Università di Varsavia
Iniziando il mio intervento
vorrei indirizzare espressioni di riconoscimento agli organizzatori di questa
conferenza. Secondo me, merita particolare approvazione la proposta di
discutere durante questo incontro problemi tanto importanti quali: la guerra,
la pace e il diritto. Naturalmente ci rendiamo tutti conto del fatto che
ciascuno di questi tre elementi, che compongono il tema della conferenza,
potrebbe essere oggetto e di grandi dibattiti, e di profondi studi. Ma proprio
l’accostamento di questi elementi uno accanto all’altro può
divenire il pretesto – specialmente nel mondo odierno – di un nuovo
sguardo a fatti che si presentano da secoli. Viviamo infatti in un’epoca
di grandi rivalorizzazioni del modo di vedere molti problemi, in un epoca di
mutamenti del contenuto di concetti noti da tempo, ma anche della nascita di
nuovi concetti e categorie, che prima non esistevano. In poche parole : sembra
che in tali discipline della scienza, quali per esempio la politologia, o la
giurisprudenza, concetti che, relativamente fino a poco fa, erano ritenuti come
adeguate chiarificazioni della realtà che ci circonda , oggi per la
maggior parte non bastino più per comprendere molti fatti che avvengono
nel mondo. Eppure il bisogno di comprendere l’essenza ed il significato
degli avvenimenti che accadono intorno a noi, è uno dei bisogni
fondamentali dell’uomo. Se così non fosse, non esisterebbe il
processo della conoscenza del mondo e della scoperta delle regole che lo
governano.
Suppongo che la conferenza
a Sassari sia una delle dimostrazioni dell’esistenza, rafforzatasi negli
ultimi anni, del bisogno di comprendere i nuovi problemi fondamentali di questo
mondo. Sicuramente non chiariremo qui tutti i dubbi e le ambiguità.
Questo tipo di incontri tuttavia sono in realtà un elemento
indispensabile nel processo globale della conoscenza del mondo, un processo che
in realtà non sarà mai finito.
Nel mio intervento vorrei
in breve richiamare l’attenzione sulla necessita’ di uno sguardo
nuovo (o almeno modificato) su vari concetti e categorie tradizionali presenti
nella giurisprudenza, in particolare nel diritto costituzionale. Vorrei anche
cercare di indicare le cause più importanti – per lo meno nella
mia convinzione – che spingono alla revisione dei fondamenti concettuali
(sembrerebbe) stabili trovati del costituzionalismo.
Il risultato sarà che dovrò porre una domanda altrettanto
rischiosa e – secondo me – non necessariamente
infondata: nel mondo contemporaneo le costituzioni, nel significato
tradizionale della parola, sono
indispensabili per il regolare funzionamento dello stato ?
Fra i fondamenti della
stragrande maggioranza delle costituzioni attualmente in vigore rientrano tali
concetti quali: sovranità dello stato, supremazia della nazione, dei
diritti, delle libertà e dei doveri dell’uomo e del
cittadino, la democrazia. Non sono
tuttavia categorie connesse rigorosamente ed esclusivamente con il
costituzionalismo e la sua nascita a cavallo del XVIII e XIX secolo. La
democrazia infatti era nota già nell’antica Grecia. Della
sovranità della nazione già scriveva Marsilio di Padova. Sono
pertanto concetti che funzionano in molte scienze sociali (non fosse altro
nella politologia) ed anche in altri rami, non soltanto costituzionali, della
giurisprudenza (per es. il diritto pubblico internazionale). Ogni disciplina
della scienza pone l’accento su un altro aspetto del contenuto dei
concetti qui ricordati. Dato quanto sopra non è mia intenzione
presentare i vari modi di comprendere, presentare, le diverse definizioni dei
concetti riportati. Dato – per forza di cose – la loro grande
omonomia, sarebbe una occupazione abbastanza sterile e possibile da eseguire in
uno studio più ampio, che non in un intervento, per necessità di
cose, breve in una conferenza.
Qui si tratta infatti di
richiamare l’attenzione sul tradizionale trattamento dei concetti
ricordati, connesso con il loro nuovo modo in cui sono affrontati nella
politica internazionale e nei tentativi di trasferire questo nuovo e pratico
trattamento nella dottrina della giurisprudenza, e specialmente nel diritto pubblico internazionale e
nel diritto costituzionale.
