Nel 2002 il
quinto centenario della nascita ha di nuovo attirato un certo interesse su Pietrino
Belli, autore di un De re militari et
bello tractatus edito una prima volta nel 1563 ed una seconda nel 1583 nel
volume XVI dei Tractatus Universi Iuris
dello Zilletti[1].
Alla figura del
Belli ed alla sua opera è stato dedicato nel novembre 2002 un convegno nella
sua città natale (Alba)[2],
la cui eco si è sentita anche nella comunicazione tenuta da Dominique Gaurier
alle “Journées internationales de
La valutazione
del suo De re militari et bello,
probabilmente preparato già via via nel corso della sua funzione di giudice
militare ma definitivamente compilato nel 1558 ed edito nel 1563, continua a
far discutere, perché c’è chi da una parte – sulla scia di Mancini – lo ha
considerato il primo autore del diritto internazionale moderno[6],
trent’anni prima di Alberico Gentili ed oltre mezzo secolo prima di Grozio
(anche se nel complesso ad essi inferiore), dall’altra chi ne ha ridotto il
rilievo a sensibile interprete di problemi giuridici della guerra d’età
moderna, risolti però da una prospettiva in buona parte ancora medioevale[7].
Lo stesso Piero Craveri, che con Lino Marini ha curato la puntuale ‘voce’ del
“Biografico” edita nel
Pochi cenni biografici
possono essere utili per inquadrare il personaggio, la sua mentalità e la sua
opera[9].
Nato nel 1502 da notabile famiglia albese, si trova ben presto coinvolto nei
contrasti militari locali e nelle più vaste guerre che travagliano il
territorio subalpino per tutta la prima metà del sec. XVI e si schiera, coi
suoi familiari, per i Gonzaga, signori della sua città e del marchesato del
Monferrato e di conseguenza per il “partito” filoimperiale e spagnolo. Dopo
alcuni incarichi giudiziari locali, dal 1546 Pietrino Belli è uditore generale
di guerra presso le truppe spagnole ed ha quindi ampia occasione di prendere
conoscenza non solo delle atrocità ma anche delle assurdità (a volte
“gratuite”) della guerra del tempo, a cui aspira sia posto un freno da regole
giuridiche “ragionevoli”. Lui stesso e la sua famiglia sono d’altronde
coinvolti nelle lotte e nelle vendette locali e ne subiscono pesanti
conseguenze da parte del “partito” francese: a mio giudizio queste vicende
personali vengono ad influire sensibilmente nelle sue valutazioni, sia
contingenti che generali, sulle “brutture” della guerra, non sempre
inevitabili.
Nei poco più di
dieci anni in cui il Belli svolge la funzione di uditore generale di guerra al
soldo spagnolo provvede già a raccogliere alcuni spunti per il suo futuro
trattato, come sembrano indicare le relativamente “datate” citazioni contenute
nel De re militari et bello, che
risulta però redatto nel 1558, terminato il periodo di lavoro per gli spagnoli.
Dopo una trattativa coi Gonzaga per essere nominato nel Senato di
Casale, non conclusa per motivi economici, nel 1560 Pietrino Belli passa al
servizio di Emanuele Filiberto di Savoia, di cui resta fedele ed apprezzato
consigliere e collaboratore sino alla morte, avvenuta nel 1575.
Compiaciuto titolare di feudi monferrini, il Belli presta quindi i
suoi “servigi” presso un altro principe, ma resta pur sempre legato a quel
“partito” imperiale, presso il quale – tra i Gonzaga, gli Spagnoli ed i Savoia
– ha militato per tutta la vita. Nel quindicennio di attività per Emanuele
Filiberto si segnala con successo quale incaricato del recupero di terre e
piazzeforti sabaude in mano straniera e dimostra quindi il suo valore più nella
pratica delle trattative diplomatiche che nella pura scienza giuridica. Nello
stesso tempo constata di persona le difficoltà concrete e le insidie di
soluzioni arbitrali sostitutive della guerra, poiché si trova invischiato
proprio come arbitro – con grave danno al suo prestigio personale – in una
controversia fra il duca di Modena ed il granduca di Toscana. Giurista pratico
dalla lunga esperienza, tocca perciò direttamente con mano la complessità dei
rapporti della politica internazionale del tempo, quali uno studioso dal suo
scrittoio ben poco può prevedere o percepire.
Pietrino Belli è
stato a lungo giudice militare; è vissuto nel Piemonte tormentato dalle guerre
europee per almeno un trentennio prima della pubblicazione del libro; ha potuto
a lungo meditare sui disastri operati in quel periodo da truppe sia nemiche che
amiche; ha visto in conseguenza di ciò scomparire fortune e persone, e ne è
stato direttamente e pesantemente coinvolto; ha preso atto dei cambiamenti
intercorsi nel modo di condurre la guerra, sempre meno ‘arte’ e sempre più
distruzione; da giurista desideroso di trovar regole di comportamento, si è
reso conto che queste invece o mancavano o non avevano più punti di
riferimento, come gli sembrava in buona parte avvenisse in passato; tutto
questo travaglio e la sua diretta esperienza ‘sul campo’ lo hanno indotto a
fissare per iscritto – da giurista – un complesso coordinato di osservazioni
sull’auspicabile comportamento bellico, con l’occhio volto alla pratica e con
la prospettiva di giovare in futuro alla pratica stessa[10].
