N. 4 – 2005 – Memorie

 

Jan Wawrzyniak

Università di Varsavia

 

Costituzionalismo e sfide della contemporaneità

 

Iniziando il mio intervento vorrei indirizzare espressioni di riconoscimento agli organizzatori di questa conferenza. Secondo me, merita particolare approvazione la proposta di discutere durante questo incontro problemi tanto importanti quali: la guerra, la pace e il diritto. Naturalmente ci rendiamo tutti conto del fatto che ciascuno di questi tre elementi, che compongono il tema della conferenza, potrebbe essere oggetto e di grandi dibattiti, e di profondi studi. Ma proprio l’accostamento di questi elementi uno accanto all’altro può divenire il pretesto – specialmente nel mondo odierno – di un nuovo sguardo a fatti che si presentano da secoli. Viviamo infatti in un’epoca di grandi rivalorizzazioni del modo di vedere molti problemi, in un epoca di mutamenti del contenuto di concetti noti da tempo, ma anche della nascita di nuovi concetti e categorie, che prima non esistevano. In poche parole : sembra che in tali discipline della scienza, quali per esempio la politologia, o la giurisprudenza, concetti che, relativamente fino a poco fa, erano ritenuti come adeguate chiarificazioni della realtà che ci circonda , oggi per la maggior parte non bastino più per comprendere molti fatti che avvengono nel mondo. Eppure il bisogno di comprendere l’essenza ed il significato degli avvenimenti che accadono intorno a noi, è uno dei bisogni fondamentali dell’uomo. Se così non fosse, non esisterebbe il processo della conoscenza del mondo e della scoperta delle regole che lo governano.

Suppongo che la conferenza a Sassari sia una delle dimostrazioni dell’esistenza, rafforzatasi negli ultimi anni, del bisogno di comprendere i nuovi problemi fondamentali di questo mondo. Sicuramente non chiariremo qui tutti i dubbi e le ambiguità. Questo tipo di incontri tuttavia sono in realtà un elemento indispensabile nel processo globale della conoscenza del mondo, un processo che in realtà non sarà mai finito.

Nel mio intervento vorrei in breve richiamare l’attenzione sulla necessita’ di uno sguardo nuovo (o almeno modificato) su vari concetti e categorie tradizionali presenti nella giurisprudenza, in particolare nel diritto costituzionale. Vorrei anche cercare di indicare le cause più importanti – per lo meno nella mia convinzione – che spingono alla revisione dei fondamenti concettuali (sembrerebbe) stabili trovati del costituzionalismo.

Il risultato sarà che dovrò porre una domanda altrettanto rischiosa  e –  secondo me – non necessariamente infondata: nel mondo contemporaneo  le costituzioni, nel significato tradizionale della parola,  sono indispensabili per il regolare funzionamento dello stato ?

 

I

Fra i fondamenti della stragrande maggioranza delle costituzioni attualmente in vigore rientrano tali concetti quali: sovranità dello stato, supremazia della nazione, dei diritti, delle libertà e dei doveri dell’uomo e del cittadino,  la democrazia. Non sono tuttavia categorie connesse rigorosamente ed esclusivamente con il costituzionalismo e la sua nascita a cavallo del XVIII e XIX secolo. La democrazia infatti era nota già nell’antica Grecia. Della sovranità della nazione già scriveva Marsilio di Padova. Sono pertanto concetti che funzionano in molte scienze sociali (non fosse altro nella politologia) ed anche in altri rami, non soltanto costituzionali, della giurisprudenza (per es. il diritto pubblico internazionale). Ogni disciplina della scienza pone l’accento su un altro aspetto del contenuto dei concetti qui ricordati. Dato quanto sopra non è mia intenzione presentare i vari modi di comprendere, presentare, le diverse definizioni dei concetti riportati. Dato – per forza di cose – la loro grande omonomia, sarebbe una occupazione abbastanza sterile e possibile da eseguire in uno studio più ampio, che non in un intervento, per necessità di cose, breve in una conferenza.

Qui si tratta infatti di richiamare l’attenzione sul tradizionale trattamento dei concetti ricordati, connesso con il loro nuovo modo in cui sono affrontati nella politica internazionale e nei tentativi di trasferire questo nuovo e pratico trattamento nella dottrina della giurisprudenza, e specialmente  nel diritto pubblico internazionale e nel diritto costituzionale.

