
prestari[29] et si quis eum pu- dri
vendit(oris)
erum, q(uo) d(e) a(gitur), partemve
quam quis ex eo evicerit
Exempli exterioris, pagina posterior (tab. 3 r)
quo minus emptorem s(upra) s(criptum) eumve ad quem ea
res
pertinebit uti frui habere possideretque[30] rec-
te liceat: um[31] quantum id erit, quod ita ex eo e-
victum fuerit, tantam pecuniam duplam
probam recte f(ide) r(ogavit) Dassius Breuci, d(ari)
f(ide) p(romisit) Bel-
licus Alexandri. Idem fide sua esse iussit M(arcus)
Vibius Longus.
Proque eo puero, qui s(upra) s(criptus) [est, pr]etium
eius (denarios) DC
acc[e-]
pisse et habere se dix[i]t Bellicus Alexand[ri]
ab Dassio Breuci.
Traduzione: Dassio Breuco compra e acquisisce per mancipazione il bimbo Apalaustus, o se ha un altro nome di
origine greca, dato con ricevuta, per due once (con il prezzo di) 600 denari, da
Bellico di Alessandro; essendo domandato, Marco Vibio Longo ha garantito con la
sua parola che quel bimbo è consegnato sano, che non ha commesso nessun furto o
danno, che non è vagabondo, latitante o inutile; e se qualcuno evincesse quel
bimbo di cui si tratta o una parte di lui, così che il compratore menzionato
sopra, o quello a cui apparterà quella cosa, non lo usi, lo abbia o lo
possieda, di diritto, allora, a quanto ammonterà il danno provocato per
l’evizione, due volte tanti denari buoni ha chiesto per buona fede Dasio Breuco
che gli si dessero, (e) Bellico di Alessandro ha promesso di dare con
buonafede. La stessa cosa si è incaricato per la sua onestà di dare Vibio
Longo. E per quel bimbo, che è menzionato sopra, Bellico di Alessandro, ha
riconosciuto che ha ricevuto e ha, da Dasio Breuco, il suo prezzo di 600
denari.
Concluso nelle canabe della legione XIII Gemina, 17 giorni prima delle
calende del mese di giugno, (nell’anno quando) Rufino e Quadrato (sono)
consoli.
(Le firme dei testimoni, dei garanti e del venditore): di Appio Proclo,
veterano della legione XIII Gemina, di Antonio Celere, di Giulio Viatore, di
Firmio Primitivo, di Marco Vibio Longo – il fideiussore, di Bellico di
Alessandro – il venditore.
Exempli interioris, pagina prior (tab. 1’)
Cl(audius) Iulianus mil(es) leg(ionis) XIII G(eminae
centuria) Cl(au-
di) Mari emit mancipio -
que accepit mulierem nomine Theudotem, sive ea
quo alio nomine est, n(atione) Creticam, apochatam pro
uncis
duabus (denariis) quadringinta viginti de[33] Cl(audio) Phileto
f(ide) r(ogato) Alexandro Antipatri.
Eam mulierem sanam traditam esse emptori s(upra) s(cripto): et si
quis eam mulierem, q(ua) d(e) a(gitur), partemve quam quis ex ea
quid evicerit, q(uo) m(inus) emptorem s(upra) s(criptum) eumve at[34]
quem
ea res pertinebit, uti frui habere possidereque recte
liceat, tunc, quantum it erit, quot[35] ita ex ea
quit[36]
Exempli
interioris, pagina posterior (tab. 2 r)
evictum ablatunve[37] fuerit, sive quot[38] ita licitum
non erit, tantam pecuniam probam recte dari f(ide) r(ogavit)
Cl(audius) Iulianus mil(es) s(upra) s(criptus) d(ari) f(ide)
p(romisit)
Cl(audius) Philetus.
Id fide sua esse iussit Alexander Antipatri
Inque ea[39] mulierem, quae s(upra) s(cripta) est,
pretium eius (denarios) CCCCXX
accepisse et habere se dixit Cl(audius) Philetus a
Claudio
Iuliano mil(ite) s(upra) s(cripto).
Act(um) canab(is) leg(ionis) XIII G(eminae) IIII nonas Octobres
Bradua
et Varo co(n)s(ulibus).
Exempli exterioris, pagina prior (tab.
Claudius Iulianus mil(es) leg(ionis) XIII G(eminae
centuria) Claudi
Mari
emit mancipioque accepit mulierem nomine Theu -
dotem, sive ea quo alio nomine es(t), n(atione) Creticam,
apochatam pro uncis duabus (denariis) quadringentis
viginti de Cl(audio) Phileto f(ide) [r(ogato)] Alexandro
Antipatri.
Eam mulierem sanam traditam esse emtori s(upra)
s(cripto): et si
quis
eam mulierem, q(ua) d(e) a(gitur), partemve q(uam) q(uis)
ex ea quis
evicerit, q(uo) m(inus) emptorem s(upra) s(criptum) eumve, ad
quem
ea
res pertinebit, uti habere possidereq(ue)
recte liceat, tunc quantum id erit
Val(eri) Valentis
g XIII g
Cn(aei)
Vari A[t]ae
Ael(i)
Dionysi vet(erani)
leg(ionis)
Paulini
s---ris
Iul(i)
Victorini
Alexandrus
Anti[p]atri
seco(n)d[us]
auctor
segnavi
Cl(audi)
Phileti vendi
toris
ibsius[40]
Exempli exterioris, pagina posterior (tab. 3 r)
quot[41] ita ex ea evictum ablatunve[42] fuerit, sive quot[43] ita licitum
non erit, t(an)t(am) p(ecuniam) probam recte dari f(ide)
r(ogavit)
Cl(audius)
Iulianus mil(es) s(upra) s(criptus),
d(ari) f(ide) p(romisit) Cl(audius) Philetus.
Id fide sua esse iussit Alexander Antipatri.
Inque eam mulierem, quae s(upra) s(cripta) est, pretium eius
(denarios) CCCCXX
accepisse
et habere se dixit Cl(audius) Philetus a Claudio Iuliano
mil(ite) s(u-
pra) s(cripto).
Act(um) kanab(is) leg(ionis) XIII G(eminae) IIII nonas
Octobres Bra
dua et Varo co(n)s(ulibus).
Traduzione: Claudio Giuliano, soldato nella legione XIII Gemina, della centuria di
Claudio Mario, compra e acquisisce per mancipazione una donna con il nome di
Theudote o con ogni altro nome, originaria dell’isola di Creta, data con
ricevuta, per due once (con il prezzo di) 420 denari, da Claudio Fileto;
essendo domandato, Alessandro di Antipatro ha garantito con la sua parola che
quella donna è stata consegnata sana al compratore menzionato sopra; e se
qualcuno evincesse quella donna di cui si tratta o una parte di lei, così che
il compratore menzionato o quello al quale apparterà quella cosa non la usi, la
abbia o la possieda legalmente, allora, a quanto ammonterà il danno provocato
per l’evizione, tanti denari buoni ha chiesto Claudio Giuliano, soldato dalla
legione sopra menzionata, che gli si dessero per buonafede, (e) Claudio Fileto
ha promesso con lealtà di dare. La stessa cosa si è incaricato con la sua
onestà di dare Alessandro di Antipatro.
Per quanto riguarda questa donna, che è menzionata sopra, Claudio Fileto ha
riconosciuto che ha ricevuto e ha il suo prezzo di 420 denari da Claudio
Giuliano, il soldato sopra menzionato.
Concluso nelle canabe della legione XIII Gemina, 4 giorni prima delle none
del mese di ottobre, (nell’anno quando) Bradua e Varo (sono) consoli.