Pietrino Belli
non è mai stato professore di diritto, nemmeno all’Ateneo torinese praticamente
rifondato da Emanuele Filiberto, perché il duca ha preferito averlo come
collaboratore diretto nella politica interna e soprattutto estera[11]:
era un operatore del diritto, che in un periodo un po’ più calmo della sua
vita, con indubbie capacità e competenza, ha avuto l’ambizione di mettere in
buona forma le sue riflessioni e le sue esperienze, nella speranza che
potessero essere utili per una soluzione giuridica dei problemi bellici del
tempo. Da più parti si è notato che nel libro manca un certo coordinamento, che
lo stile è grezzo, che c’è discontinuità sia di trattazione che di esposizione,
che non emergono con chiarezza princìpi generali a cui collegare la casistica
esaminata[12].
Pietrino ha dato il suo contributo così com’era, secondo l’esperienza via via
maturata, da pratico del diritto ad altri pratici. Può averlo contornato di
citazioni dotte (in specie di storia romana), delle “auctoritates” dottrinarie
a lui più congeniali, in ossequio alla tradizione del tempo; ma non si è poi
nemmeno dilungato troppo nel limare l’opera, nelle disquisizioni scolastiche
fra i pro ed i contra, nella ricerca pleonastica di lussureggiante dottrina[13].
Il Belli non è un
teorico che, come il chierese Matteo Gribaldi Mofa o lo stesso Alberico
Gentili, disquisisce sul metodo da seguire nell’interpretazione, direttamente
la fa; cerca di motivare in modo adeguato le sue affermazioni richiamando
l’opinione di altri giuristi, ma senza infarcirle di eccessivi elenchi, inutili
nell’economia dell’opera, a sola ostentazione della propria erudizione, secondo
una frequente tendenza dell’epoca. E’ un pratico, portato a chiudere il
discorso piuttosto che a riaprirlo continuamente, secondo un’altra propensione
del “dotto” giurista del tempo[14].
Non è l’intellettuale Alberico Gentili esule professore a Oxford né
l’altrettanto tormentato Ugo Grozio esule a Parigi, che hanno ben altro tempo
per rifinire il proprio lavoro (che poi le sue imperfezioni e discontinuità le
ha pur sempre): messo insieme il suo scritto, lo fa stampare e nel frattempo si
occupa dei non lievi problemi politici del ripristinato Stato sabaudo, dato che
dal 1560 è stato chiamato da Emanuele Filiberto nel suo ristretto Consiglio di
Stato. Il periodo della giustizia militare e della guerra per lui si è chiuso;
ora c’è da ricostruire la pace.
Nel 1563 il libro
è pubblicato, in piccolo formato, adatto ad essere utilizzato da altri giuristi
- avvocati, giudici, politici- per le incombenze del caso. Non è edito per le
biblioteche e le scrivanie dei ‘dotti’, in gran formato, come la gran parte
delle edizioni giuridiche dell’epoca: è in ‘ottavo’, per la maneggevolezza che
richiedono la pratica e la vita sul campo. Se si entra in quest’ottica, si può
capire che l’obiettivo ‘scientifico’ non è trascurato dal Belli, ma non è
quello assoluto: per il Gentili e per Grozio, invece, l’inquadramento generale
ha un peso ben diverso, anche se entrambi non ignorano certo le conseguenze
pratiche di determinate impostazioni teoriche.
La ‘modernità’
del Belli sta nella sensibilità e nell’umanità con le quali per primo affronta
i problemi giuridici della guerra e del panorama internazionale in cui si
svolge, nella tormentata preoccupazione con la quale ricerca tanto nuovi
parametri per la “guerra giusta” quanto strumenti per evitarla se possibile, o
accorgimenti per renderne comunque meno gravi le conseguenze per la popolazione
ed i territori che la subiscono. Egli non disdegna a volte di richiamarsi ai
pochi autori che lo hanno espressamente preceduto, come Giovanni da Legnano,
Martino Garati o Giovanni Lupi – che all’occasione cita[15]
– e costruisce per lo più le sue argomentazioni sulla tradizionale (anche un
po’ vecchiotta) dottrina giuridica medioevale, nonché su princìpi di morale o
di diritto naturale desunti dal diritto comune del tempo; lo spirito però con
cui affronta i problemi – indubbiamente gravi – dei rapporti fra i príncipi e
della guerra del tempo è senza dubbio più vicino al nostro modo di pensare che
a quello medioevale.
Suscita quindi
profonda perplessità – se non peggio – il successivo atteggiamento di Alberico
Gentili, che non poteva non conoscere l’edizione del Belli, ma che mai lo
ricorda nella sua opera e lascia ad un moderno lettore l’impressione di averlo
ampiamente ‘saccheggiato’ senza volerlo volutamente riconoscere[16].