 

II

Molto tempo fa il filosofo francese Charles de Montesquieu aveva scritto nella sua opera “Lo spirito delle leggi” il seguente pensiero: “(...) l’esperienza secolare insegna che ogni uomo, che possiede il potere, è propenso ad abusarne; si spinge tanto lontano, finchè ne incontra i limiti”. In un certo modo la conseguenza di questo psnsiero fu la concezione della divisione e dell’equilibrio dei poteri. Questa concezione è dalla fine del XVIII sec. (Costitu-zione degli Stati Uniti) fino ad oggi uno dei fondamenti del costituzionalismo democratico. Non si può nondimeno non osservare che, per esempio, l’importante aumento dell’influenza dei partiti politici sul funzionamento dello stato, ha lasciato una impronta piuttosto negativa sulla teoria e sulla pratica della suddetta concezione.

Il pensiero di Charles de Montesquieu sulla infrenabile propensione di tutti gli uomini che possiedono il potere ad abusarne è – mi sembra – giusta in riferimento alla grande maggioranza dei casi, ma non a tutti. Ciò non muta affatto la giustezza della deduzione che – nella forma della ricordata concezione della divisione e dell’equilibrio dei poteri – era stata tratta dalle osservazioni del Montesquieu.

E’ bene tuttavia notare che al  filosofo francese il problema dell’abuso del potere interessava unicamente dal punto di vista dell’individuo e soltanto nell’ambito di uno stato. Sembra quindi che il pensiero qui riportato possa essere trasposto su un’area internazionale più estesa. Non sbaglierò se proprio in questo modo interpreto l’affermazione di Paul Kennedy contenuta nella sua opera fondamentale “Le potenze del mondo. Nascita, sviluppo, caduta”. L’autore scrive: «(...) ognuno dei principali stati del sistema internazionale cerca di aumentare la sua ricchezza e la sua potenza per divenire (o rimanere) sia ricco sia forte». Questo aumento della ricchezza e della potenza avviene – come più avanti dice P. Kennedy – attraverso lunghe lotte armate, condotte dallo stato con l’ambiente internazionale più vicino o più lontano.

Riassumendo si può, penso, rischiare l’affermazione che quello che per l’uomo che possiede il potere è l’aspirazione ad abusarne, per uno stato ricco e forte è l’aspirazione ad aumentare la sua ricchezza e la sua forza conducendo le guerre. Freno per l’uomo in possesso del potere doveva divenire (ed in un certo modo lo diviene) la realizzazione del concetto della ripartizione e dell’equilibrio dei poteri. Esiste un freno, un limite, per gli stati ricchi e forti, alla loro espansione esterna ? In tal caso quei freni o limiti possono essere di due generi. Il primo - in un certo modo naturale – ossia semplicemente l’incontro sulla strada della espansione militare di un avversario più forte. Il secondo – formatosi molto più tardi – sono le norme giuridiche create dall’uomo, specialmente le norme del diritto pubblico internazionale e del diritto costituzionale. Fra queste norme ha un significato fondamentale (per lo meno teoricamente) il divieto d’ingerenza di uno stato (o di una coalizione di stati) nelle questioni interne di un altro stato. In altre parole, si tratta del l’ordine di rispettare la sovranità di ogni stato. Questo ordine, essendo l’elemento chiave del funzionamento della società internazionale, ha cominciato a subire una visibile erosione dopo la dissoluzione del sistema dei cosiddetti stati del socialismo reale, in particolare dell’Unione Sovietica.

Uno degli effetti di questa dissoluzione è stata l’egemonia incontestata degli Stati Uniti  su scala mondiale a causa – prima di tutto, dell’enorme prevalenza sugli altri paesi che questo stato possiede nel campo militare, economico e tecnologico . Purtroppo, questa prevalenza ha fruttato azioni degli Stati Uniti sull’arena internazionale, che non si possono in nessun modo ritenere concordi con le regole giuridiche finora vigenti. La dottrina della sovranità dello stato e le norme di diritto internazionale a ciò connesse, poste tanto su un piedistallo dagli USA ai tempi in cui l’Unione Sovietica spezzava la sovranità degli stati del reale socialismo, ad essa subordinati, sono diventate poco comode per gli Stati Uniti come unica superpotenza , che realizza interessi globali. Per la realizzazione di questi interessi la dottrina della sovranità costituisce una specie di panciotto che impaccia i movimenti della superpotenza. Nulla di strano pertanto se gli Stati Uniti hanno cominciato a lanciare un concetto secondo il quale al culmine dei valori tutelati dalla società internazionale si devono porre i  diritti dell’uomo. Se pertanto in un qualsiasi stato sono spezzate notoriamente e su scala di massa i diritti dell’uomo, nulla impedisce di violare la sovranità di un tale  stato e d’intervenire militarmente allo scopo di ripristinare il rispetto di questi diritti.  Un esempio di tali interventi sono il Kosovo, la Somalia, l’Afganistan, l’Irak.