Molto tempo fa il filosofo
francese Charles de Montesquieu aveva scritto nella sua opera “Lo spirito
delle leggi” il seguente pensiero: “(...) l’esperienza
secolare insegna che ogni uomo, che possiede il potere, è propenso ad
abusarne; si spinge tanto lontano, finchè ne incontra i limiti”.
In un certo modo la conseguenza di questo psnsiero fu la concezione della
divisione e dell’equilibrio dei poteri. Questa concezione è dalla
fine del XVIII sec. (Costitu-zione degli Stati Uniti) fino ad oggi uno dei
fondamenti del costituzionalismo democratico. Non si può nondimeno non
osservare che, per esempio, l’importante aumento dell’influenza dei
partiti politici sul funzionamento dello stato, ha lasciato una impronta
piuttosto negativa sulla teoria e sulla pratica della suddetta concezione.
Il pensiero di Charles de Montesquieu sulla infrenabile propensione di tutti gli uomini che possiedono il
potere ad abusarne è – mi sembra – giusta in riferimento
alla grande maggioranza dei casi, ma non a
tutti. Ciò non muta affatto la giustezza della deduzione che –
nella forma della ricordata concezione della divisione e dell’equilibrio
dei poteri – era stata tratta dalle osservazioni del Montesquieu.
E’ bene tuttavia
notare che al filosofo francese il
problema dell’abuso del potere interessava unicamente dal punto di vista
dell’individuo e soltanto nell’ambito di uno stato. Sembra quindi
che il pensiero qui riportato possa essere trasposto su un’area
internazionale più estesa. Non sbaglierò se proprio in questo
modo interpreto l’affermazione di Paul Kennedy contenuta nella sua opera
fondamentale “Le potenze del mondo. Nascita, sviluppo, caduta”. L’autore
scrive: «(...) ognuno dei principali stati del sistema internazionale
cerca di aumentare la sua ricchezza e la sua potenza per divenire (o rimanere)
sia ricco sia forte». Questo aumento della ricchezza e della potenza
avviene – come più avanti dice P. Kennedy – attraverso
lunghe lotte armate, condotte dallo stato con l’ambiente internazionale
più vicino o più lontano.
Riassumendo si può, penso, rischiare l’affermazione che quello
che per l’uomo che possiede il potere è l’aspirazione ad
abusarne, per uno stato ricco e forte è l’aspirazione ad aumentare
la sua ricchezza e la sua forza conducendo le guerre. Freno per l’uomo in
possesso del potere doveva divenire (ed in un certo modo lo diviene) la
realizzazione del concetto della ripartizione e dell’equilibrio dei
poteri. Esiste un freno, un limite, per gli stati ricchi e forti, alla loro
espansione esterna ? In tal caso quei freni o limiti possono essere di due
generi. Il primo - in un certo modo naturale – ossia semplicemente
l’incontro sulla strada della espansione militare di un avversario
più forte. Il secondo – formatosi molto più tardi –
sono le norme giuridiche create dall’uomo, specialmente le norme del
diritto pubblico internazionale e del diritto costituzionale. Fra queste norme
ha un significato fondamentale (per lo meno teoricamente) il divieto
d’ingerenza di uno stato (o di una coalizione di stati) nelle questioni
interne di un altro stato. In altre parole, si tratta del l’ordine di
rispettare la sovranità di
ogni stato. Questo ordine, essendo
l’elemento chiave del funzionamento della società internazionale,
ha cominciato a subire una visibile erosione dopo la dissoluzione del sistema
dei cosiddetti stati del socialismo reale, in particolare dell’Unione
Sovietica.