Pur se si vuole considerare con benevolenza che in una società che ignorerà
ancora a lungo la proprietà intellettuale ed il diritto d’autore ci siano
notevoli margini di comprensione in proposito[17],
non si può non notare la doppiezza di comportamento dell’intellettuale
marchigiano trapiantato ad Oxford. Il contesto in cui egli usa il pensiero del
Belli può a volte essere anche diverso, ma resta il fatto che il limite della
correttezza pare ampiamente superato, proprio per il completo silenzio, che
porta al sospetto della premeditazione[18].
Una serie di
circostanze concatenate, per quanto fortuite e fra loro indipendenti, ha
impedito al Belli di acquisire nel tempo quella notorietà, che solo
dall’Ottocento in poi gli è in ridotta misura stata restituita. Di una si è già
detto: quella di essere stato più un ‘pratico’ che un teorico, con la
conseguenza che il “tractatus” sia stato sottovalutato proprio da chi ha
ricostruito le tappe della “scientia juris”. Se però si riflette sul fatto che
nella società il diritto viene per lo più considerato non in astratto ma in
funzione della soluzione ‘ragionevole’ delle controversie, allora viene a
prendere tutta un’altra importanza la pratica, e la teoria generale del diritto
è ridotta a mero strumento per favorire le soluzioni di quest’ultima. Il
discorso però a questo punto si amplierebbe troppo: finisce col dipendere dalle
concezioni che si hanno sulla funzione del diritto e sul ruolo del giurista
nella società. Certo, a me sembra che non si possa mai ignorare che, se la
“scientia juris” è importante, ha un senso in quanto non sia fine a se stessa,
ma in connessione con la rispondenza del diritto alle esigenze concrete della
vita. E proprio di ciò il Belli ha dimostrato di essere pienamente consapevole.
Non gli hanno
giovato sia il momento storico in cui si è trovato a comporre l'opera, sia la
sua collocazione politico-ideologica. Monferrino -cioè all'epoca gonzaghesco- è
uditore di guerra "cesareo" e sempre sarà schierato nel campo
imperiale contro il 'nemico' francese, che peraltro occupa buona parte del
Piemonte e gli arreca non pochi danni[19];
al termine delle lunghe ostilità passerà al servizio di Emanuele Filiberto, che
è pur sempre della stessa 'parte' e dedicherà il suo libro a Filippo II re di
Spagna[20].
Alla fin fine è questa la parte vincitrice, ma la reviviscenza del 'mito'
imperiale ripresa da Carlo V non regge di fronte alla realtà e -nonostante il
successo bellico- Pietrino deve prendere atto della frammentazione politica
europea, senza che il potere 'imperiale' possa riproporsi come principio
unitario di guida. Il Belli non è certo l'unico a rendersene conto, ma è lucido
nel percepire la definitiva fine di una certa impostazione -anche giuridica-
dei rapporti fra i principes dell'epoca:
dedica, d'altronde, la sua opera al "re" di Spagna e lavora ormai per
il duca Emanuele Filiberto di Savoia, che si richiama al vicariato imperiale
per legittimare il suo potere, ma si comporta in effetti come vero titolare
della sovranità[21].
Il giurista albese è consapevole della crisi del sistema sul piano dei rapporti
fra prìncipi (cioè fra Stati), che nemmeno la guerra finisce col risolvere:
vuole fissare almeno qualche regola sia per il jus ad bellum che per il jus
in bello, vede con favore l'arbitrato, si preoccupa sia dei beni occupati
dai belligeranti che delle popolazioni coinvolte nella guerra. La sua
sensibilità per i problemi e le sue prospettive sono però pur sempre quelle di
un "cesareo" della metà del
Cinquecento, cioè di un secolo prima della pace di Westfalia: il passar del
tempo, le riflessioni di più persone, le vicende della politica internazionale
faranno maturare impostazioni e soluzioni, che non possiamo pretendere di
trovare appieno nel "De bello" del
1558-
Cattolico e
filospagnolo, resta legato saldamente alla bontà dell'ordine europeo imperniato
sul messaggio della Chiesa romana ed esclude perciò contatti o considerazione
verso gli "infedeli", siano i musulmani o gli indios[23],
così come è sordo alle istanze delle "chiese riformate"[24].
E questo -soprattutto questo- sembrerà ai dottrinari successivi
un'imperdonabile insensibilità intellettuale, non essendo pluralistica nel
campo religioso ed umanitaria verso i popoli extraeuropei, da parte di chi
peraltro è stato direttamente impressionato dalle brutture della guerra fra
cattolici ma sembra un po’ distratto o superficiale nel battere nuove strade di
rapporti 'esotici'. Pietrino quindi non è portato a dare spazio né alle
tormentate valutazioni di Francesco De Vio “il Gaetano” o di Francesco de
Vitoria per gli indios[25]
né alle aperture di libertà o di tolleranza religiosa avanzate da giuristi
come Matteo Gribaldi Mofa o come numerosi aderenti all’umanesimo giuridico,
oppure da altri intellettuali del tempo. E' l'operatore del diritto che ha
vissuto l'esperienza bellica padana, che non segue le dispute religiose ed
intellettuali dell'umanesimo europeo e preferisce attestare casomai la sua
cultura 'classica' tramite citazioni ed esempi della storia romana piuttosto
che inoltrarsi nei raffinati dibattiti umanistici di metà Cinquecento.
