Guerra e gihàd nel pensiero islamico: alcune riflessioni
Pensare alla
guerra in un contesto islamico richiama oggi alla mente di ognuno un termine
inquietante: gihàd. E’ all’uso di
questo e di alcuni altri termini che intendo dedicare qualche puntualizzazione
a cui faranno seguito delle riflessioni in qualche modo condizionate dagli
interrogativi che l’attuale contesto pone. Riflessioni che, in quanto tali,
offrono solo spunti per approfondimenti: a questo scopo ho ritenuto utile
fornire una bibliografia aggiornata sull’argomento.
Rimando alla
prevista pubblicazione cartacea degli Atti la trattazione di un tema specifico
legato alla guerra e alla pace, quale è quello della liberazione dei
prigionieri fra impero bizantino e califfato abbaside, esaminato attraverso la
duplice chiave di lettura della normativa giuridica e della prassi attuata
dallo stato islamico.
Islam significa
in arabo “sottomissione a Dio” ed è il nome della religione predicata da
Muhammad nell’Arabia del VII secolo sulla base della rivelazione ricevuta da
Allah attraverso il libro sacro, il Corano, che è la parola di Dio fatta
“testo”, storicizzata, dunque in qualche modo “incarnata”. A parte i contenuti
profetici, teologici, escatologici, questo testo definisce una ortoprassi,
indica il comportamento, la via da seguire per realizzare un ideale che è
quello di un’umanità che realizza se stessa al meglio nella sottomissione a Dio
su questa terra , in questo modo si garantendosi “il bene” e preparandosi
all’eventuale felicità eterna.
In questo ideale
comunitario, in cui l’individuo non è il fine bensì è il punto di partenza,
precetti morali e legge tendono a coincidere.
Muhammad ha
formato una comunità di uguali in quanto “credenti”, detta Umma (solo per inciso ricordo che il termine ha la stessa valenza
semantica della parola “umm” che vuol
dire “madre), che sostituisse nella società tribale in cui si inseriva il
vincolo della fede al vincolo del sangue, facendo propri quei valori di
coesione e di solidarietà che caratterizzavano il sistema tribale. Al diritto
consuetudinario del sistema tribale si venne a sovrapporre una Legge divina,
dunque sacra e immutabile. Nella fase successiva alla morte del Profeta, in
assenza quindi dell’Inviato di Dio che garantiva la retta interpretazione della
Legge divina, fu necessario mettere a punto un sistema giuridico le cui fonti
furono individuate nel Corano, nell’esempio del Profeta e dei suoi primi
compagni (in continuità con l’uso tribale), nell’analogia con il testo sacro,
nell’accordo fra
Parliamo quindi
di islam come una religione rivelata alla popolazione della penisola arabica
agli albori del VII secolo che ha dato luogo ad una ortoprassi la quale ha
trovato la sua applicazione dopo qualche decennio in una realtà politica nuova,
lo stato islamico, che nel corso dei due secoli successivi ha messo a punto un
sistema giuridico su base canonica nell’ambito del quale si è sviluppata una
cultura, una civiltà che si definisce islamica. Islam come insieme di valori,
come cultura, civiltà, modalità di vita, sensibilità, comportamenti che si sono
costituiti nel corso di quattordici secoli di una storia straordinariamente
ricca di esperienze, di assimilazioni, di contaminazioni.
La parola islam
identifica un mondo, il mondo dei musulmani, nello stesso modo in cui la parola
cristianità indica il mondo dei cristiani? Questo è vero solo in riferimento
alle due realtà nel Medioevo. La relazione sempre più frequentemente proposta
nei termini di islam / occidente , termini evidentemente non omogenei, impone
un’ulteriore riflessione. Come per “occidente” non si intende soltanto la
cristianità, non è corretto riferire il concetto di “islam” ad una realtà
connotata esclusivamente dal fatto religioso o percorsa e condizionata soltanto
da ideologie politiche che tentano di legittimarsi attraverso la
strumentalizzazione del fatto religioso. Come si diceva l’islam è un mondo
complesso e plurale che ha avuto come elemento fondante una religione sui cui
principi fu elaborato, attraverso un’intensa dialettica, un sistema giuridico
che, fin dai primi secoli , tenne conto del contesto politico, delle esigenze
del tempo e della società e, del messaggio coranico tese ad applicare lo
spirito piuttosto che la lettera. Coloro che attualmente sostengono il
contrario, in oriente come in occidente, stanno operando delle
strumentalizzazioni.
