N. 4 – 2005 – Memorie

 

 

Gian Savino Pene Vidari

Università di Torino

 

Guerra e diritto nel pensiero di Pietrino Belli

 

Nel 2002 il quinto centenario della nascita ha di nuovo attirato un certo interesse su Pietrino Belli, autore di un De re militari et bello tractatus edito una prima volta nel 1563 ed una seconda nel 1583 nel volume XVI dei Tractatus Universi Iuris dello Zilletti[1].

Alla figura del Belli ed alla sua opera è stato dedicato nel novembre 2002 un convegno nella sua città natale (Alba)[2], la cui eco si è sentita anche nella comunicazione tenuta da Dominique Gaurier alle “Journées internationales de la Société d’histoire du droit” tenute ad Aix en Provence nel maggio 2003[3]. Il Belli era già stato una prima volta riportato all’attenzione degli studiosi alla metà dell’Ottocento da Pasquale Stanislao Mancini[4] e rivalutato da una ristampa oxfordiana (con traduzione inglese) tra i “classici” del diritto internazionale nel 1936[5], ma la sua fama è nel complesso oscurata dagli autori che lo hanno seguito, Alberico Gentili e soprattutto Ugo Grozio. Quanto a quest’ultimo, il salto concettuale e qualitativo è indubbio, probabilmente meno per il primo. Senza eccedere nelle lodi attribuite dal Mancini, può rivelarsi opportuno un riesame sintetico ed equilibrato della personalità e dell’opera di Pietrino Belli proprio per la considerazione data alla guerra in una prospettiva giuridica.

La valutazione del suo De re militari et bello, probabilmente preparato già via via nel corso della sua funzione di giudice militare ma definitivamente compilato nel 1558 ed edito nel 1563, continua a far discutere, perché c’è chi da una parte – sulla scia di Mancini – lo ha considerato il primo autore del diritto internazionale moderno[6], trent’anni prima di Alberico Gentili ed oltre mezzo secolo prima di Grozio (anche se nel complesso ad essi inferiore), dall’altra chi ne ha ridotto il rilievo a sensibile interprete di problemi giuridici della guerra d’età moderna, risolti però da una prospettiva in buona parte ancora medioevale[7]. Lo stesso Piero Craveri, che con Lino Marini ha curato la puntuale ‘voce’ del “Biografico” edita nel 1965, ha richiamato l’autorità di Francesco Calasso per far notare, che «manca in realtà tuttora una valutazione storica esauriente dell’opera del Belli che tenga conto dei nuovi orientamenti della storiografia giuridica, che hanno di molto modificato la prospettiva attraverso cui guardare alla scienza del diritto internazionale del sec. XVI»[8].

Pochi cenni biografici possono essere utili per inquadrare il personaggio, la sua mentalità e la sua opera[9]. Nato nel 1502 da notabile famiglia albese, si trova ben presto coinvolto nei contrasti militari locali e nelle più vaste guerre che travagliano il territorio subalpino per tutta la prima metà del sec. XVI e si schiera, coi suoi familiari, per i Gonzaga, signori della sua città e del marchesato del Monferrato e di conseguenza per il “partito” filoimperiale e spagnolo. Dopo alcuni incarichi giudiziari locali, dal 1546 Pietrino Belli è uditore generale di guerra presso le truppe spagnole ed ha quindi ampia occasione di prendere conoscenza non solo delle atrocità ma anche delle assurdità (a volte “gratuite”) della guerra del tempo, a cui aspira sia posto un freno da regole giuridiche “ragionevoli”. Lui stesso e la sua famiglia sono d’altronde coinvolti nelle lotte e nelle vendette locali e ne subiscono pesanti conseguenze da parte del “partito” francese: a mio giudizio queste vicende personali vengono ad influire sensibilmente nelle sue valutazioni, sia contingenti che generali, sulle “brutture” della guerra, non sempre inevitabili.

Nei poco più di dieci anni in cui il Belli svolge la funzione di uditore generale di guerra al soldo spagnolo provvede già a raccogliere alcuni spunti per il suo futuro trattato, come sembrano indicare le relativamente “datate” citazioni contenute nel De re militari et bello, che risulta però redatto nel 1558, terminato il periodo di lavoro per gli spagnoli.

Dopo una trattativa coi Gonzaga per essere nominato nel Senato di Casale, non conclusa per motivi economici, nel 1560 Pietrino Belli passa al servizio di Emanuele Filiberto di Savoia, di cui resta fedele ed apprezzato consigliere e collaboratore sino alla morte, avvenuta nel 1575.

Compiaciuto titolare di feudi monferrini, il Belli presta quindi i suoi “servigi” presso un altro principe, ma resta pur sempre legato a quel “partito” imperiale, presso il quale – tra i Gonzaga, gli Spagnoli ed i Savoia – ha militato per tutta la vita. Nel quindicennio di attività per Emanuele Filiberto si segnala con successo quale incaricato del recupero di terre e piazzeforti sabaude in mano straniera e dimostra quindi il suo valore più nella pratica delle trattative diplomatiche che nella pura scienza giuridica. Nello stesso tempo constata di persona le difficoltà concrete e le insidie di soluzioni arbitrali sostitutive della guerra, poiché si trova invischiato proprio come arbitro – con grave danno al suo prestigio personale – in una controversia fra il duca di Modena ed il granduca di Toscana. Giurista pratico dalla lunga esperienza, tocca perciò direttamente con mano la complessità dei rapporti della politica internazionale del tempo, quali uno studioso dal suo scrittoio ben poco può prevedere o percepire.