Uno degli effetti di questa dissoluzione è stata l’egemonia
incontestata degli Stati Uniti su
scala mondiale a causa – prima di tutto, dell’enorme prevalenza
sugli altri paesi che questo stato possiede nel campo militare, economico e
tecnologico . Purtroppo, questa prevalenza ha fruttato azioni degli Stati Uniti
sull’arena internazionale, che non si possono in nessun modo ritenere
concordi con le regole giuridiche finora vigenti. La dottrina della
sovranità dello stato e le norme di diritto internazionale a ciò
connesse, poste tanto su un piedistallo dagli USA ai tempi in cui l’Unione
Sovietica spezzava la sovranità degli stati del reale socialismo, ad
essa subordinati, sono diventate poco comode per gli Stati Uniti come unica
superpotenza , che realizza interessi globali. Per la realizzazione di questi
interessi la dottrina della sovranità costituisce una specie di
panciotto che impaccia i movimenti della superpotenza. Nulla di strano pertanto
se gli Stati Uniti hanno cominciato a lanciare un concetto secondo il quale al
culmine dei valori tutelati dalla società internazionale si devono porre
i diritti dell’uomo. Se pertanto
in un qualsiasi stato sono spezzate notoriamente e su scala di massa i diritti
dell’uomo, nulla impedisce di violare la sovranità di un tale stato e d’intervenire militarmente
allo scopo di ripristinare il rispetto di questi diritti. Un esempio di tali interventi sono il
Kosovo,
Apparentemente la concezione degli Stati Uniti dovrebbe meritare
l’approvazione. Contro di essa si possono tuttavia sollevare alcune
importanti obiezioni. Prima di tutto: nel caso in cui l’intervento sia
eseguito senza il consenso dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, esso
è in contrasto con il
diritto internazionale. Le
azioni degli Stati Uniti possono
costituire un precedente: se una superpotenza può
infrangere un diritto, perchè non possono farlo anche gli altri
stati? In secondo luogo : la tutela dei diritti
dell’uomo non è totale, ma
selettivo, in dipendenza della sua correlazione con gli altri interessi degli Stati
Uniti. Molti stati e organizzazioni ritengono che i diritti dell’uomo
siano infranti anche in stati quali per esempio
Gli argomenti
precedentemente discussi sembrano dimostrare come, sotto intenzioni
apparentemente nobili (gli Stati Uniti come guardiani del rispetto dei diritti
dell’uomo), possano
nascondersi aspirazioni ad una politica egemonista da nulla vincolata,
che serve prima di tutto agli interessi militari ed economici degli USA.
Sarebbe tuttavia ingiusto se le considerazioni finora fatte portassero alla
conclusione che l’unico pericolo per la sovranità degli stati
è la politica degli Stati Uniti. E’ forse questo il pericolo
più spettacolare, presente nella forma più acuta. Esistono
tuttavia anche altri fattori, che forse non violano tanto la sovranità
statale, quanto la limitano seriamente. Ho scritto “fattori”, ma
forse sarebbe stato meglio scrivere “fattore”, dalle diverse
conseguenze, che si presenta in forme diverse. Si tratta semplicemente della globalizzazione, un fatto di cui si
parla e si scrive molto, ma che
continua a rimanere uno dei problemi più polisensi e più
discutibili della contemporaneità. Inoltre vi sono autori che parlano male della globalizzazione,
ma vi sono anche suoi esaltati entusiasti, che vedono nella globalizzazione la
quintessenza della contemporaneità. A questi ultimi appartiene
sicuramente T.L. Friedman, secondo il quale, se si vuole comprendere il mondo
post guerra fredda, i meccanismi che lo guidano, bisogna trattare come suo
elemento principale, come forza fondamentale che forma la
contemporaneità, come una specie di stella guida, proprio la
globalizzazione (“Lexus e albero d’olivo. Comprendere la
globalizzazione”).
Non vi è posto in questo elaborato per riflessioni più ampie
sul tema della stessa globalizzazione, la sua essenza e le varie
manifestazioni. Vorrei invece – anche se in modo molto succinto –
rivolgere l’attenzione su alcune questioni che si riferiscono al
rapporto: globalizzazione e stato.
In generale esiste la
concorde opinione che lo stato, nel significato tradizionale di questa parola,
ossia lo stato provvisto di potere sovrano, che controlla quello che accade nel
suo territorio (cfr. I.Wallerstein “La fine del mondo che
conosciamo”), possa essere
divenuto la “vittima” più importante della
globalizzazione. Perchè?