D’altra parte,
parlando in termini più ampi di civiltà islamica, non si può parlare di
aderenza reciproca tra “comunità” e “società”. Nella civiltà islamica che, come
si diceva, si è espressa in un’organizzazione sociale peculiare, la comunità
dei fedeli è solo la componente maggioritaria, accanto alla quale parecchie
minoranze, esterne all’islam o interne ad esso (è il caso dei movimenti ereticali
che hanno dato luogo a forme di aggregazione sociale atipiche) sono fatto
tutt’altro che marginale. Sia nella produzione culturale sia nei rapporti con
altre civiltà, tali minoranze rientrano a pieno diritto nella definizione di
società islamica, per adesione a quelli che sono gli elementi distintivi,
ideologici, di base di tale civiltà.
La comunità dei
credenti ha il preciso dovere di attenersi alle normative divine e, al tempo
stesso quello di far sì che tali norme vengano da tutti rispettate: «Voi siete
la migliore nazione mai suscitata fra gli uomini: promuovete la giustizia e
impedite l’ingiustizia, e credete in Dio» (Cor. III, 110). Il principio
dell’ordinare il bene e dissuadere dal male, più volte ribadito dal Corano, non
è stato recepito in maniera univoca da tutte le componenti dell’islam Al di là
delle interpretazioni meno letteralistiche e più spirituali espresse dal
sufismo, la questione di come interpretare il precetto divino è stato al centro
di un vasto dibattito nella civiltà musulmana. Pur ribadendo il concetto che
compito della Comunità – e in certa misura anche dei singoli – è quello di
sorvegliare sulla corretta interpretazione ed esecuzione di norme e
comportamenti, l’ortodossia islamica ha in genere cercato di definire e delimitare
il più possibile l’opera di censura, che non può essere lasciata all’arbitrio
dei singoli e deve essere assoggettata a precisi vincoli. Le precisazioni a
tale riguardo furono senza dubbio mirate a contrastare le tendenze più
rigoriste di alcune correnti espresse dall’islam, che volevano al contrario
esercitare una sorta di controllo ufficializzato ed istituzionale delle
coscienze. E’ nota in proposito la posizione della scuola teologica mu’tazilita
che, nel periodo della sua affermazione come dottrina teologica di stato
(813-831), istituì una sorta di “inquisizione” permanente affidata al prefetto
di polizia di Baghdad e ai governatori delle province. Senza scendere nei
particolari sulla portata, gli strumenti e gli effetti di tale istituzione, non
v’è dubbio che essa venne percepita dalla maggioranza dei musulmani come
un’inaccettabile costrizione in una sfera, quella dei principi dogmatici, nella
quale non si possono forzare le coscienze.
Non è dunque per
caso che il definitivo trionfo, anche politico, dell’ortodossia sunnita fu
avviato proprio dalla resistenza contro il rigorismo mu’tazilita, ed egualmente
significativo è il fatto che la reazione ortodossa contro questi eccessi di
imposizione forzata fu principalmente ispirata da Ahmad ibn Hanbal e dalla sua
scuola, considerati di solito come i rappresentanti per eccellenza del più
rigido rigorismo islamico. In realtà, la posizione hanbalita, successivamente
ribadita da tutta l’ortodossia, ha chiaramente optato più per il metodo della
correzione fraterna che non per la coercizione violenta. In tal modo il
Sunnismo, che è la confessione largamente maggioritaria nell’Islam, ha in
genere preferito limitarsi alla semplice rilevazione di un errore dogmatico o
giuridico, più raramente denunciando le innovazioni in materia dottrinale e
quasi mai giungendo alla “scomunica” (takfìr)
che, bollando degli individui o delle comunità come miscredenti, ne sancisce
per ciò stesso l’esclusione dal popolo dei credenti. E’ per questo che la
necessaria distinzione fra fedeli e infedeli o eterodossi si è manifestata più
come un atteggiamento di “presa di distanze” (barà’a) che non come un’opposizione violenta e intollerante.