Il giurista
albese è molto legato all’area subalpina ed ha potuto constatare direttamente
le tristi conseguenze di annosi contrasti bellici, condotti senza scrupoli o
esclusione di colpi: rapacità di eserciti, violenze su civili, vessazioni su
popolazioni inermi, soprusi militari, rifiuto di restituzione del maltolto, e
così via. Il suo sdegno, soffuso di umanità, traspare a più riprese nel libro[26].
Ed è verso questo ambiente, duramente provato da lunghi anni di guerra, che va
il suo sincero interesse, forse piuttosto locale e contingente, certo non
sensibile ai problemi di mondi distanti dalla sua visione, come quello degli
infedeli o delle popolazioni americane. E’ per gli stretti legami con la zona
che ha davanti a sé che cerca, con gli strumenti di cui dispone – quelli
giuridici – di proporre prospettive d’ordine e di miglioramento, quali quelle di una certa valutazione della guerra
e di una sua disciplina, di regole per la dichiarazione e lo svolgimento, dell’arbitrato,
della restituzione delle terre occupate a guerra finita, del rispetto delle
popolazioni locali, e così via.
Ben diverso sarà
-alcuni decenni dopo- l’ambiente culturale a cui si riferiranno il Gentili o il
Grozio, certo non legati all'ortodossia cattolica perché entrambi
problematicamente di religione riformata, interessati al panorama intellettuale
europeo contemporaneo, sostenitori ormai della necessità di un nuovo ordine
internazionale basato sui princìpi di ragione al di fuori dell'influenza della
religione. Proprio
Il panorama
culturale in cui si muove Pietrino Belli è meno ampio e soprattutto meno
frastagliato di quello del Gentili o di Grozio, che anche solo per le proprie
vicende personali hanno acquisito quelle esperienze europee che nel complesso
mancano all'albese, le cui stesse lineari adesioni politiche possono apparire
di freno alla "modernità". Per estrazione sociale e mentalità egli è
un giurista della tradizione, addottoratosi con ogni probabilità nella
prestigiosa ma un po’ tradizionale Perugia del tempo; si segnala non per
dispute teoriche, ma per aver prestato a lungo la sua opera di tecnico del
diritto nel campo "cesareo"; ricerca signorie feudali, che ottiene in
Monferrato prima della stesura del libro ed a cui sembra orgogliosamente
attaccato[28].
Di notabile famiglia comunale albese, rivela una concezione di vita aristocratica,
ben collegabile all'ambiente cattolico-imperiale in cui opera, sensibile ai
valori di fedeltà tipici dell'impostazione feudale: si contrappone quindi
all'umanesimo giuridico, alle 'nuove' esperienze della monarchia francese,
all'accettazione di spazi per una religione diversa da quella dell'ortodossia
cattolica, in altre parole a tutto un bagaglio culturale, che è in genere
considerato quello del mondo "moderno".
L’edizione del De re militari et bello non inserisce il
Belli nella parte più vivace ed attiva della scienza giuridica europea, nel
giro delle conoscenze intellettuali o nei canali della cultura contemporanea,
fra dotti ed umanisti, che si soffermano sui princìpi con cui superare i mali
del tempo. Egli, d’altronde, è un pratico estraneo a questa vita intellettuale,
profondamente radicato in Piemonte, nelle vicende della politica subalpina:
conosce e cita i giuristi tradizionali, da Bartolo a Baldo[29],
da Paolo di Castro a Raffaele Fulgosio o Giason del Maino[30],
giunge sino all’Alciato[31],
ma oltre non va[32],
e fra i canonisti ritorna sempre sui classici, Ostiense, Sinibaldo dei Fieschi,
Niccolò dei Tedeschi, spingendosi fino a Felino Sandeo[33].
Tra tutti, i più citati sembrano quindi fra i civilisti Bartolo e Baldo, cosa
più che comprensibile per un giurista pratico dell’epoca, e non solo perché di
formazione perugina; fra i canonisti il più utilizzato pare l’Abbas panormitanus, ed anche questo è
ragionevole. Proporzionalmente, sono forse fin troppo richiamati giuristi
subalpini come il Nevizzano, il Bruno, Giacomino da San Giorgio o Angelo
Carletti, ma non si deve ignorare il forte legame di Pietrino con l’area
territoriale in cui è vissuto[34].