(Le firme): di Valerio Valente, dalla legione XIII Gemina, di Cneo Vario
A---, di Elio Dionisio, veterano della legione, di Paolino ---, di Giulio
Vittorino, Alessandro di Antipatro ho firmato come secondo garante, di Claudio
Fileto, lo stesso venditore.
Exempli interioris, pagina prior (tab. 1’)
Andueia Batonis emit manci[pioque accepit]
domus partem dimidiam interantibus[45] partem [dex-]
tram que[46] est Alb(urno) maiori vico
Pirustar[um in]t[er] ad [fines
Platorem
Accep-]
tianum et Ingenum[47] Callisti (denariis) trecentis de
Veturi[o Valente].
Eam domus partem dimidiam, q(ua) d(e) a(gitur), cum su[is
s]aepibus sae-
pimentis finibus aditibus claustris fienestris[48] ita uti
clao[49] fixa et optima
maximaque est, h(abere) r(ecte) l(iceat).
[E]t si quis eam domum partemve quam quis [e]x [ea]
evicerit, q(uo) m(inus) Andueia Batonis e(ive) a(d)
q(uem) e(a) r(es)
p(ertinebit)
h(abere) p(ossiedere)
u(suque) c(apere) r(ecte) l(iceat) qu[o]d ita licitum
n[o]n erit, t(antam)
p(ecuniam) r(ecte) d(ari) f(ide) r(ogavit) Andueia
Batonis fide promisit
Veturius Valens. Proque ea do[mu partem]
[dim]idiam pretium (denarios) CCC Vetur[ius V]ales[50]
Exempli interioris, pagina posterior (tab. 2 r)
a[b A]n[du]ei[a Ba]tonis accepiss[e et] (h)ab[ere se
dixit.]
Convenitq(ue) int[e]r eos, [uti] Veturius Va[lens pro ea]
domo
tributa usque ad recensum dep[e]n[dat.]
Act(um)
Alb(urno) maiori prid(ie) nonas Maias
Qui[n]tillo
et Prisco co(n)s(ulibus).
Exempli exterioris, pagina prior (tab. 2’)
Andueia Batonis emit manci- L. Vasidius V[i]c-
pioque accepit domus par- tor
sig(navit)
tem dimidiam interantibus[51] T(iti) Fl(avi)
Felicis
parte dextra, que[52]
est Albur- M(arci)
Lucani Melioris
no maiori vico Pirustarum Platoris
Carpi
inter adfines Platorem Ac- T(iti) Aureli Prisci
ceptianum et Ingenu(u)m Cal- Battonis Annaei
listi filium et si qui ali adfi-
nes sunt et viam publicam Veturi
Valentis vendi-
(denariis) trecentis de Veturio toris
Valente.
Eam domum, q(ua) d(e) a(gitur), cum suis
saepibus saepimentis fini-
bus aditibus claustris
Exempli exterioris, pagina posterior (tab. 3 r)
[finestris ita uti clao fixa etoptima]
ma[x]i[ma]q[ue e]st, Andueia Batonis habere recte liceat
Et si
quis ea domum partem dimidiam partemve quam quis
ex ea evicerit, quo minus Andueia Batonis e(ive) a(d)
q(uem) e(a)
r(es)
p(ertinebit)
habere possidere usuque capere recte l[i]ceat, qu[o]d
ita licitum non erit, tum quantum id erit,
qu[od ita habere possidere licitum non erit] t(antam)
p(ecuniam)
r(ecte) d(ari) fide rogavit Andueia, dari fide
promisit Veturius Valens.
Proque ea [do]mu dimidia pretium (denarios) CCC Veturius
[Va]lens ab Andueia Batonis accepisse et (h)abere se
dixit. Convenitq(ue) inter eos, uti Veturius Vale[n]s
pro ea domo usque ad recensum tributa depe[n]dat.
Ac(tum) Alb(urno) maiori prid(ie) non(as) [M]aias
Quintillo et Prisco
co(n)s(ulibus).
Traduzione: Andueia di Bato (secondo I.I. Russu, “Andueea di Bato”) compra e riceve
per mancipazione metà di una casa, la parte destra dall’ingresso, che si trova
ad Alburnus Maior, nel villaggio Pirustilor,
fra i vicini Plator Acceptianus e Ingenuo, figlio di Callisto,
ed anche altri vicini che sarebbero, e la strada pubblica, per il prezzo di
trecento denari, da Veturio Valente. Quella parte della casa, di cui si tratta,
con i suoi cancelli, terreni recintati, confini, ingressi, spazi chiusi,
finestre, così come è costruita e libera di qualsiasi carico[53] gli sia permesso di
possederla legittimamente. E se qualcuno evincesse quella casa o qualche parte
di essa, così che Andueia di Bato o quello al quale apparterà quella cosa non
possa averla, possederla o usucapirla legalmente, il che non sarebbe permesso
di succedere, tanti soldi ha chiesto legalmente Andueia di Bato che gli si
dessero con buonafede, (e) Veturio Valente ha promesso con buonafede di dare. E
per quella metà della casa, Veturio Valente ha dichiarato che ha ricevuto il
prezzo di 300 denari da Andueia di Bato e ha i rispettivi soldi. Si è inoltre
convenuto fra loro che Veturio Valente pagasse le tasse per quella casa fino al
censimento.
Concluso ad Alburnus Maior alla vigilia delle none del (mese
di) maggio, (nell’anno in cui) Quintillus e Priscus (sono) consoli.
(Le firme): L. Vasidio Victor ha firmato, di Tito Flavio Felice, di M(arco)
Lucano Melior, di Plator Carpi, di T(ito) Aurelio Prisco, di Bato Anneio, di
Veturio Valente, il venditore.
Così come abbiamo mostrato, secondo il loro statuto giuridico, le persone
libere potevano essere cittadini, latini o peregrini. Nel caso dei quattro
trittici presentati sopra, le persone che partecipano alla conclusione dei
contratti di compravendita in qualità di parti, garanti o testimoni sono,
nell’opinione di tutti gli autori che hanno affrontato questo argomento sia
cittadini sia peregrini. Il criterio determinante nello stabilire la loro
appartenenza a una o all’altra categoria di persone è costituito dal nome
corroborato, quando è stato possibile, con il mestiere della persona. In
mancanza di altre informazioni è impossibile stabilire l’eventuale appartenenza
alla categoria dei latini di qualcuno dei partecipanti alla conclusione degli
atti ricordati.
Riferendoci al criterio usato per stabilire lo statuto giuridico delle
persone che partecipano nei quattro trittici, ricordiamo che specifico dei
cittadini romani era il nome composto di tre parti (tria nomina) e cioè praenomen,
nomen gentilicium e cognomen.
Come osserva l’epigrafista romeno Ioan I. Russu[54], «cittadini romani
possono essere considerati tutti quelli che hanno un nomen gentilicium romano seguito da un cognomen (romano, greco,
illirico o di qualsiasi altra origine non romana)», mentre i peregrini sono i
provinciali con un solo antroponimo seguito da un patronimico (il nome del
padre in genitivo), greco, illiro o proprio romano, ma senza alcun nomen gentilicium. Dunque, essenziale
nella determinazione della qualità di cittadino o di non cittadino (cioè
peregrino) di una persona è il nomen
gentilicium; gli altri dettagli offrono eventualmente informazioni
riguardanti l’origine della persona.