In questo quadro
si inserisce ugualmente la tematica dei rapporti fra l’islam e le altre fedi.
Il concetto di ordinare il bene e dissuadere dal male non è infatti
circoscritto al mantenimento dell’ortodossia interna della comunità, ma ne
implica anche la proiezione all’esterno. La pace che regna entro i confini
dell’Islam ( e si deve qui ricordare che i sostantivi “islàm”, sottomissione, e “salàm”,
pace, sono in arabo intimamente legati in quanto derivanti da una medesima
radice sin-lam-mim) deve in via di principio essere estesa a tutto il genere
umano, ma ciò non significa, come vuole uno stereotipo alquanto diffuso, che la
religione islamica sia riconducibile ad un tentativo di imporre la vera fede
sulla punta delle spade. La nozione di “gihàd”,
che oggi l’opinione corrente degli occidentali associa inevitabilmente ad un
preteso fanatismo musulmano, è in realtà molto più complessa di quanto risulti
da una sua analisi superficiale. E’ vero che lo “sforzo” (questo è il senso
etimologico del termine gihàd) dei
credenti deve tendere ad abolire la bipartizione del mondo in due spazi nettamente
separati, la “casa dell’islam” (dàr
al-islàm) e la “casa della guerra” (dàr
al-harb), deve cioè mirare all’unificazione dell’ambiente umano in nome
della norma divina; ma con questa affermazione di principio si vuole in primo
luogo intendere quel “giogo” della sottomissione a Dio che corrisponde più
all’instaurazione di un ordine spirituale e cosmico che non ad una concreta
conquista militare della terra. La «migliore nazione mai suscitata fra gli
uomini» è tale non perché i suoi membri rappresentino di diritto un popolo
eletto, ma piuttosto in quanto è tutta tesa ad adeguarsi alla volontà divina e
a costituire l’esempio vivente in questo mondo dell’ordine che Dio si è
compiaciuto di dare all’universo. L’islam va in questo contesto inteso nella più
ampia delle sue accezioni possibili, vale a dire come l’espressione terminale e
definitiva della verità che Dio ha continuamente ribadito agli uomini,
realizzatasi con il compimento della missione del profeta e sancita dall’ultima
in ordine cronologico delle rivelazioni coraniche: «Oggi v’ho reso perfetta la
vostra religione, e ho compiuto su voi i miei favori, e m’è piaciuto darvi per
religione l’islam» (Cor. 5,3).
E’ del resto noto
che, secondo un celebre e citatissimo insegnamento del profeta, il combattimento
contro i nemici esteriori non è che una “guerra santa minore” (al-gihàd al asghar), quella maggiore (al-gihàd al akbar) essendo una lotta di
ordine puramente interiore e spirituale condotta contro i nemici dell’anima. Ma
anche limitandosi all’analisi del gihàd
nel suo senso più conosciuto, si deve rilevare come esso sia lungi dal
presentarci esclusivamente una logica di violenza intransigente. E’ lo stesso
Corano del resto a denunciare gli eccessi di violenza in proposito e a fissare
dei precisi termini di condotta per le azioni belliche: «Combattete sulla via
di Dio coloro che vi combattono, ma non oltrepassate i limiti, chè Dio non ama
gli eccessivi» (Cor., 2, 190). La trattatistica musulmana posteriore ha
variamente individuato questi limiti da non valicare, ma in estrema sintesi si
può dire che: «si tratta della condanna di tutte le forme di tortura e di ogni
violenza esercitata su donne, bambini, vecchi, schiavi o religiosi (ruhbàn) e
in modo generale di ogni crudeltà esercitata sulla persona di coloro che non
partecipano alla guerra (…). Sono ugualmente considerati come una trasgressione
della legge divina la demolizione di edifici, di strade e ponti, la distruzione
di alberi o dei raccolti, l’incendio, il massacro di animali» (da B. Hamza, Le
Coran).