Il Belli non
sembra inoltre molto aggiornato sulle opere dei giuristi contemporanei, né
preoccupato di esserlo. Si può prendere ad esempio quanto avviene riguardo alla
trattazione dei privilegi dei militari. Dopo averli esaminati con una certa
attenzione[35],
alla fine dichiara di chiudere l’argomento[36],
ma precisa subito dopo che a lavoro ormai terminato gli è giunto tra le mani il
trattato del Mantova in proposito: precisa perciò che il lettore deve sapere
che – se le fonti possono essere anche le stesse – le due opere sono state
condotte in modo fra loro autonomo[37].
E così conclude, senza alcuno scrupolo di aggiornamento del suo lavoro.
Il De privilegiis militaribus è datato dal
Mantova al 1541[38]
ed è quindi terminato circa un quindicennio prima di quando il Belli ha avviato
il suo libro, probabilmente con materiale già in precedenza in parte raccolto o
scritto: sarebbe stato ragionevole che, all’atto di coordinare il suo elaborato
per la stampa, egli lo rivedesse su questo argomento alla luce del trattatello
specifico del Mantova, docente patavino di notevole fama internazionale. Ciò
però non è avvenuto. Pietrino ha lasciato il suo testo così com’era: si è
preoccupato non tanto di offrire al lettore su questo punto una trattazione
aggiornata alle ultime opinioni, quanto piuttosto di rivendicare solo
l’autonomia della propria elaborazione intellettuale[39].
Le sue espressioni, anzi, lasciano quasi intravvedere un certo disinteresse per
l’opera altrui[40],
senza quella curiosità scientifica onnicomprensiva propria dello studioso: egli
si conferma quindi soprattutto un pratico del diritto, portato a diffondere ad
altri operatori del diritto i frutti delle osservazioni maturate dalla sua
esperienza concreta.
In questa
prospettiva può essere perciò abbastanza facilmente compreso che il Belli
trascuri il filone – tendenzialmente filofrancese e ‘riformato’ – dell’umanesimo
giuridico, che peraltro viene affermandosi proprio nelle edizioni degli anni
centrali del Cinquecento e non gli è nel complesso noto quando egli sta man
mano redigendo l’opera, senza che poi si curi di aggiornarla prima della
stampa. Così si può capire il silenzio su Cuiacio, ma ciò vale anche per quello
– più significativo – su Francisco de Vitoria: eppure si tratta del padre della
“Seconda scolastica” spagnola, quindi di un filone culturale della ‘parte’ a
cui è legato, dal quale trarranno le mosse i concetti basilari del moderno
diritto internazionale. Si tratta anche qui di opere che, per quanto
precedenti, vedono le stampe solo alla fine degli anni Cinquanta del secolo,
troppo tardi perciò perché il Belli si aggiorni su di esse. Di spagnolo egli cita
quindi per lo più qualche volta il più risalente Giovanni Lupi da Segovia,
mentre fra i tomisti anteriori alla Scuola di Salamanca fa un buon uso
dell’opera del De Vio[41],
senza peraltro seguirne le umanitarie osservazioni riguardo agli indios, in certo senso precorritrici di
quelle del Vitoria[42].
Se
Pietrino Belli ha
avuto feudi, soddisfazioni politiche e gratificazioni economiche nel Piemonte
di Emanuele Filiberto[45];
fra i giuristi che reggono le sorti
dello Stato sabaudo tra Cinquecento e Seicento ci sono lui ed il figlio
Domenico[46],
che sposerà la figlia del gran cancelliere di Savoia e sarà gran cancelliere
lui stesso[47];
la famiglia si inserisce fra quelle che ‘contano’ nella nobiltà sabauda[48].
Il successo materiale non è mancato. Minore è stato quello culturale del libro,
cosa che invece – col tempo – ha ripagato Alberico Gentili e Ugo Grozio di quel
poco che – da intellettuali – avevano raggiunto in vita. Si tratta di valutare,
ex post, secondo le diverse preferenze, quale fra questi successi possa essere
più lusinghiero. In fin dei conti, si tratta però di considerazioni che a
distanza di secoli possono lasciare anche un senso di relativa importanza, ma
che possono dipendere pure dalla stessa funzione che si affida al giurista, se
lo si vuole votato alla pratica operativa piuttosto che alla speculazione
teorica, indirizzato soprattutto a risolvere le controversie del presente
oppure teso alla individuazione delle regole di vita della società.
[1] P. BELLI, De re militari et bello, Venetiis 1563
(per i tipi del Portonari); De re
militari et bello, tomo XVI, Venetiis 1583, cc. 335 r. – 371 r.
[2] «Un giurista tra
principi e sovrani: Pierino Belli a 500 anni dalla nascita». Del Convegno di
studi, organizzato dalla Fondazione Ferrero di Alba, è in corso l’edizione delle
relazioni. Buona parte di questa relazione è tratta da quella da me tenuta in
quella sede.
[3] D. GAURIER, L’une
des pierres sur le chemin qui mène à Grotius: Pietrino Belli, un précurseur?
Il
Gaurier, maître de conférences dell’Università di Nantes, sembra intenzionato a
procedere ad un’altra traduzione del De
re militari et bello, oltre a quella inglese (cfr. infra, nota 5). Sono note le perplessità di numerosi esperti circa
le traduzioni in volgare di opere di giuristi del periodo del diritto comune:
nel caso del Belli, se ne avrebbero addirittura due, senza ricostruzione
critica delle “auctoritates” da essi citate.