Apparentemente la concezione degli Stati Uniti dovrebbe meritare l’approvazione. Contro di essa si possono tuttavia sollevare alcune importanti obiezioni. Prima di tutto: nel caso in cui l’intervento sia eseguito senza il consenso dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, esso è in contrasto con il  diritto internazionale.  Le azioni degli  Stati Uniti possono costituire  un precedente:  se una superpotenza può infrangere un diritto, perchè non possono farlo anche gli altri stati?  In secondo  luogo : la tutela dei diritti dell’uomo non è totale, ma selettivo, in dipendenza della sua correlazione  con gli altri interessi degli Stati Uniti. Molti stati e organizzazioni ritengono che i diritti dell’uomo siano infranti anche in stati quali per esempio la Cina e la Russia. Non si  prevede però affatto un intervento militare degli USA in questi stati allo scopo di garantire il rispetto dei diritti dell’uomo.  In terzo luogo: gli Stati Uniti si sono resi contemporaneamente  giudici e boia. Sono loro che decidono quali stati rispettano i diritti dell’uomo e quali no. Sono anche loro (soli o in cooperazione con alcuni altri stati) ad “amministrare la giustizia”. Il ruolo dell’Organizzazione delle Nazioni Unite è stato ridottto in pratica a zero. Ciò dimostra il forte allontanamento dagli standard  vigenti della vita internazionale. Quarto: la concezione dei diritti dell’uomo nella forma attualmente  “obbligatoria” è uno dei prodotti della civiltà euroatlantica. Misurare con questo  metro  il funzionamento di stati  appartenenti a sfere della civiltà del tutto diverse  è un tentativo di imporre, o addirittura l’imposizione a questi stati di un sistema di valori che non necessariamente è da essi ritenuto il migliore.

Gli argomenti precedentemente discussi sembrano dimostrare come, sotto intenzioni apparentemente nobili (gli Stati Uniti come guardiani del rispetto dei diritti dell’uomo), possano  nascondersi aspirazioni ad una politica egemonista da nulla vincolata, che serve prima di tutto agli interessi militari ed economici degli USA.

 

III

Sarebbe tuttavia ingiusto se le considerazioni finora fatte portassero alla conclusione che l’unico pericolo per la sovranità degli stati è la politica degli Stati Uniti. E’ forse questo il pericolo più spettacolare, presente nella forma più acuta. Esistono tuttavia anche altri fattori, che forse non violano tanto la sovranità statale, quanto la limitano seriamente. Ho scritto “fattori”, ma forse sarebbe stato meglio scrivere “fattore”, dalle diverse conseguenze, che si presenta in forme diverse. Si tratta semplicemente della globalizzazione, un fatto di cui si parla  e si scrive molto, ma che continua a rimanere uno dei problemi più polisensi e più discutibili della contemporaneità. Inoltre vi sono autori  che parlano male della globalizzazione, ma vi sono anche suoi esaltati entusiasti, che vedono nella globalizzazione la quintessenza della contemporaneità. A questi ultimi appartiene sicuramente T.L. Friedman, secondo il quale, se si vuole comprendere il mondo post guerra fredda, i meccanismi che lo guidano, bisogna trattare come suo elemento principale, come forza fondamentale che forma la contemporaneità, come una specie di stella guida, proprio la globalizzazione (“Lexus e albero d’olivo. Comprendere la globalizzazione”).

Non vi è posto in questo elaborato per riflessioni più ampie sul tema della stessa globalizzazione, la sua essenza e le varie manifestazioni. Vorrei invece – anche se in modo molto succinto – rivolgere l’attenzione su alcune questioni che si riferiscono al rapporto: globalizzazione e stato.

In generale esiste la concorde opinione che lo stato, nel significato tradizionale di questa parola, ossia lo stato provvisto di potere sovrano, che controlla quello che accade nel suo territorio (cfr. I.Wallerstein “La fine del mondo che conosciamo”), possa essere  divenuto la “vittima” più importante della globalizzazione. Perchè?