Pietrino Belli è stato a lungo giudice militare; è vissuto nel Piemonte tormentato dalle guerre europee per almeno un trentennio prima della pubblicazione del libro; ha potuto a lungo meditare sui disastri operati in quel periodo da truppe sia nemiche che amiche; ha visto in conseguenza di ciò scomparire fortune e persone, e ne è stato direttamente e pesantemente coinvolto; ha preso atto dei cambiamenti intercorsi nel modo di condurre la guerra, sempre meno ‘arte’ e sempre più distruzione; da giurista desideroso di trovar regole di comportamento, si è reso conto che queste invece o mancavano o non avevano più punti di riferimento, come gli sembrava in buona parte avvenisse in passato; tutto questo travaglio e la sua diretta esperienza ‘sul campo’ lo hanno indotto a fissare per iscritto – da giurista – un complesso coordinato di osservazioni sull’auspicabile comportamento bellico, con l’occhio volto alla pratica e con la prospettiva di giovare in futuro alla pratica stessa[10].

Pietrino Belli non è mai stato professore di diritto, nemmeno all’Ateneo torinese praticamente rifondato da Emanuele Filiberto, perché il duca ha preferito averlo come collaboratore diretto nella politica interna e soprattutto estera[11]: era un operatore del diritto, che in un periodo un po’ più calmo della sua vita, con indubbie capacità e competenza, ha avuto l’ambizione di mettere in buona forma le sue riflessioni e le sue esperienze, nella speranza che potessero essere utili per una soluzione giuridica dei problemi bellici del tempo. Da più parti si è notato che nel libro manca un certo coordinamento, che lo stile è grezzo, che c’è discontinuità sia di trattazione che di esposizione, che non emergono con chiarezza princìpi generali a cui collegare la casistica esaminata[12]. Pietrino ha dato il suo contributo così com’era, secondo l’esperienza via via maturata, da pratico del diritto ad altri pratici. Può averlo contornato di citazioni dotte (in specie di storia romana), delle “auctoritates” dottrinarie a lui più congeniali, in ossequio alla tradizione del tempo; ma non si è poi nemmeno dilungato troppo nel limare l’opera, nelle disquisizioni scolastiche fra i pro ed i contra, nella ricerca pleonastica di lussureggiante dottrina[13].

Il Belli non è un teorico che, come il chierese Matteo Gribaldi Mofa o lo stesso Alberico Gentili, disquisisce sul metodo da seguire nell’interpretazione, direttamente la fa; cerca di motivare in modo adeguato le sue affermazioni richiamando l’opinione di altri giuristi, ma senza infarcirle di eccessivi elenchi, inutili nell’economia dell’opera, a sola ostentazione della propria erudizione, secondo una frequente tendenza dell’epoca. E’ un pratico, portato a chiudere il discorso piuttosto che a riaprirlo continuamente, secondo un’altra propensione del “dotto” giurista del tempo[14]. Non è l’intellettuale Alberico Gentili esule professore a Oxford né l’altrettanto tormentato Ugo Grozio esule a Parigi, che hanno ben altro tempo per rifinire il proprio lavoro (che poi le sue imperfezioni e discontinuità le ha pur sempre): messo insieme il suo scritto, lo fa stampare e nel frattempo si occupa dei non lievi problemi politici del ripristinato Stato sabaudo, dato che dal 1560 è stato chiamato da Emanuele Filiberto nel suo ristretto Consiglio di Stato. Il periodo della giustizia militare e della guerra per lui si è chiuso; ora c’è da ricostruire la pace.

Nel 1563 il libro è pubblicato, in piccolo formato, adatto ad essere utilizzato da altri giuristi - avvocati, giudici, politici- per le incombenze del caso. Non è edito per le biblioteche e le scrivanie dei ‘dotti’, in gran formato, come la gran parte delle edizioni giuridiche dell’epoca: è in ‘ottavo’, per la maneggevolezza che richiedono la pratica e la vita sul campo. Se si entra in quest’ottica, si può capire che l’obiettivo ‘scientifico’ non è trascurato dal Belli, ma non è quello assoluto: per il Gentili e per Grozio, invece, l’inquadramento generale ha un peso ben diverso, anche se entrambi non ignorano certo le conseguenze pratiche di determinate impostazioni teoriche.

La ‘modernità’ del Belli sta nella sensibilità e nell’umanità con le quali per primo affronta i problemi giuridici della guerra e del panorama internazionale in cui si svolge, nella tormentata preoccupazione con la quale ricerca tanto nuovi parametri per la “guerra giusta” quanto strumenti per evitarla se possibile, o accorgimenti per renderne comunque meno gravi le conseguenze per la popolazione ed i territori che la subiscono. Egli non disdegna a volte di richiamarsi ai pochi autori che lo hanno espressamente preceduto, come Giovanni da Legnano, Martino Garati o Giovanni Lupi – che all’occasione cita[15] – e costruisce per lo più le sue argomentazioni sulla tradizionale (anche un po’ vecchiotta) dottrina giuridica medioevale, nonché su princìpi di morale o di diritto naturale desunti dal diritto comune del tempo; lo spirito però con cui affronta i problemi – indubbiamente gravi – dei rapporti fra i príncipi e della guerra del tempo è senza dubbio più vicino al nostro modo di pensare che a quello medioevale.