Analizzando da questo punto di vista le persone che appaiono nei quattro
trittici, osserviamo:
a) Nel caso del
contratto del 17 marzo 139, le parti (il venditore Dasius Verzonis e il compratore Maximus
Batonis) e tutti i testimoni sono illirici di condizione peregrina; anche
se alcuni hanno nomi romani (come Maximus
Batonis o il testimone Maximus Veneti),
nessuno porta un nomen gentilicium romano,
ed il patronimico è espresso al genitivo.
b) Nel caso del
contratto del 16 maggio 142, il compratore Dasius (Dassius) Breucus (o Breuci) è un illirico non cittadino (peregrino), il venditore un
greco-orientale con nome romano (Bellicus)
e patronimico greco-orientale (Alexander),
di condizione giuridica peregrina, mentre tutti i testimoni e il garante Marcus Vibius Longus sono cittadini
romani[55].
c) Nel caso del
contratto del 4 ottobre 160, il compratore Claudius Iulianus è
cittadino romano, come attestano sia il suo nomen
gentilicium, sia il fatto che è soldato in servizio (miles) nella legione XIII Gemina; per quanto riguarda il venditore Claudius Philetus, a differenza del romanista ungherese Elemer Pólay, che lo
considera peregrino di origine greca[56], Ioan I. Russu crede che
si tratta di un greco naturalizzato e romanizzato come cittadino romano, così
anche gli altri greci, rispettivamente Aelius
Dionysius e Iulius Alexander, che
appaiono come testimoni; la prova è costituita dal fatto che il venditore Claudius Philetus non ha il nome del padre al genitivo, invece ha il nome gentilicium (Claudius) con cognomen
greco, cioè il suo antroponimo individuale anteriore alla naturalizzazione (Philetus)[57]; il garante (Alexander figlio di Antipater) «è evidentemente un peregrino greco-orientale»[58].
d) Nel caso del
contratto del 6 maggio 159, il compratore Andueia Batonis è
illirico di condizione giuridica peregrina, e il venditore (Veturius Valens) è cittadino romano; per quanto riguarda i testimoni,
quattro di loro sono cittadini romani con tria
nomina e due peregrini illirici (Plator
Carpi e Batto Anaei)[59].
Tutte le considerazioni esposte sopra devono però essere accettate con
riserva, perché il nome non è un indizio sicuro per quanto riguarda la
condizione giuridica di una persona, essendo conosciuto il fatto che
nell’antichità, come diceva anche Svetonio[60], erano frequenti i casi
in cui i peregrini assumevano abusivamente un nome gentilicium romano. D’altra parte, anche se per ogni
provinciale era un ideale arrivare a dire “civis
Romanus sum”, non dobbiamo escludere neanche la situazione inversa, quando
sotto un nome tipico di peregrino si trovava una persona che aveva la
condizione giuridica di latino o proprio di cittadino romano. Così si deve
osservare che i trittici sono, di fatto, atti privati, dunque meno sottomessi
ai rigori che presuppone un atto ufficiale, come è il caso dei diplomi
militari. Quindi sarebbe possibile che un liberto che ha acquistato la
condizione giuridica di latino o di cittadino romano, o un veterano peregrino
che ha acquistato la cittadinanza romana dopo il congedo dal servizio militare,
continuasse a usare nelle relazioni con i familiari, anche negli atti privati
che non mettono il problema della validità da questo punto di vista, il nome
che ha avuto, forse, per decine di anni prima della liberazione (dalla schiavitù
o dall’esercito), nome che è ben conosciuto dai parenti, dagli amici, dai
vicini e, in generale, dai familiari. In questa situazione, l’eventuale nomen gentilicium preso in prestito dal
patrone o dall’imperatore appare, tuttavia, come un nome straniero, strano, che
porta da poco tempo e che si sente obbligato a “presentare” soltanto negli atti
ufficiali. A sostegno di questa asserzione vengono molti documenti epigrafici
(iscrizioni funerarie) scoperte nel territorio della Dacia superiore.
Come abbiamo mostrato nel contratto concluso il 16 maggio 142, il
compratore Dasius Breucus (Breuci) è stato identificato come un illirico di condizione
giuridica peregrina. Lo stesso nome, Breucus,
si incontra su una lapide sepolcrale scoperta nella stessa località Alburnus Maior, in cui è stato scoperto anche il rispettivo trittico. Il
contenuto del lapide sepolcrale, che è riprodotto anche in Corpus Inscriptionum Latinarum[61], è il seguente: D(is) M(anibus). Arria Mama vix(it) ann(is)
XXV, pos(uit) B(r)eucus ser(vus) co/niugi b(ene) m(erenti) [Traduzione:
Agli Dei Mani. Arria Mama ha vissuto 25 anni; Breucus lo schiavo ha messo (il
monumento) a sua moglie che ha ben meritato]. Le similitudini fra la lapide
sepolcrale e il trittico del 16 maggio 142 ci permettiamo di presupporre che il
Breucus del trittico fosse la stessa
persona dello schiavo Breucus o,
forse, il figlio dello schiavo. Quindi, Dasius
Breucus potrebbe essere un liberto, situazione in cui la sua condizione
giuridica, in funzione dei diversi fattori (la condizione giuridica del
padrone, il modo in cui avvenne la liberazione ecc.) può essere, secondo il
caso, quella di un cittadino romano, di un latino, di un peregrino comune o di
un peregrino dediticio.
Il fatto che in casi particolari il liberto continuava a usare il suo nome
di schiavo, e non quello di uomo libero con una certa condizione giuridica, è
rilevabile anche in altri documenti epigrafici dalla Dacia superiore. Ecco
qualche esempio: Proshodus, liberto
ed erede di Quinto Aurelio Terzo, decurione e flamine della colonia di
Sarmizegetusa[62];
Carpion, liberto dell’imperatore e
capo di un ufficio (tabularius)[63]; Philetus, liberto di Claudia Marciana[64]; Zmaragdus, liberto dell’imperatore e capo di un ufficio (tabularius)[65]; Nepturalis, liberto dell’imperatore e capo dell’ufficio delle
miniere d’oro della Dacia (tabul(arius)
aur(ariaru)m) Dacicarum)[66] ecc.
In conclusione, il nome delle persone può costituire un indizio
approssimativo nella determinazione della loro origine etnica; mentre è
estremamente relativa e anche illusoria la determinazione della condizione
giuridica delle persone che partecipano alla conclusione dei quattro atti di
compravendita, solo sulla base dei nomi registrati nei rispettivi trittici.
Tutti i romanisti che hanno studiato la natura giuridica degli atti
giuridici contenuti nei quattro trittici hanno constatato che si tratta di
contratti di compravendita, in quanto le parti si appellano alla mancipatio come modalità di
trasferimento del diritto di proprietà. Argomentare che si tratti di mancipationes potrebbe sembrare
superfluo, dato che in ogni contratto appare la formula emit mancipioque accepit, tradotta «compra e acquisisce per
mancipazione». Opinioni divergenti appaiono, invece, quando si tratta di
determinare sia la validità della mancipazione nei quattro contratti, essendo
questa legata alla condizione giuridica delle parti e dei testimoni, sia
l’oggetto del contratto del 6 maggio 159.
Alcuni autori, muovendo dal fatto che in tutti i quattro contratti almeno
una delle parti è di condizione giuridica peregrina, ritengono nulli gli atti
giuridici conclusi con la mancipazione, modo di trasmissione della proprietà
specifico dei cittadini romani. La trasmissione della proprietà sarebbe
tuttavia valida, però non come mancipazione, ma come tradizione[67]. Alla domanda che viene
posta da questa situazione, e cioè, perché i peregrini ricorressero alla
mancipazione pur sapendo che l’atto da questo punto di vista sarebbe stato
nullo; si è risposto che ricorrevano a questa, probabilmente, mossi dallo
spirito di imitazione[68]. Paul-Frédéric Girard
affermava che «gli atti di vendita dalla Transilvania sono in modo certo
copiati da moduli romani»[69]. La prova “categorica”
del fatto che i trittici di cui parliamo sono stati realizzati «da uno spirito
di imitazione» secondo la “regola” dei moduli che circolavano nella pratica
sarebbe costituita, a parere di coloro che sostengono questa tesi, da alcuni
disaccordi fra il modulo e la situazione concreta dal contratto.