Ricordiamo, per
inciso, una cosa non irrilevante alla nostra riflessione: prima che la parola “gihàd” entrasse nella terminologia
correntemente adottata da giuristi e tradizionisti (e conseguentemente dagli
storici), fatto che si registra agli inizi del IX secolo, il termine più
utilizzato per designare il combattimento alla frontiera per l’espansione dello
stato islamico è quello di “ghazw /
ghazwa”, da cui deriva la parola “razzia” e che significa in arabo
“spedizione militare, campagna, guerra”. La stessa radice gh.za.wa è stata
usata per indicare il genere storico-letterario delle “Maghàzi” in cui si narravano le gesta militari del profeta e dei
suoi primi compagni. Questa anteriorità della parola “ghazw” su quella di “gihàd”
suggerisce che originariamente il senso attribuito al termine “gihàd” non era quello di guerra
santa/non santa, comunque di conquista e offensiva, bensì era quello di guerra
difensiva o, in ambito spirituale, di sforzo, lotta contro la tendenza al male.
D’altronde, il
fatto che l’islam, anche nella teoria giuridica, non persegua un’assoluta e
totale sottomissione dal genere umano alla propria fede è dimostrato dalla cura
con la quale ha cercato di definire i rapporti interreligiosi, il che nella
storia delle religioni costituisce un esempio pressoché unico di tentativo di
istituzionalizzare e regolamentare la diversità. Il meccanismo giuridico della
“dhimma”, protezione, che l’islam
accorda agli aderenti di una religione rivelata e riconosciuta (detti: “ahl al-kitàb” genti del Libro) che si
sottomettano allo stato islamico pur mantenendo la propria credenza, non fa che
riflettere l’esplicito e tassativo ordine coranico: «Non vi sia costrizione
nella fede» (la ikràha fì ‘l-dìn,
Cor. 2, 256), parole unanimemente interpretate nel senso che nessun credente in
un libro rivelato può essere forzato ad abbandonare il proprio credo.
Il problema che
qui si pone è comunque se una religione che postula tra i doveri della comunità
che in essa si riconosce un qualche tipo di guerra possa considerarsi non
violenta e quindi non fanatica? Lo stato che si è costituito sui principi di
questa religione può presentarsi come non aggressivo e “democratico”? La scelta
metodologica di partire dal fatto religioso per giungere ad un fatto politico
più generale, invece di seguire l’evoluzione storica dello stato islamico si
giustifica con il fatto che l’islam come religione non trova la sua
collocazione primaria in un ambito soggettivo, e questa è la sua maggiore
peculiarità. Perché l’islam venga considerato un’opzione personale, bisogna
arrivare alla Turchia di Ataturk, che fissa limiti tra stato e religione e
questo tuttavia non ha impedito che attualmente
In termini
storico-evolutivi la visione religiosa islamica si pone quale superamento
dell’innovazione massima del cristianesimo rispetto ai monoteismi preesistenti,
cioè la scoperta dell’individuo: staccandosi dal mondo classico il
cristianesimo rivaluta l’uomo preso come unità, gli affida la scelta del
proprio destino e lo mette a nudo, responsabilizzandolo di fronte alla divinità
a cui è omologato, affidandogli un’anima che è divina, ed offrendogli come
modello per eccellenza, l’Uomo-Dio. La via verso l’uguaglianza degli uomini è
aperta.
L’islam accetta
la lezione del cristianesimo, collocando però Dio in una assoluta trascendenza
che esclude l’idea stessa di Uomo-Dio, e inserendo l’uomo in una socialità (
La società degli
uomini acquista così una dimensione religiosa e ad essa l’islam tende a dare la
sua legge come legge universale. E’ religione quindi, ma comprende nella sua
sfera specifica la prassi sociale. Il che porta ad una “statalità islamica” e
non ad una religione di stato, come talora è stato dedotto.