Suscita quindi profonda perplessità – se non peggio – il successivo atteggiamento di Alberico Gentili, che non poteva non conoscere l’edizione del Belli, ma che mai lo ricorda nella sua opera e lascia ad un moderno lettore l’impressione di averlo ampiamente ‘saccheggiato’ senza volerlo volutamente riconoscere[16]. Pur se si vuole considerare con benevolenza che in una società che ignorerà ancora a lungo la proprietà intellettuale ed il diritto d’autore ci siano notevoli margini di comprensione in proposito[17], non si può non notare la doppiezza di comportamento dell’intellettuale marchigiano trapiantato ad Oxford. Il contesto in cui egli usa il pensiero del Belli può a volte essere anche diverso, ma resta il fatto che il limite della correttezza pare ampiamente superato, proprio per il completo silenzio, che porta al sospetto della premeditazione[18].

Una serie di circostanze concatenate, per quanto fortuite e fra loro indipendenti, ha impedito al Belli di acquisire nel tempo quella notorietà, che solo dall’Ottocento in poi gli è in ridotta misura stata restituita. Di una si è già detto: quella di essere stato più un ‘pratico’ che un teorico, con la conseguenza che il “tractatus” sia stato sottovalutato proprio da chi ha ricostruito le tappe della “scientia juris”. Se però si riflette sul fatto che nella società il diritto viene per lo più considerato non in astratto ma in funzione della soluzione ‘ragionevole’ delle controversie, allora viene a prendere tutta un’altra importanza la pratica, e la teoria generale del diritto è ridotta a mero strumento per favorire le soluzioni di quest’ultima. Il discorso però a questo punto si amplierebbe troppo: finisce col dipendere dalle concezioni che si hanno sulla funzione del diritto e sul ruolo del giurista nella società. Certo, a me sembra che non si possa mai ignorare che, se la “scientia juris” è importante, ha un senso in quanto non sia fine a se stessa, ma in connessione con la rispondenza del diritto alle esigenze concrete della vita. E proprio di ciò il Belli ha dimostrato di essere pienamente consapevole.

Non gli hanno giovato sia il momento storico in cui si è trovato a comporre l'opera, sia la sua collocazione politico-ideologica. Monferrino -cioè all'epoca gonzaghesco- è uditore di guerra "cesareo" e sempre sarà schierato nel campo imperiale contro il 'nemico' francese, che peraltro occupa buona parte del Piemonte e gli arreca non pochi danni[19]; al termine delle lunghe ostilità passerà al servizio di Emanuele Filiberto, che è pur sempre della stessa 'parte' e dedicherà il suo libro a Filippo II re di Spagna[20]. Alla fin fine è questa la parte vincitrice, ma la reviviscenza del 'mito' imperiale ripresa da Carlo V non regge di fronte alla realtà e -nonostante il successo bellico- Pietrino deve prendere atto della frammentazione politica europea, senza che il potere 'imperiale' possa riproporsi come principio unitario di guida. Il Belli non è certo l'unico a rendersene conto, ma è lucido nel percepire la definitiva fine di una certa impostazione -anche giuridica- dei rapporti fra i principes dell'epoca: dedica, d'altronde, la sua opera al "re" di Spagna e lavora ormai per il duca Emanuele Filiberto di Savoia, che si richiama al vicariato imperiale per legittimare il suo potere, ma si comporta in effetti come vero titolare della sovranità[21]. Il giurista albese è consapevole della crisi del sistema sul piano dei rapporti fra prìncipi (cioè fra Stati), che nemmeno la guerra finisce col risolvere: vuole fissare almeno qualche regola sia per il jus ad bellum che per il jus in bello, vede con favore l'arbitrato, si preoccupa sia dei beni occupati dai belligeranti che delle popolazioni coinvolte nella guerra. La sua sensibilità per i problemi e le sue prospettive sono però pur sempre quelle di un "cesareo" della metà del Cinquecento, cioè di un secolo prima della pace di Westfalia: il passar del tempo, le riflessioni di più persone, le vicende della politica internazionale faranno maturare impostazioni e soluzioni, che non possiamo pretendere di trovare appieno nel "De bello" del 1558-63. A metà Cinquecento il Belli ci offre tutta una serie di valutazioni, che nel secolo successivo avranno completamento scientifico nel più consapevole e raffinato "De jure belli ac pacis" di Ugo Grozio[22].

Cattolico e filospagnolo, resta legato saldamente alla bontà dell'ordine europeo imperniato sul messaggio della Chiesa romana ed esclude perciò contatti o considerazione verso gli "infedeli", siano i musulmani o gli indios[23], così come è sordo alle istanze delle "chiese riformate"[24]. E questo -soprattutto questo- sembrerà ai dottrinari successivi un'imperdonabile insensibilità intellettuale, non essendo pluralistica nel campo religioso ed umanitaria verso i popoli extraeuropei, da parte di chi peraltro è stato direttamente impressionato dalle brutture della guerra fra cattolici ma sembra un po’ distratto o superficiale nel battere nuove strade di rapporti 'esotici'. Pietrino quindi non è portato a dare spazio né alle tormentate valutazioni di Francesco De Vio “il Gaetano” o di Francesco de Vitoria per gli indios[25] né alle aperture di libertà o di tolleranza religiosa avanzate da giuristi come Matteo Gribaldi Mofa o come numerosi aderenti all’umanesimo giuridico, oppure da altri intellettuali del tempo. E' l'operatore del diritto che ha vissuto l'esperienza bellica padana, che non segue le dispute religiose ed intellettuali dell'umanesimo europeo e preferisce attestare casomai la sua cultura 'classica' tramite citazioni ed esempi della storia romana piuttosto che inoltrarsi nei raffinati dibattiti umanistici di metà Cinquecento.