Si danno in questo senso due esempi: il primo, nel caso del contratto del
17 marzo 139 in cui, anche se si vende una schiava, invece di usarsi il pronome
dimostrativo femminile “ea”, con cui
si accordava, si usa il pronome dimostrativo maschile “eo”, prova che è stato usato come modello un modulo per la vendita
di uno schiavo; il secondo esempio riguarda il contratto del 6 maggio 159, in
cui, anche se si vende metà di una casa (dimidia),
la formula della garanzia di evizione si riferisce a una casa intera e, infine,
anche se un simile edificio costituiva un fondo provinciale, nel qual caso la
mancipazione non era valida nemmeno fra i cittadini romani, le parti ricorrono
a questo procedimento, secondo il modello di un modulo con cui si alienava in
modo valido un edificio[70].
Per quanto riguarda il contratto di qui sopra, alcuni autori hanno
sostenuto che, anche se nell’epoca antica soltanto i beni mancipi potevano costituire l’oggetto della mancipazione, nel
secolo II d.C. era possibile utilizzare la mancipazione anche per le cose nec mancipi, come è il caso di un fondo
provinciale[71].
Si è argomentato con un frammento dalla Storia
Naturale di Plinio[72], in cui si parla della
mancipazione di perle (cose nec mancipi).
Alla domanda perché si ricorreva alla mancipazione nel caso del trasferimento
del diritto di proprietà su cose nec
mancipi, quando lo stesso effetto (l’acquisto della proprietà quiritaria)
si sarebbe potuto detenere per la semplice tradizione delle cose, si è risposto
che questo procedimento «è la conseguenza del fatto che i praticoni sono sempre
tentati di moltiplicare le formalità: quello che è in più non danneggerà: Quod abundat, non vitiat»[73].
La tesi della nullità della mancipazione non porta a concludere che i
peregrini della Dacia – anche se non avevano la capacità giuridica di
effettuare la mancipatio –
ricorressero nella realtà a questo procedimento di trasferimento della
proprietà specifico dello ius civile;
il diritto di proprietà era piuttosto trasmesso per traditio. In queste condizioni, si è sostenuto che «il diritto
romano classico non si applica in Dacia come in altre province, in tutta la sua
purezza, ma in una forma alcune volte semplificata per i bisogni della pratica
quotidiana»[74],
trattandosi di «quello che alcuni autori hanno nominato diritto romano vulgare»[75].
In un’altra tesi si è affermato che i peregrini della Dacia avevano la
capacità giuridica di trasmettere il diritto di proprietà per mancipazione e,
dunque, i quattro contratti sono validi come mancipazione. Il principale
argomento di quelli che sostengono questa tesi è costituito da un frammento del
Tituli ex corpore Ulpiani: mancipatio locum habet inter cives Romanos
et Latinos coloniarios, Latinosque / iunianos eosque peregrinos, quibus
commercium datum est[76]; da cui risulterebbe, secondo
alcuni autori[77],
che i peregrini delle tavole cerate erano di quelli che avevano ricevuto lo ius commercii, come un favore speciale
per alcuni coloni della Dacia, potendo così concludere contratti in conformità
con il diritto riservato ai cives Romani.
I professori Constantin Tomulescu, Emil Cernea ed Emil Molcuţ[78] estendono questa constatazione a tutti i peregrini della Dacia e arrivano
alla conclusione che i trittici della Transilvania, soprattutto quelli che si
riferiscono ai contratti di compravendita, sono una prova dell’esistenza nel II
secolo di un diritto daco-romano, che permetteva ai cittadini e ai peregrini di
concludere fra di loro atti contenenti elementi di diritto romano e di diritto
autoctono; in questo quadro, sono messe in una nuova luce le incapacità che
derivano, nel diritto romano, dalla condizione giuridica delle persone, perché
nella Dacia Romana «le incapacità di cui erano colpiti i peregrini tendono ad
attenuarsi ed anche a sparire»[79].
Gli autori ricordati sopra, studiando la forma degli atti contenuti nei
trittici, i loro effetti e la condizione giuridica delle parti, arrivano alla
conclusione che essi non sono conformi totalmente né con il diritto civile
romano né con il diritto delle genti, che hanno una fisionomia specifica, tale
da conferire loro una identità propria, come atti giuridici di diritto
daco-romano[80],
sostenendo i seguenti argomenti:
a) in uno dei
contratti, una delle parti, Anduenna Batonis, è una donna peregrina; però sia
il diritto romano sia le altre legislazioni dell’antichità (come quella greca)
avevano ristretto radicalmente la capacità giuridica della donna, così che essa
non poteva concludere atti giuridici in nome proprio, si dovrebbe ammettere che
nel caso dei trittici della Transilvania l’atto di compravendita sia stato
concluso in base ad una consuetudine locale, assimilata dal nuovo sistema di
diritto in corso di formazione[81];
b) la forma dei
quattro atti di compravendita è diversa da quella propria al diritto romano,
anche se gli effetti sono identici; così, se nel diritto romano tutti gli
effetti della vendita derivavano dalla semplice intesa delle due parti, per
quanto riguarda l’oggetto e il prezzo, nel diritto “daco-romano” era necessaria
una clausola speciale (una dichiarazione di acquisto, una clausola riguardante
il prezzo, clausole distinte riguardanti la garanzia per vizi e la garanzia per
evizione e una dichiarazione del garante);
c) una curiosità
difficilmente spiegabile è considerato il fatto che una delle operazioni
giuridiche della vendita si realizza con due atti giuridici distinti: la
mancipazione, atto di diritto civile, e il contratto di vendita, atto di
diritto delle genti;
d) per quanto
riguarda la forma della vendita, si osserva il fatto che gli atti sono firmati
non solo dai testimoni, ma anche dalle parti ed alcune volte anche dai garanti,
mentre nel diritto romano gli atti redatti in forma obiettiva erano firmati
soltanto dai testimoni e quelli redatti in forma soggettiva erano firmati
soltanto dalle parti[82]; il che indica nel
«diritto “daco-romano” una forma intermediaria fra quella obiettiva e quella
soggettiva, o semplicemente la transizione dalla forma obiettiva a quella
soggettiva»[83].
Si constata così che gli atti compresi nelle tavolette cerate hanno una
fisionomia speciale, originaria, essendo la loro formulazione espressione di
una sintesi realizzata per l’utilizzazione di elementi di tecnica giuridica
estremamente diversi, allo scopo di soddisfare gli interessi delle parti che,
anche se non avevano la stessa condizione giuridica, «hanno corretto il
carattere rigido e formalista di alcuni atti di diritto romano e hanno creato
istituzioni giuridiche nuove»[84].
Tutti quelli che hanno trattato la natura giuridica degli atti contenuti
nei quattro trittici sono partiti dalla premessa che le parti hanno fatto una
mancipazione, secondo alcuni autori valida, secondo altri nulla, considerando,
come abbiamo già mostrato, che almeno una delle parti era di condizione
giuridica peregrina. Stabilire la natura giuridica degli atti conclusi è
essenziale per determinare la capacità giuridica dei peregrini della Dacia
Romana; per confermare l’idea che questi peregrini, o almeno una parte di essi,
godevano di ius commercii fin dalla
prima metà del I secolo, poiché avevano appunto la possibilità di fare
mancipazioni.