Tornando al gihàd, esso rientra tra i doveri di una
comunità che ha come ultimo fine la trasformazione progressiva del mondo in
società islamica, quindi l’esportazione della civiltà islamica. Il singolo è
tenuto a compiere tale dovere solo dietro precisa sollecitazione dal parte del
sovrano, quando se ne presenti la necessità, e nel caso in cui la sua
situazione personale glielo consenta: ad esempio, per partecipare al gihàd si deve ottenere in consenso da
parte dei genitori. La mobilitazione generale non è mai richiesta, è
sufficiente che in qualche modo lo spirito informatore del gihàd rimanga vivo all’interno della comunità. Si tratta di una
mobilitazione indotta e lo è in primo luogo da sollecitazioni esterne che
rendano indispensabile una presa di posizione, difensiva nella sostanza, di
attacco nella teoria conseguentemente al principio per cui un musulmano può
realizzare al meglio la sua vita solo all’interno di uno stato islamico. E’
evidente che, nella pur negativa applicazione che se ne può fare e che se ne è
fatta in epoca recente, è ancora il gihàd
che esprime per le masse la necessità di difendere il proprio territorio
nazionale. Naturale è anche l’utilizzazione reazionaria ed utilitaristica del
termine che sovrani o governi del mondo islamico possono aver fatto o fare.
Si è parlato di
“mobilitazione indotta”: un altro elemento che la provoca, in epoca moderna, è
la coscienza acquisita, non certo spontanea nella mentalità islamica, di
essere, in quanto civiltà islamica, un fatto “orientale”, locale, indigeno e
ciò induce ad intendere il gihàd in
senso missionario, come del resto il Corano sottolinea. Ma, mentre nella storia
delle conquiste arabe e dell’espansionismo pre-coloniale, il fine dello stato
islamico era sempre esplicitato, in questo caso si intende una penetrazione
culturale attraverso canali religiosi. Questo gihàd moderno, essendo affidato all’iniziativa dei singoli, implica
una rete di interessi molto più ambigua in campo economico e anche ideologico
(si pensi alla propaganda dei Fratelli Musulmani in Africa nera o la propaganda
salafita in Asia Centrale), il cui espansionismo è per molto tempo apparso all’Occidente
assai meno preoccupante, non essendo apparentemente in gioco nessuna minaccia
da parte di una statalità islamica. L’Islam oggettivamente diventa la linfa di
qualsiasi spinta nazionalista o anti-imperialistica dei paesi o delle
popolazioni che lo accettano, ma che agiscono mossi da concezioni e secondo
metodi appresi dall’esterno (prevalentemente secondo la lezione appresa
dall’esperienza coloniale).
Resta tuttavia
aperto il problema di capire se la teorizzazione del gihàd corrisponda necessariamente ad un imperialismo di stato: non
si può non tornare sulla posizione del credente di fronte a Dio e di fronte
alla comunità a cui appartiene. Il Corano dice che Dio predilige «quelli che
combattono sulla via di Dio, dando i beni e la vita» a «quelli che se ne
restano a casa, eccetto i malati» (Cor, 4, 95) e il paradiso islamico prevede
una posizione privilegiata per il combattente martire. Scontato l’impulso a
sacrificarsi per la propria salvezza, resta da vedere la valenza per così dire
sociale del gihàd: il concetto del
dovere del suddito musulmano che individualmente partecipa dello stato, e
quindi non solo dell’Umma, attraverso
tale funzione. La peculiarità del gihàd
rispetto agli altri obblighi cultuali o sociali risiede nel fatto che
l’individuo che lo pratica riceve nello stato la sua individuazione come
appartenente alla maggioranza, cioè all’Umma,
che si esplica all’esterno e si convalida nei confronti della minoranza, e si
rende responsabile in prima persona esprimendo una forma di consenso al capo
che ha il diritto/dovere di proclamare il gihàd,
e acquisendo contemporaneamente una posizione nella struttura che gestisce il
potere e una coscienza della propria collocazione socio-politico-religiosa. Il
credente che combatte il gihàd è a
posto con Dio ma lo è anche con la comunità che assolve per suo tramite un
dovere preciso, e con lo stato che lo dirige e che viene così riconosciuto.