Il giurista albese è molto legato all’area subalpina ed ha potuto constatare direttamente le tristi conseguenze di annosi contrasti bellici, condotti senza scrupoli o esclusione di colpi: rapacità di eserciti, violenze su civili, vessazioni su popolazioni inermi, soprusi militari, rifiuto di restituzione del maltolto, e così via. Il suo sdegno, soffuso di umanità, traspare a più riprese nel libro[26]. Ed è verso questo ambiente, duramente provato da lunghi anni di guerra, che va il suo sincero interesse, forse piuttosto locale e contingente, certo non sensibile ai problemi di mondi distanti dalla sua visione, come quello degli infedeli o delle popolazioni americane. E’ per gli stretti legami con la zona che ha davanti a sé che cerca, con gli strumenti di cui dispone – quelli giuridici – di proporre prospettive d’ordine e di miglioramento, quali  quelle di una certa valutazione della guerra e di una sua disciplina, di regole per la dichiarazione e lo svolgimento, dell’arbitrato, della restituzione delle terre occupate a guerra finita, del rispetto delle popolazioni locali, e così via.

Ben diverso sarà -alcuni decenni dopo- l’ambiente culturale a cui si riferiranno il Gentili o il Grozio, certo non legati all'ortodossia cattolica perché entrambi problematicamente di religione riformata, interessati al panorama intellettuale europeo contemporaneo, sostenitori ormai della necessità di un nuovo ordine internazionale basato sui princìpi di ragione al di fuori dell'influenza della religione. Proprio la Seconda scolastica spagnola, ancora cronologicamente ignota al Belli nonostante la sua adesione politica "cesarea", ha segnato un solco fra religione, diritto e rapporti internazionali, delle cui conclusioni saprà servirsi soprattutto Ugo Grozio per costruire sopra prìncipi e Stati un diritto naturale, di cui il giurista albese ha sentito la mancanza ma non è riuscito ad individuare un'autonoma esistenza[27].

Il panorama culturale in cui si muove Pietrino Belli è meno ampio e soprattutto meno frastagliato di quello del Gentili o di Grozio, che anche solo per le proprie vicende personali hanno acquisito quelle esperienze europee che nel complesso mancano all'albese, le cui stesse lineari adesioni politiche possono apparire di freno alla "modernità". Per estrazione sociale e mentalità egli è un giurista della tradizione, addottoratosi con ogni probabilità nella prestigiosa ma un po’ tradizionale Perugia del tempo; si segnala non per dispute teoriche, ma per aver prestato a lungo la sua opera di tecnico del diritto nel campo "cesareo"; ricerca signorie feudali, che ottiene in Monferrato prima della stesura del libro ed a cui sembra orgogliosamente attaccato[28]. Di notabile famiglia comunale albese, rivela una concezione di vita aristocratica, ben collegabile all'ambiente cattolico-imperiale in cui opera, sensibile ai valori di fedeltà tipici dell'impostazione feudale: si contrappone quindi all'umanesimo giuridico, alle 'nuove' esperienze della monarchia francese, all'accettazione di spazi per una religione diversa da quella dell'ortodossia cattolica, in altre parole a tutto un bagaglio culturale, che è in genere considerato quello del mondo "moderno".

L’edizione del De re militari et bello non inserisce il Belli nella parte più vivace ed attiva della scienza giuridica europea, nel giro delle conoscenze intellettuali o nei canali della cultura contemporanea, fra dotti ed umanisti, che si soffermano sui princìpi con cui superare i mali del tempo. Egli, d’altronde, è un pratico estraneo a questa vita intellettuale, profondamente radicato in Piemonte, nelle vicende della politica subalpina: conosce e cita i giuristi tradizionali, da Bartolo a Baldo[29], da Paolo di Castro a Raffaele Fulgosio o Giason del Maino[30], giunge sino all’Alciato[31], ma oltre non va[32], e fra i canonisti ritorna sempre sui classici, Ostiense, Sinibaldo dei Fieschi, Niccolò dei Tedeschi, spingendosi fino a Felino Sandeo[33]. Tra tutti, i più citati sembrano quindi fra i civilisti Bartolo e Baldo, cosa più che comprensibile per un giurista pratico dell’epoca, e non solo perché di formazione perugina; fra i canonisti il più utilizzato pare l’Abbas panormitanus, ed anche questo è ragionevole. Proporzionalmente, sono forse fin troppo richiamati giuristi subalpini come il Nevizzano, il Bruno, Giacomino da San Giorgio o Angelo Carletti, ma non si deve ignorare il forte legame di Pietrino con l’area territoriale in cui è vissuto[34].

Il Belli non sembra inoltre molto aggiornato sulle opere dei giuristi contemporanei, né preoccupato di esserlo. Si può prendere ad esempio quanto avviene riguardo alla trattazione dei privilegi dei militari. Dopo averli esaminati con una certa attenzione[35], alla fine dichiara di chiudere l’argomento[36], ma precisa subito dopo che a lavoro ormai terminato gli è giunto tra le mani il trattato del Mantova in proposito: precisa perciò che il lettore deve sapere che – se le fonti possono essere anche le stesse – le due opere sono state condotte in modo fra loro autonomo[37]. E così conclude, senza alcuno scrupolo di aggiornamento del suo lavoro.