[4] P.S. MANCINI, Della nazionalità come fondamento del
diritto delle genti. Prelezione al corso di diritto internazionale e marittimo
pronunciata nella R. Università di Torino dal professore Pasquale Stanislao
Mancini nel dì 22 gennaio 1851, Torino 1851, 15-17.
[5] P. BELLI, De re
militari et bello tractatus, Oxford
[6] In specie E.
MULAS, Pierino Belli da Alba, precursore
di Grozio, Torino 1878.
[7] In specie G.
SPERANZA, Alberico Gentili, Ascoli
Piceno 1910, II, 82-99.
[8] P. CRAVERI, Belli Pierino (con L. MARINI), in Dizionario biografico degli Italiani,
VII, Roma 1965, 677.
[9] Fondamentali in
proposito sono i dati editi da F. RONDOLINO, Pietrino Bello. Sua vita e suoi scritti. Nuove ricerche, in
“Miscellanea di storia italiana”, XXVIII (1890), 513-576.
[10] Il Belli fa
espresso riferimento a quest’impostazione nella lettera dedicatoria del libro
al re di Spagna Filippo II.
[11] Per un sintetico
quadro generale, mi permetto di rinviare a G. S. PENE VIDARI, Stato sabaudo, giuristi e cultura giuridica
nei secoli XV-XVI, in «Studi piemontesi», XV-1 (marzo 1986), 138-140 e Aspetti di storia giuridica piemontese a
c. C. DE BENEDETTI, Torino 1977, 218-225.
[12] Lo nota, ad
esempio, già F. RONDOLINO, op. cit.,
544 e lo seguono gli altri, tra cui A. CAVAGLIERI, Introduzione a De re militari
et bello tractatus by Pierino Belli, Oxford 1936, 28a.
[13] A sostegno delle
proprie affermazioni il Belli non inanella un lungo elenco di auctoritates o di citazioni, secondo un vezzo di molti
autori contemporanei, ma si ferma per lo più ad una o due: in tal modo
documenta la base del suo ragionamento, come
richiede la prassi scientifica, ma non si perde nella mera – ed un po’
sterile - ricerca erudita di tutte le “auctoritates” esistenti, per seguire
invece da vicino la prosecuzione del discorso, che è quanto interessa
all’operatore del diritto.
[14] In effetti, il
Belli nella stessa costruzione del discorso è ben distante dal livello di un
Alciato o di un Gribaldi Mofa, ed anche di tanti altri giuristi coevi, per lo
più sensibili alle influenze dell’umanesimo giuridico. La frequenza di esempi
storici della civiltà greco-romana gli sembra fornire quella patina
classico-umanistica alla sua opera, che nel complesso le manca. Accanto a testi
ed autori di diritto non disdegna richiamarsi anche a passi del Vecchio e del
Nuovo Testamento, con ciò sollevando perplessità nei puri tecnici del diritto
ed in chi lo considera incapace di svincolarsi dalla morale cattolica e
dall’ortodossia “romana”.
[15] Ad esempio cfr.
P. BELLI, op. cit., per Giovanni da Legnano c. 147r. (e non 148, per
errore di stampa); per Martino Garati, cc. 28r., 35r., 50r.; per Giovanni Lupi,
cc. 44v., 130r.
[16] Esaustivo sembra
in proposito l’autorevole giudizio di A. CAVAGLIERI, Introduzione cit., 20a, 24a-26a, a cui si può unire P. CRAVERI, op. cit., 676-
[17] Si è occupata
recentemente dell’argomento L. MOSCATI, Sul
diritto d’autore tra Codice e leggi speciali, in Iuris vincula. Studi in onore di Mario Talamanca, V, Napoli 2001,
495-527, la quale sta attendendo ad ulteriori studi in materia.
[18] E’ nota la tradizione
medievale di riportare passi di altri autori entro la propria opera: basti
pensare a quel “classico” del processo medievale che è lo Speculum iudiciale di Guglielmo Durante, certo non considerato
plagiario ma illustre giurista. Se l’incorporazione delle idee altrui nel
proprio studio ne dimostrava l’accettazione, discorso diverso era quello del
voler testimoniare che anche l’ “auctoritas” di altri corroborava la
propria opinione; ma tutto ciò non era certo collegato con la nostra
sensibilità per la paternità letteraria. Basti poi pensare alle false
attribuzioni, alle manomissioni testuali ed alle vere e proprie falsificazioni
degli editori cinquecenteschi… L’ambiente era quindi più che “disinvolto” in
proposito; ciò non toglie però che proprio il silenzio – voluto – di Alberico
Gentili non lasci in noi la sensazione che egli si sia fin troppo giovato
dell’impostazione e delle osservazioni del Belli in modo che oggi riteniamo
almeno scorretto, fors’anche fidando sulla non grande notorietà di Pierino nell’ambiente
dei dotti, nonostante l’edizione nei Tractatus
universi iuris.