L’esercito del gihàd è composto quindi di musulmani
che, come i beduini arabi convertiti all’islam, si riconoscono nell’Umma anche attraverso la conquista, ma
qui la finalità non è costituita né dalla razzia né da una conquista intesa
come riaffermazione religiosa (che era lo slogan della crociata), bensì dalla
dilatazione di una “pax islamica”
nell’accettazione, almeno nominale, delle peculiarità dei paesi e dei popoli
assoggettati alla legge islamica. L’esercito del gihàd non è un’istituzione stabile ma viene convocato a seguito di
spinte oggettive, evidenti e puntuali, non soltanto dietro la latente volontà
di espansione.
Concezione del gihàd e fondamenti della politica
internazionale islamica sono strettamente connessi se ci poniamo in una
prospettiva di lettura storica del passato dell’Islam.
In epoca
post-coloniale e fino agli anni ’70 del XX secolo i problemi internazionali dei
singoli stati erano generalmente individuati secondo la loro ottica nazionale,
nonostante che la civiltà islamica non fosse superata e una cultura islamica,
sia pure con i suoi aspetti anacronistici, fosse vissuta da larghi strati della
popolazione. Una possibile rottura, in senso evolutivo, progressista e non
alienante, con il proprio passato non può che articolarsi secondo direttive
nazionali, realisticamente legate a contesti specifici. Il che non esclude,
proprio nella storia più recente del mondo islamico, il richiamo, spesso
fortemente sentito da parte delle popolazioni interessate, a concetti
universalistici, presentati formalmente come retaggio islamico, pensiamo ai
movimenti panarabi e panislamici. Il recupero della propria cultura non sta
nel riproporre un califfato, sia pure di tipo nuovo, in quanto la sua funzione
di coordinamento non si porrebbe nello spirito di guida illuminata e di garante
della legge canonica (di fatto non più operante nella maggioranza dei paesi) ma
avrebbe un ruolo di supremazia politica, fautrice di interessi specifici di
gruppi più o meno ristretti. Lo stato islamico è caduto, e con esso qualsiasi
possibilità di ritorni nostalgici.
Quello che rimane
attuale è un linguaggio religioso nella sostanza, vista la simbiosi originaria
nell’islam tra fatto religioso e fatto sociale. Non si tratta dei riferimenti,
quasi sempre superficiali, ad un Saladino o ad un altro personaggio storico,
quanto a tutta una serie di riferimenti che ogni civiltà ha alle sue spalle e
che danno luogo ad un codice etico di cui si perde la nozione culturale ma che
resta vivo ed operante a livello inconscio. Questo vale anche per la conduzione
della politica internazionale.