Il De privilegiis militaribus è datato dal Mantova al 1541[38] ed è quindi terminato circa un quindicennio prima di quando il Belli ha avviato il suo libro, probabilmente con materiale già in precedenza in parte raccolto o scritto: sarebbe stato ragionevole che, all’atto di coordinare il suo elaborato per la stampa, egli lo rivedesse su questo argomento alla luce del trattatello specifico del Mantova, docente patavino di notevole fama internazionale. Ciò però non è avvenuto. Pietrino ha lasciato il suo testo così com’era: si è preoccupato non tanto di offrire al lettore su questo punto una trattazione aggiornata alle ultime opinioni, quanto piuttosto di rivendicare solo l’autonomia della propria elaborazione intellettuale[39]. Le sue espressioni, anzi, lasciano quasi intravvedere un certo disinteresse per l’opera altrui[40], senza quella curiosità scientifica onnicomprensiva propria dello studioso: egli si conferma quindi soprattutto un pratico del diritto, portato a diffondere ad altri operatori del diritto i frutti delle osservazioni maturate dalla sua esperienza concreta.

In questa prospettiva può essere perciò abbastanza facilmente compreso che il Belli trascuri il filone – tendenzialmente filofrancese e ‘riformato’ – dell’umanesimo giuridico, che peraltro viene affermandosi proprio nelle edizioni degli anni centrali del Cinquecento e non gli è nel complesso noto quando egli sta man mano redigendo l’opera, senza che poi si curi di aggiornarla prima della stampa. Così si può capire il silenzio su Cuiacio, ma ciò vale anche per quello – più significativo – su Francisco de Vitoria: eppure si tratta del padre della “Seconda scolastica” spagnola, quindi di un filone culturale della ‘parte’ a cui è legato, dal quale trarranno le mosse i concetti basilari del moderno diritto internazionale. Si tratta anche qui di opere che, per quanto precedenti, vedono le stampe solo alla fine degli anni Cinquanta del secolo, troppo tardi perciò perché il Belli si aggiorni su di esse. Di spagnolo egli cita quindi per lo più qualche volta il più risalente Giovanni Lupi da Segovia, mentre fra i tomisti anteriori alla Scuola di Salamanca fa un buon uso dell’opera del De Vio[41], senza peraltro seguirne le umanitarie osservazioni riguardo agli indios, in certo senso precorritrici di quelle del Vitoria[42].

Se la Scuola di Salamanca è il ponte fra le costruzioni del diritto naturale di tradizione cristiana e quello ‘moderno’ di Grozio, Pietrino Belli non vi passa e resta ancorato alla tradizione delle fonti canoniche ‘classiche’, si ispira ad un ius gentium di ascendenza medioevale ed all’ortodossia cattolica[43], che segue – contro il pluralismo religioso umanistico – nel rifiutare riconoscimento agli “infedeli” e – contro i teologi umanitari – nella giustificazione del trattamento dei conquistadores verso gli indios[44]. Come ignora la parte più ‘innovativa’ della cultura del suo tempo, così ne è praticamente ignorato; riscuote successo – anche economico – nella politica, non presso i cenacoli intellettuali, dispensatori di fama impalpabile ma non di vil denaro.

Pietrino Belli ha avuto feudi, soddisfazioni politiche e gratificazioni economiche nel Piemonte di Emanuele Filiberto[45]; fra i giuristi  che reggono le sorti dello Stato sabaudo tra Cinquecento e Seicento ci sono lui ed il figlio Domenico[46], che sposerà la figlia del gran cancelliere di Savoia e sarà gran cancelliere lui stesso[47]; la famiglia si inserisce fra quelle che ‘contano’ nella nobiltà sabauda[48]. Il successo materiale non è mancato. Minore è stato quello culturale del libro, cosa che invece – col tempo – ha ripagato Alberico Gentili e Ugo Grozio di quel poco che – da intellettuali – avevano raggiunto in vita. Si tratta di valutare, ex post, secondo le diverse preferenze, quale fra questi successi possa essere più lusinghiero. In fin dei conti, si tratta però di considerazioni che a distanza di secoli possono lasciare anche un senso di relativa importanza, ma che possono dipendere pure dalla stessa funzione che si affida al giurista, se lo si vuole votato alla pratica operativa piuttosto che alla speculazione teorica, indirizzato soprattutto a risolvere le controversie del presente oppure teso alla individuazione delle regole di vita della società.

 

 



 

[1] P. BELLI, De re militari et bello, Venetiis 1563 (per i tipi del Portonari); De re militari et bello, tomo XVI, Venetiis 1583, cc. 335 r. – 371 r.

 

[2] «Un giurista tra principi e sovrani: Pierino Belli a 500 anni dalla nascita». Del Convegno di studi, organizzato dalla Fondazione Ferrero di Alba, è in corso l’edizione delle relazioni. Buona parte di questa relazione è tratta da quella da me tenuta in quella sede.

 

[3] D. GAURIER, L’une des pierres sur le chemin qui mène à Grotius: Pietrino Belli, un précurseur? Il Gaurier, maître de conférences dell’Università di Nantes, sembra intenzionato a procedere ad un’altra traduzione del De re militari et bello, oltre a quella inglese (cfr. infra, nota 5). Sono note le perplessità di numerosi esperti circa le traduzioni in volgare di opere di giuristi del periodo del diritto comune: nel caso del Belli, se ne avrebbero addirittura due, senza ricostruzione critica delle “auctoritates” da essi citate.