Generalmente si può dire che lo stato è un’istituzione
che si arroga il giusto diritto di stabilire e imporre principi e norme che
conferiscano coerenza e ordine al corso delle cose in un determinato territorio
e che possieda i mezzi sufficienti per raggiungere tale scopo. Come a tale proposito
osserva Z. Bauman “Assestare
una certa parte del mondo significava istituire uno stato indipendente, che
potesse introdurre l’ordine grazie al potere posseduto”
(Globalizzazione”). Ed ecco che a causa dell’estendersi illimitato
e irrefrenabile, nell’ambito della globalizzazione, di un passaggio
incontrollato di capitale e di mezzi finanziari, l’economia sempre
più sfugge all’influenza della politica in generale, e del potere
statale in particolare. Non sono gli
stati e le loro cosiddette
economie nazionali a decidere le attività del mercati finanziari
mondiali. Questa attività sono in effetti inafferrabili,
extraterritoriali, effemeriche e sono esse ad imporre al mondo degli stati le
loro leggi e i loro ordini. Allo stato è rimasta la “pura”
politica, ossia in realtà le apparenze del potere. Esso non ha invece la
possibilità di frammettersi nelle questioni connesse con la sua propria
economia, se tali questioni sono oggetto d’interessamento dei soggetti
economici globali. Non si deve, penso, aggiungere che – almeno
attualmente – questi soggetti economici globali sono costituiti per la
maggior parte dal capitale americano. E in ciò consiste il successivo
fattore che limita la sovranità di molti stati a causa dell’enorme
prevalenza degli Stati Uniti (e di pochi altri stati).
Il problema consiste tuttavia non soltanto sull’attività
globale nella sfera economica. Una conseguenza inevitabile del globale
diffondersi di prodotti dell’economia dell’Occidente, quali Coca-Cola, Volkswagen, IBM, hamburger, è la tendenza a
convincere le società dell’Asia, dell’Africa, del Medio
Oriente, che la scienza, la cultura, lo stile di vita della civiltà
euroatlantica sono le migliori e dovrebbero essere diffuse in tutto il mondo.
In altre parole, che i valori della
civiltà euroatlantica hanno in realtà carattere universale. E
un’illusione che - almeno finora – non quadra con la realtà.
Dal punto di vista dottrinale il carattere illusorio della convinzione secondo
cui i valori della civiltà euroatlanica sarebbero universali è stato
segnalato negli ultimi anni particolarmente da S. Huntington nel suo studio
“Scontro delle civiltà”.
Una specie di continuazione
del libro di Samuel Huntington è l’opera di Piotr Kłodkowski
“Guerra dei mondi? Sull’illusione dei valori universali”. Il
secondo di questi autori non tratta tutte le civiltà contemporanee, ma
si concentra sul cosiddetto Oriente, ossia sulla civiltà
dell’islam, dell’India, della Cina. Giunge alla conclusione che la
civiltà euroatlantica dovrebbe disfarsi della pretesa all’universalismo
e conciliarsi con l’impossibilità di imporre alle altre culture la
democrazia liberale o l’idea della libertà di coscienza. Piotr
Kłodkowski dice inoltre che il fondamentalismo musulmano indirizzato
contro i propri governi in Egitto,
Giordania, Algeria, Arabia Saudita o nel Pakistan attinge la propria forza e
l’appoggio sociale dall’accusa fatta alle autorità di
accettare troppo i modelli occidentali e di appoggiare eccessivamente la
politica dell’Occidente, anzitutto degli Stati Uniti. L’esempio
più espressivo di queste tendenze era la rivoluzione antioccidentale
nell’Iran, che – nella persona dell’imperatore Reza Pahlavi
– nel passato era stato un vicino alleato degli Stati Uniti e simbolo
della “modernità” importata dall’Occidente.
Un altro esempio sono le
conseguenze dell’azione militare dell’Occidente contro
l’Iraq, dopo la sua aggressione al Kuweit nel 1991. Dopo quella azione le
truppe degli Stati Uniti restarono nel territorio dell’Arabia Saudita.
Ciò avrebbe dovuto prevenire successivi conflitti e stabilire la
situazione nel Medio Oriente. Il risultato fu che la presenza delle truppe
americane nell’Arabia Saudita infuriò enormi masse di musulmani,
che non volevano adattarsi alla presenza degli “infedeli” sulla santa
terra dell’islam. Ugualmente una diretta conseguenza di questo stato di
cose era, come si può
dedurre dalle enunciazioni di bin Laden, l’attacco terroristico,
accuratamente pianificato, a New York. Questo attacco fu come una
“risposta” alla politica americana in quella parte del mondo. Ed
è questa la politica di
“civilizzazione” dell’Oriente arabo alla maniera occidentale.
In altre parole non si tratta
più di una lotta per le risorse, l’economia, il potenziale
economico del mondo, ma di una lotta per le “anime”, il modo di pensare, il modo di vivere,
le leggi, il modo di governare secondo gli standard della civiltà
euroatlantica. La globalizzazione ha pertanto non soltanto una dimensione
economica, materiale, ma anche culturale, spirituale. Questa seconda dimensione
fa nascere conseguenze particolarmente gravi, mira infatti a privare, coloro
che non appartengono alle civiltà occidentali, di qualsiasi prospettiva,
privandoli delle loro radici culturali.