Generalmente si può dire che lo stato è un’istituzione che si arroga il giusto diritto di stabilire e imporre principi e norme che conferiscano coerenza e ordine al corso delle cose in un determinato territorio e che possieda i mezzi sufficienti per raggiungere tale scopo. Come a tale proposito osserva Z. Bauman  “Assestare una certa parte del mondo significava istituire uno stato indipendente, che potesse introdurre l’ordine grazie al potere posseduto” (Globalizzazione”). Ed ecco che a causa dell’estendersi illimitato e irrefrenabile, nell’ambito della globalizzazione, di un passaggio incontrollato di capitale e di mezzi finanziari, l’economia sempre più sfugge all’influenza della politica in generale, e del potere statale in particolare. Non sono gli  stati e  le loro cosiddette economie nazionali a decidere le attività del mercati finanziari mondiali. Questa attività sono in effetti inafferrabili, extraterritoriali, effemeriche e sono esse ad imporre al mondo degli stati le loro leggi e i loro ordini. Allo stato è rimasta la “pura” politica, ossia in realtà le apparenze del potere. Esso non ha invece la possibilità di frammettersi nelle questioni connesse con la sua propria economia, se tali questioni sono oggetto d’interessamento dei soggetti economici globali. Non si deve, penso, aggiungere che – almeno attualmente – questi soggetti economici globali sono costituiti per la maggior parte dal capitale americano. E in ciò consiste il successivo fattore che limita la sovranità di molti stati a causa dell’enorme prevalenza degli Stati Uniti (e di pochi altri stati).

 

IV

Il problema consiste tuttavia non soltanto sull’attività globale nella sfera economica. Una conseguenza inevitabile del globale diffondersi di prodotti dell’economia dell’Occidente, quali  Coca-Cola, Volkswagen,  IBM, hamburger, è la tendenza a convincere le società dell’Asia, dell’Africa, del Medio Oriente, che la scienza, la cultura, lo stile di vita della civiltà euroatlantica sono le migliori e dovrebbero essere diffuse in tutto il mondo. In altre parole, che i valori della civiltà euroatlantica hanno in realtà carattere universale. E un’illusione che - almeno finora – non quadra con la realtà. Dal punto di vista dottrinale il carattere illusorio della convinzione secondo cui i valori della civiltà euroatlanica sarebbero universali è stato segnalato negli ultimi anni particolarmente da S. Huntington nel suo studio “Scontro delle civiltà”.

Una specie di continuazione del libro di Samuel Huntington è l’opera di Piotr Kłodkowski “Guerra dei mondi? Sull’illusione dei valori universali”. Il secondo di questi autori non tratta tutte le civiltà contemporanee, ma si concentra sul cosiddetto Oriente, ossia sulla civiltà dell’islam, dell’India, della Cina. Giunge alla conclusione che la civiltà euroatlantica dovrebbe disfarsi della pretesa all’universalismo e conciliarsi con l’impossibilità di imporre alle altre culture la democrazia liberale o l’idea della libertà di coscienza. Piotr Kłodkowski dice inoltre che il fondamentalismo musulmano indirizzato contro i propri governi  in Egitto, Giordania, Algeria, Arabia Saudita o nel Pakistan attinge la propria forza e l’appoggio sociale dall’accusa fatta alle autorità di accettare troppo i modelli occidentali e di appoggiare eccessivamente la politica dell’Occidente, anzitutto degli Stati Uniti. L’esempio più espressivo di queste tendenze era la rivoluzione antioccidentale nell’Iran, che – nella persona dell’imperatore Reza Pahlavi – nel passato era stato un vicino alleato degli Stati Uniti e simbolo della “modernità” importata dall’Occidente.

Un altro esempio sono le conseguenze dell’azione militare dell’Occidente contro l’Iraq, dopo la sua aggressione al Kuweit nel 1991. Dopo quella azione le truppe degli Stati Uniti restarono nel territorio dell’Arabia Saudita. Ciò avrebbe dovuto prevenire successivi conflitti e stabilire la situazione nel Medio Oriente. Il risultato fu che la presenza delle truppe americane nell’Arabia Saudita infuriò enormi masse di musulmani, che non volevano adattarsi alla presenza degli “infedeli” sulla santa terra dell’islam. Ugualmente una diretta conseguenza di questo stato di cose  era, come si può dedurre dalle enunciazioni di bin Laden, l’attacco terroristico, accuratamente pianificato, a New York. Questo attacco fu come una “risposta” alla politica americana in quella parte del mondo. Ed è questa  la politica di “civilizzazione” dell’Oriente arabo alla maniera occidentale. In altre parole  non si tratta più di una lotta per le risorse, l’economia, il potenziale economico del mondo, ma di una lotta per le “anime”,  il modo di pensare, il modo di vivere, le leggi, il modo di governare secondo gli standard della civiltà euroatlantica. La globalizzazione ha pertanto non soltanto una dimensione economica, materiale, ma anche culturale, spirituale. Questa seconda dimensione fa nascere conseguenze particolarmente gravi, mira infatti a privare, coloro che non appartengono alle civiltà occidentali, di qualsiasi prospettiva, privandoli delle loro radici culturali.