 

[4] P.S. MANCINI, Della nazionalità come fondamento del diritto delle genti. Prelezione al corso di diritto internazionale e marittimo pronunciata nella R. Università di Torino dal professore Pasquale Stanislao Mancini nel dì 22 gennaio 1851, Torino 1851, 15-17.

 

[5] P. BELLI, De re militari et bello tractatus, Oxford 1936, inThe classics of international law” a cura di J. BROWN SCOTT.

 

[6] In specie E. MULAS, Pierino Belli da Alba, precursore di Grozio, Torino 1878.

 

[7] In specie G. SPERANZA, Alberico Gentili, Ascoli Piceno 1910, II, 82-99.

 

[8] P. CRAVERI, Belli Pierino (con L. MARINI), in Dizionario biografico degli Italiani, VII, Roma 1965, 677.

 

[9] Fondamentali in proposito sono i dati editi da F. RONDOLINO, Pietrino Bello. Sua vita e suoi scritti. Nuove ricerche, in “Miscellanea di storia italiana”, XXVIII (1890), 513-576.

 

[10] Il Belli fa espresso riferimento a quest’impostazione nella lettera dedicatoria del libro al re di Spagna Filippo II.

 

[11] Per un sintetico quadro generale, mi permetto di rinviare a G. S. PENE VIDARI, Stato sabaudo, giuristi e cultura giuridica nei secoli XV-XVI, in «Studi piemontesi», XV-1 (marzo 1986), 138-140 e Aspetti di storia giuridica piemontese a c. C. DE BENEDETTI, Torino 1977, 218-225.

 

[12] Lo nota, ad esempio, già F. RONDOLINO, op. cit., 544 e lo seguono gli altri, tra cui A. CAVAGLIERI, Introduzione a De re militari et bello tractatus by Pierino Belli, Oxford 1936, 28a.

 

[13] A sostegno delle proprie affermazioni il Belli non inanella un lungo elenco di auctoritates  o di citazioni, secondo un vezzo di molti autori contemporanei, ma si ferma per lo più ad una o due: in tal modo documenta la base del suo ragionamento, come  richiede la prassi scientifica, ma non si perde nella mera – ed un po’ sterile -  ricerca erudita di tutte le “auctoritates” esistenti, per seguire invece da vicino la prosecuzione del discorso, che è quanto interessa all’operatore del diritto.

 

[14] In effetti, il Belli nella stessa costruzione del discorso è ben distante dal livello di un Alciato o di un Gribaldi Mofa, ed anche di tanti altri giuristi coevi, per lo più sensibili alle influenze dell’umanesimo giuridico. La frequenza di esempi storici della civiltà greco-romana gli sembra fornire quella patina classico-umanistica alla sua opera, che nel complesso le manca. Accanto a testi ed autori di diritto non disdegna richiamarsi anche a passi del Vecchio e del Nuovo Testamento, con ciò sollevando perplessità nei puri tecnici del diritto ed in chi lo considera incapace di svincolarsi dalla morale cattolica e dall’ortodossia “romana”.

 

[15] Ad esempio cfr. P. BELLI, op. cit., per  Giovanni da Legnano c. 147r. (e non 148, per errore di stampa); per Martino Garati, cc. 28r., 35r., 50r.; per Giovanni Lupi, cc. 44v., 130r.

 

[16] Esaustivo sembra in proposito l’autorevole giudizio di A. CAVAGLIERI, Introduzione cit., 20a, 24a-26a, a cui si può unire P. CRAVERI, op. cit., 676-677. In sintesi, sembra impossibile che Alberico Gentili, che in altra opera ricorda addirittura il Belli come studente perugino, non conosca la sua opera, che è inoltre ai suoi tempi in circolazione nell’edizione veneziana dei Tractatus universi iuris, che ogni giurista di livello utilizza.

 

[17] Si è occupata recentemente dell’argomento L. MOSCATI, Sul diritto d’autore tra Codice e leggi speciali, in Iuris vincula. Studi in onore di Mario Talamanca, V, Napoli 2001, 495-527, la quale sta attendendo ad ulteriori studi in materia.

 

[18] E’ nota la tradizione medievale di riportare passi di altri autori entro la propria opera: basti pensare a quel “classico” del processo medievale che è lo Speculum iudiciale di Guglielmo Durante, certo non considerato plagiario ma illustre giurista. Se l’incorporazione delle idee altrui nel proprio studio ne dimostrava l’accettazione, discorso diverso era quello del voler testimoniare che anche  l’ “auctoritas” di altri corroborava la propria opinione; ma tutto ciò non era certo collegato con la nostra sensibilità per la paternità letteraria. Basti poi pensare alle false attribuzioni, alle manomissioni testuali ed alle vere e proprie falsificazioni degli editori cinquecenteschi… L’ambiente era quindi più che “disinvolto” in proposito; ciò non toglie però che proprio il silenzio – voluto – di Alberico Gentili non lasci in noi la sensazione che egli si sia fin troppo giovato dell’impostazione e delle osservazioni del Belli in modo che oggi riteniamo almeno scorretto, fors’anche fidando sulla non grande notorietà di Pierino nell’ambiente dei dotti, nonostante l’edizione nei Tractatus universi iuris.

 

[19] Al Belli i Francesi confiscarono i beni feudali e tutto quanto riuscirono: egli chiese il risarcimento di ciò agli Spagnoli, con cui lavorava (F. RONDOLINO, op. cit., 526, con un significativo documento a pag. 565).