[19] Al Belli i
Francesi confiscarono i beni feudali e tutto quanto riuscirono: egli chiese il
risarcimento di ciò agli Spagnoli, con cui lavorava (F. RONDOLINO, op. cit., 526, con un significativo
documento a pag. 565).
[20] Nella lunga
dedica il Belli spiega che non si tratta assolutamente di un’opera che insegni
a “fare” la guerra (cosa al di fuori delle capacità e delle aspirazioni
dell’autore) ma piuttosto di uno studio su come secondo il ius gentium la guerra possa essere condotta, in base a quelle
valutazioni giuridiche, che egli è venuto svolgendo durante i lunghi anni in
cui è stato giudice militare presso gli eserciti “cesarei”.
[21] Ciò avviene in occasione
dell’emanazione nel 1566 del libro quarto degli “Ordini Nuovi”: cfr. per tutti
C. PECORELLA, Introduzione a Libro quarto degli “Ordini Nuovi” di
Emanuele Filiberto, Torino 1994, XXIX-XXXII, XXXVI-XLVII e per il testo
33-71.
[22] E’ la
conclusione ragionevole ed equilibrata di A. CAVAGLIERI, op. cit., 29a, che fa notare che i «progressi della scienza sono
generalmente il frutto dell’opera collettiva di un certo numero di scrittori,
ognuno dei quali continua e migliora i risultati di chi lo ha preceduto, finché
si arriva a quello che riassume gli sforzi anteriori in una rielaborazione
decisiva e perfetta. Pierino Belli fu certamente fra coloro che prepararono il
terreno, sul quale Grozio doveva poi innalzare il superbo edificio del suo
trattato De iure belli ac pacis».
[23] P. BELLI, op. cit., cc. 40v. n° 5, 125 n°18 per
gli indios, cc. 44r.v. n°7-8 per gli
infedeli e c. 36v. per i Turchi.
[24] Ibidem, cc. 8r. n° 7 e 93r. n° 1; in
vari punti, d’altronde, la considerazione dell’eretico e il pieno riconoscimento
dell’autorità della Chiesa romana rientrano nell’accezione tradizionale di un
giurista di parte spagnola.
[25] In effetti il
Belli cita con una certa preferenza Tommaso De Vio (detto “il Gaetano” dalla
nascita e dalla sede vescovile), noto ed autorevole commentatore tomista (ad
es. ibidem, cc. 3r., 27v., 28r.,
30r.v.), ma non ne recepisce le benevole osservazioni verso i non cristiani e
gli indios; non conosce invece il
Vitoria, le cui poi ben note Relectiones
de Indis redatte verso il 1539 resteranno inedite sino al 1557, cosa che
può quindi giustificare l’ignoranza del giurista albese. In ogni caso egli
sembra però poco sensibile alle problematiche osservazioni di questi autori e
piuttosto acriticamente favorevole ai conquistadores
(ad es. ibidem, c. 40v.).
[26] P. BELLI, op. cit., cc. 35v. (n°18), 38v. (n°3), 40r. (n°5), 46v. (n°9), 47r., 55r. (n°2).
[27] Ha riportato
l’attenzione della storiografia giuridica italiana sulla Seconda scolastica,
ormai trent’anni fa, un noto convegno fiorentino:
[28] F. RONDOLINO, op. cit., 526, 538.
[29] Bartolo e Baldo
sembrano i giuristi più frequentemente utilizzati, da parte di un discente perugino, in armonia
con la loro grande notorietà: cfr. ad es. P. BELLI, op. cit., cc. 3r.-v., 4r.-v., 5r., 30v., 38v., 40r., 45r., 46r.-v.,
47r., etc. per Bartolo; cc. 2r.-v., 3v., 4r., 5r., 27v., 28r., 29r., 30r.-v.,
31r., 33r., 34v., 40r., 41v., 45r.-v., 46v., 47r. etc.
[30] Ad esempio, ibidem, c. 2r. (per Paolo di Castro), c.
3r. (per Raffaele Fulgosio), c. 46r. (per Giasone).
[31] L’Alciato è nel
complesso abbastanza citato, ad es. ibidem,
cc. 30r., 41v., 45v., 147r. (ove, in materia di duello la sua opinione è
riportata come “novissime”); è il massimo che il Belli fa verso la nuova
tendenza umanistica.
[32] Se si vuole si
giunge sino a Mariano Socino (c. 46v.-47r.); naturalmente sono citati numerosi
giuristi anteriori, come Oldrado (c. 3r.-v.), Oberto dall’Orto (c. 30r.-v.),
Azzone (c. 40r.), Alvarotti (c. 32v.), Cino (c. 34v.), Durante (c. 33v.), Luca
da Penne (cc. 4v., 29r., 30v.), Calderini (cc. 4r.-v., 5r., 28r., 30v., 46v.),
Angelo degli Ubaldi (cc. 3v., 29r.-v., 35r., 46v.), Andrea d’Isernia (cc. 3v.,
30v., 33r.-v.), Matteo de Afflictis (cc. 3v., 30v., 33v.), e così via.