La nostra opinione, nonostante in tutti i quattro atti si legga che la cosa
è stata comprata e acquisita per mancipazione (mancipioque accepit), non si pone il problema della validità della
mancipazione, in quanto considera questo modo di trasmissione del diritto di
proprietà, non solo nullo, ma semplicemente non esistente.
Prima di dimostrare questa tesi, ricordiamo, in breve, condizioni e forme
della mancipatio.
Per il giurista Gaio la mancipatio, modalità civilistica di trasmissione
della proprietà, costituisce un privilegio riservato soltanto ai cittadini
romani, che si realizza in presenza di almeno cinque testimoni, cittadini
romani puberi, e di un libripens,
della stessa condizione, secondo un rituale che presuppone la presenza della
cosa da alienare, la pronuncia di “parole solenni” ed il compimento di certi
gesti rituali, come porre la mano sulla cosa[85].
Anteriormente alla Legge delle XII Tavole, la mancipatio era una vendita con pagamento immediato, essendo
considerato legalmente concluso l’atto quando il venditore metteva la cosa
comprata nelle mani del compratore (mancepare)
ed il compratore pagava simultaneamente al venditore il prezzo stabilito alla
presenza dei testimoni[86]; ma nel secolo II, al
tempo di Gaio, essa era diventata una vendita fittizia.
Gaio e Ulpiano affermano che in tal modo potevano essere alienate soltanto
le cose mancipi; ma il secondo
afferma anche, come si è già mostrato, che la mancipatio poteva essere fatta da tutti quelli che avevano ius commercii. L’inosservanza degli
obblighi da parte del venditore era sanzionata per mezzo dell’actio auctoritatis, che consisteva nella
restituzione del doppio del prezzo.
L’esame delle condizioni e delle forme della mancipatio in rapporto al contenuto dei quattro trittici ci porta
alla conclusione che in questi casi non si è trattato di mancipazione, poiché
nessuna delle condizioni essenziali risulta osservata.
In primo luogo, per quanto riguarda le persone che partecipano alla
conclusione degli atti, Gaio dice chiaramente nelle sue Istitutiones (I.119) che le parti e i testimoni devono essere
cittadini romani. Abbiamo mostrato che stabilire lo statuto giuridico delle
persone che hanno partecipato alla conclusione dei quattro contratti
(venditori, compratori, garanti e testimoni) soltanto sulla base del nome è un
dato estremamente relativo. Più autori inclinano a credere che almeno una delle
parti fosse di condizione giuridica peregrina. Inoltre, alcuni testimoni e
alcuni garanti sarebbero stati peregrini. Non vogliamo tornare su questa
questione, perché, se davvero fossero peregrini, come argomento a sostegno
della tesi della loro capacità di concludere atti giuridici secondo lo ius civile si porta quel testo di
Ulpiano[87], citato d’altronde da
molti romanisti[88],
da cui risulta che eccezionalmente i peregrini potevano ricevere lo ius commercii. Senza contestare la
veridicità di questo testo, dobbiamo tuttavia osservare che gli autori che
invocano il testo di Ulpiano a sostegno della tesi secondo la quale i peregrini
dei trittici avevano lo ius commercii,
e quindi potevano fare mancipazioni, hanno trascurato un dettaglio essenziale:
si tratta della data nella quale Ulpiano ha scritto la sua opera. Il celebre
giureconsulto romano è stato (assieme a Paolo) praefectus praetorio sotto l’imperatore Alessandro Severo (222-235
d.C.), quindi ha scritto la sua opera nella prima metà del III secolo d.C.,
cioè a distanza di circa 70-100 anni dalla data nella quale sono stati
realizzati i quattro trittici. In queste condizioni l’affermazione di Ulpiano è
sicuramente valida, però non per la prima metà del II secolo, ma per un periodo
successivo di almeno mezzo secolo, forse appena prima della constitutio Antoniniana. Che sia così lo
mostra il testo delle Istituzioni di
Gaio (I.119), da cui non risulta che
i peregrini, sia pure eccezionalmente, godessero dello ius commercii; eppure Gaio ha scritto le Istituzioni proprio nel periodo in cui sono stati realizzati i
trittici, ed è difficile credere che ad un giurista del suo livello, buon
conoscitore del diritto romano e del diritto provinciale (perché è stato
l’unico commentatore del codice provinciale realizzato sotto Antonino, autore
di un Ad Edictum provinciale in 30
libri[89]), e, in generale, dei
problemi dei peregrini[90], potesse sfuggire un
dettaglio così importante come la possibilità dei peregrini di fare
mancipazioni. Praticamente, questa è la sola differenza significativa nella
trattazione della mancipazione fra Gaio e Ulpiano, e questo si spiega con il
fatto che nel secolo II, nel tempo di Gaio, soltanto i cittadini romani avevano
accesso alla mancipazione, mentre all’inizio del secolo seguente, nel tempo di
Ulpiano, la sfera delle persone che potevano ricorrere a questo procedimento di
trasferimento della proprietà era stata allargata anche ai peregrini, ai quali
era stato accordato lo ius commercii.
Legata alla qualità delle parti che realizzano la mancipazione è anche
l’asserzione che nel diritto “daco-romano” le donne avevano la capacità
giuridica di concludere atti in nome proprio, come dimostrerebbe il documento
che riguarda Andueia o Anduenna Batonis[91]. Tuttavia, anche qui il
nome costituisce l’unico argomento, perché né nel trittico del 6 maggio 159, né
in quello del 20 giugno 162, oltre al sostantivo proprio Andueia, o Anduenna Batonis, non esiste determinativo
(aggettivo o verbo al participio passato) che indichi il genere della persona.
È vero che nella trascrizione del trittico del 20 giugno 162 appare Anduenna s(upra) s(cripta), tradotta per
«Anduenna sopra scritta», ma il testo è integrato in questa forma nel 1873, in
occasione della riproduzione nel Corpus
Inscriptionum Latinurum; nel trittico la scrittura risulta abbreviata: Anduenna s. s., per cui, l’integrazione
potrebbe anche essere: Anduenna s(upra)
s(criptus), cioè «Anduenna sopra scritto».
Gli autori che ritengono Anduenna
o Andueia una donna muovono dalla
constatazione che questi nomi propri finiscono in -a. Crediamo che sia troppo poco, in quanto esistono sufficienti
eccezioni al fatto che, in genere, nelle lingue indoeuropee i nomi propri
maschili non finiscono in -a. Così,
se ci riferissimo ai nomi propri latini, ve ne sono alcuni che finiscono in -a, ma che sono di genere maschile
(Agrippa, Caracalla, Geta, Seneca ecc.). Inoltre, anche fra i nomi propri di
origine illirica (come sembra essere appunto Andueia o Anduenna Batonis), ne esistono alcuni di genere
maschile con desinenza in -a.
Così, in un trittico contenente un contratto di locazione di opera del 20
maggio 164[92],
fra i testimoni appare anche un certo Titus
Beusantis qui et Bradua, cioè «Tito, figlio di Beusas, detto anche Bradua»,
che era evidentemente illirico[93]. Ecco perché incliniamo a
credere che anche nel caso di Andueia
Batonis o Anduenna si tratti di uomini e non di donne[94].