 

[20] Nella lunga dedica il Belli spiega che non si tratta assolutamente di un’opera che insegni a “fare” la guerra (cosa al di fuori delle capacità e delle aspirazioni dell’autore) ma piuttosto di uno studio su come secondo il ius gentium la guerra possa essere condotta, in base a quelle valutazioni giuridiche, che egli è venuto svolgendo durante i lunghi anni in cui è stato giudice militare presso gli eserciti “cesarei”.

 

[21] Ciò avviene in occasione dell’emanazione nel 1566 del libro quarto degli “Ordini Nuovi”: cfr. per tutti C. PECORELLA, Introduzione a Libro quarto degli “Ordini Nuovi” di Emanuele Filiberto, Torino 1994, XXIX-XXXII, XXXVI-XLVII e per il testo 33-71.

 

[22] E’ la conclusione ragionevole ed equilibrata di A. CAVAGLIERI, op. cit., 29a, che fa notare che i «progressi della scienza sono generalmente il frutto dell’opera collettiva di un certo numero di scrittori, ognuno dei quali continua e migliora i risultati di chi lo ha preceduto, finché si arriva a quello che riassume gli sforzi anteriori in una rielaborazione decisiva e perfetta. Pierino Belli fu certamente fra coloro che prepararono il terreno, sul quale Grozio doveva poi innalzare il superbo edificio del suo trattato De iure belli ac pacis».

 

[23] P. BELLI, op. cit., cc. 40v. n° 5, 125 n°18 per gli indios, cc. 44r.v. n°7-8 per gli infedeli e c. 36v. per i Turchi.

 

[24] Ibidem, cc. 8r. n° 7 e 93r. n° 1; in vari punti, d’altronde, la considerazione dell’eretico e il pieno riconoscimento dell’autorità della Chiesa romana rientrano nell’accezione tradizionale di un giurista di parte spagnola.

 

[25] In effetti il Belli cita con una certa preferenza Tommaso De Vio (detto “il Gaetano” dalla nascita e dalla sede vescovile), noto ed autorevole commentatore tomista (ad es. ibidem, cc. 3r., 27v., 28r., 30r.v.), ma non ne recepisce le benevole osservazioni verso i non cristiani e gli indios; non conosce invece il Vitoria, le cui poi ben note Relectiones de Indis redatte verso il 1539 resteranno inedite sino al 1557, cosa che può quindi giustificare l’ignoranza del giurista albese. In ogni caso egli sembra però poco sensibile alle problematiche osservazioni di questi autori e piuttosto acriticamente favorevole ai conquistadores (ad es. ibidem, c. 40v.).

 

[26] P. BELLI, op. cit., cc. 35v. (n°18), 38v. (n°3), 40r. (n°5), 46v. (n°9), 47r., 55r. (n°2).

 

[27] Ha riportato l’attenzione della storiografia giuridica italiana sulla Seconda scolastica, ormai trent’anni fa, un noto convegno fiorentino: La Seconda Scolastica nella formazione del diritto privato moderno, a cura di P. GROSSI, Milano 1973 (Atti dell’incontro di studio, Firenze 16-19 ottobre 1972); su altri studi in proposito, con riferimento ai nostri argomenti, cfr. da ultimo A.A. CASSI, Dalla santità alla criminalità della guerra. Morfologie storico-giuridiche del “bellum iustum”, in Seminari di storia e di diritto. III. “Guerra giusta”? La metamorfosi di un concetto antico a cura di A. CALORE, Milano 2003, 131-145. Proprio l’ultimo autore che si è occupato della “guerra giusta” in chiave storico-giuridica, il Cassi, ha tranquillamente ignorato il Belli, accennato rapidamente al Gentili, per occuparsi – dopo la Seconda Scolastica – direttamente di Ugo Grozio (ibidem, 145-148): eppure la percezione della distinzione tra “ius ad bellum” e “ius in bello” non era certo assente nel Belli.

 

[28] F. RONDOLINO, op. cit., 526, 538.

 

[29] Bartolo e Baldo sembrano i giuristi più frequentemente utilizzati,  da parte di un discente perugino, in armonia con la loro grande notorietà: cfr. ad es. P. BELLI, op. cit., cc. 3r.-v., 4r.-v., 5r., 30v., 38v., 40r., 45r., 46r.-v., 47r., etc. per Bartolo; cc. 2r.-v., 3v., 4r., 5r., 27v., 28r., 29r., 30r.-v., 31r., 33r., 34v., 40r., 41v., 45r.-v., 46v., 47r. etc.

 

[30] Ad esempio, ibidem, c. 2r. (per Paolo di Castro), c. 3r. (per Raffaele Fulgosio), c. 46r. (per Giasone).

 

[31] L’Alciato è nel complesso abbastanza citato, ad es. ibidem, cc. 30r., 41v., 45v., 147r. (ove, in materia di duello la sua opinione è riportata come “novissime”); è il massimo che il Belli fa verso la nuova tendenza umanistica.

 

[32] Se si vuole si giunge sino a Mariano Socino (c. 46v.-47r.); naturalmente sono citati numerosi giuristi anteriori, come Oldrado (c. 3r.-v.), Oberto dall’Orto (c. 30r.-v.), Azzone (c. 40r.), Alvarotti (c. 32v.), Cino (c. 34v.), Durante (c. 33v.), Luca da Penne (cc. 4v., 29r., 30v.), Calderini (cc. 4r.-v., 5r., 28r., 30v., 46v.), Angelo degli Ubaldi (cc. 3v., 29r.-v., 35r., 46v.), Andrea d’Isernia (cc. 3v., 30v., 33r.-v.), Matteo de Afflictis (cc. 3v., 30v., 33v.), e così via.