[33] Oltre a Decretum e Decretali, ad es, per
l’Ostiense cfr. cc. 2v., 4r., 27v., 28r., 51v.; per papa Innocenzo cfr. cc.
3r.-v., 4r.-v., 28r., 30r., 46v.; per il Panormitano cfr. cc. 2v.-3r.v., 30r., 34v.,
38v., 40r., 46v.; per Felino, cfr. cc. 29v., 47r.
[34] Ad esempio, cfr.
per il Nevizzano c. 134, per il Bruno c. 128r., per Giacomino da San Giorgio
cc. 30r., 33r., 127v., 129v., per
[35] Ibidem, cc. 70-85: si tratta dei titoli
primo e secondo della parte VII dell’opera.
[36] Ibidem, c. 85r.: «et per ista finem
facio his militaribus privilegiis recitandis», dopo essersi poco sopra
scagliati contro la cancelleria di Carlo V, che costituisce per vil denaro
«equites aurati», i quali – a giudizio del Belli – non possono godere dei veri
privilegi militari. Con questo sfogo, tipico di una mentalità feudale
tradizionale, si chiudeva probabilmente in origine il manoscritto
sull’argomento dei privilegi militari.
[37] «Unum addo, quod
post peractum hunc qualecumque laborem meum venit mihi in manum tractatus
celebris Iurisconsulti. [spazio bianco] Mantuae de privilegiis militum, verum
quod ego ex eius fontibus haec mea non auserim neque labores eius surripuerim
puto facile, persuasum iri iis qui utraque legent».
[38] M. MANTUA, Tractatus de privilegiis militaribus, in
Tractatus universi iuris cit., c.
458, alla fine del trattatello.
[39] Il Belli, a
differenza del Gentili, riferisce sugli autori utilizzati (cfr. supra, note 24-27): anche qui sembra
sensibile al problema della paternità intellettuale, più che a quello
dell’aggiornamento e della completezza scientifica del suo lavoro. Ciò, a meno
di ipotizzare che si tratti di una completa mistificazione e che il Belli si
sia ispirato al Mantova (ma le due trattazioni sembravano molto diverse fra
loro!) e per evitare accuse di plagio abbia ideato questa dichiarazione. A me
pare invece che l’affermazione di Pietrino sia da accettare, e che anzi non sia
da escludere che egli abbia addirittura citato il Mantova quasi per “sentito
dire”, dato che il testo edito lascia in bianco l’indicazione (eventuale? Non
completata?) del nome, dopo “Iurisconsulti”
inserisce un “punto” fuori posto e non entra affatto nel merito delle
affermazioni del Mantova, ma fa solo notare che – se eventualmente le fonti
fossero anche le stesse – l’elaborazione è stata autonoma. Tutto ciò porta a
pensare che il Belli avesse effettivamente completato la sua trattazione, sia
venuto a conoscenza del lavoro del Mantova quando la sua opera era già in
stampa (piuttosto tardi quindi, a testimonianza del suo limitato
aggiornamento), abbia inviato al tipografo questo passo da aggiungere, che però
sarebbe stato male letto o interpretato al momento della composizione dei caratteri
a stampa.
[40] Manca il nome
del Mantova, si tace su ogni riferimento sostanziale: c’è da pensare che il
Belli non si sia preoccupato troppo della trattazione altrui e non ne abbia
preso in considerazione le affermazioni. E’ vero che egli parla del Mantova
come di “celebris Iurisconsulti”, ma quasi per chiudere il discorso sulla sua
ignoranza riguardo ad un trattato compilato almeno dieci anni prima del suo…
Marco Benavides Mantova (1489-1582) era un giurista ed umanista molto rinomato
alla metà del Cinquecento, insegnava sin dal
[41] Cfr. supra, nota 36.
[42] Da ultimo A. A.
CASSI, op. cit., 126-129, 131-140.
[43] Ad esempio, P.
BELLI, op. cit., c. 47r.
[44] Cfr. supra, note 23-27.
[45] F. RONDOLINO, op. cit., 536-42, 548-50, 558-62.
[46] G. S. PENE
VIDARI, Stato sabaudo… cit., 139-141.
[47] Il matrimonio
avverrà nel 1576, un anno dopo la morte di Pietrino: Domenico Belli, già
consigliere di Stato, sposa Barbara, figlia di Ottaviano Cacherano d’Osasco
gran cancelliere di Savoia: nel 1600 ricoprirà questa stessa carica sino alla
morte.
[48] L’unica erede
legittima di Domenico Belli, la figlia Giulia, sposerà nel 1599 Amedeo Dal
Pozzo, appartenente ad una delle famiglie più impegnate nella restaurazione
sabauda, in netta ascesa all’epoca: patrimonio ed archivio Belli confluiranno
quindi in quelli dei Dal Pozzo della Cisterna (M. CASSETTI - M. CODA, La famiglia dei principi dal Pozzo della
Cisterna e il suo archivio, Vercelli 1981, 88).