Sarebbe bene se gli odierni propagatori dei valori della civiltà occidentale si rendessero conto di quanto numerosi e durevoli sono i  “peccati” di questa civiltà nei confronti degli altri, forse proprio nei confronti dell’islam. Lo dimostrano, non fosse altro, alcune delle ultime frasi del libro di Amin Maalouf “Le Crociate agli occhi degli Arabi”. L’autore, riassumendo le conseguenze delle crociate nelle terre occupate allora (e adesso) dagli Arabi, attesta: “L’Oriente arabo continua a vedere nell’Occidente un suo naturale nemico. Ogni atto di ostilità - politico , militare od economico – petrolio - diretto contro di esso,  è esclusivamente  una rivincita autorizzata. E non vi è dubbio che la rottura fra questi due mondi dati dai tempi delle crociate. ancora oggi sentite dagli Arabi come violenza nei loro confronti”. In un tale contesto la politica di George W. Bush, può avere una qualche prospettiva?

 

V

Sembra invece non destare dubbi il fatto che una globalizzazione intesa in modo lato debba avere conseguenze negative per la realizzazione di valori quali: il principio della supremazia della nazione, il ruolo sovrano nello stato, il grado di autonomia dello stato nella realizzazione dei diritti dell’uomo (specialmente sociali ed economici, ma anche politici)  per l’autenticità della manifestazione di varie forme di democrazia, ecc. I fattori qui elencati ( e molti altri ancora) devono influire sull’importanza delle costituzioni, quali leggi fondamentali dello stato.

La costituzione è in generale abbastanza rispettata come atto giuridico, caratterizzato di valori di due generi: organizzativi (caratteristica delle relazioni tra le autorità statali e definizione dei principi del loro funzionamento) e di garanzia (designazione dei limiti delle azione delle autorità statali nei confronti dei cittadini, garanzia ai cittadini di diritti personali, sociali, economici). La costituzione è l’ atto giuridico più potente di uno stato. Ciò significa che tutti gli altri atti giuridici devono essere conformi alla costituzione. Ma significa pure che le regole costituzionali, che riguardano la struttura ed i principi del funzionamento delle autorità statali nonchè i rapporti tra il potere ed i cittadini, devono essere nella realtà sociale effettivamente realizzati, e non costituire unicamente una raccolta di vuote dichiarazioni. Nel caso contrario può nascere uno iato tra la volontà scritta dell’autore della costituzione (indirettamente o direttamente  - la volontà sovrana nello stato) ed il valore reale della costituzione. Un tale iato ha naturalmente effetti negativi per il funzionamento dello stato. dell’autorità delle leggi, ecc. Le sue cause possono essere di due generi: interne (la riluttanza di determinate forze politiche interne ad adeguarsi alle disposizioni della legge fondamentale) ed esterne ( la pressione di altri stati od organizzazioni che, in pratica, rendono impossibile alle autorità statali di realizzare le regole costituzionali).

La globalizzazione nelle sue diverse varianti fa nascere in particolare quel secondo tipo di cause dell’indebolimento del ruolo reale della costituzione nello stato. Se infatti la globalizzazione significa minimizzare l’influenza delle autorità statali sul processo economico (prima di tutto nella sfera della civiltà euroatlantica) e culturale (principalmente nelle altre sfere civilizzatrici), deve avere conseguenze essenziali per le possibilità dello stato di disimpegnarsi a favore di cittadini delle obbligazioni che derivano dalla costituzione (per esempio la realizzazione dei diritti economici, sociali, culturali).

 

VI

Alla luce dell’insieme di queste considerazioni nasce la seguente domanda: Nel contesto dei mutamenti tempestosi e piuttosto inevitabili che la contemporaneità introduce nella regolarità della vita sociale (sia su scala di un unico stato, sia su scala globale) è possibile perdurare nella dottrina e nei principi del costituzionalismo rimasti quasi immutati dal  XVIII- XIX secolo? La domanda è piuttosto retorica. Nondimeno il problema dell’adeguamento del costituzionalismo alla realtà sociale continua tuttavia a non essere risolto.