 

[33] Oltre a Decretum e Decretali, ad es, per l’Ostiense cfr. cc. 2v., 4r., 27v., 28r., 51v.; per papa Innocenzo cfr. cc. 3r.-v., 4r.-v., 28r., 30r., 46v.; per il Panormitano cfr. cc. 2v.-3r.v., 30r., 34v., 38v., 40r., 46v.; per Felino, cfr. cc. 29v., 47r.

 

[34] Ad esempio, cfr. per il Nevizzano c. 134, per il Bruno c. 128r., per Giacomino da San Giorgio cc. 30r., 33r., 127v., 129v., per la Summa angelica cc. 40r., 130r.-v.

 

[35] Ibidem, cc. 70-85: si tratta dei titoli primo e secondo della parte VII dell’opera.

 

[36] Ibidem, c. 85r.: «et per ista finem facio his militaribus privilegiis recitandis», dopo essersi poco sopra scagliati contro la cancelleria di Carlo V, che costituisce per vil denaro «equites aurati», i quali – a giudizio del Belli – non possono godere dei veri privilegi militari. Con questo sfogo, tipico di una mentalità feudale tradizionale, si chiudeva probabilmente in origine il manoscritto sull’argomento dei privilegi militari.

 

[37] «Unum addo, quod post peractum hunc qualecumque laborem meum venit mihi in manum tractatus celebris Iurisconsulti. [spazio bianco] Mantuae de privilegiis militum, verum quod ego ex eius fontibus haec mea non auserim neque labores eius surripuerim puto facile, persuasum iri iis qui utraque legent».

 

[38] M. MANTUA, Tractatus de privilegiis militaribus, in Tractatus universi iuris cit., c. 458, alla fine del trattatello.

 

[39] Il Belli, a differenza del Gentili, riferisce sugli autori utilizzati (cfr. supra, note 24-27): anche qui sembra sensibile al problema della paternità intellettuale, più che a quello dell’aggiornamento e della completezza scientifica del suo lavoro. Ciò, a meno di ipotizzare che si tratti di una completa mistificazione e che il Belli si sia ispirato al Mantova (ma le due trattazioni sembravano molto diverse fra loro!) e per evitare accuse di plagio abbia ideato questa dichiarazione. A me pare invece che l’affermazione di Pietrino sia da accettare, e che anzi non sia da escludere che egli abbia addirittura citato il Mantova quasi per “sentito dire”, dato che il testo edito lascia in bianco l’indicazione (eventuale? Non completata?) del nome, dopo “Iurisconsulti” inserisce un “punto” fuori posto e non entra affatto nel merito delle affermazioni del Mantova, ma fa solo notare che – se eventualmente le fonti fossero anche le stesse – l’elaborazione è stata autonoma. Tutto ciò porta a pensare che il Belli avesse effettivamente completato la sua trattazione, sia venuto a conoscenza del lavoro del Mantova quando la sua opera era già in stampa (piuttosto tardi quindi, a testimonianza del suo limitato aggiornamento), abbia inviato al tipografo questo passo da aggiungere, che però sarebbe stato male letto o interpretato al momento della composizione dei caratteri a stampa.

 

[40] Manca il nome del Mantova, si tace su ogni riferimento sostanziale: c’è da pensare che il Belli non si sia preoccupato troppo della trattazione altrui e non ne abbia preso in considerazione le affermazioni. E’ vero che egli parla del Mantova come di “celebris Iurisconsulti”, ma quasi per chiudere il discorso sulla sua ignoranza riguardo ad un trattato compilato almeno dieci anni prima del suo… Marco Benavides Mantova (1489-1582) era un giurista ed umanista molto rinomato alla metà del Cinquecento, insegnava sin dal 1515 a Padova, ove da anni era uno dei maestri più significativi: in fin dei conti, il Belli era alla sua prima opera rispetto al prestigioso docente padovano… eppure nemmeno in ritardo si è preoccupato di esaminarne l’opera.

 

[41] Cfr. supra, nota 36.

 

[42] Da ultimo A. A. CASSI, op. cit., 126-129, 131-140.

 

[43] Ad esempio, P. BELLI, op. cit., c. 47r.

 

[44] Cfr. supra, note 23-27.

 

[45] F. RONDOLINO, op. cit., 536-42, 548-50, 558-62.

 

[46] G. S. PENE VIDARI, Stato sabaudo… cit., 139-141.

 

[47] Il matrimonio avverrà nel 1576, un anno dopo la morte di Pietrino: Domenico Belli, già consigliere di Stato, sposa Barbara, figlia di Ottaviano Cacherano d’Osasco gran cancelliere di Savoia: nel 1600 ricoprirà questa stessa carica sino alla morte.

 

[48] L’unica erede legittima di Domenico Belli, la figlia Giulia, sposerà nel 1599 Amedeo Dal Pozzo, appartenente ad una delle famiglie più impegnate nella restaurazione sabauda, in netta ascesa all’epoca: patrimonio ed archivio Belli confluiranno quindi in quelli dei Dal Pozzo della Cisterna (M. CASSETTI - M. CODA, La famiglia dei principi dal Pozzo della Cisterna e il suo archivio, Vercelli 1981, 88).