Sarebbe bene se gli odierni
propagatori dei valori della civiltà occidentale si rendessero conto di
quanto numerosi e durevoli sono i
“peccati” di questa civiltà nei confronti degli
altri, forse proprio nei confronti dell’islam. Lo dimostrano, non fosse
altro, alcune delle ultime frasi del libro di Amin Maalouf “Le Crociate
agli occhi degli Arabi”. L’autore, riassumendo le conseguenze delle
crociate nelle terre occupate allora (e adesso) dagli Arabi, attesta:
“L’Oriente arabo continua a vedere nell’Occidente un suo
naturale nemico. Ogni atto di ostilità - politico , militare od economico
– petrolio - diretto contro di esso,
è esclusivamente una
rivincita autorizzata. E non vi è dubbio che la rottura fra questi due
mondi dati dai tempi delle crociate. ancora oggi sentite dagli Arabi come
violenza nei loro confronti”. In un tale contesto la politica di George
W. Bush, può avere una qualche prospettiva?
Sembra invece non destare
dubbi il fatto che una globalizzazione intesa in modo lato debba avere
conseguenze negative per la realizzazione di valori quali: il principio della
supremazia della nazione, il ruolo sovrano nello stato, il grado di autonomia
dello stato nella realizzazione dei diritti dell’uomo (specialmente
sociali ed economici, ma anche politici)
per l’autenticità della manifestazione di varie forme di
democrazia, ecc. I fattori qui elencati ( e molti altri ancora) devono influire
sull’importanza delle costituzioni, quali leggi fondamentali dello stato.
La costituzione è in
generale abbastanza rispettata come atto giuridico, caratterizzato di valori di
due generi: organizzativi (caratteristica delle relazioni tra le
autorità statali e definizione dei principi del loro funzionamento) e di
garanzia (designazione dei limiti delle azione delle autorità statali
nei confronti dei cittadini, garanzia ai cittadini di diritti personali,
sociali, economici). La costituzione è l’ atto giuridico
più potente di uno stato. Ciò significa che tutti gli altri atti
giuridici devono essere conformi alla costituzione. Ma significa pure che le
regole costituzionali, che riguardano la struttura ed i principi del
funzionamento delle autorità statali nonchè i rapporti tra il
potere ed i cittadini, devono essere nella realtà sociale effettivamente
realizzati, e non costituire unicamente una raccolta di vuote dichiarazioni.
Nel caso contrario può nascere uno iato tra la volontà scritta
dell’autore della costituzione (indirettamente o direttamente - la volontà sovrana nello stato)
ed il valore reale della costituzione. Un tale iato ha naturalmente effetti
negativi per il funzionamento dello stato. dell’autorità delle
leggi, ecc. Le sue cause possono essere di due generi: interne (la riluttanza
di determinate forze politiche interne ad adeguarsi alle disposizioni della
legge fondamentale) ed esterne ( la pressione di altri stati od organizzazioni
che, in pratica, rendono impossibile alle autorità statali di realizzare
le regole costituzionali).
La globalizzazione nelle
sue diverse varianti fa nascere in particolare quel secondo tipo di cause
dell’indebolimento del ruolo reale della costituzione nello stato. Se
infatti la globalizzazione significa minimizzare l’influenza delle
autorità statali sul processo economico (prima di tutto nella sfera
della civiltà euroatlantica) e culturale (principalmente nelle altre
sfere civilizzatrici), deve avere conseguenze essenziali per le
possibilità dello stato di disimpegnarsi a favore di cittadini delle
obbligazioni che derivano dalla costituzione (per esempio la realizzazione dei
diritti economici, sociali, culturali).
Alla luce
dell’insieme di queste considerazioni nasce la seguente domanda: Nel
contesto dei mutamenti tempestosi e piuttosto inevitabili che la
contemporaneità introduce nella regolarità della vita sociale
(sia su scala di un unico stato, sia su scala globale) è possibile
perdurare nella dottrina e nei principi del costituzionalismo rimasti quasi
immutati dal XVIII- XIX secolo? La
domanda è piuttosto retorica. Nondimeno il problema
dell’adeguamento del costituzionalismo alla realtà sociale
continua tuttavia a non essere risolto.