Per quanto riguarda l’oggetto della mancipazione, nessuno contesta il fatto
che le cose mancipi, come gli
schiavi, potevano essere alienate con questa modalità. Molto discusso è però se
anche le cose nec mancipi, come
quella metà di casa comprata da Andueia
Batonis nel vicus Pirustarum di Alburnus Maior (Andueia Batonis emit
mancipioque accepit domus partem dimidiam…), potessero essere alienate allo
stesso modo. Al riguardo, abbiamo menzionato alcuni autori, i quali considerano
possibile anche la mancipazione di cose nec
mancipi, argomentando con un testo di Plinio; quindi, per questi autori, Andueia Batonis poteva acquistare per mancipazione un fondo provinciale.
Crediamo che questo argomento non resiste davanti alle affermazioni
categoriche di Gaio e di Ulpiano[95], secondo i quali soltanto
le cose mancipi potevano essere
alienate per mancipazione. Così, anche se Plinio dice che le perle (dunque,
cose nec mancipi) si trasmettevano
per mancipazione (Storia Naturale,
IX.60.35), è molto probabile che si sia sbagliato nella qualificazione
giuridica dell’atto, tenendo conto che non era giureconsulto[96].
Per contrastare la tesi secondo la quale nel secolo II anche le cose nec mancipi potevano essere trasmesse
per mancipazione, è decisivo il seguente passo delle Istituzioni di Gaio:
Gai, I.120: Eo modo et serviles et liberae personae mancipatur;
animalia quoque quae mancipi sunt…; item praedia tam urbana quam rustica quae
et ipsa mancipi sunt, qualia sunt Italica, eodem modo solent mancipari.
[In questo modo si
mancipano sia gli schiavi sia le persone libere; e similmente gli animali che
sono considerati res mancipi…; inoltre i fondi, sia quelli urbani sia quelli
rustici, che sono proprio res mancipi, come sono (i fondi) italici, che si
mancipano, di solito, nello stesso modo.]
Si può osservare in questo testo la precisazione di Gaio, nel senso che si
tratta di res mancipi: animalia quoque quae mancipi sunt o praedia… quae et ipsa mancipi sunt. Se
tutti gli animali o tutti i fondi avessero potuto essere emancipati, sarebbe
stato sufficiente al giurista dire, semplicemente, animalia o praedia; non
facendo questo, Gaio esclude dalla mancipazione sia gli animali nec mancipi, sia i fondi nec mancipi, cioè i fondi provinciali
che non godevano dello ius Italicum[97]. Per quanto riguarda questi ultimi, Gaio dice chiaramente nel II
commentario delle Istituzioni (paragrafi
19 e 21) che «res nec mancipi diventano
di diritto totale di un altro anche soltanto per la semplice traditio…; nella stessa situazione sono
anche i fondi provinciali».
Pur se eccede il periodo che analizziamo, va osservato che anche nell’epoca
di Ulpiano niente era cambiato in questo senso, se nelle sue celebri Regulae si legge:
Tituli Ulpiani, 19.3 e 19.7: Mancipatio propria
species alienationis est rerum mancipi… Traditio propria est alienatio rerum
nec mancipi.
[«La mancipazione è un modo proprio di alienazione delle
cose mancipi… La tradizione ha come
specifico l’alienazione delle cose nec
mancipi»].
In una questione puramente giuridica come quella di stabilire l’oggetto della
mancipazione, fra l’opinione di un celebre naturalista e quella di alcuni
illustri giureconsulti del periodo classico del diritto romano, può essere
accettata soltanto l’opinione degli specialisti in materia, cioè quella di Gaio
e di Ulpiano. Come conseguenza, nel caso del contratto del 6 maggio 159, che ha
per oggetto l’alienazione di un fondo provinciale, non si può ritenere che
avesse avuto luogo una mancipazione, anche se vi è scritto: emit mancipioque accepit domus partem
dimidiam. Evidentemente, questo fatto mette in dubbio anche la
qualificazione di mancipazioni degli altri tre trittici, in cui oggetto
dell’alienazione sono degli schiavi (res
mancipi) ed in cui si usa la stessa formula emit mancipioque accepit.
Nel caso della mancipazione, actio
auctoritatis difende l’acquirente di un res
mancipi (mancipio accipiens)
contro il rischio dell’evizione con l’obbligazione del venditore alla
restituzione del doppio del prezzo ricevuto. Questa azione funziona di diritto,
non essendo necessario che le parti la indichino espressamente nella
convenzione.
Esiste una sola possibilità che le parti deroghino dalle previdenze legali
riguardanti la actio auctoritatis, e
cioè quando ha luogo una mancipazione simbolica, cioè quando si paga nummo uno, rinunciando alla garanzia di
evizione.
In tutte le quattro vendite dai trittici analizzati, osserviamo che la
garanzia di evizione per il compratore è stata prevista espressamente: con una stipulatio duplae nei i trittici del 17
marzo 139 e del 16 maggio 142; con una stipulazione semplice nel caso degli
altri trittici. Se si fosse trattato di mancipazione, sarebbe stato inutile
l’inserimento di clausole per garantire il compratore, perché questo ruolo lo
avrebbe avuto l’actio auctoritatis.
L’esistenza di queste stipulazioni è una prova del fatto che le parti sapevano
che non ponevano in essere una mancipatio.
Si pone allora la domanda: perché nei quattro trittici le parti hanno usato
l’espressione emit mancipioque accepit? Nel cercare una risposta, escludiamo de plano la tesi che le parti abbiano fatto ricorso a questo
procedimento per spirito di imitazione, pur sapendo che la mancipazione era
nulla. Gli atti conclusi erano sicuramente validi, perché altrimenti non si
giustificherebbe la conservazione scrupolosa di atti conclusi trent’anni prima
(ci riferiamo ai trittici degli anni 139-142 d.C.).
Per quanto riguarda l’uso della parola mancipio
proponiamo la seguente spiegazione: nei trittici, questa parola ha un senso più
ampio di mancipazione come modo civilistico di trasferimento del diritto di
proprietà. In altre parole, nel secolo II d.C. per stabilire lo statuto
giuridico o la capacità giuridica delle persone che concludono un contratto, il
termine mancipio appare meno sicuro
del termine Quiris (titolare dello ius Quiritium), che «nella vindicatio, nella mancipatio, nella in iure
cessio serve ad escludere i peregrini
da questi atti»[98].
Il termine mancipio può essere usato
anche dai peregrini, ma con un senso che ci porta all’etimologia della parola,
cioè alla postura della mano, evidentemente in modo simbolico; indicando in
questi casi la presa di possesso.
Assistiamo così, come alle origini della mancipazione, ad una vendita reale,
perché in tutti i quattro contratti il pagamento è stato fatto anteriormente, ma
l’atto si considera concluso in modo valido soltanto nel momento in cui è stato
consegnato l’oggetto della vendita, cioè quando l’acquirente prende possesso
dello schiavo o della metà della casa. Abbiamo a che fare, in queste
situazioni, con quelle nova conventia
di cui parlava Gaio: i contratti innominati dell’età successiva, più
esattamente, i contratti della categoria do
ut des.
Non può trattarsi qui di un diritto “daco-romano”, perché ci troviamo nella
sfera del concetto di iura populi Romani
di cui parla lo stesso Gaio nel paragrafo 2 del primo Commento delle Istituzioni e che, come mostra il
professore Pierangelo Catalano[99], è un concetto più ampio
di ius proprium civium Romanorum, che
comprende sia lo ius gentium, usato
dai Romani, sia lo ius civile,
considerato dai Romani vigente per i peregrini. Le vendite dai quattro trittici
sono realizzati in forme romane, ma su un fondo che appartiene allo ius gentium.