Tornando alla
prassi internazionale adottata dall’islam nella sua storia secolare, uno stato
islamico unitario fu operante solo nei primi tre secoli dell’islam, essendo
autorizzate entità autonome o semi-autonome, di preferenza alla periferia
dell’impero, fin dal IX secolo. Eppure è legittimo parlare dell’esistenza di
uno stato islamico in un arco di tempo molto più dilatato. Non si tratta del
formale riconoscimento dell’autorità califfale, né del consolidamento delle
forze interne sotto una dominazione straniera (quale fu quella mongola, per
esempio), ma si tratta della centralizzazione delle direttive della politica
internazionale, valida anche per le entità di fatto autonome dal potere
centrale. Nonostante i conflitti interni e le guerre regionali, la possibilità
di dichiarare il gihàd rimase a lungo
competenza del potere centrale, a cui erano sottoposti i giuristi esperti nella
legge canonica che avevano il compito di determinare se ci fossero le
condizioni oggettive per la legalità della guerra. Quando il mondo islamico
prenderà atto del suo frazionamento (XVI sec), troveremo l’Impero Ottomano e
Quale è allora la
possibilità della convivenza con altri stati? La contraddizione tra la
necessaria conquista del mondo per instaurarvi lo stato islamico e la
sopravvivenza di altri stati può sembrare insormontabile. L’islam la supera
storicisticamente: il gihàd non è
un’aggressione, il nemico deve essere avvertito e garantito, il riconoscimento
nominale dell’autorità del califfo viene considerata equivalente
all’ammissione, da parte del nemico, della validità della concezione islamica e
quindi dello stato islamico. La richiesta di tale riconoscimento fu per secoli
una costante nelle relazioni tra califfato e impero bizantino. La conquista
territoriale in quanto espressione della politica espansionistica degli stati
sarà praticata dagli stati islamici anche quando l’autorità califfale sarà un
ricordo del passato. La conquista islamica del mondo si pone in costante
adeguamento dei metodi necessari per acquisire gli altri alla propria ideologia,
e storicamente fra questi metodi vi è l’ammissione di un’entità diversa, purché
non ostile, aggressiva, pericolosa per la comunità islamica, comunità e non
stato.
Nella storia più
recente il problema vero del mondo islamico non è stato tanto quello di
prendere atto del fallimento della propria concezione ecumenica che avrebbe
potuto trovare altre forme per esprimere nello spirito l’unità del mondo sotto
l’unico sovrano possibile, che è Dio. La convivenza era un fatto acquisito,
dopo Lepanto come dopo Poitiers: entrambi gli episodi sono un fatto politico e
uno scontato riconoscimento del diverso da sé, con il diritto a vivere e ad
esprimersi che gli compete, pur nella volontà di integrarlo nella propria
realtà, sempre come diverso, ma interno e non esterno al proprio sistema.
Il problema vero
del mondo islamico è legato all’esperienza coloniale: per la prima volta il
mondo islamico, che pure aveva subito la dominazione degli infedeli (è il caso
dei Mongoli) si sentì negato come tale, si sentì privato di ogni mezzo di
espressione, sentì l’oppressione, prima ancora che sui fatti
economico-politici, sui fatti sovrastrutturali. Inizia così un nuovo ciclo di
teorizzazione dei principi islamici che devono costituire l’asse portante di
una società islamica giusta e moderna: teorizzazione che darà origine al
cosiddetto modernismo islamico, la cui storia è strettamente legata alle
vicende politiche del mondo islamico del XX secolo.
L’esperienza del
nazionalismo sia borghese che socialista ha registrato quasi ovunque fallimenti
dolorosi le cui cause, interne ed esterne, sono fin troppo facilmente
individuabili: l’autoritarismo, la repressione, la corruzione, l’incompetenza,
la miseria sociale ed economica esigono il cambiamento. Il rifiuto dello stato
nazionale laico è diventato uno dei caratteri del fondamentalismo islamico: non
è questione di rinascita del religioso, bensì di una ideologia politica che,
attraverso la politicizzazione di elementi secondari, scelti arbitrariamente,
dell’islam, persegue l’istituzione di possibili alternative allo stato
nazionale laico quale esso è attualmente realizzato nel mondo musulmano. E se
le fonti, il linguaggio e il vocabolario normali del pensiero politico nella
società musulmana si fondano storicamente sul Corano e sulla Tradizione, i
fondamentalisti si rivolgono al passato non tanto per cercarvi un modo di vita
quotidiana da imitare ai nostri giorni, quanto per cercarvi un modello
filosofico. Ma esiste una varietà di posizioni sulle conseguenze politiche che
bisogna desumere dal dogma. Come tradurre il modello filosofico nella vita
contemporanea? La democrazia è sentita come un valore fondamentale, insito nel
concetto islamico di “consultazione” (l’idea che il governo deve riflettere i
desideri del popolo a cui Dio ha fatto dono della ragione) e quindi, in quanto
tale, perseguita; oppure l’alternativa proposta non è che una variante storico
temporale di un totalitarismo permeato di modernità?
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