Senza dubbio, i trittici della Transilvania presentano un interesse speciale
per la conoscenza pratica del diritto romano; ma la loro importanza è stata
alcune volte esagerata. Dato che non si conosce, neppure frammentariamente, il
diritto daco, crediamo azzardato tentare di accreditare l’esistenza di un
diritto daco-romano, basandosi sulle 14 tavolette cerate; tanto più che tutte
le analisi fatte in relazione ai nomi dei personaggi che appaiono nei trittici
hanno rilevato nomi romani, illirici, greco-orientali, ma nessun nome daco.
Inoltre, dato che si riconosce la partecipazione dei peregrini alla
conclusione di alcuni atti di diritto civile, è esagerato affermare che nella
Dacia del secolo II d.C. i peregrini, o parte di essi, avessero una capacità
giuridica più ampia di quella dei peregrini di altre province romane. In realtà,
a 30-60 anni dalla conquista della Dacia, i peregrini di questa provincia
avevano uno statuto giuridico identico con quello dei peregrini di qualsiasi
angolo dell’Impero.
Gli atti giuridici registrati nei trittici della Transilvania hanno, senza
dubbio, alcune particolarità. Abbiamo espresso l’opinione che, per quanto
riguarda i quattro trittici esaminati, si tratta di contratti innominati della
categoria do ut des, cioè vendite
reali, che si svilupperanno nella parte orientale dell’Impero e poi nell’Impero
Bizantino. D’altronde, la vendita reale, ereditata dal diritto bizantino, ha
marcato l’intera esistenza del vecchio diritto romeno, fino all’adozione, nel
1864, del Codice civile. Nata dal diritto delle genti, la vendita reale non
poneva problemi sotto l’aspetto della capacità giuridica delle parti, essendo
l’istituto ugualmente accessibile ai peregrini ed ai cittadini romani.
[1] H. C. Matei, O istorie a lumii antice (Una storia del mondo antico), Editura
Albatros, Bucarest 1984, 300.
[2] P. Mac Kendric, The Dacian stones speak, The University of North Carolina Press,
1975, traduzione in romeno: Pietrele
dacilor vorbesc, Editura Ştiinţifică şi Enciclopedică,
Bucarest 1978, 79.
[3] C. Daicoviciu, in Istoria României.Compendiu (Storia della
Romania. Compendio), 2a Edizione, Editura Didactică şi Pedagogică, Bucarest 1971, 50-51; C.C. Giurescu, Formarea poporului român (La formazione del popolo romeno), Editura
Scrisul Românesc, Craiova 1973, 62-63; C.C.
Giurescu, D.C. Giurescu, Istoria
românilor (Storia dei Romeni), vol. 1, Editura Ştiinţifică
şi Enciclopedică, Bucarest 1975, 83.
[4] D. Protase, Autohtonii în Dacia (Gli autoctoni nella Dacia Romana), vol. I, Dacia Romana, Editura Ştiinţifică şi Enciclopedică,
Bucarest 1980, 232.
[7] Ulpiano, D.
50.15.1.8-9: In Dacia quoque Zernenzium
colonia a Divo Traiano deducta iuris Italici est. Zarmizegetusa quoque eiusdem
iuris est: item Napocensis colonia et Apulensis et Patavissensium vicus, qui a
divo Severo ius coloniae impetravit.
[8] E. Cernea, E. Molcut, Istoria statului şi dreptului românesc (Storia dello stato e
del diritto romeno), 3a Edizione, Casa de editură şi
de presă “Şansa” e
l’Editura Universul, Bucarest 1993, 24.
[10] I. Peretz, Curs de istoria dreptului român (Corso di storia del diritto
romeno), parte I, Originile dreptului
român (Le origini del diritto romeno), Editura Curierul Judiciar, Bucarest
1915, 359 ss.
[14] Il romanista
ungherese Pólay Elemér, in A Daciai viaszostáblák szerződései,
Budapest, Kőzgazdasági és Jogi Kőnyvkiadó,
1972, cita più di cento titoli di lavori, dei più diversi, da alcuni con
carattere soltanto informativo a studi monografici che trattano eruditamente la
problematica sociale-economica e giuridica suscitata dalle tavolette cerate.
Evidentemente, la bibliografia indicata è incompleta, perché quantunque grandi
siano gli sforzi intrapresi in questa direzione, non possono essere compresi
tutti i lavori che hanno guardato direttamente o indirettamente, in una misura
più grande o più piccola, i trittici della Transilvania, soprattutto se sono
stati scritti in lingue che non sono di circolazione internazionale. Per la
descrizione generale dei trittici della Transilvania, elenchiamo in seguito i
lavori consultati più frequentemente dagli autori romeni: CIL, III, 922; G. Popa, Le tavole cerate scoperte in Transilvania, Bucarest 1890, 40; I. Peretz, Op. cit., 370; Idem, Op. cit., 1926, 272; I. Baltariu, I trittici della Transilvania. Contribuzioni alla storia del diritto
romeno, Aiud 1930; P.F. Girard,
Textes de droit romain, Parigi 1923, 849;
G. Popa-Lisseanu, in Romanica. Studi filologici e archeologici,
Bucarest 1925; V. Hanga, Crestomazia per lo studio della storia dello
stato e del diritto della R. P. R., vol. I, Bucarest 1955, 211; D. Tudor, Storia della schiavitù nella Dacia Romana, Editura Academiei
Republicii Populare Române (Supplimentum epigraphicum), Bucarest 1957, 266 ss.;
E. Pólay, Op. cit., 44; I.I. Russu,
Le iscrizioni della Dacia Romana,
vol. I, Editura Academiei Republicii Socialiste
România, Bucarest 1975; C.St. Tomulescu,
Le droit romain dans les triptyques de
Transylvanie (Les actes de vente et de mancipation), in Revue internationale des droits de
l’antiquité 18, 1971.
[15] U.E. Paoli,
Urbs. La vida en
[17] Bibliografia:
CIL, III, 936 e 2215; Fontes iuris Romani
antiqui, edidit Carolus Georgius Bruns, pars prior, Leges et negotia, post
euras Theodori Mommseni, septimum edidit Otto Gradenuritz, Tubingae 1909,
330, nr. 131; I. Peretz, Op. cit., 1915, 379-380; P.F. Girard, Op. cit., 850, nr.3; G. Popa,
Op. cit., 18-19, nr. 2; Idem, Romanica. Studii filolofice şi arheologice, Bucarest 1925,
156-157, n. 2; I. Baltariu, Op. cit., 52-53; V. Arangio-Ruiz, Fontes
iuris Romani Anteiustiniani, pars III, Negotia, Florentiae 1943, pp.
283-285; V. Hanga, Op. cit., 212-213; D. Tudor, Op. cit., 266-267; E. Pólay,
Op. cit., 277; I.I. Russu, Op. cit., 212-217.
[18] Sulla tavoletta,
la terza riga ha il seguente contenuto: -norum
sex emit mancipioque accepit. L’autore della scrittura, rendendosi conto
che aveva sbagliato, ha intercalato dopo la parola “sex”, fra la seconda e la terza riga, le parole: circiter p. m. emta sportellaria, così
che la terza riga deve essere letta: norum
circiter p(lus) m(inus) sex empta sportellaria emit mancipioque accepit
(secondo I.I. Russu, Op. cit., 213).
[22] Bibliografia: M.J. Ackner, Fr. Müller, Die römschen Inschriften in Dacien, Wien
1865, 626; CIL, III, 940-943, VII, 2215; Fontes
iuris Romani antiqui…, Tubingae 1909, 329; I.
Peretz, Op. cit., 381-383; P.F. Girard, Op. cit., 849, nr. 2; G. Popa,
Op. cit., 17-18, nr. 2; Idem, Romanica. Studii filolofice şi arheologice, cit., 155-156, n.
1; I. Baltariu, Op. cit., 51-52; V. Arangio-Ruiz, Fontes
iuris Romani Anteiustiniani, pars III, 285-287; V. Hanga, Op. cit.,
213; D. Tudor, Op. cit., 266; E. Pólay, Op. cit.,
278; I.I. Russu, Op. cit., 217-223.
[32] Bibliografia:
CIL, III, 959 e 2215, nr. XXV; Fontes
iuris Romani antiqui…, 330-331, nr. 132; I.
Peretz, Op. cit., 385-388; P.F. Girard, Op. cit., 850, nr. 4; G. Popa,
Op. cit., 20, nr. 4; Idem, Romanica. Studii filolofice şi arheologice, 158-159; I. Baltariu, Op. cit., 53-54; Fontes iuris
Romani Anteiustiniani, pars III, 287-288; V.
Hanga, Op. cit., vol. I,
211-212; D. Tudor, Op. cit., 267-268, nr. 120; E. Pólay, Op. cit., 284-285; I.I. Russu,
Op. cit., 223-226.
[44] Bibliografia:
CIL, III, 945; Fontes iuris Romani
antiqui…, 331-332, nr. 133; I. Peretz,
Op. cit., 383-384; P.F. Girard, Op. cit., 851-852, nr. 5; G.
Popa, Op. cit., 19, nr. 3; Idem, Romanica. Studii filolofice şi arheologice, 157-158, n. 3; I. Baltariu, Op. cit., 55-56; Fontes iuris
Romani Anteiustiniani, pars III, 289; V.
Hanga, Op. cit., vol. I, 212; E. Pólay, Op. cit., 279-280; I.I. Russu,
Op. cit., 226-231.
[53] Per la traduzione
di optima maximaque con il senso di
«libera da qualsiasi carico», cioè con la garanzia dell’inesistenza di qualche
servitù prediale o di qualunque altro ius
in re aliena (compresa un’ipoteca) di natura a diminuire il valore
economico e l’autonomia giuridica del fondo venduto, si vedano: G. May, Éléments de droit romain, treizième édition, Parigi 1920, p. 348; P.-F. Girard, Manuel élémentaire de droit romain, huitième édition, Parigi 1929,
596; Valentin Al. Georgescu, OPTIMVS şi OFTIMVS MAXIMVS în tehnica
juridică romană: optima lex, optimvm ius, fundus optimus maximusque,
in Studii clasice 10, 1968, 185-205; F. Del Giudice, S. Beltrani, Op. cit., 222. L’eminente epigrafista
romeno Ioan I. Russu traduce, a nostro avviso inadeguatamente, optima maximaque con «e senza guasto» (I.I. Russu, Op. cit., 231).
[60] Suetonius, Claudius, 25: peregrinae conditionis homines vetuit usurpare romana nomina dumtaxat
gentilicia.
[62]
CIL, III, 7981; A. Kerényi, Die Personennamen von Dazien, Budapest
1941, 2007 e 2063; D. Tudor, Op. cit., 249.
[68] I. Peretz, Op. cit., 388; V. Hanga,
in Istoria dreptului românesc (Storia
del diritto romeno), vol. I, Editura Academiei Republicii Socialiste România,
Bucarest 1980, 109; Idem, Istoria dreptului românesc. Dreptul cutumiar
(Storia del diritto romeno. Diritto consuetudinario), Editura della
Fondazione “Chemarea”, Iaşi 1993, 27; M.
Ruja, H. Oprean, Istoria dreptului
românesc (Storia del diritto romeno), Editura Servo-Sat, Arad, 32.
[71] P. Collinet, A. Giffard, Précis de droit romain, tome premier,
troisième édition, Dalloz, Parigi 1930, 321; C.
Hamangiu, M. Nicolau, Dreptul
roman (Il diritto romano), vol. I, Socec, Bucarest 1930, 514; Gh. Ciulei, Dreptul roman. Instituţiile dreptului privat roman (Il
diritto romano. Le istituzioni del diritto privato romano), Editura “Omega
Lux”, Bucarest 1995, 129.
[77] D. Tudor, Op. cit., 164, 167, 172; D.V.
Firoiu, Istoria statului şi
dreptului românesc (Storia dello stato e del diritto romeno), Editura
Didactică şi Pedagogică, Bucarest 1976, 29-31; Idem, Op. cit., Editura della Fondazione “Chemarea”, Iaşi 1992,
37-38.
[78] C.St. Tomulescu, Op. cit., luogo cit.; E.
Cernea, Istoria statului şi dreptului român (Storia
dello stato e del diritto romeno), vol. I, Tipografia Universităţii
din Bucureşti, 1976, 40-41; E.
Cernea, E. Molcuţ, Op. cit.,
27-31.
[80] C.St. Tomulescu, Elements vulgaires romains dans la practique juridique de
[81] E. Molcuţ, in Analele Universităţii din
Bucureşti, seria Drept, 1978, 69, apud E.
Cernea, E. Molcuţ, Op. cit.,
28.
[86] Th. Mommsen, Istoria romană, vol. I, Editura Ştiinţifică
şi Enciclopedică, Bucarest 1987, 100; P.
Collinet, A. Giffard, Op. cit.,
317; P.F. Girard, Op. cit., 590-591; J. Miquel, Derecho privado romano, Madrid 1992, 178; R. Robaye, Le droit
romain, tome 1, Bruxelles 1996, 130.
[88] G. May, Élements de droit romain, treizième édition, Sirey, Parigi, 1920,
208; P.F. Girard, Op. cit., 313; P. Collinet, A. Giffard, Op.
cit., 321; C. Hamangiu, M. Nicolau,
Op. cit., 505-506; V. Hanga, Drept privat roman (Diritto privato romano), Editura Didactică
şi Pedagogică, Bucarest 1971, 208; C.St.
Tomulescu, Drept privat roman,
Tipografia Universităţii din Bucureşti 1973, 172; V.M. Ciucă, Lecţii de drept roman (Lezioni di diritto romano), vol. I,
Polirom, Iaşi 1998, 276.
[89] A.N. Popescu, Studiu introductiv la Gaius, Instituţiunile (Studio
introduttivo a Gaio, Istituzioni), Editura Academiei Republicii Socialiste
România, Bucarest 1982, 16.
[90] Nelle Istituzioni, Gaio fa 72 riferimenti ai
peregrini e 121 riferimenti a cives e
civitas Romana.
[91] Il nome di Andueia si trova nel trittico del 6
maggio 159, in cui appare nella qualità di compratore, mentre il nome di Anduenna appare in un contratto di
prestito o di deposito, concluso il 20 giugno 162 fra Anduenna Batonis e Iulius Alexander.
[94] L’onomastica
maschile comprende anche altri esempi di nomi che finiscono in -a. Esemplifichiamo, per l’antichità,
con il nome daco di Burebista o con il nome ebreo di Iuda o, per il presente,
con nomi romeni (Andruţa, Aldea, Cristea, Florea, Horia, Mihnea, Mircea,
Preda ecc.), russi (Serioja, Vania), iugoslavi (Sava), italiani (Andrea) ecc.
[96] S. Meitani, Evoluţiunea dreptului de proprietate la romani. Studiu juridic
şi istoric (L’evoluzione del diritto di proprietà presso i romani.
Studio giuridico e storico), Institutul de Arte Grafice “Carol Göbl”, Bucuresci
1902, 146.